Andrea Tagliapietra
"La Lotteria di Babele.
Appunti filosofici su caso e fortuna nella società della
comunicazione"
«So di un
paese vertiginoso, dove la lotteria è parte principale
della realtà»
(Jorge Luis Borges, Finzioni)
1. Nel nome del caso
Il caso è ciò
che ci fa mancare la terra sotto ai piedi. Nella parola
italiana «caso» risuona l'antica derivazione
dal verbo latino «cadere», per cui il caso è
ciò che, per antonomasia, ci «ac-cade»,
l'«accidentale». Potremmo dire che la casualità
fa sperimentare la purezza dell'accadimento senza aspettative.
Il caso è l'evento quod cuique evenit, nel senso
di ciò che capita a qualcuno e non di ciò
che capita in generale. I tedeschi dicono l'«evento»
Ereignis, termine in cui, come già ricordava Heidegger,
è chiara la radice di eigen, «proprio»,
sicché nella parola si esprimerebbe l'atto di appropriarsi
dell'accadimento da parte di chi lo vive. I «casi»,
inoltre, per un uso più laterale del vocabolario,
sono anche i «modi d'azione iscritti nella grammatica
per modificare il linguaggio» - vi ricordate rosa,
rosae, rosae, rosam, rosa, rosarum, rosis, ecc. -, per cui
una «teoria dei casi», specificando, vuoi «l'azione
di un soggetto su un altro soggetto», vuoi «la
comunicazione per cui un soggetto attribuisce qualcosa a
un altro soggetto», è sia una «teoria
delle azioni e delle passioni» che una «teoria
della comunicazione» (Fabbri 1994, pp. 55-56). D'altra
parte, il linguaggio giudiziario e quello clinico chiamano
«caso» ogni singolo tentativo di applicare l'universalità
della legge, o il protocollo di una terapia, alla particolarità
delle circostanze, foriere, ogni volta, della potenzialità
individuale dell'eccezione. Il caso è, così,
la radicalità del nuovo, che irrompe nella nostra
vita, ci colpisce e ci spiazza, ma anche la caotica incoerenza
del vissuto che, come enunciava Nietzsche per bocca di Zarathustra,
è sempre «frammento, enigma e orride casualità»
(Nietzsche 1884-1886, p. 169). «Nella lingua greca»,
scrive Emanuele Severino, «oltre che da tyche, il
caso è nominato dalla parola autòmaton, che
significa esplicitamente - quando la lingua greca viene
parlata dall'epistéme [cioè dalla tradizione
filosofica] - l'irruzione del divenire (màomai) da
parte di qualcosa che è esso solo il protagonista
e il responsabile dell'irruzione; onde esso irrompe "da
sé"(autò) - e non è e non ha niente
prima di irrompere» (Severino 1979, p. 24). Per questo,
di fronte al caso non possiamo che essere indifesi, recettivi
e, soprattutto, passivi. Pare che il nome francese del caso,
hasard, derivi da quello di una fortezza dei Crociati in
Terra Santa, che, per la sua posizione, era scarsamente
difendibile, tanto che la sua espugnabilità divenne
proverbiale. Il caso, infatti, è ciò che inevitabilmente
si subisce. Di qui l'antico pregiudizio, alimentato non
solo dal pensiero filosofico, ma anche dalle grandi tradizioni
religiose, che il caso sia uno dei peggiori nemici della
dignità e della libertà dell'uomo. Dante,
com'è noto, confina nel Limbo, dentro le porte dell'Inferno,
quel Democrito di Abdera «che il mondo a caso pone»
(Inf. IV,136). Il caso, nella forma dell'azzardo, del gioco
e dell'amore per il rischio, diviene la disciplina del diavolo,
del male nemico dell'ordine. L'aleatorio, in cui risuona
ancora l'alea, il nome latino del dado che ruzzola sul tavolo
da gioco, è l'imponderabile e, di conseguenza, ciò
su cui non si può fare alcun affidamento. Anagramma
del caos, di cui prolunga e rispecchia il disordine, il
caso non gode, anche presso il senso comune, di una grande
reputazione, se è vero che «un lavoro fatto
a caso» è, spesso, sinonimo di un'opera mal
riuscita, senza criterio, di una prestazione inefficiente,
buttata là, affrettata e pressappochista. Di una
cosa riuscita «per caso» non si possiede l'intenzione,
né il disegno preciso, ma, più propriamente,
si confessa, a posteriori, che non si sarebbe affatto in
grado di riprodurla così com'è venuta. Confessione,
questa, che è, per i più, segno di modestia,
dal momento che, in generale, non v'è nulla di più
facile che impadronirsi dei meriti del caso. Così,
nessun artista ammetterebbe volentieri che l'unicità
della sua opera è determinata, in buona parte, da
fattori indipendenti dalla sua mano, come nessuno scienziato
sarebbe disposto a dichiarare il coefficiente di fortuna
implicito nell'intuizione di una teoria o nella realizzazione
di una scoperta scientifica. Anche del calciatore che, con
atto irriflesso, colpisce la palla e la getta in rete, si
ama sottolineare la prodezza del gesto atletico, quasi mai
la casualità che vi sta dietro. Riconoscere il potere
del caso, infatti, ci pare una forma di umiliazione e di
diminuzione delle nostre capacità. E' l'ammissione
di una carenza del nostro controllo sulle cose. Aristotele
diceva che del caso non v'è scienza, dal momento
che il dominio del caso non riguarda né il per lo
più, né l'impossibile, né tantomeno
il necessario, ma ciò che potrebbe anche non essere,
o essere altrimenti (cfr. Berti 1989).
2. Il caso e la fortuna
«Un uomo scava una buca
per piantare un albero e invece trova un tesoro».
Con questo celebre esempio, tratto dalla Metafisica (Metaph.
V,30,1025a 15-16), inizia la «storia» del caso
nel pensiero occidentale. Il ritrovamento del tesoro, commenta
Aristotele, è, per chi scava la buca, un evento puramente
accidentale (symbebekòs). Infatti, i due accadimenti,
vale a dire lo scavo della buca e il tesoro, non sono legati
fra loro né dalla necessità logica (altrimenti
chi scava una buca troverebbe sempre un tesoro), né
dalla probabilità empirica (altrimenti chi scava
una buca troverebbe per lo più un tesoro). Nella
definizione aristotelica del caso è determinante
la struttura finalistica che congiunge una serie di eventi.
E' rispetto alla sequenza degli eventi finalisticamente
orientati che il caso rappresenta l'irruzione del nuovo,
dell'imprevedibile, dell'inatteso. Due azioni prevedibili
in quanto perfettamente finalizzate ad uno scopo si sono
svolte. Un uomo, terrorizzato dai ladri, ha nascosto il
tesoro in un campo. Un altro, deciso a piantare il suo albero,
si è messo a scavare una buca. L'incontro di queste
due serie costituisce l'evento casuale. «Per evento
casuale o accidentale», osserva Carlo Natali, Aristotele
«non intende una "libertà assoluta, ma
cieca", né una "causa irrazionale";
per "caso" egli intende un certo tipo di coincidenze
che provocano, insieme, un risultato inaspettato»
(Natali 1996, p. 59). Ritornando sulla questione del caso
nelle pagine della Fisica, Aristotele ribadisce la sua tesi
con un secondo esempio, altrettanto famoso. Un uomo va nell'agorà
e si imbatte nel suo debitore. Questi, che stava raccogliendo
i contributi per una festa, può così restituirgli
il denaro (Phys. II,5,196b 33-35). Ciò che determina
la casualità dell'evento non è, quindi, una
qualità intrinseca dello stesso, ma una relazione
posizionale, vale a dire il suo essere eterogeneo rispetto
alla catena causale che lo ha preceduto. Infatti, il creditore
non si è recato all'agorà per riscuotere il
suo credito, ma per fare una passeggiata. A sua volta, il
debitore non ha raccolto il denaro per risarcire il suo
debito, ma per organizzare una festa. Nelle due catene causali,
finalisticamente orientate, è avvenuto, come quando
due fili elettrici si sovrappongono, una sorta di cortocircuito.
Di qui l'avvento del caso. Come scriveva, alle soglie del
Medioevo, Severino Boezio, si può «definire
il caso (casum) come evento imprevedibile (inopinatum eventum),
prodotto da cause confluenti (ex confluentibus causis) in
azioni che si compiono per qualche motivo»(Philosophiae
Consolationis V,1). Tuttavia, proseguendo nella sua analisi,
sempre nelle pagine del secondo libro della Fisica, Aristotele
sente il bisogno di distinguere, all'interno della più
vasta categoria del caso (automatòn), il dominio,
più circoscritto e limitato, della fortuna (tyche).
«Tutto ciò che è dalla fortuna»,
egli scrive, «è anche dal caso, ma non tutto
ciò che è dal caso è anche dalla fortuna.
Infatti, la fortuna e le cose che derivano dalla fortuna
sono fra quelle alle quali si può attribuire la possibilità
di avere buona fortuna e, in generale, di agire» (Phys.
II,6,197a 35- 197b 3). L'ambito della fortuna è,
quindi, l'ambito umano della prassi, dove si esercita la
capacità di scelta, l'intenzionalità e l'azione
indirizzata verso uno scopo. Non è un caso, se ci
è concesso il gioco di parole, che entrambi i due
esempi di Aristotele - in cui, per inciso, alla fine v'è
sempre l'immagine del premio, dell'oro, della moneta sonante
di chi ha vinto una delle tante lotterie della vita - possano
essere ridescritti nei termini del «colpo di fortuna»
capitato all'«animale politico» per eccellenza.
Quell'«animale politico» che si misura con l'orizzonte
collettivo del commercio e del prestito, del furto e dell'agricoltura,
e che, secondo il celebre monito di Marx, non può
neppure permettersi di sognare l'isolamento dalla società
di un Robinson Crusoe.
3. Strategie del caso: razionalizzazione
e ritualizzazione
Nelle società umane l'esposizione
al dominio del caso può dare origine a due atteggiamenti
culturali solo apparentemente opposti, dal momento che costituiscono
la risposta alla medesimo deficit di spiegazione. Da un
lato si può rispondere all'avanzare del caso con
«l'elevazione del tasso di razionalità o di
donazione di senso a eventi che possono apparire a posteriori
non accidentali», dall'altro si può «esorcizzare
o padroneggiare il caso - nel suo carattere imprevedibile,
inatteso, nuovo e perciò foriero di incertezza e
di rischio - mediante narrazioni, atti o progetti che lo
trasformino possibilmente in chance, in aumento di libertà
o, almeno, di sicurezza» (Bodei 1994, pp. 98-100).
Queste due strategie-antidoto del caso, vale a dire la sua
razionalizzazione a posteriori - che per il senso comune
corrisponde al tanto bistrattato «senno di poi»
- e la sua ritualizzazione a priori, ossia l'inserimento
del caso in procedure istituzionalizzate che, dischiudendone
il campo d'esercizio, in qualche modo fungono da dispositivo
rassicurante, anticipando l'angoscia per il nuovo, coesistono
sempre. Se è vero che lo sviluppo della cultura umana
verso la complessità è definibile in termini
di incremento delle procedure di calcolo e di razionalizzazione
del caso, è anche vero che l'orizzonte della complessità
moltiplica esponenzialmente la possibile ricorrenza degli
accadimenti fortuiti e casuali, trasformando, come vedremo,
la stessa complessità in una maschera del caso. Viene
meno, infatti, nel passaggio dalle configurazioni tradizionali
dei poteri e dei saperi alle corrispondenti configurazioni
della modernità quella super-spiegazione del tutto
in termini onto-teo-logici che consentiva di interpretare
il divenire degli eventi umani come mosso da una forza unitaria,
un'autentica vis a tergo che orientava anche gli accadimenti
inspiegabili, le più pure casualità, in vista
del fine complessivo di tutte le cose. Ciò che le
varie diagnosi della modernità come disincantamento
(Max Weber), sdivinizzazazione (Martin Heidegger), secolarizzazione
(Karl Löwith), disanimazione (Carl Gustav Jung), crisi
(Theodor W. Adorno e Max Horkheimer), autonomia e autoaffermazione
(Hans Blumenberg), tramonto degli immutabili (Emanuele Severino),
hanno in comune è l'identica percezione, che è
innanzitutto sociale e psicologica, dell'abbandono di questa
super-spiegazione, rilevata in termini di crescita dell'incertezza
e/o di aumento della libertà.
4. Razionalizzazione a posteriori
del caso
Uno degli effetti dell'abbandono
è, comunque, l'accresciuta sensibilità psicologica
e sociale nei confronti del potere del caso. Al potere del
caso la scienza moderna risponde con la prima delle strategie-antidoto
indicate in precedenza, ossia con l'incremento del tasso
di razionalità complessivo e con l'inserimento del
caso in un sistema aperto di regole e leggi. Emblematico
e asciutto come un aforisma è, in proposito, quanto
affermava Karl Popper nel § 69 della Logica della scoperta
scientifica, dedicato, appunto, a "Legge e caso".
«Si sente dire», scrive Popper, «che i
movimenti dei pianeti obbediscono a leggi rigorose, mentre
la caduta di un dado è fortuita, o soggetta al caso.
Dal mio punto di vista la differenza consiste nel fatto
che finora siamo stati in grado di predire con successo
i movimenti dei pianeti, ma non i risultati dei singoli
lanci di un dado» (Popper 1934, p. 219). La scienza
moderna, allora, ridisegna il caso come insufficienza conoscitiva
e incapacità previsionale, lasciando aperta la possibilità
che l'evento casuale appartenga o non appartenga, in una
futura estensione delle conoscenze, all'ambito di una legge.
Tuttavia, ciò che in prima battuta sembrerebbe una
riconfigurazione in chiave tendenzialmente deterministica
dello spazio della casualità, in un secondo momento
si rivela come la più radicale esposizione al potere
del caso dell'intero edificio del sapere. Infatti, anche
le leggi scientifiche, per la stessa apertura con cui si
consentiva all'evento casuale una possibile riconfigurazione
all'interno di una regolarità, possono essere revocate,
ossia, per dirla con Popper, sono costitutivamente falsificabili.
Così, scrive Severino, l'ipotesi scientifica «non
prescrive alcuna legge al niente, ma condiziona il proprio
contenuto alla conferma casuale di ciò che viene
da niente» (Severino 1979, p. 33). Detto altrimenti,
per il sapere scientifico la legge non sancisce la necessità
del sopraggiungere di una serie di eventi, ma dal momento
che «ogni regolarità empirica è puramente
casuale» (Severino 1979, p. 32), essa afferma che
è il puro accadimento della serie, cioè il
caso, a tenere assieme gli eventi previsionali a cui dà
luogo, e ciò solo fintantoché essi sono interpretabili
come conferma della prova. Il nucleo più intimo della
modernità - che coincide, per altro, con la caratteristica
dominante di ciò che François Lyotard chiamava
il «postmoderno» (Lyotard 1979) - è,
quindi, la fine dei grandi récits, l'esaurimento
del quadro delle grandi narrazioni concettuali di spiegazione
del mondo. Lo statuto epistemologico della scienza moderna
rispecchia la realizzazione di questo programma, sicché
la funzione di strategia-antidoto del calcolo razionale
appare valida solo finché si ha fede nell'efficacia
illimitata del sapere scientifico e nella prospettiva, altrettanto
illimitata, di un suo indefinito incremento. Così,
nelle società contemporanee il mondo sociale, dopo
essere stato, per lungo tempo, condizionato da leggi che
l'individuo doveva solo comprendere e assecondare, fossero
esse la «meccanica razionale» della storia,
la divina provvidenza, o la necessità intrinseca
del mondo naturale, vede l'individuo di fronte ad un futuro
ridiventato ricco di contingenza, disegnando per lui l'alternativa
fra due specie diverse di casualità. Da un lato v'è
il caso incalcolabile, ossia ciò che non consente,
allo stato dei fatti, alcuna predizione, dall'altro, invece,
v'è il caso calcolabile, dove si fanno delle ipotesi
sulla probabilità oggettiva dell'accadimento. L'apparire
della categoria del caso calcolabile è ben rappresentato
dalla deriva del termine francese roulette, che inizialmente
indicava un tipo di curva geometrica cicloide, studiata
da Pascal, mentre oggi designa forse il più emblematico
fra i giochi d'azzardo. Accanto a questo abbandono di ciascuno
alla forza trainante del caso, è aumentata, nelle
società moderne, un'altra specie di compensazione,
vale a dire la fede nella capacità umana di determinarsi
nelle scelte. La modernità vive, come ha scritto
Odo Marquard, all'interno del «progetto di assolutizzazione
dell'uomo» (Marquard 1987, pp. 142-145), quel progetto
ben riassunto dalla formula di Sartre, che definiva se stesso
le choix que je suis, «la scelta che io sono»
(Sartre 1943, p. 638). Al centro della modernità
sta l'immagine dell'individuo come risultato solo delle
sue intenzioni e a cui nulla accade che non sia stato liberamente
progettato e scelto. Gli uomini, dal punto di vista dell'idealismo,
come del marxismo, del superomismo nietzscheano e delle
altre metafisiche della modernità, devono essere
o divenire assoluti. Benché dal punto di vista del
crepuscolo della modernità che noi abitiamo, questa
fede appaia alquanto ingenua, essa si insinua nei luoghi
più imprevedibili. La ritroviamo, per esempio, nella
Psicopatologia della vita quotidiana di Freud, là
dove si afferma che la casualità è una categoria
che si applica agli eventi esterni, non a quelli interni
della vita psichica (Freud 1901, pp. 278-ss.; cfr. Preta
1994, pp. 113-127). Il determinismo della vita psichica
diviene, allora, una sorta di membrana di compensazione
per tollerare l'angoscia del cambiamento assoluto, che domina
ormai gli accadimenti del mondo esterno. Ma, come si diceva
in precedenza, i tentativi di sottoporre la marea degli
eventi fortuiti alla razionalizzazione del calcolo, alla
capacità previsionale dei vari paradigmi di razionalità,
più o meno assoluta, che il pensiero moderno ha formulato
nel corso del tempo, rappresentano solo una delle due possibili
strategie-antidoto nei confronti della casualità.
Nell'orizzonte complesso della tarda età moderna
o, se volete, nel nucleo postmoderno della modernità,
innanzi ai ripetuti scacchi della previsione basata sulla
razionalizzazione a posteriori degli eventi casuali, ci
si affida, sempre più spesso, a forme di ritualizzazione
a priori dell'ambito del caso. L'uomo della contemporaneità,
l'uomo postmoderno, proietta l'immagine di sé nella
consapevolezza della finitudine, ossia nell'impossibilità
dell'assolutizzazione razionale delle sue scelte. Anche
quando ci illudiamo di scegliere, come quell'uomo dell'esempio
classico di Aristotele, che si avviava a scavare la buca
nel campo fiducioso di potervi piantare il suo albero, la
brevità della vita non ci garantisce di conoscere
veramente ciò a cui, di volta in volta, accordiamo
le nostre preferenze, sicché, come scriveva Marquard
nella sua splendida Apologia del caso, più che delle
nostre scelte, finiamo per essere il risultato dei nostri
accidenti (Marquard 1987, p. 151). Ecco allora emergere,
anche nel cuore della società contemporanea, la necessità
che la ritualizzazione a priori si consolidi in vere e proprie
forme di istituzionalizzazione del caso nella vita sociale.
5. Ritualizzazione a priori
del caso.Gli esempi antichi
Forme di istituzionalizzazione
del caso sono sempre esistite nelle società pre-moderne.
Nelle culture arcaiche il caso interviene, spesso, per generare,
come ha scritto Jean-Pierre Dupuy, autotrascendenza: «L'autotrascendenza
che produce il ricorso al caso si fonde col modo in cui
gli uomini auto-esteriorizzano la loro violenza nella forma
del sacro» (Dupuy 1994, p. 153). Attraverso il responso
del caso, come nell'ordalia, è la divinità
stessa che parla. Una decisione vitale per il singolo, per
un gruppo o per l'intera comunità viene affidata
ad un'istanza esterna che, per il pensiero arcaico, coincide
con il dio e con il suo giudizio. Il soggetto del caso è,
quindi, al di fuori della sfera umana, ossia al di fuori
della sfera d'esercizio dei saperi e dei poteri riconosciuti
dalla comunità. Per dirla nei termini della nota
teoria sociale della violenza di René Girard (si
veda, in proposito, Tagliapietra 1997a, pp. 91-98; id.,
1997b, pp. 357-364) l'irruzione istituzionalizzata del caso
produce una differenza asimmetrica e verticale rispetto
alle relazioni simmetriche e orizzontali fra i membri del
gruppo, foriere di un esercizio potenzialmente illimitato
e indifferenziato della violenza. Il caso rappresenta, cioè,
la soluzione di continuità che impedisce la sterminata
reciprocità della violenza, creando un argine trascendente
alla contrapposizione dei soggetti sociali, mediante la
violenza senza soggetto del sacrificio. Il sacrificio, infatti,
non ha altro soggetto che il gruppo sociale stesso che si
autotrascende nella divinità, la cui violenza non
può coincidere se non per caso con quella esercitata
da un singolo (il sacerdote) o da un gruppo sociale (la
casta sacerdotale). Una delle strategie per istituzionalizzare
questa casualità fu il sorteggio della vittima sacrificale.
Il sorteggio che designa la vittima sacrificale è
ben descritto nelle pagine bibliche del Levitico (Lv. 16,7-22),
là dove viene presentata l'istituzione del rito del
capro espiatorio (sul significato complessivo di questa
«espiazione» cfr. Girard 1982). Il sacerdote
«prenderà due capri e li farà stare
davanti al Signore, all'ingresso della tenda del convegno,
e getterà le sorti per vedere quale dei due debba
essere del Signore e quale di Azazel, il demone del deserto»
(Lv. 16,7-8). Un altro esempio famoso di meccanismo sacrificale
connesso con la pratica del sorteggio ci viene fornito in
quell'immenso arazzo di miti e di riti che è Il ramo
d'oro di James G. Frazer. Parlando dei «fuochi di
Beltane», una serie di falò che, al Calendimaggio,
si usavano accendere nelle Highlands scozzesi, Frazer espone
la seguente testimonianza: «il 1° maggio, detto
giorno di Beltan o Baltein, tutti i ragazzi di un comune
o d'un borgo, si riuniscono nella brughiera. Foggiano una
tavola nelle zolle erbose, scavando un terrapieno circolare
di tal dimensione da dar posto a tutta la comitiva. Accendono
quindi un fuoco, e preparano un piatto di uova e latte consistenti
come la crema. Poi impastano una torta di farina d'avena
e l'abbrustoliscono su una pietra fra la bragia. Avendo
mangiata la crema, dividono la torta in tante porzioni quanti
sono i componenti la brigata, tutte eguali di forma e di
grandezza. Una di queste parti la tingono di nero con del
carbone e mettono tutte le fette insieme dentro un berretto.
Ognuno dei presenti, bendati gli occhi, estrae la sua porzione:
l'ultima è di chi tiene il berretto. Chi prende il
pezzo nero è il Dannato o Consacrato, il quale dev'essere
sacrificato a Baal, di cui vogliono implorare la grazia,
perché renda l'anno produttivo per gli uomini e per
il bestiame. V'è poco da dubitare che questi inumani
sacrifici fossero veramente offerti in questo paese come
in Oriente, benché ora si tralasci l'atto del sacrificio,
e la persona dannata sia soltanto costretta a saltare tre
volte attraverso le fiamme: col quale atto si concludono
le cerimonie della festa» (Frazer 1911-1915, vol.
II, p. 956). Commentando questo brano, Roberto Calasso osservava
che «la "brigata" di Beltane finge di costituire
un essere solo, e che quell'essere sia un tutto: la torta
divisa in tante parti uguali. Allora potrà rinunciare
a una sua parte, che non sia la sua parte. Per rispondere
al sacrificio divino, che avviene all'interno di un tutto,
i sacrificanti umani fingono una loro totalità e
onnipotenza» (Calasso 1983, p. 84). Ritroviamo ciò
che Frazer descriveva con i «fuochi di Beltane»
nei numerosi «re del Carnevale» del folklore
europeo, in cui il sovrano carnascialesco, eletto per burla
mediante un sorteggio, gode, durante il tempo festivo, della
parodia di un'autentica sovranità, mentre, alla fine
della festa, viene sbeffeggiato, deriso e fatto oggetto
dei lazzi più triviali. In tutti questi casi il sorteggiato
ha preso il posto della vittima sacrificale, in una versione
depotenziata, ma ritualmente ancora significativa, del sacrificio
stesso. Se Wittgenstein, commentando il passo del Ramo d'oro
dei «fuochi di Beltane», trovava «particolarmente
terribile» che il sorteggio avvenisse «mediante
un dolce» - «quasi come un tradimento mediante
un bacio» (Wittgenstein 1967, p. 249) -, va detto
che l'addolcirsi dei costumi, vale a dire la sostituzione
della vittima reale con una vittima simbolica, non intacca
la struttura implosiva del meccanismo sacrificale, il bisogno
di autotrascendenza che, come un buco nero, esso cela al
suo interno e che si esprime nella procedura del sorteggio.
Il sorteggio esteriorizza la decisione del gruppo sociale.
Mediante il sorteggio il gruppo diviene un soggetto non
riducibile, come diceva Calasso, alla mera somma delle sue
singole parti, all'addizione dei suoi interessi particolari.
Questa trascendenza, che gli antichi monarchi africani studiati
da Leo Frobenius incarnavano nell'interezza del ciclo di
sorteggio-regno-sacrificio (Frobenius 1929), ha, tuttavia,
anche delle proiezioni meno cruente. Secondo Erodoto, per
esempio, i Persiani usavano prendere le decisioni più
importanti, dapprima formulandole in banchetti notturni,
dove si lasciavano inebriare dal vino. Le riesaminavano,
poi, da sobri, il mattino seguente, facendo una sintesi
fra ciò che avevano deciso da ebbri e ciò
che pensavano a mente lucida. Anche in questa circostanza
la casualità indotta dall'ebbrezza rappresenta, nell'intenzione
dell'uso, gli interessi della collettività, che possono
emergere solo depotenziando le individualità diurne
dei capi. Da qui, ossia da un dispositivo che mira a rendere
ininfluenti il merito, la competenza, la ricchezza o il
valore, deriva l'istituzione della democrazia ateniese che,
com'è noto, procedeva alla nomina dei magistrati
mediante estrazione a sorte. Questa pratica era corretta
con l'elezione, vale a dire con il voto per alzata di mano,
solo dove la magistratura, come nel caso degli strateghi,
ossia dei capi militari, richiedeva competenze irrinunciabili.
L'isonomia, la «legge più uguale», ovvero
il metodo democratico, temendo l'inevitabile pressione delle
singole parti sulla totalità della scelta, designava
i governanti mediante la casualità del sorteggio,
mentre l'elezione conservava il rispetto aristocratico per
l'eccellenza (areté). Se ne ricorderà ancora
Montesquieu che, all'inizio del suo capolavoro, affermava
che «il suffragio per via di sorte è proprio
per natura della democrazia; quello per via di scelta, dell'aristocrazia»
(L'Esprit des lois II,2).
6. Forme di ritualizzazione
a priori del caso nelle società moderne
Ma anche nelle società
moderne, in cui la procedura democratica per eccellenza
è il voto, e non il sorteggio, accade spesso che
le votazioni assumano, rispetto alla responsabilità
dei singoli elettori e alla loro concreta consapevolezza
di incidere sulla decisione definitiva, il valore di una
semplice lotteria. Schumpeter scriveva che le votazioni,
in uno stato democratico, non contribuiscono a rendere gli
elettori direttamente responsabili delle loro scelte, mentre
in qualsiasi altra attività, anche ludica, come il
gioco del bridge, essi, alla fine, sono chiamati a pagare
di persona (Schumpeter 1942, p. 230-ss.). D'altra parte,
la stessa teoria dell'informazione ci dice che il risultato
del voto è la conseguenza della massimizzazione dell'entropia,
ovvero del disordine del sistema, sì che dal punto
di vista formale elezione e sorteggio si equivalgono. Il
paradosso del voto è che, tranne l'eventualità,
statisticamente rarissima, di due elettorati perfettamente
spaccati a metà, «la scheda deposta nell'urna
da ciascun elettore avrà avuto un effetto strettamente
nullo» (Dupuy 1994, p. 156). L'incidenza del caso
nella politica, mediante dispositivi legislativi ed istituzionali
che, di volta in volta, mantengano, creino, escludano e
rendano calcolabile il caso, è, tuttavia, solo un
aspetto dell'istituzionalizzazione complessiva del caso
nelle società moderne. Il caso, osservava Anatole
France, è forse lo pseudonimo di Dio, quando non
voleva firmare. Nell'orizzonte della modernità quest'omissione
della firma si estende ad ogni cosa. L'immanenza ha bisogno
di una trascendenza immanente e il caso gliela fornisce,
sotto la maschera della complessità. Si pensi solo
all'immagine del mercato fornita dai grandi teorici dell'economia
politica del nostro secolo, come John M. Keynes o Friedrich
A. von Hayek. La complessità del mercato significa
che il sensoglobale del mercato è sempre esteriore
rispetto ai rapporti intersoggettivi che lo compongono.
L'emblema della comunicazione interna al mercato è,
quindi, il qui pro quo, il fraintendimento, il quale,tuttavia,
non è mai a resto zero per il mercato nel suo insieme,
ma solo per alcune delle sue parti, le quali, tuttavia,
non perdono per demerito, ma per caso, cioè, in linea
di massima, non per insufficienza, ma per impossibilità
previsionale. Del resto, il mercato stesso può avere
delle regole solo perché coloro che le istituiscono
e si accordano per osservarle, in virtù della complessità
del sistema non possono prevedere gli eventuali vantaggi
o svantaggi che il futuro potrebbe riservare loro. «Che
sia l'ignoranza del risultato futuro», scrive von
Hayek, «che rende possibile l'accordo su regole che
servono da mezzo comune a fini diversi e molteplici, è
ciò che riconosce implicitamente la pratica frequente,
che consiste nel rendere deliberatamente imprevedibile un
risultato, al fine di rendere possibile l'accordo su una
procedura: ogni volta che ci accordiamo per tirare a sorte,
sostituiamo deliberatamente delle probabilità uguali
fra tutti i partecipanti a una certezza riguardo al beneficiario»
(von Hayek 1976). Il mercato riscrive la lotteria naturale
e la contingenza delle circostanze biografiche della nascita
non più nei termini della probabilità sottoponibile
al calcolo razionale, che illude i singoli soggetti sulla
possibilità eventuale del controllo, ma in quelli
della complessità, ovvero della non comprimibilità
dell'informazione totale del sistema. In termini più
generali, la società della comunicazione, di cui
il mercato è forma eminente, si svela come complessità
irriducibile ad un principio generatore che non sia la riproposizione,
tale e quale, della forma medesima. Restringendo le nostre
considerazioni dalla società nel suo insieme all'ambito
specifico della comunicazione, ciò significa che
l'elemento aleatorio o, se si vuole, della fortuita casualità,
appartiene strutturalmente ad ogni comunicazione in quanto
dimensione complessiva del senso. Infatti, non è
il gioco a rappresentare una forma particolare di comunicazione,
ma è la comunicazione stessa a configurarsi come
gioco. Qui rimangono oltremodo illuminanti le splendide
pagine che Gadamer ha dedicato al gioco come filo conduttore
della teoria ermeneutica (Gadamer 1960, pp. 132-ss.), ove
si ribadisce che «il soggetto del gioco non sono i
giocatori, ma è il gioco che si pro-duce attraverso
i giocatori». In questo senso, solo un'immagine arcaica
della comunicazione come trasferimento di informazioni nello
spazio e nel tempo, fra soggetti finiti, può essere
descritta in termini di messaggio, ossia di gioco a resto
zero fra latore e destinatario, a strategia tendenzialmente
ottimale. Alla luce della teoria dei giochi (cfr. Morgenstern
1963; Eigen - Winkler 1975; ecc.: vedi riferimenti bibliografici)
la comunicazione è, infatti, un gioco infinito, senza
strategia ottimale. La comunicazione è, quindi, creazione
e incremento, dal momento che la feconditàdel senso
è data, tout court, dall'aumento delle relazioni,
da quell'autotrascendenza del novum della comprensione che
Gadamer rendeva con la magnifica metafora della «fusione
degli orizzonti». Fra le splendide gemme che Jorge
Luis Borges raccolse ne Il giardino dei sentieri che si
biforcano, due racconti ispirano al lettore un'oscura e
immediata simmetria. L'uno, celeberrimo, narra della famosa
Biblioteca di Babele, che «include tutte le strutture
verbali, tutte le variazioni permesse dai venticinque simboli
ortografici, ma non un solo nonsenso assoluto» (Borges
1941, p. 76). E' questo, credo, il più poderoso simbolo
dell'infinita semiosfera in cui abitiamo che la letteratura
contemporanea ci abbia donato. La Biblioteca di Babele è
l'ologramma, l'orizzonte della comunicazione totale: «tutto
ciò ch'è dato di esprimere, in tutte le lingue»
recita il bibliotecario. Borges, da buon neoplatonico, afferma
l'assioma per cui «la Biblioteca esiste ab aeterno».
Eppure, se noi riuscissimo ad immaginare la creazione di
questa biblioteca, il suo farsi e il suo divenire nel tempo,
ecco allora che la lettura dell'altro racconto di Borges,
La lotteria a Babilonia, parrebbe, a suo modo, fatale. Vi
si descrive, infatti, «un paese vertiginoso, dove
la lotteria è parte principale della realtà»
(Borges 1941, p. 56). Un luogo in cui «il numero dei
sorteggi è infinito», «nessuna decisione
è finale» e «tutte si ramificano in altre».
Babilonia è la preistoria di Babele, il "prologo
in terra" dell'universale biblioteca dei segni, nient'altro
che «un infinito gioco d'azzardo» (Borges 1941,
p. 62).
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