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Susanna Mati
Un’amicizia stellare: Kierkegaard e Pessoa

I. I ‘molti nomi’ della scrittura

«Se avete la verità, tenetevela.»
(Álvaro de Campos)

Sui territori confinanti dell’eteronimico e dell’estetico, non c’è chi non scorga la possibilità di un’ambiziosa amicizia stellare, che ricomprenda all’interno della sua invisibile e ampia orbita due esperienze esistenziali legate da analogica affinità, per tutto il resto tanto distanti da essere imparagonabili: l’esperienza del singolo kierkegaardiano, dello scrittore e poeta cristiano, e quella del grande poeta portoghese, maestro d’eteronimia, Fernando Pessoa.
Per scoprire quali profonde connessioni uniscano il territorio delineato dalle costellazioni degli eteronimi a quello disegnato dall’immaginazione creatrice dell’esteta, potremmo cominciare da un pervasivo problema hegeliano, apparentemente estraneo al discorso, che in Kierkegaard trova un’ingegnosa elaborazione estetica: l’edificazione. Alla filosofia, per quanto sistematicamente essa voglia presentarsi, è connaturata l’impossibilità di offrire un’immagine non criticabile ulteriormente, inattaccabile: di esser perfetto logos persuasivo. Nessun logos infatti ha il potere di persuadere perfettamente; la sua stessa essenza di logos sta in relazione con una galassia di altri logoi che in lui si specchiano, si sdoppiano, polemizzano, non trovano pace. Inoltre il logos crea sempre, di se stesso, figure. Figure portatrici di una verità o di più verità, daccapo, criticabili; critica ed edificazione, Kritik e Erbau, a partire da Kant e durante tutto l’idealismo, disegnano una divisione che sembra incomponibile. L’edificante, ciò che costruisce per te, pare legare la sua sorte inscindibilmente a quella del singolo; ma questa, che è la sua forza soggettiva, è al contempo la sua debolezza oggettiva: la sua difficoltà a pervenire all’universale. L’edificante, insomma, se è sinceramente indagatore, si mette in crisi da solo, proprio riconoscendosi come singolarità: esso è insieme solida base (il Grund della fede), ma anche vertiginosa altezza (la vertigine del paradosso): la moltiplicazione per calcolare l’edificazione di quest’area può avvenire e persuadere solo all’interno della singolarità.
Dove trovare, allora, un territorio edificabile, che sia insieme anche comunicativo come il verbum? Con hegeliana chiarezza, individuata l’impossibilità per il solo Begriff di essere costruttivo, Kierkegaard percorre (e oltrepassa forse) questo decisivo crinale solo attraverso la sua attività di scrittore; «è strano quest’odio per l’ “edificante” che fa capolino dappertutto in Hegel; ma lungi dall’essere un narcotico che addormenta, l’edificante è l’amen dello spirito temporale ad un aspetto della conoscenza che non è lecito trascurare». Che non sia l’amen che lo spirito cerca – tuttaltro – Kierkegaard qui non lo dice; ma nel Punto di vista precisa come, tra le due categorie fondamentali della sua riflessione, il religioso sia presente fin dall’inizio, e l’estetico lo sia fino all’ultimo (altra precisazione assai hegeliana, sui momenti dello spirito che tutto travolge e in cui, insieme, tutto si conserva come stadio). Tuttavia, seguendo la cronologia delle opere kierkegaardiane, ci rendiamo conto che l’estetico si rende necessario finché il contenuto è critico, mentre il religioso si palesa e alla fine domina nel momento in cui il contenuto diventa edificante, ossia quando la decisione è irrevocabilmente assunta e l’estetico è divenuto un ‘passato’. La critica/estetica potrebbe apparire quindi come un negativo, o addirittura una sorta di ‘filosofia negativa’, in una ripresa della critica schellinghiana: la filosofia critica del Begriff ha posto limiti concettuali ed esistenziali volti a definire oggettivamente un ambito logico, universale, soggetto a leggi: piatto trampolino per il salto ‘positivo’ verso l’edificante della fede.
Aut critica aut edificazione, dunque? In realtà, si dà inaspettatamente un punto d’incontro e di ‘mediazione’, o per meglio dire di scambio reciproco e tolleranza, tra l’estetico e il religioso, che è sia discorsivamente comunicabile, sia singolarissimo: l’attività di scrittura di un’intera vita, nella quale solamente si realizza in pieno la dialettica delle figure del logos. Qui la costruzione dell’edificante diventa paradossale, la fede trova il luogo che sopporta il paradosso della sua relazione inaggirabile con l’estetico: se il singolo è del tutto religioso, lo scrittore al contrario sarà dispersivo, franto e molteplicemente abitato. Qui la contraddizione tra figure nemiche-amiche trova il momento che tollera ed esprime la duplicazione delle figure (create da un misto di logos, e dunque funzionali al ragionamento, e pathos, e dunque risultati delle molte posizioni dell’Erlebnis esistenziale); il segno dell’ambiguità può conservarsi, e anzi è richiesto, all’interno della professione di scrittore (di un ambito dunque insopprimibilmente estetico, ma, in quanto risultato dello scindersi e rifrangere della parola e della verità, anche religioso). Solo tale luogo d’ambiguità e doppiezza costitutive consente di sopportare il gioco degli “pseudonimi” o, più correttamente, polionimi – come li definisce Kierkegaard nella spiegazione alla Postilla: essi infatti non sono falsi, solo plurali; solo letterariamente, essi sono molti autori, pseudonimi nel senso di noms de plume; concettualmente invece, sono molti nomi, molti discorsi, molte opinioni.
La produzione letteraria, estetico-critica per costituzione, sarà singolare, sensibile, artisticamente costruita; e insieme sarà contraddittoria, revocabile, in lite con se stessa, popolata di personaggi che richiedono/richiamano il proprio nemico. Il dato principale su cui riflettere è appunto che tutta l’attività critico-estetica è pseudonimica, e non può non esserlo: questo processo di spossessamento è tipico dell’autonomia della scrittura, della vita autonoma appena iniziata cui va incontro precisamente ciò che è stato nutrito come più intimo e personale. Inoltre, la produzione letteraria, estetico-critica, trova la sua ragione essenziale nei vari punti di vista del mondo, dei quali nessuno è interamente falso, mentre la fede, ciò che è assolutamente vero, è coerentemente triplo salto mortale esclusivo a quel singolo, al Magister Kierkegaard. Paradossalmente, traendo le somme della sua opera, il rigoroso scrittore religioso non avrà scritto niente di estetico, ma solo discorsi edificanti. Quindi si dovrà dire: ‘estetico’ sì, certamente ‘religioso’, crucialmente cristiano, ma soprattutto, considerato nella globalità dialettica, scrittore – e solo in parte responsabile dell’incipiente autonomia della sua produzione spirituale: responsabile «solo in quanto io metto in bocca della personalità poetica reale dell’autore la sua concezione della vita [...], perché il mio rapporto all’opera è ancora più esteriore di quello di un poeta che crea dei personaggi [...]. Io sono infatti impersonalmente o personalmente in terza persona un suggeritore che ha prodotto poeticamente degli autori, le cui Prefazioni sono ancora una loro produzione, come lo sono anche i loro nomi».
Creare autori/nomi/universi di discorso (e non personaggi, né maschere, né pseudonimi), con perfetta noncuranza demiurgica, divina irresponsabilità, impersonale esteriorità del poietés rispetto alla creazione: tutto ciò coincide totalmente con la produttività interiore di Fernando Pessoa; la dinamica della produzione dei ‘molti nomi’ risulta quindi profondamente ironica, libera, basata su nulla, esattamente come in Pessoa: e cosa importa alla necessaria ironia della produzione se i contenuti apparenti divergono? Una dinamica creativa più tenace scava e lavora oscuramente in entrambi gli autori allo stesso modo. Kierkegaard afferma di conoscere i molti nomi solo come terza persona repulsiva, elidibile, quasi di troppo, e in senso dialettico di essere stato solo l’occasione per ascoltare quest’opera nella realtà: «fin da principio ho visto e vedo molto bene che la mia realtà personale è causa di un disagio che gli pseudonimi dal punto di vista patetico indipendente dovrebbero desiderare di eliminare [...], pur cercando ancora con ironica attenzione di conservarlo come resistenza repulsiva. Infatti il mio rapporto ad essi è l’unità d’un segretario e, ciò ch’è abbastanza ironico, dell’autore dialetticamente reduplicato o degli autori [...] sono l’unico che non mi considero autore [sic] che in modo molto dubbio e ambiguo» – a differenza che per i Discorsi edificanti, nei quali di necessità non può comparire il segno critico-estetico dell’arte. Gli pseudonimi sono idealità che impongono distanza: con questa leggera idealità “doppiamente riflessa dell’autore poetico-reale” bisogna imparare a “danzare”, e non intestardirsi a tormentare l’insipida realtà personale del ‘vero’ Kierkegaard; sarebbe altrimenti un grave fraintendimento del profondo senso per cui la soggettività è la verità (e la molteplicità sono molte verità differenti e contrastanti, in-decise). Autori sono gli “pseudonimi”; Kierkegaard ha solo lavorato al fatto che potessero diventarlo: tutto il carattere della produzione è ironico, la paternità autoriale è incerta, le parole si moltiplicano all’interno del paradossale carattere di libertà e possibilità del linguaggio (v. Una prima e ultima spiegazione alla Postilla) - non così nell’edificante, che segue una sola Parola e parla con voce sola, monotonale, e necessita d’un solo, singolo nome. La scrittura è perciò l’unica categoria disposta a salvare interamente la dialettica nei suoi vari momenti, a poter offrire uno spazio talmente vasto, ambiguo e tollerante per la duplicazione dialettica che genera i molti nomi.

II. Henologia della disidentità eteronimica

L’estetico, inteso come tipo, soffre di troppa libertà, dei suoi troppi volti; conducendo una drammatica esistenza da poeta (da sacrificio umano, dice Kierkegaard), si sente di molto superiore alla finitezza, ma sciaguratamente mai è possibile per lui, per quante facce mostri e per quanto esse si estendano, coincidere con l’infinitezza. Solo quando qualcosa, raramente e temporaneamente, lo incatena, egli propriamente diviene. Divenire è infatti soggiacere a leggi, separarsi dall’astratto in sé, uscir fuori, esistere: divenire è il contenuto irrevocabile della scelta; al contrario, l’esteta è l’anti-edificante per eccellenza. L’esteta vuole sentire continuamente le vertigini, saziare la sua paradossale fame di dubbio sull’esistenza, che più mangia più ha fame, vuole indurire un sensibilissimo intimo fino all’insensibilità, per «poi lasciare che tutto quanto crolli dalle fondamenta, che la tua anima possa esser placata, sì, immelanconita, che ti possa riuscire di suscitare un’eco, perché l’eco suona solo nel vuoto». Dispersione e tensione è la vita stessa del poeta, secondo Octavio Paz, che nota in Pessoa «l’irrealtà della sua vita quotidiana e la realtà della sua finzione»; se il mondo non sopporta il senso, non lo accoglie, esso finisce fatalmente spostato in un altrove, posto in altro, con altri nomi. Sul senso degli eteronimi, nota ancora Paz: «in a sense they are what Pessoa could and would have liked to be; in another, deeper sense, what he did not want to be: a personality», ciò che non si vuole essere: individui. Essi rappresentano un’irrisolta “nostalgia per l’unità”: «we hear them against the silent background of that unity», come se i molti chiamassero un Uno che non viene, un imminente Sconosciuto. «The poet is an empty man who, in his helplessness, creates a world in order to discover his true identity», o, ancor meglio, per fingere la propria identità, per fingere che l’identità sia davvero esperibile nella sua purezza: ma a costo di svuotarsi di ogni individualità: «infinite personality is no personality at all».
Il sempre-lo-stesso è dunque già scisso all’origine, l’identico è già relazione, l’Uno vive respirando nei molti: «the real desert is the I». Il gioco degli eteronimi, che si presentano più simili di quanto non si dica generalmente (ma talvolta davvero inconciliabili), mostra comunque, sia in Pessoa sia in Kierkegaard, la traccia di un’originaria, irrintracciabile identità di partenza. Legati tra loro, i molti nomi sfumano le loro personalità l’una nell’altra, sono gradazione varia e cangiante, dialettica a quello che Pessoa definirebbe l’occulto. Piccoli dèi della creazione, ognuno di essi crea un mondo (altro che vuoto nomen senza omen!); fingitori poietici, producono le plurali verità di un’esistenza che vorrebbe essere lirica, peculiare e privata, e si rivela invece indistricabile da una rete di sottili relazioni e mediazioni con la vita dell’altro e del sempre-diverso. L’Uno presupposto non è certo ricostruibile a partire da queste tracce, né intuibile è la sua forma puramente presunta; forse esso non esiste se non come forma – forse l’Autore semplicemente non c’è, a meno che non appaia col medesimo statuto ontologico di tutti gli altri. Ma proprio questa è l’identità: finzione, e relazione sconfinata con l’infinità dell’Altro, e dialettica mortalmente impedita verso l’Uno. Tutt’al più, se volessimo rintracciare l’Autore, l’ortonimo, potremmo pensare con una certa malignità ad «un caso di pseudonimia quadratica, che, come tutti sanno, consente di usare uno pseudonimo assolutamente identico al nome autentico. In questo caso, il nome resta falso e sviante, oltre che protettivo, sebbene sia autentico e inoppugnabile» e dunque un «autentico omopseudonimo fittizio». In ogni caso, nessun nome è falso: sono solo tanti, e oscillano, e sono paradossali nominazioni dell’Unico. «Deus não tem unidade,/ como a terei eu?».
Lacerti anastomotici rendono ogni eteronimo solidale con l’altro – solidarietà difficilmente commisurabile, visto che nel gioco delle figure, all’interno del quale esse s’inchinano vicendevolmente a donarsi il senso, esso propriamente non appare mai, se non nei riflessi di questo gioco – solo accennando verso un purissimo punto di fuga (e questo, ancora, sia in Pessoa che in Kierkegaard: qualunque nome prenda questo ‘semplicissimo’ Nome). Questi riflessi traspaiono da un comune linguaggio in cui l’Io del poeta, come osserva Andrea Zanzotto, si esprime come si esprimerebbe l’uccello imprigionato nel paretaio della Satura montaliana; è la crisi dell’unico che si vede distinto e distintamente si nomina. Dove ci sono frantumi di pessoas si deve pur fingere un’unità iniziale; dobbiamo discorrere da faccia a faccia con le opinioni del poeta mentitore e fingidor: al fine di conoscere, dunque, lui stesso, nel suo essere sempre altro da sé. Non c’è nessuna rincorsa di qualche identità inamovibile: questo stesso gioco di contrari è l’identità – la quale richiede comunque un maestro (sconosciuto?) che guidi il gioco. Si pensi alla bellissima confessione che Pessoa fa in una di quelle lettere inviate molto più al destino che al destinatario: «mi perdoni l’assurdità della frase: era apparso in me il mio Maestro». Dove c’è maestro, agostinianamente c’è un centro; dove c’è maestro c’è dialettica, e non compiaciuta dissipazione, ‘nichilismo’ debolmente pago dei suoi frantumi. I legami tra gli eteronimi (figure diverse, ma paritarie) sono sottili e ramificati, esoterici ed essoterici; la loro composizione è quella, densa di rifrazioni e suggestioni, dell’allegoria in senso benjaminiano; i loro legami cosmici sono in espansione costante verso ogni Diverso. Osserva ancora Zanzotto: «si sa che la quadruplicazione di Pessoa è più provvisoria di quanto sembri; egli fa capire di sentirsi legione come il demonio evangelico. Nell’enigma di Pessoa vediamo delle persone allucinatorie che funghiscono dal suo inconscio [...] Si tratta di una folla di potenzialità che tenderebbe a minare la vita/realtà [...]». La poesia illustra quindi l’«oscura angoscia ma anche la sottile perfidia di non volere né poter chiamare pseudonimi questi segni [esattamente come in Kierkegaard!]. Perché sembra che tutto venga a giocarsi proprio intorno ai nomi. In Pessoa un io diviso, che non può nemmeno sospettare lo pseudonimo, va a braccetto con un superlogico fingidor».
Sulla fronte stessa dell’esteta è scritto enten-eller, una disgiunzione i cui termini s’appartengono inseparabilmente l’un l’altro, come un eteronimo e il suo contrario, e formano un’unica espressione sempre differente; l’attività dell’esteta consiste nel mantenere il suo nascondiglio, nel mascherarsi misteriosamente, perché in effetti di per se stesso è niente, e costantemente altro non è che in rapporto ad altri. Il costante esser-altro presiede al serio ludere degli eteronimi, al loro gioco seriamente terribile: in questo difficile e inseparabile esser-altro e distinto consiste, allo stesso tempo, l’audacissima comunione nell’Uno relazionale. «O puoi pensare qualche cosa di più terribile di ciò, che alla fine il tuo essere si disfi in una molteplicità, che tu veramente divenga più esseri, divenga una legione come gli infelici esseri demoniaci, e che così tu perda ciò che è più intimo, più sacro nell’uomo, il potere che lega insieme la personalità?», chiede un irrintracciabile autore per bocca del giudice Wilhelm, lo pseudonimo B, in un’opera edita dallo sfuggente Victor Eremita.

III. Ermetismo, misticismo e demonicità dell’esteta

«Sei solo./ Non lo sa nessuno./ Taci e fingi.
Ma fingi senza infingimento».
(F. Pessoa)

Il più rivelativo degli eteronimi pessoani, e poeticamente il più compiuto, è un esteta; con questa definizione Pessoa ortonimo designa Álvaro de Campos, il poeta snob, tediato, finto-futurista, «così isolato nella vita! così depresso nel sentire». Una distante immediatezza, la sconfinata molteplicità, la pluralità dissipata del desiderio e dei desiderata, la singolarità estrema e negativa sono, secondo Kierkegaard, i caratteri dell’estetico. Ciò che potrebbe saziare l’esteta, giace al di fuori di lui, sempre immaginato là dove lui non è, in luoghi e momenti dislocati altrove nello spazio-tempo – i moli e le navi di Opíario e dell’Ode triunfal accennano a perenni dipartite. «Colui che vive esteticamente, quegli s’attende tutto dal di fuori. Donde l’angoscia morbosa con la quale molti parlano di quanto vi sia di terribile nel non aver trovato il loro posto nel mondo»; l’eco puntuale di Pessoa: «Non so essere utile nemmeno sentendo/ non so essere chiaro, quotidiano, nitido/ non so avere un posto nella vita/ un destino tra gli uomini/ un’opera, una forza, una volontà, un orto». L’esteta ha verso la vita l’interesse di un solutore di sciarade; la sua teoresi ha esaurito il mondo, il suo intrattenimento è nullo, i desideri privi di significato, le bacchette magiche inutili: «mi piacerebbe che mi piacesse provare piacere», «sono stanco di star pensando di sentire qualcos’altro», recitano alcuni versi pessoani. L’esteta, creatura musicale, demoniaco-sensuale, genio socratico dell’erotico, è un pensatore evoluto, troppo scaltro per farsi abbindolare dal ‘sistema’, naturalmente dotato per il sapere, possiede i doni più seducenti dello spirito – dunque per ciò che religiosamente è indifferente e dialetticamente confliggente con l’edificazione: perché il cristianesimo non è sapere, né si rivolge al ricco di spirito.
Eppure, a cosa serva quest’eccesso di spirito non si sa, dato che felicità esiste per chi non può sentirla; di conseguenza, il sensibile esteta pecca di melanconia (Tungsind); melanconici si diviene per propria colpa, per troppa riflessione sull’immediato, per troppa mediazione dello spirito. L’ipocondria malinconica, controcanto necessario anche alla fede, può condurre talvolta l’esteta (e non è detto sia un male) al terribile sentimento dell’angoscia. E l’angoscia, a sua volta, è il primo riflesso della possibilità, la più terribile delle potenze; la Möglichkeit è la potenza per cui, a rigore, nessuna decisione può esser presa: è il paralizzante per eccellenza, che per primo impedisce il salto. Eppure proprio la possibilità, come nota Kierkegaard, è la categoria chiave dell’estetico. «Tu aleggi costantemente al di sopra di te stesso, ma l’etere più alto, l’alquanto fine sublimato nel quale sei volatilizzato è il nulla della disperazione»: inevitabilmente l’esteta dispera. Rispetto alla realtà, infatti, la possibilità è, dal punto di vista poetico e intellettuale, superiore, essendo kantianamente la sfera estetica disinteressata. Ma, ribatte Kierkegaard, non c’è che un solo interesse: esistere; inter-esse è l’esistere per definizione, e l’esteta manca il tempo del salto, il momento (l’Oejeblik), l’occasione, permanendo nel discontinuo. Viene da chiedersi se non sia possibile imputare di quest’accusa quasi ogni esistente; esistenti lo si è forse per definizione, oppure solo poeticamente, solo in quanto sedicenti vivi? Del resto, noi non ci possiamo mai realizzare (non possiamo mai divenir reali, coincidere senza residui con la realtà): «somos dois abysmos - um poço fitando o Céu»: siamo due abissi - un pozzo che fissa il cielo.
In realtà, il movimento dell’estetico (di cui l’esteta, e non ogni esteta, può esser figura) è molto più complesso di un semplice impedimento all’esistenza. L’estetico è l’indifferenza in cui cadono le cose del mondo; nessun pensiero lo spaventa – del resto egli fa spesso fronte comune con i filosofi, eccetto quando decide di burlarsene: perché la filosofia è intimamente estetica. Più in generale, «la cultura è l’estetico», coincide con la sfera dell’estetico; la parola pronunciata, come perfino il logos divino, diventa subito ‘cultura’, e fuori dalla cultura rimangono solo impossibili parole impronunciate (che dunque non hanno senso, aisthesis); e l’estetico ha inevitabilmente molti nomi. Esso, nota Kierkegaard nella Postilla conclusiva, è “ermetismo” (Appendice al cap. II); se non riesce a uscir fuori, a scegliere solo uno, è perché si ferma prima, irretito dalla constatazione che «dal punto di vista oggettivo non c’è verità alcuna». A, in Enten-Eller, «si tiene alla larga dall’esistenza con l’astuzia più raffinata, col pensiero: egli ha scandagliato tutti i possibili, e tuttavia non è riuscito a esistere». Ermetismo estetico è perciò il trattenersi da una sola decisione, presa soggettivamente in forza dell’assurdo, perché tutte le decisioni sono oggettivamente equivalenti all’interno della possibilità originaria - “solo” distinguibili per la passione infinita dell’interiorità. Vero paradosso absolutus, sciolto e impossibile, è perciò il tentativo di mantenersi nella primigenia assolutezza anteriore alla scelta, pur essendo un singolo esistente, ‘gettato’, caduto, inevitabilmente determinato – e dunque: il tentativo d’astrarre perfino da se stesso, abdicando alla propria sicura identità. Spesso l’esteta scova le tracce che lo rimandano a quest’ambito denso del possibile in ogni segno mondano della più semplice, e non scorgibile, Bellezza; l’esteta è infatti spesso un neoplatonico. Ma cercare d’esistere ricordandosi quest’indifferenza, d’incomprensibile vastità, sostare su quest’abisso dell’ironia è anche un pericoloso esercizio volto a conservare l’infinito valore del socratico non-sapere, l’infinita virtualità dell’ironia, precedente ogni decisione e ogni scelta, ogni σκáνδαλον; l’esteta, filosofo della vertigine, si mantiene sul crinale della decisione, all’inizio, sosta sul discrimine del nulla, persegue un universale tutto suo: ma l’astratto, appunto, non esiste, non raggiunge il momento, l’Oejeblik, inteso come Augenblick, come l’exaiphnés, l’istante decisivo: il momento imponderabile, inevitabile della de-cisione: del compiersi nel divenire. La Bellezza che ama, dunque, gli sfugge sempre nell’astratto.
La causa della non-scelta estetica non è la viltà o la mancanza di radicalità: tutt’altro; l’esteta non sceglie proprio per estremismo spirituale. La sua sfida è «tenersi costantemente al culmine della scelta», come se il tempo del divenire fosse sospeso, mantenendosi nell’istante della riflessione, astraendo dalle condizioni delle sue stesse circostanze d’identità ed esistenza. Esiste un arresto al culmine dell’estetico, la paralisi dell’indifferenza, che è anche densità indecisa di possibilità; non a caso Kierkegaard la mette immediatamente in paragone con il mistico (anch’esso aspramente criticato dall’etico, da B), il quale, come l’estetico, è sempre in tensione con la dimensione temporale, che esige una forma compiuta d’esistenza. Il massimamente metafisico è l’estetico, o il mistico, e la cifra che li distingue è la consapevolezza che la ripetizione nel tempo è senza significato, che la continuità manca, che niente si svolge su un Grund. «Tu ad esempio», dice B a A, «non manchi in modo alcuno di momenti per diventare, almeno per un certo tempo, un mistico». La vita del mistico-esteta conosce per questo terribili istanti di opacità, sui quali non si può edificare alcunché, e rade luminescenze; l’unica continuità della sua esistenza è un desiderio nostalgico che lo spinge eccessivamente verso l’alto – ma «il nesso manca», mancano storia e sviluppo, decisioni e divenire: esiste solo uno ‘svolgimento’ contemplativo, anelante. In modo analogo, la preghiera del mistico è tanto più riuscita quanto meno ha contenuto, tanto più si libra verso il nulla; essa si muove paradossalmente verso lo stesso elemento della non-scelta, della non-decisione dell’estetico. Ogni rapporto diventa per il mistico indifferente (e l’estetico è indifferenza); infine, la sfera del poetico, che tormenta l’uomo con le più atroci collisioni, lega il mistico all’esteta.
Ironia originaria è l’ermetismo estetico, nel quale il momento paradossale, smussato dall’etico, acquista di nuovo la sua asprezza col mistico-estetico, terreno su cui le più grandi antitesi s’incontrano; così la giudica l’etico: via pericolosa, sviamento, scelta sbagliata, annebbiamento; «l’errore sta nel primissimo movimento», ovvero nello scegliere se stessi (cosa che non si può certo negare all’esteta-mistico), ma in maniera astratta (ancora una volta in senso hegeliano). Infatti il giudizio estetico-mistico sulla realtà è un giudizio metafisico: essa è vanitas, illusione, lacuna, peccato; egli sceglie se stesso, ma costantemente uscendo fuori dal mondo; solo difficilmente riesce a rientrarvi per scegliersi concretamente, in ritorno nel mondo. Da qui un’impossibilità verso la realtà: «la realtà è un indugio, sì, un indugio di tipo così preoccupante da quasi correre il rischio che la vita lo privi di ciò che una volta possedeva...», osservazione naturalmente del tutto paradossale: cosa possedeva l’esteta-mistico una volta? Il seduttore ha in comune con gli asceti e gli eremiti la teoria, dice Kierkegaard: poi segue la via opposta: il costante ritorno verso il luogo che lo nullifica si ribalta nella dispersione mondana, densa di variegate possibilità apparenti. «Colui che vive esteticamente vede infatti per ogni dove delle possibilità, queste costituiscono per lui il contenuto del tempo a venire»: per questo l’estetico è saudade, malinconia, passione illusoria (può darsi passione senza illusione?), disperazione, e infine di nuovo possibilità, e breve speranza.
Nel Concetto dell’angoscia, il demonismo estetico diviene semplicemente demoniaco: momento estetico-metafisico nel quale il demonio si mostra come legione, come pluralità irriducibile degli enti apparenti. Anche la poesia pessoana riconosce l’ambito demoniaco dell’esistenza, questo interstizio tedioso tra possibili vite parallele; il male che ne caratterizza la mondanità viene contemplato, forse esorcizzato, sicuramente estetizzato: cioè tenuto fermo sulla sua superficie tragica. Nella Hora do Diabo, il diavolo sa bene di essere un inoffensivo ironista, «e tutti gli ironisti sono inoffensivi, a meno che non vogliano usare l’ironia per derivarne una qualche verità»; ma il nostro povero diavolo non ha mai preteso di dir la verità a nessuno: «mio fratello maggiore, dio onnipotente, credo che non la sappia neanche lui». «Sono il negativo assoluto, l’incarnazione del nulla. Quel che si desidera e non si può ottenere, quel che si sogna perché non può esistere – lì è il mio regno del nulla e lì è il trono che non mi fu dato»; «di tutto ciò che non vale la pena di essere, io faccio il mio dominio e il mio impero, signore assoluto dell’interstizio e dell’intermedio»: suo è ciò che non ha peso né misura. Nessuno è anti-idealista come il diavolo: egli vuol tener fermi quei contrari che nell’idealismo dileguano l’uno nell’altro, trasformando in essere anche il nulla; ma la sua natura parassitaria di privazione è essenziale per trovare uno spazio alla creazione poetica.
È il diavolo ad aprire lo spazio della poiesis: «sono per natura un poeta, poiché io sono la verità che parla per inganno»; la parola poetica è sua amica, dice Pessoa, perché corrompe ma illumina. Eterno diverso, eterno rinviato, egli è il superfluo dell’abisso: «io non esisto», conclude sconsolato o Deus da Imaginaçao (e questo epiteto, dio dell’Immaginazione, rimanda direttamente alla pratica poetica, alla forza di costruire immagini); perduto finché non crea, proprio come l’esteta egli non ek-siste e non è neppure simile a se stesso. Rimosso l’ambito del “male radicale”, crollate le strutture all’interno delle quali questa metafora aveva significato, Pessoa varia con grande sapienza il tema della creazione artistica come elemento diabolico: l’inoffensiva creatura semisognante è fedele compagno di ogni poeta; «dal punto di vista estetico il pathos supremo di un poeta sarebbe di annientare se stesso, di demoralizzarsi [...]; dal punto di vista estetico sta bene – per ricordare con una espressione forte una cosa che certamente accade più spesso di quanto non si creda – darsi al diavolo, ma... allora bisogna produrre capolavori» (Postilla). Cosa si può dire allora del demonio, «o desconhecido», dove si può rinchiuderlo per catturarlo? «Le forze che negano emanano dall’aldilà dell’Unico (do além do Único)», dice il misterioso ‘nome’ Rafael Baldaia nel suo Trattato della negazione. Eppure lo spirito che nega è anche lo spirito che permette di creare: «tutto è creazione, e tutta la creazione è finzione e illusione. Creare è mentire. [...] Noi stessi, in quanto esistiamo, siamo anche noi creazioni, cioé illusioni». Banale insomma, per il poeta, sostenere che «Deus è bom», più originale pensare che in fondo «o diabo também não é mau».
Il demoniaco è lo scarto inquietante dal demonico-ermetico, la deviazione allucinatoria all’interno del momento estetico-metafisico; il demonio è legione, come i fenomeni, è taciturno, ipocondriaco, lunatico, angosciato dal bene. «Una sensibilità morbosa, una irritabilità esagerata, l’eccitazione dei nervi, l’isterismo, l’ipocondria ecc. sono tutte sfumature del demonio» (Concetto dell’angoscia); Saturno, l’astro opaco, il pianeta freddo, domina sui dolenti esteti. Tremenda è la sua congiunzione con la Luna: il primo, deputato alla tristezza, al destino e alla fatalità, si congiunge con la pallida peregrina che domina sull’immaginazione, stendendo così «sulla vita dei nativi un manto di desolazione, di timidezza e di fondo onirico e accidioso». Così recita l’oroscopo di Pessoa realizzato da lui stesso. Pianeta dell’irresolutezza, di troppa lucidità, stempera la forte intensità dell’azione nella scialba tinta del pensiero, nella sua grigia interiorità. Inoltre, risucchia senza ritorno nel dominio del sogno: e il sogno è un’azione che è divenuta idea, che perciò ne conserva la forza e ne ripudia la materia, cioé l’esistenza fisica nello spazio: dall’idea astratta in giù, nel dominio del re del mondo (la cui suprema astuzia, si sa, è fingersi inesistente), opera l’azione demonica, demoniaca, saturnina del poeta.

IV. Ironico nulla poetico

«Fin dalla prima infanzia porto una freccia di dolore confitta nel cuore.
Fin quando sta lì confitta, io sono ironico - se vien levata, io muoio».
(S. Kierkegaard)

Hegel rimprovera all’ironia post-fichtiana, schlegeliana, l’astratta unità e libertà di un Io formale che tutto riduce a parvenza, a vanità, a nulla, divenendo così nullo e vano esso stesso: da qui l’inutile Streben e la malattia dell’anima bella; l’ironia romantica non è neppure giunta al momento dialettico dell’idea indicato come infinità negatività assoluta – ed effettivamente il momento negativo appare radicalmente approfondito dall’ungeheuere Arbeit del concetto hegeliano. La mancanza di contenuti sostanziali riduce l’io e le sue rappresentazioni ad un “autoannientantesi nulla”; nessuna saldezza per l’ironico, niente da tener fermo, soggetto cattivo, inconsistente e incapace: «la mancanza di carattere ama l’ironia». Il nesso ironia-nulla è quindi già stato posto definitivamente da Hegel, prima che da Kierkegaard, nel quale la critica si presenta come attività costitutivamente ironica, frutto di una maieutica di tipo socratico – difficilmente è dato di più al concetto; l’ironia, in modo pienamente hegeliano, rimane, pur nella sua necessità, un concetto negativo – dunque irrelato, immediato, singolare, antitetico. Il singolare infatti sfugge sempre al concetto: non si dice il ‘questo’, il ‘dies’ rimane indicibile, afferma Hegel nella Fenomenologia: e Kierkegaard abbraccia in modo estremo quest’indicazione, nonostante il caparbio rifiuto, prima ancora della Versöhnung in cui pretende di concludersi il sistema, della Vermittlung che lo alimenta. «Le nuvole si mostrano di continuo in una forma, ma Socrate sa che la forma è l’inessenziale, e che l’essenziale è quanto vi sta dietro, così come l’idea è il vero, e il predicato di per sé non sta a significare nulla. Ma un vero di tal fatta non s’affaccia mai in alcun predicato, non è mai». La ‘verità’ non entra in relazione, è impredicabile in quanto tale – è illogica, a-logos, indicibile: né predicato né forma: come il singolo.
Se il sistema è infinitamente eloquente, l’ironia sarà dunque infinitamente silenziosa; il primo è il pieno, la seconda il vuoto a cui manca il momento sintetico. Molte sono le somiglianze tra la caratterizzazione dell’ironico e quella dell’esteta, fin quasi alla coincidenza tra Socrate e Don Giovanni: se riesce a depistare la gente, l’ironista ha raggiunto il proprio scopo; lo sguardo dell’ironico sulla realtà è devastante (nel Diario, al periodo della sua produzione pseudonimica, Kierkegaard annota: «la mia ironia s’avvicina forse a quel che i Greci chiamavano Nemesi»); l’ironico serve lo “spirito del mondo” e questo lo consuma; l’ironia è delirio divino, è ebbro fluttuare degli infiniti possibili: le riserve della possibilità sono infinite. Come l’esteta, alla fine l’ironico non può che disperare, perché soggettivamente l’ironia è un’accentuazione etica interiore del proprio io che esteriormente astrae infinitamente dal proprio io, trovandosi in immensa, inconciliabile disparità. Altri caratteri comuni: l’ironista è figura singolare della libertà soggettiva che si mantiene, privo di legami, nella possibilità iniziale, senza scegliere; lo scopo dell’ironia è metafisico; il suo nulla è un silenzio di tomba, ma, ancora una volta, simile al nulla mistico. L’ironica ipertensione, infine, è molto simile all’esistenza del poeta, il cui martirio è «di voler essere un carattere religioso, che sempre si inganna e diventa un poeta: dunque un amante infelice di Dio»; infatti sempre un inganno è sotteso all’amore, alla forma in cui si mostra il plus ultra dell’amore: amare qualcuno perché mi ha reso infelice con una penetrante freccia di dolore.
«Quanto più alla base Socrate aveva minato l’esistenza, tanto più profondamente e necessariamente ogni singola asserzione doveva gravitare verso la totalità ironica, la quale come condizione di spirito era infinitamente abissale, invisibile, indivisibile» (Sul concetto di ironia); nell’ironia si apre quindi un vuoto, un nulla che significa l’essenziale; ironia è l’interrogare stesso, l’assenza della risposta rivelata, il non-sapere: il vuoto contenuto della vita vocata all’autodistruzione. L’empirico è il campo dell’ironia, intenta a recingere l’umano agire e pensare di un muro insormontabile (il Socrate di Kierkegaard è quindi singolarmente anerotico, sordo al richiamo di Eros verso l’alto). L’ironia trova il suo necessario polo negativo nella rassegnazione come coscienza del limite - l’ironista supremo, dice Kierkegaard, sarebbe stato il Figlio incarnato che fosse venuto al mondo e vi fosse vissuto in modo da passare inosservato (paragone illuminante per capire che non c’è ‘condanna’ kierkegaardiana vrso l’ironico, e probabilmente nemmeno verso l’estetico).
Ironico è soprattutto l’autore che è tutti gli autori, e per sé nessuno; tutti gli autori che proliferano in questa coscienza smarrita, errante, poieticamente ironica, girano intorno al nulla, strappano/chiedono poesie al nulla, implorano lucidamente ciò che gli permetterebbe di esprimersi davvero, di evadere dalla spesso sterile e stanca teoria di versi. L’opera di Pessoa, lungi dal poter essere liquidata come ‘nichilismo’ (sprovveduti interpreti agitano questa parola come un’arma), è, al contrario, da una parte contesa-al-nulla, poesia tratta dall’astratto, e dall’altra ripristino dell’infinita libertà del creare della coscienza, della sua più pura Einbildungskraft: forza di creare costruzioni, immagini, ‘finzioni’ sospese sull’indefinito. Tutto questo, giocato sempre sull’orlo della propria distruzione, spinto al disincanto estremo sui suoi presupposti e sugli stessi ingranaggi creativi, che infatti risultano esibiti, scomposti, vanificati. L’opera ironica per eccellenza diviene così relazione ad un Altro abissale, all’abysmo dell’occulto, col quale ogni voce dialoga - e questo altro, cui sempre l’ironia si rapporta, è nulla, cioé vortice di possibilità, infinitezza di tentativi per provocare ancora una nuova chance in ciò che sembra già da sempre deciso. Certo: così è il mondo - ma sospendiamolo, immaginiamolo non esaurito, poniamolo sull’orlo dell’abisso che tenga aperta la possibilità: distruggiamolo con l’ironia suprema, annientiamolo. Certo, così è il da-sempre-uguale - ma se questo ‘da sempre’ potesse esser teso fino ai confini delle possibilità dell’immaginazione estetica, allora la realtà univoca, l’identità stessa di ogni ente, sarebbe infinita, molteplice, sempre nuova. In fondo l’ironia, considerata nella sua forma metafisica più alta, rimanda al problema della libertà singolare: «che Dio possa creare delle nature libere al Suo cospetto è la croce che la filosofia è impotente a portare ma a cui è stata conficcata»; la massima libertà del pensiero, rappresentata appunto dalla filosofia (in Kierkegaard: hegeliana!), deve tentare di portarsi questa croce addosso senza cedere ad alcuna affermazione edificante; perciò spesso la genuinità della sua Aufklärung, in modo del tutto capovolto, si riconosce dal suo ironico svuotamento. Anche l’etica della Postilla insegna a rischiare tutto per nulla, ad arrischiare l’adulazione storico-mondiale del System per diventare un nulla: un individuo singolo; ma il singolo è la contraddizione fondamentale, perché egli detiene in sé, in ogni momento, la possibilità di un cominciamento. Al contrario, «la nostra epoca detesta l’isolamento: e perché mai dovrebbe allora tollerare che un uomo concepisca la disperata idea di andar solo per la vita?», di tollerare veramente la sua immensa misura di libertà?
Nulla è il fantasma di libertà estrema che inquieta la poiesis (la poesia) ironica. Tutti i dialoghi con questo ‘centro’ hanno pari dignità, così come i nomi che ne scaturiscono: la necessaria pluralità di figure s’incontra solo in un punto paradossale, indicibile alla stessa poesia (perché sua origine), intoccabile per la fredda smania del fingidor, invisibile per la mente, non teorizzabile al pensiero: «mas além», pensiero, più oltre!, implora Faust. L’esteta/poeta sente quel punto: «caminhamos sobre abismos./ Ai de quem o sente». Il punto di raccordo, l’Uno che rende tutti uguali, possibili e in parte in-differenti i ‘nomi’, sfugge e li forma ironicamente: a distanza, da lontananza inaccessibile, opera sulle sue ‘creature’. Esso si rivela, in termini esoterici, occulto; ad esso è dialettico il territorio mondano del demonio. Diabolico sospendere è l’attitudine a delegare ed abdicare (“estetica dell’abdicazione”, s’intitola un celebre scritto pessoano), a fare le valigie: la contemplazione della vita esteticamente terrorizzata dal toccarla, le superfluenti domande che inciampano ogni azione, la visione costante della propria presenza metafisica si presentano come sintomi di una personalità irresistibilmente attratta dalla gravità senza fondo di quel centro; conseguenza ne è il proliferare di ‘identità’ dis-identiche che si guardano, s’inseguono, si commentano, s’intralciano sempre più l’esistenza (memorabile l’intervento intromissorio dell’ingegnere de Campos nel fidanzamento di Fernando con Ophélia – e non saranno lontanissime ma similmente paradossali, di nuovo paradossalmente simili, le ragioni per cui Kierkegaard non sposò Regina, si direbbe a causa di Dio, e Pessoa non sposò Ophélia, si direbbe a causa di nulla? Scegliere una sola in tutto il mondo è un atto inspiegabile e ridicolo).
L’intero gioco mondano viene descritto dall’ironia attraverso le graduali sfumature della personalità e racchiuso, appunto, sulla terra; ma non avrebbe senso lo stesso pensiero, se qui dovesse fermarsi «il corto volo dell’intendimento»; da qui l’affanno, la tensione, l’ansia spropositati che percorrono la poesia pessoana, e la necessità del salto nell’edificante in Kierkegaard. Ansia non di raggiungere, non di affermare questo ‘luogo’, non di spiegarlo positivamente: perché al linguaggio questo è impedito; altrimenti incorreremmo di nuovo nell’errore logico del Sistema. Lacune di silenzio colmano l’opera ironica del poeta, si sfiniscono i versi senza un oggetto, si susseguono immagini mentali in cui, miracolosamente, si sta pensando a niente, e sembra di raggiungere il niente del pensiero: il suo paradossale silenzio. Correlativamente, dopo il salto, lo scrittore religioso si ferma ad abitare (?) un luogo indicibile, un centro assorbente, non più drammatico, angoscioso, demonico come il mondo, e solo dicibile attraverso la preghiera e l’apologetica, la produzione di discorsi edificanti. Ma l’intrepida lucidità, la curiosità insaziabile dell’ironia non conoscono fine né appagamento, rimangono insoddisfatte dall’edificazione: sempre vogliono vedere oltre: sul letto di morte, in tutta tranquillità, il poeta pronuncia l’ultima frase: «datemi i miei occhiali».

V. Ascesi dell’intelligenza e paradosso del pensiero

«Ahimé, essere almeno una volta trasportati al terzo cielo,
e per ricordo serbarne una spina»
(S. Kierkegaard)

Anche nella considerazione dell’esigua ed estinguentesi potenza del pensiero, possiamo riscontrare analogie tra i nostri due poeti. Facoltà tradizionalmente peculiare di Faust, l’intelligenza in Pessoa si isola e si autonomizza fino a rimanere irrelata e ad autodistruggersi: inevitabile conclusione per chi ha eliminato il diverso da sé col quale confliggeva: la lucidità dell’intelligenza è la volontà prevaricatrice di eliminare la finzione, e non a caso si manifesta (a tratti) soprattutto nell’ortonimo, nel nome ‘vero’, nell’ortodossia. L’intelligenza, al culmine dell’ironia e della libertà, si trova in condizione statica, perché vuota di tutto; non possiede nessuna scusa: né “estetiche”, né “metafisiche”, né “opinioni sociali”. Esse divengono perfettamente indifferenti dal punto di vista di un assoluto-nulla non posseduto, della sua Ur-Möglichkeit; assoluto-nulla, sciolto da ogni legame e sfondo di ogni possibile, che coincide con l’impensabile possibilità originaria: volentieri la disincantata intelligenza si getta nell’orrido immenso.
«Ah l’orrore di pensare come un improvviso non sapere dove sono», esclama Faust, trasportato altrove dal pensiero, via dalla realtà, anywhere but out of this world. Nota Kierkegaard che anche la perdizione dell’esteta nella molteplicità è determinata dall’intelligenza: «se quello di riflettere e considerare fosse il compito di una vita umana, allora saresti prossimo alla perfezione». Nell’ultimo Pessoa lirico (non esoterico) non esiste ritorno da questo movimento nichilistico (cioé volto al nulla); questo momento essenziale svuota l’intelligenza, che si ritrova paralizzata dalla propria mancanza di vincoli, norme, leggi, possessi: incatenata alla propria libertà di logos, al discorrere dello spirito inarrestabile, libertà discorsiva che abdica alla sua vis creatrice di plurali narrazioni, di molti nomi, di probabili identità. Così la stasi di un’ironia adamantina diviene anche stásis, lotta interna dell’eguale con se stesso per riuscire ad abdicare anche alla propria stessa ascesi: solo la decisione e lo sforzo verso la vita, verso una realtà che si rifiuta di contenere ancora illusioni, permettono di volgersi nuovamente ad un mondo fattosi sempre più enigmatico. L’intelligenza non ha più illusione alcuna, e le ha tutte in potenza (da qui il vano e ripetitivo sognare «quanti Cesare sono stato!»: l’inanità senza termine che ci riempie e che nessuna volontà vuole secondare e sostenere: «Non sono niente./ Non sarò mai niente./ Non posso voler essere niente./ A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo»). L’intelligenza è sempre ascesi, dalla cui radicale mancanza (o rinuncia) sorge uno sguardo propriamente filosofico: negli enti effettuali l’intelligenza resta ammutolita solo dal lato in ombra, dal nulla che recano in sé e che rimanda-appartiene direttamente all’abisso (ne è simbolo e analogia): come ogni cosa abbia parte nell’abisso: questo interessa all’intelligenza. Nella sua anabasi analitica, essa non ha trovato risposte: ha solo visto l’alto abysmo, liberandosi dall’irriducibile singolarità degli enti, annichilendoli: abisso sdrucciolo su cui le nostre facoltà scivolano. «Dicevi che nello svolgimento della metafisica da Kant a Hegel qualcosa si è perso»: Pessoa, poeta a suo modo kantiano (filosofo citato anche nell’Ora del diavolo come improbabile discepolo del demonio), sa che tutte le facoltà, assetate d’incondizionato, alla fine, esaurito il loro compito, si gettano nell’Abgrund. Gli scritti ‘filosofici’ pessoani non sono che la riprova di questo esaurimento, di quanto esaurite siano le nostre facoltà (controparte, come tentativo di costruzione via via più paradossale, ne è l’esoterismo, il quale però non può raggiungere la stabilità dell’edificante). L’intelligenza non conclude e non agisce; per prima raggiunge il “nichilismo trascendentale”: «ora o Universo é pensado».
Il pensiero, affatto vuoto di conclusioni, azioni e materia, ha necessità di finzione: dopo la ricognizione di tutta la realtà, adesso abbisogna di ben distinguere tra possibilità e realtà; ciò che è effettuale, protesta il poeta, non è il solo vero, bensì è solo un modo della verità: quello divenuto-reale; questo sa il poeta (cristiano o meno) nel proprio operare. La Verità, contrariamente a quanto si pensa, può esser considerata dall’intelligenza solo un innocuo, rimandabile postulato, un’ipotesi inoffensiva, come ironico e inoffensivo è il diavolo (a meno che non cerchi di insinuare qualche verità...). Ogni ultimo è inaccessibile al pensiero, se non può farsene immagini; l’intelligenza abita infatti la “tenebra visibile” del mondo. Solo nella finzione, artificio supremo, dolorosamente consapevole, il pensamento ritrova, in modo del tutto paradossale e deviante, la connessione con una realtà: il poeta arriva “a fingere che sia dolore il dolore che davvero sente”. Da una parte, dunque, il nulla cui perviene l’intelletto nel suo anelito ironico-analitico alla dissolvenza; dall’altro il mondo ricostruito (costruito per la prima volta) che da questo spazio vuoto/denso viene permesso, il mondo della finzione-realtà, del verum-factum-fictum, che deve sempre di nuovo confrontare le proprie edificazioni temerarie con lo sfondo abissale di mondi infiniti: «Vico was indeed right when he declared verum and factum to be identical; we must make to know».
In realtà, neppure la pratica artistica, il fare-immagini, per quanto necessaria, contenterà mai la terribile penetrazione dell’intelligenza, del pensiero: la sua hybris a tormentare il mistero si ripresenterà daccapo, ripudiando ogni forma di edificazione, per quanto ‘bella’ appaia: ogni Forma. Ma non perché non ne riconosca il valore; al contrario, nota Pessoa, esiste una necessità profonda di vivere intimamente ciò che ripudiamo; a chi non è capace di sentire il Cristianesimo, non costa niente il ripudiarlo; quello che costa è, come per ogni altro sapere, lasciarlo dopo averlo sentito davvero, dopo averlo vissuto, dopo esserlo stato: arrivare ad oltrepassarlo non come forma di menzogna, ma come forma di verità. Questo tipo di critica si discosta e devia dalla confutazione morale kierkegaardiana alla Christenheit divenuta appiccicosa, compagnona, commerciabile – contro la quale, diceva Nietzsche, non decide certo la nostra ragione, ma il nostro gusto: il giudizio è estetico, l’intelligenza critica interviene successivamente. Il movimento metafisico intrapreso dall’intelligenza è ben più radicalmente scettico, estremamente ironico, penetrante-abbandonante, deciso a superare saperi, scienza, misteri, perfino Dio (proprio perché ne riconosce la verità): «riconoscere la verità come errore; vivere i contrari senza accettarli; sentire tutto in tutte le maniere, e non essere nient’altro, alla fine, se non la comprensione di tutto - quando l’uomo s’innalza a questa vetta, è libero»; «egli non conosce i misteri, elude le vie e le iniziazioni; abbandona la scienza per la quale passa; nega la magia che attraversa; e quando arriva a Dio non si ferma»; «il mistero, dice l’occultismo più alto, è superiore non solo all’Universo, ma a Dio stesso». In questo caso (e le parole valgono per tutta un’epoca, quella del cosiddetto nichilismo), «não haver deus é um deus também».
Mistero è volontà del pensiero all’interrogazione infinita, al contraccolpo e all’estinzione; Kierkegaard introduce all’interno di questo movimento un altro elemento essenziale, quello passionale: infinita è la passione del pensiero nei confronti del mistero, la quale può rendersi presente e concreta solo nel divenire soggettivo, nel farsi sempre di nuovo liberi in spirito in quanto singoli: liberi da tutto. Oggettivamente, invece, non si può certo rispondere alla questione sulla verità: ma molto di più: oggettivamente non esiste chi pone la domanda. Se Pilato chiede in modo oggettivo: che cos’è la verità, su questo piano non c’è risposta; solo la passione dell’interiorità avrebbe potuto farlo decidere in verità. Nella Postilla si comprende la differenza fondamentale tra Kierkegaard e Hegel: quest’identità tra passione e verità non può essere raggiunta all’interno del sistema, che anzi la repelle; questa è la semplice discrepanza, e il concetto di verità si muta in Kierkegaard in nostalgia della creatura (Rom, 8, 19). Sorge però la difficoltà di criticare Hegel facendo leva sul momento negativo, come tale mutuato da Kierkegaard, della singolarità; là dove si cerca un fondamento (un Grund) esclusivamente nel soggettivo, si rischia pericolosamente di trovarci solo arbitrio e illogiche fantasie. Kierkegaard infatti revoca la posizione d’indifferenza che era alla base dell’intero idealismo: quella tra verità e conoscenza, decidendo soggettivamente per la prima: verità che edifica, è solo verità per te, oggettivamente incerta, indecidibile, addirittura impossibile; conoscenza è invece l’infinita mediazione del logos, universale e ragionevole, ma insufficiente a prendere la decisione, perché decidersi si può solo in forza dell’assurdo; e nessuna Angst, nessuna disperazione esistenziale è bastevole: occorre proprio la coincidenza con la passione più singolare. La fede così intesa, come scandalo al cuore umano per i Giudei e follia per l’intelletto ai Greci (I Cor, 1, 23), che ha a riprova la continua contraddizione al mondo e l’incessante sofferenza, è afferrabile dal Begriff quanto l’ortica.
Il ‘religioso’ dunque (che non è ancora il cristiano) non esprime per nulla, detto in termini rigorosi, l’universale, ma solo il singolare: l’eccezione, la particolarità, il paradosso. Ma anche il pensatore essenziale spinge sempre all’estremo il paradosso (non come il professore berlinese che mette tutto in filastrocca...); in fondo Kierkegaard, nei suoi molti nomi, ha inevitabilmente pensato il linguaggio, espressione del pensiero del singolo, proprio sotto forma di paradosso. I paradossi sono infatti grandiosi pensieri incompiuti, impossibili da compiersi nelle regioni conosciute al concetto, o all’interno di un sistema che pretenda di superarli; sono frammenti maestosi e rovine spezzate, che attendono restauro e compimento, e che non possono qui averlo, e per questo spingono il pensiero alla ricerca più anelante, erotica, scandalosa: «perché il paradosso è la passione del pensiero, e i pensatori privi del paradosso sono come amanti senza passione: mediocri compagni di gioco. Ma la potenziazione estrema di ogni paradosso è sempre di volere la propria fine: così la passione più alta della ragione è di volere l’urto, benché l’urto possa in qualche modo segnare la sua fine. E’ questo allora il supremo paradosso del pensiero, di voler scoprire qualcosa che esso non può pensare» (Briciole).
Il limite cui il pensiero s’affaccia dà sull’ignoto, sul diverso-assoluto, e l’assoluto-diverso l’intelletto non lo può pensare; il pensiero concepito come Kreis non è che intima tautologia: questo il suo Resultat, per dirla con Hegel. Il limite è il tormento della passione; e la passione tormenta sempre l’eccezione: l’eccezione del poeta, del credente, del filosofo. Allora il pensiero diventa terribile lotta col paradosso, non aderenza ad esso e accettazione, com’è la fede; il paradosso vuole sempre la fine dell’intelligenza, ma spesso anche la passione dell’intelligenza cerca la propria fine: ma oggettivamente vuole finire, non solo nell’interiorità del singolo (mentre il salto, la fede, sono veri solo nella soggettività). Amore infelice è l’oggettiva passione del pensiero al paradosso, che ancora unisce il poeta al religioso al filosofo: il poeta, l’amante infelice di Dio, ingannato dalla propria stessa finzione; il credente, che patisce l’incompiutezza singolare dell’amore nel mondo; e il filosofo, l’amante insaziato, infelice, del mistero: tutti a patire le spine del terzo cielo, il cielo degli spiriti amanti. Tutti i nostri più preziosi possessi, i più elaborati, crudeli e squisiti doni dello spirito, risultano così egualmente costruiti sull’abisso, e ricevuti e tramandati in forza di eccezioni, beni rari, instabili, anche ingannevoli, le cui fondamenta oscillanti, anfibie, marine, vanno ben tenute a mente: «Forse che Venezia non è fondata sul mare, anche se dopo essere stata così costruita ci sarà alla fine una generazione che non se ne accorgerà? e non sarebbe un penoso malinteso se quest’ultima generazione s’ingannasse al punto da lasciar marcire le palafitte così che la città sprofondasse? Ma le conseguenze che sono fondate sul paradosso sono umanamente parlando costruite sull’abisso, e il contenuto totale delle conseguenze, che può essere trasmesso al singolo soltanto con la clausola ch’esso è in virtù di un paradosso, non può essere ricevuto come un bene stabile, poiché tutto è in uno stato di oscillazione» (Briciole).

 


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Cito sempre dalle Opere di S. Kierkegaard, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972; solo Enten-Eller è citato dall’edizione a cura di A. Cortese, 5 voll., Adelphi, Milano 1976. Data la notorietà dei testi evito ulteriori note.
Gli scritti che prendo in considerazione sono perciò esclusivamente quelli pseudonimici, escludendo la produzione edificante, nella quale, per forza di cose, manca quest’aspetto ironico che ritengo fondamentale ad una lettura filosofica, dalla quale cade fuori ogni soggettivo-vero-edificante (così formulato da Kierkegaard in senso perfettamente hegeliano umgekehrt). L’elemento edificante ovviamente aprirebbe anche un diverso discorso su Pessoa e sulle sue ‘credenze’.
O. Paz, Unknown to himself, in Aa. Vv., A centenary Pessoa, Carcanet Press Limited, Manchester 1995, pp. 3-20.
F. Pessoa, Textos Filosóficos, vol. I, a cura di A. da Pina Coelho, Ática, Lisboa s.d., p. 173 (Pessoa, da poco rientrato dal Sudafrica, scrive in lingua inglese, indizio dei suoi vicini anni adolescenziali).
G. Manganelli, La notte, Adelphi, Milano 1996, p. 12.
Lettera a Adolfo Casais Monteiro del 13 I 1935, raccolta in Una sola moltitudine, I, a cura di A. Tabucchi e M. J. de Lancastre, pp. 128-137, Adelphi, Milano 1979. Le citazioni in portoghese provengono sempre dalle Obras completas di Fernando Pessoa, Ática, Lisboa 1942-1978.
Moltissimi spunti sono racchiusi nella lucidissima Intervista con Andrea Zanzotto di A. Tabucchi, in Quaderni portoghesi, vol. II, Pisa 1977, poi raccolta in A. Tabucchi, Un baule pieno di gente. Scritti su Fernando Pessoa, pp. 114-122, Feltrinelli, Milano 1990.
Le Poesie di Álvaro de Campos sono citate nella tr. it. di A. Tabucchi, a cura di M. J. de Lancastre, Adelphi, Milano 1993.
S. Quinzio, La croce e il nulla, Adelphi, Milano 1984, p. 207.
F. Pessoa, L’ora del diavolo, trad. di A. Ciacchi, Biblioteca del Vascello, Roma 1992.
F. Pessoa, Textos Filosóficos, cit., vol. I, p. 42 ss. «O desconhecido» è il titolo del fr. 27, p. 44.
S. Kierkegaard, Sul concetto di ironia, trad. it. a cura di D. Borso, Rizzoli, Milano 1993.
S. Kierkegaard, Diario, 3 voll., a cura di C. Fabro, Morcelliana, Brescia 1967.
F. Pessoa, Faust, tr. it. a cura di M. J. de Lancastre, Einaudi, Torino 1989.
F. Pessoa, Poesie esoteriche, tr. it. a cura di F. Zambon, Guanda, Parma 2000; tra le altre, si veda la poesia Natal, p. 52: «Nasce un dio. Altri muoiono. La verità/ non viene né si vede: perdura l’errore./ [...] Cieca, la scienza lavora inutile gleba./ Folle, la fede vive il sogno del suo culto./ Un nuovo dio è solo una parola./ Non credere né cercare: tutto è occulto [Não procures nem creias: tudo é occulto]».
Si vedano, nel vol. di Poesie di Álvaro de Campos, cit., le due esemplari versioni di Lisbon revisited (1923 e ’26: «nulla mi lega a nulla») e la poesia senza titolo e senza data delle pp. 354-9: «niente estetiche del cuore!/ Sono lucido!».
Verso dell’ultima poesia del vol. Poesie di Álvaro de Campos, cit., p. 390.
Textos Filosóficos, cit. Anche il curatore portoghese nota come probabilmente la “vera filosofia” di Pessoa sia da ricercare altrove, piuttosto che qui, ma, quasi per pessoana smentita di se stesso, conduce un’approfondita analisi su questo materiale disperante, su questi falsi testi (lo stesso in A. de Pina Coelho, Os Fundamentos Filosóficos da Obra de Fernando Pessoa, Editorial Verbo, Lisboa 1971). Ma «a filosofia», avverte beffardamente l’autore, «entra na categoria da arte» (p. 9): esiste un’alienante discrepanza tra i commenti di storia della filosofia che Pessoa annotava, fingendo di far filosofia, e le ben più interessanti letture cui l’insieme della sua opera poetica ci conduce.
Textos Filosóficos, cit., p. 46.
Textos Filosóficos, cit., p. 134, fr. 45. Se l’arte è essenzialmente errore e finzione, la filosofia stessa deve diventare arte, afferma l’autore: arte di creare universi.
F. Pessoa, Pagine esoteriche, a cura di S. Peloso, Adelphi, Milano 1997, pp. 85, 87, 169. Anche queste pagine sono filosoficamente assai più interessanti dei cosiddetti testi estetici o filosofici, pur gravate dalla ‘finzione’ d’esoterismo; il nodo teorico è tutto avvolto sull’além Deus (oltre-Dio).


Susanna Mati, "Un’amicizia stellare: Kierkegaard e Pessoa"
in "XÁOS. Giornale di confine", giugno 2010 - URL: http://www.giornalediconfine.net/2010/susanna_mati.htm

 
 
     

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