La convinzione profonda dalla
quale muove la nostra analisi è la seguente: Ingmar
Bergman può essere considerato un importante e raffinato
"pensatore", non un "semplice" intellettuale
capace di attenti ma sterili esercizi di stile; Bergman
è riuscito a mostrare e rendere "visibile"
il proprio travaglio interiore portandolo, nella trama cinematografica,
a universale modo di percepire l'esistenza. E' vero che
un film non si dà allo stesso modo di un libro né,
tanto meno, di una pièce teatrale, ed è altrettanto
vero che si deve usare cautela quando ciò che precede
la parola è l'immagine, ma Ingmar Bergman (definito
da Godard "cineasta dell'istante") sembra cogliere
ciò che di oscuro sta dietro e dentro le cose. Gli
splendidi dialoghi curati anche quando la risposta è
(o sembra) assente, il silenzio che è sempre un "dire
di più", l'espressione di un viso che tace ma
si auto-osserva all'interno, sono piccole parti di un "tutto"
organico. La cura della fotografia è (nella maggior
parte dei film a cui si vuol fare riferimento) di Sven Nykvist:
la scelta è molto chiara e netta, rendere giustizia
alla "natura del cinema" cioè il primato
dell'immagine sulla parola e sulla sceneggiatura (che troppo
spesso sembra essere l'unica cosa presa in considerazione).
La maestria di Bergman sta nell'essere riuscito a produrre
nel film (all'interno del quale mai niente è casuale)
una perfetta coesione tra forma e contenuto: ciò
comporta che il significato sia "presente" o nel
modo in cui i fotogrammi si susseguono o nel porre l'attenzione
su un'inquadratura specifica nella quale più che
l'evidenza delle cose se ne può trovare la "cifra".
La puntuale introspezione alla quale sono sottoposti i protagonisti
Bergmaniani ci richiama alla mente quello che della vita
e della filosofia dovrebbe essere (ma non è quasi
mai) la continua ricerca: l'incessante cammino volto alla
chiarificazione dell'esistenza e il modo più congruo
per farlo, il tentativo di trovare un senso intrinseco all'esistenza
del singolo che si configura come ricerca di Verità;
l'esito di tale ricerca sembra non riesca mai a soddisfare
o a raggiungere risultati rassicuranti; anzi l'esistenza
singolare giunge quasi sempre ad un empasse, un limite invalicabile,
all'interno di un più alto piano razionale "scricchiolante".
I punti fermi, le certezze individuali passano al setaccio
di mirabili analisi fino al completo dissolvimento. Si è
parlato di possibili attinenze tra il cinema scandinavo
(si pensi a Dreyer o al più recente Lars von Trier)
e il pensiero di Kierkegaard. Da un certo punto di vista,
lo si riscontra pienamente: la fede che diventa problematizzazione
esistenziale, i tre "stadi" dell'esistenza umana
e addirittura il concetto di angoscia. Sebbene il problema
della fede sia evidente nel cinema di Bergman, la conciliazione
con Dio non appaga, non affranca il singolo dall'angoscia.
Dio per Bergman rimane l'assolutamente Altro, è pura
trascendenza; Dio "scioglie" il suo rapporto col
singolo abbandonandolo a se stesso senza alcuna possibilità
di riscatto; anche quando in Come in uno specchio
(1961) (1) sembra dare una
lettura "romantica", in realtà Dio non
partecipa al dolore umano, non rischiara l'esistenza individuale,
al contrario si nasconde, viene meno proprio sulla soglia
del suo rivelarsi. La porta socchiusa dietro cui Karin è
sicura che si manifesterà Dio rappresenta il preludio
al parossismo: Dio non arriverà a salvarla, emerge
al suo posto solo un'ombra (quella del padre) e, nella sua
mente, un enorme ragno. E' stato dichiarato e poi smentito
dallo stesso Bergman che Come in uno specchio fosse
il primo della sua trilogia di Kammerspiel: "Come
in uno specchio: la certezza conquistata. Luci d'inverno:
certezza messa a nudo. Il silenzio -silenzio di Dio-
la copia in negativo". Nel 1990, durante un'intervista
rilasciata ad Olivier Assayas (2)
sostiene la rottura tra Come in uno specchio,
Luci d'inverno (3) (1963)
e Il silenzio (4) (1963)
(rispettivamente secondo e terzo film della presunta trilogia);
egli definisce inoltre l'opera del '61 sentimentale. La
domanda che allora ci poniamo è: Perché? Forse
perché alla fine della pellicola, David parlando
di Dio afferma: "Non possiamo sapere se l'amore dimostri
l'esistenza di Dio oppure se l'amore è Dio stesso
(
)Il mio vuoto e la mia disperazione trovano sostegno
in questo pensiero" e Minus gli risponde: "Allora
Karin è circondata da Dio perché noi l'amiamo".
Nonostante le parole apparentemente convincenti: ancora
una volta nell'immagine sta il senso
(quadro 1).
Nel quadro Minus e David non si guardano nemmeno; dietro
di loro una finestra rigorosamente chiusa ad indicare il
fallimento delle loro esistenze fugaci per il mancato "incontro";
la finestra, che fa da sfondo a quasi tutte le inquadrature
del film, solo poche volte risulta aperta; spesso è
aperta verso il mare ma l'unica che ode e vede al di là
è Karin, folle con poche speranze di guarigione;
Karin vive in due mondi e ciò che la dilania è
che non può sceglierne nemmeno uno; come davanti
ad uno specchio, Karin si perde nel riflesso di se stessa
che, in quanto riflesso, è sempre e già l'Altro
e lo Stesso (5), lo smembramento
dell' io. L'unico vero amore di cui trapela la nostalgia
è forse quello del ventre materno, di cui metafora
è non solo l'acqua ma anche la cavità di una
barca abbandonata sulla spiaggia dove Karin si rifugia (in
preda al delirio) tra il buio abbandonandosi sul fondo bagnato
(quadro 2). Dio non risulta essere
amore dunque ma spettatore della tragedia umana; l'esistenza
viene percepita dal singolo come "essere-in-situazione";
lo spaesamento individuale misto al sentirsi prigionieri
viene ben rappresentato dalla posizione della cinepresa
quando David dice alla figlia Karin:- Si traccia un magico
cerchio intorno a noi escludendo tutto ciò che può
compromettere i nostri intenti ma, quando la vita spezza
il cerchio, questi intenti si rivelano meschini e insignificanti.
Così tracciamo subito un nuovo cerchio, un nuovo
riparo
(quadro 3).
La luce forte del sole che quasi acceca oltre ad avere un
evidente importanza filosofica, per ora risulta essere funzionale
solo alla "disposizione" della cinepresa. E' da
rilevare nel fotogramma la separazione netta tra luce e
ombra; David e Karin sono immersi nel buio che simboleggia
la discesa negli inferi, il cadere, ciò che sfugge
alla logica e alla luce della ragione: la follia per l'appunto;
una regione indistinta quella della follia senza una demarcazione
precisa; il confine labile tra ragione e follia si evince
dall'inquadratura; è necessario scendere fino agli
inferi del dolore altrui per comprenderlo e condividerlo;
avere il coraggio di calarsi nell'Altro e per l'Altro. Le
sagome dei due personaggi stanno tra le due "regioni";
tuttavia si noti come nel fotogramma la "regione luminosa"
abbia una forma quasi geometrica; il buio circonda e avvolge;
il singolo si erge ma resta in bilico, a metà tra
luce e ombra. Come in uno specchio risulta essere portatore
della sofferenza individuale che, come un grido inaudito,
si leva contro l'insensatezza della condizione umana; si
intravede ciò che Bergman svilupperà nelle
sue opere successive: la solitudine radicale del singolo
dinanzi al nulla; tuttavia per ora quella porta, intesa
come soglia, come limite, rimane socchiusa; l'uomo bergmaniano
non è ancora marionetta senz'anima.
Lo squarcio dell'individuo si fa più doloroso: in
Luci d'inverno Dio continua a tacere e la morte si
rivela un evento assurdo, incomprensibile; "Perché
bisogna vivere?" chiede Jonas ma Tomas, pastore di
una piccola cittadina, non risponde; lo guarda ma sta in
silenzio. Jonas si suicida e forse lo avrebbe fatto ugualmente
qualsiasi cosa gli avesse risposto Tomas. Ma la prima domanda
che la filosofia dovrebbe porsi, pensava Albert Camus, non
è se la vita valga la pena di essere vissuta? Camus
è netto a riguardo: rinunciare alla vita è
smettere di lottare, è far morire uno dei due termini
che danno vita all'Assurdo. Invece è la rivolta esistenziale
quella a cui si dovrebbe auspicare: "Mi rivolto, dunque
sono!" esordisce Camus ne L'uomo in rivolta
appunto. Tuttavia i protagonisti di Luci d'inverno
non riescono a scegliere la rivolta, sembra quasi che non
siano ancora maturi, che non abbiano superato la "frattura"
tra loro stessi e la vita. L'assenza di Dio paradossalmente
rappresentata da un pastore che non perde la fede bensì
non l'ha mai avuta, acquista una connotazione negativa:
"Padre perché mi hai abbandonato?" ripete
più volte Tomas; ma, ci si potrebbe domandare, Dio
c'è mai stato? O forse per Tomas si trattava di un
Dio antropomorfico, qualcosa di consolatorio ma di assolutamente
privato, quasi una sostituzione del mancato rapporto con
l'Altro. Anche l'amore di Marta per Tomas è una sconfitta;
la relazione non salva dalla solitudine ontologica e lo
sguardo altrui (nonostante sia uno sguardo d'amore) non
coglie niente più di quello che non sia già
"evidente" dall'inquadratura in questione (quadro
4).
Marta non coglie ciò che Tomas nasconde a se stesso;
il nascondersi è nello sguardo basso di Tomas una
incolmabile distanza (che non è il nulla, si badi
bene); Tomas è ignoto a se stesso e il meccanismo
è inconsapevole; non servono maschere o finzioni
perché è il fondamento stesso dell'essere
che viene meno: il singolo frana e si perde. Bergman prosegue
con la sua ricerca e se già in Luci d'inverno sceglie
il volto in primo-piano come un "bucare" la pellicola,
nel '66 con Persona (6)
supera sé stesso in quadri che passano repentinamente
da volto primo-piano intensivo a volto primo-piano riflessivo.
"Ci troviamo davanti a un volto intensivo ogni volta
che i tratti sfuggono al contorno, si mettono a lavorare
per conto loro, e formano una serie autonoma che tende verso
un limite e varca una soglia (
) Siamo davanti a un
volto riflessivo o che riflette fintanto che i tratti stanno
raggruppati sotto il dominio di un pensiero fisso o tremendo,
ma inalterabile e senza divenire, in qualche modo eterno"
(7). Persona è
la maschera: insieme velamento e svelamento del singolo.
Attraverso il volto primo-piano Bergman porta l'attenzione
sull'immagine-affezione, fa in modo che l'immagine straripi
il tempo e lo spazio: "brucia l'icona" (8).
Il volto dunque è muto e raramente ha occhi; in altre
parole non è importante che si riferisca all'Altro:
guarda la cinepresa che diventa uno specchio. Ha ragione
Deleuze quando osserva che non è importante stabilire
se in Persona si tratti di due personaggi distinti
o di uno solo che si sdoppia; non si recupera il senso del
film ricostruendo l'ambigua relazione che si instaura tra
Alma ed Elisabet ma, lo si rintraccia piuttosto, di nuovo
e sempre, nei fotogrammi. L'inquadratura cambia, si amplifica
nel volto senza interrompere bruscamente la sequenza del
film; più che di interruzioni si potrebbe parlare
di una vera e propria opera di "violenza fisica"
sulla pellicola che viene tagliata, strappata, bruciata
e fatta risorgere come se nulla fosse accaduto. Lo sfondo
quasi scompare per lasciare il posto allo spazio neutro
da cui emerge il volto primo-piano (quadro
5).
Il carattere di sospensione che si scorge nel quadro è
chiaramente voluto. Lo specchiarsi nella cinepresa di Elisabet
e Alma dà l'idea di come il volto sia per Bergman
"pars pro toto"; sineddoche del disfacimento del
singolo (che non è disfacimento del volto come pensa
invece Deleuze), il volto bergmaniano rappresenta il passaggio
tra volto primo-piano intensivo e volto primo-piano riflessivo.
La verità del volto sta dunque nel suo passare, che
è già un "non è più"
e un "non ancora"
Il carattere di sospensione del volto non comporta la mancanza
di individuazione ma semplicemente l'istantaneità
dell'apparizione. Rispetto ai film sopra citati, in Persona
il grido di dolore del singolo è stretto nella morsa
del silenzio: per questo è più incisivo. Il
prender fuoco di alcuni fotogrammi (vedi sopra) è
da intendersi metaforicamente come un irrefrenabile desiderio
di annientamento esistenziale. Non ci si chiede più
se Dio possa o debba assistere alle vicende umane perché
Dio ormai è scomparso; è scomparso per lasciare
il posto alla preminenza del volto? In Bergman si assiste
alla neutralizzazione dello sfondo dalla quale è
visibile il primo-piano ma sarebbe azzardato accampare una
simile ipotesi. Si può tuttavia leggere il cambiamento
di inquadratura come una differente riflessione che il singolo
fa su se stesso. Si pensi al quadro 1: i personaggi sono
immobili ma il loro sguardo è lontano dalla cinepresa;
hanno per così dire necessità di un sfondo-significato
nel quale situarsi (la finestra chiusa, la luce bassa).
Ora rapidamente si veda il quadro 4: si noti come l'inutile
tentativo di Marta di tirare a sé Tomas naufraghi
nella sottrazione dello sguardo di quest ultimo. Ecco che
nel quadro 5 la riflessione non è più un atto
conoscitivo individuale ma risulta essere esito di una nuova
consapevolezza. La frontalità del volto non ha bisogno
di altro e dell'Altro. Il volto stesso diviene soglia e
al tempo stesso limite invalicabile. La soglia rappresentava
un'apertura-verso ed era sempre nell'Altro-da-sé.
Ora il limite è nel volto stesso che immobile passa.
E dunque Dio forse viene meno "attraverso" il
volto, dissolvendosi nel fondo bianco. Per proseguire ci
serviremo di Alma che dice:"Tutta questa angoscia che
ci portiamo appresso, i nostri sogni traditi, la crudeltà
inspiegabile, l'angoscia di estinguerci, il doloroso renderci
conto delle nostre condizioni terrene hanno lentamente cristallizzato
la nostra speranza in una salvezza ultra-terrena".
La speranza in un mondo che non sia questo non esiste più.
Nel '73 con Sussurri e grida (9)
la direzione dello sguardo muta; il singolo contempla se
stesso e l'Altro; lo osserva attraverso uno sguardo neutro.
Ciò che prima era riposto in Dio ora è custodito
nel singolo. Il dettaglio è quello che conta (quadro
7).
Il dettaglio del volto ora risulta essere centrale e il
primo-piano diventa "divisione". Il volto viene
celato volutamente; con Sussurri e grida siamo nella
dimensione del "segreto": Bergman riesce a rappresentare
il non-detto; quello che conta non è il volto ma
il volgere lo sguardo verso. La parzialità, intesa
come impossiblità di cogliere la trascendenza, è
legata alla finitudine del singolo. Il fondamento dell'uomo
è il segreto. La parte del singolo che rimane nascosta,
segreta, non è conoscibile da Altri, è un
"sovrapporre". Il volto di Anna che compare nel
fotogramma è un punto nodale: tagliata a metà
e velata. La sovrapposizione di un telo bianco è
da considerarsi come la visibilità del neutro; il
nascondimento esalta la direzionalità dello sguardo.
La contemplazione di se stessi è da intendersi come
consapevolezza del proprio non poter essere ciò che
si è. Il rosso dentro cui affonda l'intero film è
il colore dell'interiorità
(quadro 8).
Il quadro porta alla conclusione della riflessione fin qui
imbastita; il singolo proietta se stesso; si guarda allo
specchio ma non si vede, non vede l'Altro, lo spia ma gli
rimane sconosciuto; il riflesso è riflesso dell'esistenza
del singolo; la frantumazione dell'individuo è conseguenza
della completa smaterializzazione di qualsiasi fondamento;
del fuoco dei fotogrammi di Persona qui rimane solo
la cenere. Il singolo precipita e viene assorbito dallo
sfondo. Dio appare solo come immagine sbiadita di un'immagine
fasulla.
(1)
Säsom i en spegel (Come in uno specchio). Produzione,
distribuzione: Svensk Filmindustri; sceneggiatura: Ingmar
Bergman; fotografia: Sven Nykvist; musica: Erik Nordgren
(estratti da Bach, eseguiti da Erling Blöndal Bengtsson);
assistente alla regia: Lenn Hjortzberg; montaggio: Ulla
Ryghe; prima: 16/10/1961 Röda Kvarn, Fontanen; origine:
Svezia; durata: 89'. Interpreti: Harriet Andersson (Karin),
Max von Sydow (Martin), Gunnar Björnstrand (David),
Lars Passgärd (Minus). Trama: è la storia di
Karin (giovane donna affetta da malattia mentale), Martin
(marito di Karin), Minus (fratello di Karin) e David (padre
di Minus e Karin). La convivenza dei quattro, in un'isoletta
del Mar Baltico, fa emergere vecchi rancori irrisolti. Uno
dei massimi capolavori sulla "descrizione" della
follia.
(2) Cfr. O. Assayas, S. Björkman, Conversazione
con Ingmar Bergman, Lindau, Torino 1994, cit. p. 56.
(3) Nattvardsgästerna (Luci d'inverno). Produzione,
distribuzione: Svensk Filmindustri; sceneggiatura: Ingmar
Bergman; fotografia: Sven Nykvist; musica: estratti da salmi
svedesi; assistente alla regia: Lenn Hjortzberg, Vilgot
Sjöman; montaggio: Ulla Ryghe; prima: 11/02/1963 Röda
Kvarn, Fontanen; origine: Svezia; durata: 80'. Interpreti:
Gunnar Björnstrand (Tomas Ericsson), Max von Sydow
(Jonas Persson), Gunner Lindblom (Karin Persson), Ingrid
Thulin (Marta Lundberg), Allan Edwall (Algot Frövik),
olof Thunberg (Fredrik Blom), Elsa ebbesen-Thornblad (la
vedova), Kolbjorn Knudsen (Aronsson), Tor Borong (Johan
Akerblom), Bertha Sannell (Anna Appelblad), eddie Axberg
(Johan Strand), Lars-Owe Carlberg (il procuratore distrettuale),
e in ruoli minori Johan Olafs, Ingmari Hjort, Stefan Larsson,
Lars-Olof Andersson e Christer Ohman. Trama: è la
storia di Tomas, pastore in una piccola cittadina svedese;
Mrta, maestria innamorata perdutamente di Tomas, non riuscirà
ad essere ricambiata pienamente. La vicenda si snoda, attraverso
micro-eventi, come cammino spirituale di Tomas alla fine
del quale apparirà la consapevolezza di una fede
svuotata di senso.
(4) Tystnaden (Il silenzio). Produzione, distribuzione:
Svensk Filmindustri; sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia:
Sven Nykvist; musica: Ivan Rendilen, R. Mersey, Bach (Goldberg
Variations); montaggio: Ulla Ryghe; prima: 23/09/1963 Röda
Kvarn, Fontanen; origine: Svezia; durata: 95'. Interpreti:
Gunner Lindblom (Anna), Ingrid Thulin (Ester), Jörgen
Lindström (Johan), Hakan Jahnberg (il cameriere), "Eduardinis"
(i nani), Birger Malmsten (l'uomo del bar), e in ruoli minori
Eduardo Gutierrez, Lissi Alando, Leif Forstenberg, Nils
Waldt, Biger Lesander, Eskil Kalling, K. A: Bergman, Olof
Widgren.
(5) Cfr A. Tagliapietra, La metafora dello specchio,
Feltrinelli, Milano 1991, cit. p. 59.
(6) Persona. Produzione, distribuzione: Svensk Filmindustri;
sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Sven Nykvist;
musica: Lars Johan Werle; montaggio: Ulla Ryghe; prima:
18/10/1966; origine: Svezia; durata '84. Interpreti: Bibi
Andersson (Alma), Liv Ullman (Elisabet Vogler), Margaretha
Krook (dottoressa), Gunnar Bjornstrand (signor Vogler),
Jorgen Lindstrom (bambino). Trama: Elisabet, caduta in uno
strano mutismo alla fine di una sua rappresentazione dell'Elettra,
viene confortata dalle cure di Alma, infermiera un po' "fuori
dalle righe". Il film è la storia del loro incontro
e della loro amicizia. Splendida rappresentazione del "riconoscimento"
nell'Altro.
(7) G. Deleuze, L'immagine-movimento, Ubulibri, Milano
2002, cit. pp. 111, 112.
(8) Ibidem, cit. p. 123.
(9) Viskningar och rop (Sussurri e grida). Produzione:
Cinematograph, Filminstitutet, Liv Ullmann, Ingrid Thulin,
Harriet Andersson, Sven Nykvist; distribuzione: Svensk Filmindustri;
sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Sven Nykvist;
musica: Chopin, Bach; montaggio: Siv Lundgren; prima: 5/3/1973
Spelgen; origine: Svezia; durata: '91. Interpreti: Liv Ullmann
(Maria), Ingrid Thulin (Karin), Harriet Andersson (Agnes),
Kari Sylwan (Anna), e in ruoli minori: Anders Ek, Inga Gill,
Erland Josephson, Henning Moritzen, Georg Ahlin, Linn Ullmann,
Rosanna Mariano, Lena Bergman. Trama: è la storia
di Agnes, malata terminale, e della sua sofferenza avvertita
unicamente da Anna. Karin e Maria, sorelle di Anna, scostanti
e infelici, assistono alla malattia di Agnes come spettatrici
inerti. Racconto di esperienze mutilate, il film risulta
essere un punto di arrivo dell'opera bergmaniana.
* Le immagini sono tratte dai
film:
Come in uno specchio
(Svezia 1961), Produzione Twentieth Century Fox Home Entertainment
1997; Luci d'inverno (Svezia 1962), Produzione Twentieth
Century Fox Home Entertainment 1996; Persona (Svezia
1966), Produzione Twentieth Century Fox Home Entertainment
1997;Sussurri e grida (Svezia 1972), Produzione Twentieth
Century Fox Home Entertainment 1997;
|