Il formalismo dell'etica
heideggeriana
Nella sua maggiore opera, Essere
e tempo, Heidegger ha più volte sottolineato che la sua analisi dell’esistenza umana è da pensare
come “esistenziale” e non come “esistentiva”.
Questa distinzione è fondamentale per comprendere la prospettiva
dell’autore: esistenziale è tutto ciò che riguarda gli aspetti
apriori dell’esistenza,
cioè tutto ciò che “precede” l’esperienza, e la rende possibile,
kantianamente; gli esistenziali
sono le strutture fondamentali dell’ “esserci” [1] , che rappresentano le condizioni di possibilità del rapporto
col mondo. Esitentivo è ciò che è riconducibile, invece, alla concretezza,
alla particolarità dell’esistenza; è ciò che è mutevole,
passibile di modifica da parte di ogni
esserci. Se quindi, la costituzionale progettualità
dell’esserci è tale da riguardare l’essenzialità stessa
di esso, nel senso che ne rappresenta un modo tipico
e apriori, tale da differenziarlo da ogni altro ente, il
contenuto che tale progettualità
assume (i progetti concreti che ognuno di noi decide di
intraprendere nella propria vita) è lasciato all’arbitrio
dei singoli esserci e non tocca la ricerca filosofica.
Proprio per questa distinzione, la riflessione sull’agire
fatta da Heidegger è immune da ogni prescrittivismo
o da ogni direttività contenutistica.
La sua analisi è un’analisi formale, nel senso che
si occupa delle forme dell’esistenza, dei modi di essere
dell’esserci, e non di cosa esso
fa concretamente. In quest’indagine egli contempla due prinicipali forme dell’esistere: autenticità e inautenticità.
“Formalismo” è una parola che assume nell’ambito quotidiano
ed extrafilosofico un’accezione negativa e, a volte, dispregiativa:
formale è ciò che ha a che fare con l’apparenza e non con
la “sostanza delle cose”, ciò che è convenzionale, conformistico,
o poco concreto. Nell’ambito filosofico il termine ha raggiunto
la massima diffusione con Kant,
la cui analisi dell’intelletto e della ragione umana, tesa
alla scoperta delle forme apriori
della conoscenza e dell’agire, delle loro modalità
tipiche, è stata contestata e tacciata, appunto, di formalismo,
dai successori, Fichte, Schelling, Hegel, con la motivazione
che tale approccio “parziale” al mondo rompesse la strutturale
unità del reale.
Nonostante l’opinione comune che il formalismo etico sia
qualcosa di estremamente dannoso per l’uomo e per l’etica,
la filosofia heideggeriana si situa proprio in questo ambito. Se così non
fosse il filosofo avrebbe compromesso
le premesse del suo discorso, cioè che l’esserci (l’uomo)
è essenzialmente libero in quanto possibilità: «l’esserci
è sempre la sua possibilità […]. Appunto perché l’esserci
è essenzialmente la sua possibilità, questo
ente può “scegliersi”, conquistarsi, oppure perdersi
e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo “apparentemente”.
Ma esso può aver perso se stesso
o non essersi ancora conquistato solo perché la sua essenza
comporta la possibilità dell’autenticità, dell’appropriazione
di sé». [2] Se il pensatore tedesco avesse “imposto” una serie di norme
o prescrizione rigide e concrete avrebbe messo in dubbio
il poter essere dell’uomo, annullandone lo spazio di movimento
all’interno di categorie ampie ma non rigide.
Il formalismo è una delle condizioni della attualità dell’etica heideggeriana,
e di ogni altra etica che si volesse proporre all’uomo contemporaneo,
vivente in una società incompatibile con una visione organicistica
della convivenza e con un’etica prescrittiva.
Di questo avviso anche S. Benso,
la quale sostiene che l’etica heideggeriana
«sembra porsi oltre la metafisica del soggetto, della volontà,
della ragione sia […] per le “categorie” etiche che propone,
sia per il suo modo di procedere – descrittivo e non normativo
-, sia per il rapporto che essa intrattiene con l’essere».
[3] Conferma l’ipotesi di una filosofia dell’agire pienamente
formale anche R. Schürmann: «una cosa è mostrare il disgregarsi di tutti i
fondamenti per rispondere alla domanda “che fare?”; altra
cosa è tracciare un programma di azione o di azioni. […]
Heidegger affronta il primo compito, lasciando agli altri
il secondo». [4] Compito di Heidegger è stato di creare un orizzonte possibile
per l’agire, cioè uno sfondo
ontologico entro il quale pensare e collocare l’agire;
secondo lo stesso autore, le condizioni ontologiche dell’agire
umano non erano mai state indagate, e lo sforzo di Essere
e tempo è stato quello di aver tracciato i contorni,
la forma, appunto, dell’agire, attraverso il richiamo
alla costituzione essenziale dell’esserci.
Etica come apertura e verità
A proposito della filosofia dell’agire di Heidegger si
è parlato di un’ “etica ontologica”
(S. Benso). Cercheremo ora di chiarire questo strano concetto.
L’uomo ha un primato rispetto agli altri enti, che
è quello di “aprire un mondo”, di rendere presente a se
stesso l’ente. Ma l’esserci apre sempre autenticamente,
cioè secondo le sue proprie possibilità, “un mondo”, oppure,
al contrario, può succedergli di chiuderlo? È il caso, questo,
della condizione quotidiana dell’esistenza, in cui accade
che l’esserci “dimentichi” il suo compito e la sua funzione,
la sua vocazione essenziale, l’ “apertura
all’essere”: «poiché l’esserci è essenzialmente
la sua apertura, in quanto in se stesso aperto apre e scopre,
esso è quindi essenzialmente “vero”. L’esserci è “nella
verità”. Questa affermazione ha un senso ontologico.
Essa non significa che l’esserci, onticamente, sia sempre e ogni volta insediato
“nell’intera verità”». [5]
In Heidegger, apertura è
sinonimo di verità. “Aprire” significa “illuminare”, “far
venire all’essere”. L’uomo è l’unico ente capace di verità,
in quanto capace di “illuminare” l’ente, farlo emergere tra
gli altri: l’ente è vero in quanto venuto all’essere, ma
abbisogna di apparire completamente alla luce; ciò è fatto
dall’uomo quando denota un oggetto, lo usa, lo ricorda,
lo percepisce, quando cioè ne è, in qualche modo, consapevole.
Un mondo senza esserci sarebbe un mondo “cieco”, privo di
orizzonte di comprensione.
È chiaro a questo punto che l’uomo deve ritrovare
il suo essere soprattutto nel senso di un’apertura autentica
alle cose e all’altro. In che modo ciò possa
avvenire è stato variamente discusso.
G. Masi ha sostenuto che «il senso
della verità risulta intimamente legato al comportamento
dell’uomo, al suo libero conformarsi all’essenza della verità
così come essa si manifesta già nell’apparire degli enti»
[6] ; la verità è, a detta dello stesso Heidegger, un esistenziale,
cioè un costituente essenziale dell’uomo. Ma, come tale,
in quanto possibilità di “scegliersi
o perdersi”, l’uomo può tradire questa sua essenziale “vocazione”
al vero; sta alla sua responsabilità e alla sua volontà
non tradire la sua essenza e agire veritativamente,
cioè “aprire l’ente” per quello che è: manifestazione
dell’essere.
L’albero che ho di fronte quando alzo lo sguardo al
di là della finestra è considerato autenticamente
non quando lo vedo soggettivisticamente
come “fonte di refrigerio”, o come “legna da ardere”, ma
quando lo comprendo per quello che è, lo apro nella sua
essenza, nella sua verità, e lo considero pura
manifestazione d’essere. Agire in maniera più vera,
più “giusta”, vuol dire agire in maniera più adeguata alla
propria costituzione essenziale (autenticità), vuol dire
aderire a un dover essere insito in noi stessi; vuol dire
agire eticamente.
Ancora più in là della tesi da noi appena sostenuta, si
spinge S. Benso, per la quale «l’etica
è solo un’apertura – forse la sola – all’ontologia
[non l’ontologia metafisica, oggettivante, ma l’esperienza
dell’essere], una specie di porta di comunicazione (ma non
di servizio) grazie a cui è possibile porsi in contatto
con l’essere. L’etica è dunque una sorta di
apriori […] tramite cui soltanto si realizza – ma senza garanzie
sul suo accadere – l’incontro [tra uomo ed essere]»
[7] . L’etica è ciò attraverso cui,
tramite la risposta alla chiamata dell’essere, «il Dasein
si apre all’essere. Non più come nell’etica metafisica, un sistema di valori, una prescrizione
di comportamenti, una serie di regole per raggiungere la
felicità. L’etica diventa il luogo in cui si
incontra l’essere». [8] L’agire etico è dunque la condizione primaria per fare esperienza
dell’essere; pensare l’essere significa farne “esperienza
pratica”, sentirne l’incontro “sulla propria pelle”. L’etica,
secondo la Benso, e il suo è un
punto di vista pienamente condivisibile, è la condizione
di realizzabilità dell’essenza pensante dell’uomo; l’essere
può essere pensato solo attraverso una sorta di “esercizio
al lasciar essere” l’ente, non solo quello non umano, ma
anche l’altro esserci, che esige la sua piena libertà, e
rigetta ogni tipo di reificazione da parte dell’altro. In
altre parole l’etica, l’ambito dell’agire concreto,
è la condizione primaria della verità,
dell’apparizione genuina dell’ente, proprio perché la verità
non è un ente (Platone), né un rapporto di adeguazione tra soggetto ed oggetto (Tommaso), ma un modo
d’essere.
Un punto di vista più rigidamente storiografico esprimono
U. Regina e E. Morandi.
Il primo afferma che «per Heidegger la riconduzione gerarchica
di tutte le virtù aristoteliche alla dimensione della felicità,
e di questa alla manifestazione dell’essere del
vivente nella piena realizzazione delle sue possibilità,
riveste una grande importanza. In tal modo egli consegue
l’obiettivo di far vedere che le virtù più alte sono in
Aristotele altrettanti modi di “scoprire” l’essere […].
Sia la phronesis che la sophia
indirizzano verso la radicalità del vero». [9] Ecco quindi un altro modo di spiegare cosa si
intende per “etica ontologica”; le virtù etiche aristoteliche
rappresentano modi di aprirsi alla verità, secondo l’interpretazione
del pensatore tedesco; e questa interpretazione rimanderebbe
indirettamente a un modo di concepire l’etica come svelamento
della verit
Dello stesso avviso è E. Morandi, per il quale «l’etica concerne l’essere contingente
dell’uomo che nel suo agire realizza la verità dell’esistenza:
il suo agire è portare a concretezza la verità della sua
esistenza […]; aristotelicamente fondamentale è quel movimento dell’essere
di cui è parte l’agire concreto. Qui risiede il fondamento
ontologico dell’etica […]; la verità dell’agire etico non
va dall’azione a un principio morale ma riguarda l’accadere di un movimento
dell’essere che nell’azione viene attuando qualcosa,
lo scopo, di mutevole e contingente» [10]. Questo rapporto tra Aristotele ed Heidegger conferma la
nostra interpretazione di un’etica considerata “medium”
essenziale dell’accadere della verità. La verità non risiederebbe
più nell’atto teoretico dell’adeguazione dell’intelletto
all’oggetto, ma nell’agire, nel comportamento capace di
restituire verità all’ente: io sono capace di verità, secondo
Heidegger, non quando formo nel mio intelletto un’idea teoretica
dell’albero (costituzione biologica, appartenenza generica,
composizione chimica, ecc.) corrispondente alla realtà,
perché questa corrispondenza presuppone un atto originario
dell’uomo che fa emergere l’albero tra gli altri enti, un
atto di apertura veritativa,
condizione per ogni valutazione, uso, percezione di esso.
La verità dell’albero non è la sua classificazione botanica
o la capacità di “fornire ombra” o “dare frutto”, quanto
semmai la sua appartenenza, come manifestazione chiaroscurale
, all’essere.
È nel comportamento autentico che si svela la verità come
apertura. È un apriori pratico
che rende possibile non solo la riflessione teorica, ma
anche originariamente la riflessione etica, cioè
la riflessione su tale apriori pratico, ed anche il rapporto con l’essere.
Etica, dover essere e poter
essere
Nella tradizione filosofica
occidentale l'etica appare quasi invariabilmente legata
al dover essere, cioè al richiamo ad uno stato, una
condizione, una norma, una prescrizione, che trascende l'essere,
cioè la concretezza attuale in cui l'uomo vive, almeno
da Platone in poi. Si sono usati tanti termini per determinare
tale contrapposizione: fatto e valore, materia e spirito,
finito ed infinito, immediatezza sensibile e ragione pratica.
È nostro compito, a questo punto determinare se e
in quale misura la filosofia di Heidegger può essere
ricondotta a questo paradigma dualistico.
In effetti Heidegger ha sempre manifestato, in tutte le
sue opere, un rigetto del concetto di dover essere, in quanto
esso è legato a una concezione metafisica dell'essere
(cioè oggettivante e oscurante); un secondo motivo,
non meno importante, del suo rifiuto è il fatto che
dover essere è stato spesso sinonimo di valore, concetto
che, in quanto derivato da un'idea soggettivistica dell'essere,
per cui ha importanza solo ciò che vale per l'uomo,
è stato sempre da lui duramente avversato.
Ma, nonostante l'apparenza, si può parlare, a proposito
della filosofia dell'agire di Heidegger, della presenza
di un qualche dover-essere? Non se ne può parlare
se con dover essere si intende ciò che trascende
l'essere, o ciò che è superiore ad esso; in
effetti, come ribadisce in più punti di Essere e
tempo, l'essere è il "trascendens" vero
e proprio, nel senso che esso trascende l'ente, essendone
l'orizzonte di apparizione, ciò che rende possibile
la sua manifestazione, e quindi non si può identificare
con esso. Nella filosofia heideggeriana niente è
al di là dell'essere, tutto è in esso compreso
e reso possibile da esso.
Abbiamo accennato nel precedente paragrafo ad una forma
assai particolare di "dover essere", quella contenuta
nella struttura stessa dell'esserci: il modo di essere autentico,
contrapposto a quello deiettivo ed obliante. In che modo
è da intendere tale struttura esistenziale? In effetti
l'esserci può decidere di scegliersi, di "conquistarsi",
o di perdersi. Ma, a che cosa è dovuto il termine
"conquistare se stesso", che Heidegger spesso
usa, riferendosi all'autenticità? Significa aderire
in pieno alla sua struttura profonda, che è quella
dell'apertura all'essere. Perché mai questo fatto
dovrebbe comportare un dover essere? Heidegger non lo dice
esplicitamente, ma il modo d'essere autentico è ciò
che si deve essere se si vuole fare esperienza dell'essere
e rispondere alla sua chiamata. Il dovere heideggeriano
non è assoluto, categorico, incondizionato, ma esso
è piegato all'esigenza dell'essere: se si vuole "essere
prescelti" dall'essere per una sua rivelazione, l'esserci
deve agire in modo autentico, cioè predisporsi alla
sua chiamata e cercare di comprenderla nel senso autentico,
evitando di fraintenderla come avviene "anzitutto e
per lo più", cioè nel modo d'essere quotidiano.
Si tratta di un dovere "condizionato", in tal
senso, ma allo stesso tempo assoluto, in quanto l'unico
tale da coinvolgere la struttura profonda dell'esserci,
cioè la sua essenziale apertura all'essere. Dal punto
di vista dell'essere , non c'è niente che mi costringa
ad agire in una determinata maniera: io sono libero di accettare
la chiamata per quello che è, oppure di ignorarla;
in quest'ultimo caso non mi "accade nulla di male".
La posta in gioco in realtà non è il mio personale
benessere o la realizzazione di una "felicità
suprema": è la verità del mio essere,
la verità del mio agire, la sua conformità
alla vocazione intima e indissolubile dell'uomo, che è
quella di rapportarsi all'essere. Ritroviamo ancora l'inseparabile
connubio tra etica e verità ci cui abbiamo parlato
nel paragrafo precedente.
Il dovere di cui si parla è allo stesso tempo "ontologico"
ed "etico". Ontologico perché richiama
alla verità del mio essere, e quindi anche al rapporto
con l'essere. Etico in quanto presuppone una scelta libera
ed una responsabilità nei confronti dell'essere,
perché, come il filosofo tedesco avrà a dire
dopo Essere e tempo, "l'essere ha bisogno dell'uomo",
e viceversa, nel senso che tra i due c'è una coappartenenza
indissolubile. Si tratta di un dovere che non chiede di
trascendere l'essere verso un meta ultraterrena o ideale,
ma al contrario esige di "rimanere nei limiti"
dell'essere, in maniera autentica, cioè di far si
che esso possa manifestarsi al di là della utilizzabilità
dell'ente.
Chiarita la natura etica ed ontologica del dovere di rispondere
alla chiamata, è ora necessario chiedersi cosa significhino
concretamente espressioni come "responsabilità
verso l'essere" o "rapporto con l'essere".
Agire eticamente significa avere rispetto e cura per ogni
manifestazione dell'essere, sia esso un ente o l'altro esserci;
significa essenzialmente lasciar essere l'altro nella sua
verità, per quello che è. Un ente, quando
è pensato nella sua verità, nella sua essenza,
è qualcosa di più di un semplice utensile,
di un mezzo per
; diventa esso stesso manifestazione
dell'essere, e, come tale, fonte di meditazione e reverenza
nei confronti di esso, pur non dimenticando la sua funzione
quotidiana. Solo così possiamo percepire il miracolo
dell'essere: che l'ente è. Tutto ciò è
espresso da Heidegger così: "la libertà
nei confronti di ciò che si manifesta nell'apertura
lascia che l'ente sia sempre quell'ente che è. La
libertà ora si scopre come lasciare-essere l'ente
[
]. Il senso che qui è necessario conferire
all'espressione: lasciar-essere l'ente, non si riferisce
al tralasciare e all'indifferenza, ma al suo contrario.
Lasciar-essere significa affidarsi all'ente [
] che
si manifesta" [11].
L’atteggiamento autentico nei confronti dell’ente
si manifesta quando viene a sospendersi la quotidiana familiarità
del mezzo, dovuta al suo non emergere nell’attività che
facciamo servendoci di esso, e
scopriamo in esso qualcosa di misterioso: «unicamente perché
il niente si svela nel fondo dell’essere esistenziale può
sorgere entro noi il senso della piena straneità
dell’essente; e soltanto se questa estraneità ci angustia,
l’essente sveglia e tira a sé lo stupore».
[12]
Lo stesso, con altre proporzioni, avviene in
riferimento al rapporto con l’altro esserci. A questo proposito
Heidegger ha sempre sostenuto in Essere e tempo la
distinzione tra modalità deiettiva e autentica dell’aver
cura, sebbene una commentatrice, I. Schuck,
abbia affermato in un suo scritto, secondo noi a torto,
che il rapporto inter-umano in Essere e tempo sia stato indagato esclusivamente nella sua modalità quotidiana,
perciò difettiva. [13] In effetti al modo del con-essere
difettivo, tipico della quotidianità, ossia «l’esser-l’uno-contro-l’altro»,
si affianca come possibilità l’ «esser-l’uno-per-l’altro»,
che accade quando ci si scopre coappartenenti
all’essere, e per questo legati da una relazione profonda,
ontologica.
La prima modalità è un modo d'essere dominatore,
sovrastante l'altrui libertà: l'altro è spesso
visto come fonte di utilità per le proprie opere
o addirittura come abbisognante del nostro intervento "correttivo":
in questo modo deiettivo dell'aver cura l'esserci si sostituisce
alla libertà dell'altro. L'aver cura autentico nei
confronti dell'altro consiste invece nel lasciar essere
l'altro per quello che essenzialmente è, cioè
libertà e possibilità di essere in diversi
modi.
Anche in questo aspetto del problema ritroviamo uno dei
punti cardini del pensiero della filosofia heideggeriana,
e cioè il concetto di apertura veritativa: l'atteggiamento
etico nei confronti dell'ente e dell'altro esserci è
quello che li scopre nella loro verità, nella loro
essenza. Compito dell'uomo è quindi aderire alla
sua verità, il che significa anche aderire all'altrui
verità e perciò alla verità dell'essere.
Un altro carattere essenziale
del pensiero del filosofo di Messkirch, è quello
dell'essenza "trascendente" dell'uomo.
Ecco il significato di trascendenza: "questo essere
"al di là e sopra" l'essente noi lo chiamiamo
trascendenza. Se l'essere esistenziale non trascendesse
[
], non potrebbe mai riferirsi all'essente, e però
neanche a se stesso" [14]; "l'oltrepassamento
verso il mondo è la libertà stessa. Quindi
la trascendenza non incontra l' "in-vista-di"
come un valore e un fine per se sussistenti; ma è
la libertà, e proprio nel suo esser libertà,
a proporre e a contrapporre a se stessa l' "in-vista-
di"" [15]. Trascendenza è sinonimo di libertà.
Nella modalità del Si (si deve, si dice, si pensa,
ossia nel modo difettivo e omologante della quotidianità)
l'esserci tende a perdere la sua radicale libertà
e a reificarsi similmente agli oggetti che incontra nel
mondo. Suo dovere primario è rinnovare la sua libertà
in ogni istante, tentare di uscire dal "gorgo"
dell'inautenticità.
Nella filosofia heideggeriana
dover essere e poter essere, paradossalmente,
coincidono. Abbiamo descritto infatti
il dover essere come adeguazione alla propria più intima
natura, la quale coincide appunto con il poter essere,
l’esistenza, la trascendenza, la progettualità.
Compito dell’uomo è esistere, esercitare la propria
libertà, nel senso più pregnante della parola, «nel senso
che la libertà dell’uomo lascia essere l’ente così come
è». [16] Il dovere coincide con il senso più profondo del potere:
potere, appunto, di liberare gli enti dal velo di utilizzabilità
che costantemente li avvolge. Dovere come poter essere,
esistere, come « “star-fuori”, “emergere” dalla mera fatticità dell’orizzonte ontico,
in cui gli enti opacamente sono, per porsi, all’interno
di questo orizzonte, come coscienza
dell’orizzonte stesso […] all’interno della non ascosità
in cui l’essere si presenta». [17] «In questo senso la libertà è la condizione della verità
perché espone alla non-ascosità dell’essere l’uomo che, in
quanto esposto, si presenta come esistenza».
[18] Facciamo nostre le parole di Galimberti.
Lo stesso, pressappoco, afferma N. Curcio:
«l’etica, che qui possiamo definire “originaria” si fonda
su ciò che regge e rende possibile il darsi dell’uomo come
animale politico: l’uomo pelei
(nel duplice significato del termine: “è”
e “si erge imponendosi”) in quanto posto fra le opposte
possibilità inconciliabili, le domina con la scelta. Ma
questa possibilità di farsi carico delle proprie possibilità
l’uomo ce l’ha sulla base del fatto che è colui che, collocato nel
mezzo dell’ente, si rapporta all’essere» [19]. L’etica originaria si fonda quindi sulla capacità dell’uomo
di scegliere tra opzioni inconciliabili (aprire l’essere
e ritrovarsi, oppure nascondere l’essere e perdersi nell’inautenticità)
e quindi sulla libertà, sul poter essere, che non
è inteso come semplice decidersi per un progetto particolare,
ma come, nella sua forma genuina, decisione per l’esistenza.
L’uomo è, come tale, capace di comportamento etico
in quanto capace di decidere ritrovandosi
o non scegliere, perdendosi nel Si.
F.Battaglia ha
invece contestato duramente la nozione heideggeriana
di libertà: «la libertà si rovescia in necessità»
[20] ; «siamo sul piano della necessità (si richiama l’essere,
si ascolta l’essere, si decide per l’essere, la coscienza
è comprensione dell’essere), escludendosi ogni ascesa o
rinascita morale che si appelli alla libertà vera, alla
genuina scelta, all’obbligazione e alla norma morale».
[21] Non si capisce, però, perché la centralità dell’essere debba
escludere la possibilità dell’agire libero dell’uomo. Avviene
proprio il contrario: l’essere ci ha dotato di libertà,
che, pur essendo limitata, permette all’uomo di emergere
tra gli enti. Inoltre il riferimento all’obbligazione e
alla norma morale è, perlomeno fuori luogo, nel senso che
sono proprio le obbligazioni e
le norme rigide, determinate contenutisticamente,
a limitare la libertà umana. L’appello dell’essere è un
appello libero, nel senso che non costringe, ma “richiama”,
e nel senso che prevede la possibilità che possa essere
scelto, oppure no.
Battaglia mostra un completo fraintendimento del
pensiero heideggeriano, quando
afferma che «vengono quindi meno, privi di
interesse, i problemi della conoscenza e della morale:
quel tanto d’uomo, o residuo d’uomo, che ne risulta, non
ha che da bearsi dell’essere […]». [22] Il problema è che, per “bearsi dell’essere”, l’uomo ha bisogno
di un continuo esercizio, di una continua attenzione, di
una costante predisposizione alla chiamata dell’essere;
e ha bisogno di una decisione radicale che “infranga” lo
scorrere tranquillo e rassicurante della sua esistenza,
per far si che acceda ad una dimensione “altra” (etica)
della realtà. Anche alla prima obiezione possiamo rispondere
che la domanda “che fare?” è una di quelle che, paradossalmente,
più interessa Heidegger, per il fatto
che essa è condizionata strutturalmente dalla conformazione
che l’essere storicamente assume.
Più adeguata appare l’opinione di G. Masi, il quale, facendo
riferimento a una espressione contenuta
ne L’essenza della verità ( «la libertà nei confronti
di ciò che si manifesta nell’apertura lascia che l’ente
sia sempre quell’ente che è» [23] ), mette in evidenza il fatto che il « “lasciar essere l’essere”
non è un atteggiamento che l’uomo, in assoluto, possa scegliere:
in quanto egli si trova già costituzionalmente fondato nell’apertura
dell’essere, ovvero nella verità che lo possiede più di
quanto sia da lui posseduta. Lo stesso è da ripetersi per
la non verità». [24] È necessario, per comprendere appieno ciò che lo studioso
vuole intendere, soffermarsi sull’espressione «in assoluto»;
se l’esserci potesse scegliere, in maniera assoluta,
di “lasciar essere l’ente”, egli lo farebbe di sua spontanea
iniziativa, “di punto in bianco”, di colpo, grazie a una lucida volontà proveniente interamente da se stesso.
Se così fosse perderebbe qualsiasi
senso il concetto di chiamata della coscienza, che,
come tale, proviene da un luogo che non è l’esserci (l’esserci
è solo un tramite): la chiamata proviene dall’essere, per
cui l’agire etico, autentico, ha necessariamente uno stimolo
esterno, è un movimento il cui inizio non è riconducibile
a se stesso, ma presuppone la presenza dell’altro.
Che l’esserci possa agire e decidere
assolutamente non è concepibile per Heidegger, non
è nello “stile” del suo pensiero, che è un pensiero d’ascolto
e di attesa, mai di iniziativa radicale. Ma che l’iniziativa
dell’essere escluda, come per Battaglia, qualsiasi libertà,
questo non è accettabile: la chiamata, una volta giuntaci
“dall’alto”, “dal di fuori” (o “dal di dentro”, dalla coscienza)
necessita di una risposta, risposta che è libera e non determinata,
nella misura in cui pone di fronte a due opzioni radicali
(autenticità o deiezione nella ripetizione) che dobbiamo
scegliere.
Etica, finitezza e ascolto
Molti
autori hanno scorto nella filosofia heideggeriana
un’etica “della finitezza” o della “tragicità”. È, quest’ultimo,
il caso di C.Angelino, il quale
ha addirittura intitolato un suo lavoro L’etica della
situazione tragica nel pensiero di Heidegger (in L’etica
della situazione, Guida Editore, Napoli, 1974). Lo scopo
fondamentale dello studioso è stato quello di mostrare che
«la figura dell’eroe tragico che il destino ha reso consapevole
della nullità di ogni “potere”
mondano del Dasein, che perciò stesso accetta imperturbabile i colpi della
fortuna costituisce il presupposto e insieme l’ideale concreto
che è alla base dell’analitica esistenziale heideggeriana».
[25] Il senso della tragicità è sicuramente una delle componenti
essenziali del pensiero heideggeriano:
l’uomo di fronte al suo destino di morte, da solo, isolato
nell’angoscia, percepisce tutta la tragicità dell’esistenza,
e tuttavia ha coraggio di “guardare in faccia” la morte,
ed anzi di portarla pienamente nella sua vita, essendo-per-la-morte.
Il non senso apparente dell’esistenza è superato da un atteggiamento
fermo, deciso e angosciato nei confronti della morte. La
tragicità dell’esistenza non è invece percepita dal Si,
il quale svia ogni accenno alla finitezza ed alla morte
verso una prospettiva rassicurante e coprente. Da qui «l’etica
heideggeriana può quindi legittimamente considerarsi un’etica
della situazione [che] […] si colloca al punto d’incontro
tra la dimensione trascendentale e la dimensione storica
dell’esistere umano [in cui] […] la certezza tragica della
morte, […] la perdita di senso che investe ogni cosa consueta,
lo rendono partecipe e cittadino di un mondo in cui [ci
si trova] accomunati e pacificati nell’invocazione di una
parola che illumini, per ognuno e per
tutti, il mistero del loro destino» [26] ; la situazione tragica, in cui si manifesta la mortalità
dell’esistenza, accomunerebbe tutti gli uomini in una “comunità
dei mortali”, in cui l’etica diviene un elemento fondamentale
di comunicazione autentica tra loro.
Queste considerazioni richiamano chiaramente il pensiero
di Leopardi: «Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce
/ gli occhi mortali incontra / al comun fato, e che con
franca lingua, / nulla al ver detraendo, / confessa il mal
che ci fu dato in sorte, / e il basso stato e frale. […]
Costei [la natura] chiama inimica; e incontro a questa /
congiunta esser pensando, / siccome è il vero, ed ordinata
in pria / l’umana compagnia, / tutti fra se confederati
estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor,
porgendo / valida e pronta ed aspettando aita / negli alterni
perigli e nelle angosce / della guerra comune» [27] . Ma se in Leopardi la tragicità dell’esistenza ha uno sbocco essenzialmente
etico-umanistico, in Heidegger, essa ha un senso
etico-ontologico, cioè «anziché precludere all’uomo
ogni senso dell’essere, lo rende libero e aperto ad esso».
[28] La tragicità dell’esistenza, pur passando per l’insensatezza dell’ente
nell’angoscia, dona senso al proprio rapporto con l’essere,
apre l’essere di un senso nuovo, sconosciuto dal modo di
essere quotidiano, per il quale essere è ciò che è utilizzabili
J.Grondin, come ci riferisce C.Resta, «riconosce in un’
“etica della finitezza” l’intento di fondo che attraversa
tutto il pensiero heideggeriano [J. Grodin, La persistence
e les ressaurces etiques de la finitude chez Heidegger,
“Revue de metaphysique et de moral”, n.3, 1988]» [29] ; come abbiamo già sottolineato in precedenza, il compito dell’uomo
è comprendere la sua radicale finitezza, così come la finitezza
degli enti, di modo che questi assumano una più elevata
dignità, in virtù del loro manifestarsi e appassire repentino.
Lo stesso vale per gli enti umani: comprendere pienamente
la loro finitezza significa capirne più profondamente la
natura ontologica, ma anche le esigenze, il dolore, le disillusioni;
proprio per questo la comprensione della mortalità ha una
rilevanza etica, in quanto spinge ad un agire a “misura
d’uomo e non di dio”, più consapevole, meno egocentrico,
più responsabile. La finitezza è ciò che pone un limite
alla tracotanza dell’uomo, alla sua superbia, al suo tentativo
di dominio sull’ente e sull’altro esserci; se non la si
comprende, si è capaci di qualsiasi azione, in quanto è
come se si agisse ritenendo di essere immortali o infallibili.
La finitezza è anche, leopardianamente, la condizione per
la comprensione della radicale coesistenza dei vari esserci,
del loro con-esserci: il dio non abbisogna di niente e di
nessuno, esso è chiuso in se stesso, autarchico, “causa
sui”; l’uomo al contrario è tale in quanto vivente strutturalmente
in mezzo ad altri uomini, in quanto ne condivide la tragicità
e la sofferenza.
Se il pessimismo leopardiano si stempera nell’affermazione
che di fronte al fato è compito dell’uomo unirsi agli altri,
diventare solidale con essi, perché il dolore, se condiviso,
è più accettabile, e anzi sembra che acquisti senso, come
fonte di amore nei confronti della debolezza umana e di
un agire etico, quello heideggeriano (ci si lasci
passare questa forzatura) si capovolge nel ritrovamento
di un senso perduto da secoli, il senso dell’essere; la
vita insensata è quella condotta in nome della pienezza
di noi stessi, della realizzazione quotidiana del sé, della
perdita del senso del “sacro”, cioè dell’essere, inteso
come eccedenza rispetto all’umano e al naturale,
del “commercio cieco” con gli enti. La vita acquista senso,
invece, nell’ottica della finitezza, per cui l’identità
soggettivistica dell’io s’indebolisce affinché possa invece
rafforzarsi il rimando all’altro, inteso in senso
estensivo (ente, esserci, essere).
C. Resta ha individuato nell’opera heideggeriana «il filo
conduttore di un’etica che, tuttavia, proprio per la sua
aspirazione post-metafisica, risulta a prima vista irriconoscibile,
[…] un’ “etica prima dell’etica”[…], un’etica dell’ascolto
e dell’impegno nella parola». [30] E proprio di questo aspetto dobbiamo parlare ora, dell’etica dell’ascolto,
strettamente connessa con la tematica della finitezza.
Scrive S.Benso: «la sospensione della pretesa alla signoria
equivale al consegnarsi alle dimensioni etiche – in quanto
lasciano essere – della debolezza e dell’impotenza. Tale
debolezza tuttavia risulta più potente che non la volontà
e la hybris di dominio[…]. Il non-dominio dell’uomo
sull’essere e sugli enti, a cui già Essere e tempo
alludeva, si fa esplicito nella Lettera sull’umanismo»
[31] ; ed ancora: «tali dimensioni sono un modo di abitare nel
mondo, forse il solo modo grazie a cui è possibile pensare
l’essere e oltrapassarne la dimenticanza, oltrepassando
così anche la metafisica. Esse sono etiche in quanto riguardano
l’ethos dell’uomo nella forma di un suo lasciar essere».
[32] Sono considerazioni di radicale importanza nell’economia della presente
indagine.
La finitezza è la condizione fondamentale e la ragione ultima
del “taglio” stesso dell’intera filosofia heideggeriana.
Solo attraverso un’autentica considerazione della finitezza
dell’esserci è possibile capire per quale motivo Heidegger
abbia insistito così a lungo e profondamente sul concetto
di appello e di chiamata. Non c’è ascolto né attesa senza
remissività, senza “debolezza”, senza negazione della tracotanza.
Secondo R. Schürmann, l’esistenza autentica «prefigura l’abbandono
(Gelassenheit) necessario al “pensare meditante”» [33] : è solo attraverso una particolare forma di abbandono che è possibile
ricevere genuinamente la chiamata.
La filosofia heideggeriana è una filosofia dell’ascolto,
in quanto all’azione dell’uomo è sempre presupposta la chiamata
dell’essere, l’intervento da un “altro luogo”; l’etica,
il modo di esistere che Heidegger propone non è mai, fichtianamente,
un porre se stesso, un’autoaffermazione radicale della propria
positività, un “afferrarsi e lanciarsi verso l’alto”, un’autodeterminazione
assoluta; è semmai attesa vigile, aspettazione, sospensione.
Per usare le parole di Musil ne L’uomo senza qualità,
essa è “passività attiva”, come quella del carcerato che
attende con attenzione ogni possibilità concreta di evadere
dalla prigione. Egli è consapevole che, da solo, con le
sue forze, non potrà mai riuscire nell’intento; attende
coscientemente un aiuto esterno. Le possibilità di evasione
sono le altrettante chiamate della coscienza: bisogna essere
pronti per aderirvi, per corrispondervi autenticamente,
altrimenti si corre il rischio di restare “imprigionati”
nel gorgo del Si. La “passività attiva” è un modo d’essere
a metà tra la veglia e la completa incoscienza: è “guardare
con la coda dell’occhio”, è un rilassamento consapevole.
Se non si fosse consapevoli della finitezza del proprio
essere e dei propri sforzi, tale discorso non avrebbe senso:
si potrebbe credere che basti “forza di volontà” per agire
autenticamente, senza bisogno di nessun aiuto esterno, “bastando
a se stessi”. Proprio la consapevolezza della morte che
incombe sulla nostra esistenza è il presupposto fondamentale
di questo modo d’essere di attesa e di ascolto. È, questo,
un modo d’essere raccolto, non in quanto ripiegato
su se stesso, ma piuttosto volto a raccogliere,
appunto, una possibile occasione di riscatto dalla routine
quotidiana.
Etica
ed Antifinalismo
Tutto
il pensiero heideggeriano è percorso da un filo conduttore
costante: l'avversione per ogni tipo di finalità.
L'etica non ha un fine o una meta superiore da conquistare;
non ha neppure un ideale regolativo a cui conformarsi; essa
si configura essenzialmente antifinalistica.
Su questo aspetto ha insistito soprattutto R.Schürmann,
per il quale "parlare della morte come della possibilità
più propria di ciascuno [
] significa già
introdurre un elemento di non-finalità nell'autenticità,
elemento assente nella descrizione della cura [
].
"Al di sopra della realtà sta la possibilità"
[
]. La possibilità e, di conseguenza, la potenzialità
non ricadono mai nelle coordinate dell'archè e del
telos" [34]. La morte, infatti, riconduce tutti i progetti
a un'unica dimensione, che è quella della impossibilità
della loro realizzazione definitiva: la morte è infatti
"la possibilità dell'impossibilità"
dell'esistenza.
Per mezzo della morte che incombe costantemente sulla nostra
esistenza tutti i progetti si fanno tra loro simili, cioè
votati al naufragio. Per questo la morte introduce un elemento
di non-finalità nella nostra esistenza: che senso
ha impegnarsi strenuamente in un fine, in una meta personale,
se sappiamo che questa è, per lo meno, temporanea,
caduca e instabile? Pervasa dalla morte, l'etica heideggiana
ha una configurazione, perciò, essenzialmente antifinalistica.
Che senso ha questa determinazione? Essa non significa certo
che ogni tipo di azione sia da accettare passivamente, in
quanto frutto di arbitrio. Significa che l'agire autentico
considera i progetti individuali per quello che sono, finiti
appunto, e che un eccessivo sforzo verso essi è assolutamente
ingiustificato; proprio questo atteggiamento spiega il "distacco"
o l' "abbandono" di cui Heidegger parla spesse
volte, a proposito delle condizioni per pensare autenticamente
l'essere, soprattutto dopo Essere e tempo. Quando io utilizzo
l'albero, ne ardo la legna, ne colgo il frutto, ne uso l'ombra,
lo faccio per un fine specifico, ed agisco in vista della
realizzazione di un bisogno personale: è questo l'ambito
del calcolo ("quanta legna posso ricavare, quanti frutti
posso cogliere?"), l'ambito della visione quotidiana
delle cose, determinata da una considerazione computativa
di esse. In quest'ambito della quotidianità non c'è
spazio né bisogno di un agire etico; si tratta di
un agire finalistico, costantemente diretto e affaccendato
alla realizzazione di uno scopo, di un'opera, di un progetto.
L'orizzonte dell'etica, intesa in senso specificamente heideggeriano,
si apre nel momento in cui la misurazione delle cose tace
improvvisamente, ed è sopraffatta dallo "stupore
di fronte all'ente": "unicamente perché
il niente si svela nel fondo dell'essere esistenziale può
sorgere entro noi il senso della piena straneità
dell'essente; e soltanto se questa straneità ci angustia,
l'essente sveglia e tira a sé lo stupore. E solo
dallo stupore - ossia dal rivelarsi del niente - sboccia
la domanda: perché?" [35]. Lo spazio dell'etica
si apre ogni qualvolta emerge negli "interstizi"
dell'ente il niente, cioè il non-ente, cioè
ciò che eccede l'ente, che lo trascende, ossia l'essere.
L'orizzonte dell'etica, della considerazione non finalistica
dell'ente, è quindi l'orizzonte stesso dell'essere.
Solo "mettendo tra parentesi" la considerazione
utilitaristica dell'ente, possiamo accedere a una sfera
ulteriore dell'agire, non più caratterizzata dalla
meccanicità, dalla routine, dal calcolo, dal "se
allora",
ma fondata sulla libertà più alta dell'uomo,
quella di poter entrare in rapporto con l'essere. L'orizzonte
dell'essere è etico in quanto coinvolge l'ethos dell'uomo,
il suo modo di essere nel mondo, la radicalità della
sua appartenenza, ma anche perché ad esso si accede
attraverso la risposta libera e responsabile dell'uomo alla
chiamata dell'essere stesso, attraverso la scelta dell'esistenza
autentica, costituita dalla possibilità di attuazione
piena delle proprie potenzialità più specificamente
umane.
L'ambito dell'etica, se coinvolge primariamente il nostro
rapporto con l'essere, non esclude il rapporto interpersonale
autentico, ma al contrario lo rinnova e lo "riqualifica":
"il giocare tutto in comune per una medesima causa
è determinato dall'esserci che ha afferrato se stesso
in proprio. Solo questo legame autentico rende possibile
la determinazione giusta della cosa in questione e rimette
gli altri alla propria libertà" [36]. Aprendoci
all'essere riscopriamo l'altro come fonte di verità,
intesa come apertura e svelamento, in quanto ogni esserci
è possibile "punto di convergenza" della
luce dell'essere; l'altro è testimone fondamentale
della finitezza e della tragicità dell'esistenza.
È tuttavia indubbio che il rapporto primario, per
Heidegger, rimane quello tra esserci ed essere, per il semplice
motivo che è questo che rende autenticamente possibile
quello tra esserci ed esserci, e tra esserci ed ente.
J.Tauminiaux prende in considerazione un altro aspetto del
pensiero di Heidegger, in riferimento alla sua interpretazione
della praxis aristotelica: "essa è un'attività
che, anziché rapportarsi ad un fine che le è
esteriore, include in sé il proprio fine[
].
Nell'attività della praxis, siamo continuamente quel
che siamo e quel che siamo stati [
]. Le cose stanno
diversamente nell'attività della poiesis: non siamo
contemporaneamente chi sta per costruire e chi ha già
costruito[
]. Il Dasein era noto anche dall'antichità
come azione autentica, come praxis" [37]. L'autore
francese conferma la nostra ipotesi: l'autenticità
(la praxis) non ha un fine esterno, come p.e. costruire
una casa (poiesis), ma è tale da rivolgersi al se
stesso più proprio; è un agire che non ha
nessun fine determinato, ma decide la realizzazione del
se stesso più autentico, cioè della vocazione
al silenzio insita nella nostra natura.
Heidegger vuole liberare l'agire dalla intenzionalità
tipica dell'etica occidentale, vuole andar oltre lo schema
della "ipoteticità dell'agire": "se
voglio quello, devo fare questo". L'agire heideggeriano
rimane senza intenzione: non è attraverso uno sforzo
di volontà che decidiamo di essere chiamati dall'essere.
È piuttosto attraverso un agire "libero"
da ogni commercio con gli enti, "genuino", relativamente
alle finalità particolari dell'esserci, che è
possibile "lasciar che l'essere ci scelga". Tocca
a noi renderci disponibili alla chiamata, attraverso un
distacco dalle faccende quotidiane, attraverso un agire
che non vuole nulla, non esige nulla, non chiede nulla;
solo mediante il recupero di una tale "innocenza"
nei confronti dell'ente, è possibile che l'ente stesso
sveli il suo segreto, che è anche il nostro: la radicale
coappartenenza di esso e di noi uomini all'essere.
[1]
Con
questo termine il filosofo tedesco intende denotare quell’ente,
l’uomo, presente a se stesso e capace di rendere presente
l’ente, capace perciò di aprire un orizzonte di verità
nell’essere. L’uomo ha quindi una posizione privilegiata
rispetto agli altri enti.
[2]
M.Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano,
1995, pg.65
[3] S.Benso, Con Heidegger.
Contro Heidegger. Suggestioni per un’etica ontologica,
“Filosofia e teologia”, Esi, Napoli, 1991, n.2, pg.241
[4]
R. Schürmann, Dai principi all’anarchia, Il Mulino,
Bologna, 1995, pg.475
[5]
M.Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano,
1995, pg.272
[6] G.Masi, Grande antologia filosofica(vol.25),
Marzorati, Milano, 1976, pg.691
[7] S.Benso, Con Heidegger.
Contro Heidegger. Suggestioni per un’etica ontologica,
“Filosofia e teologia”, Esi, Napoli, 1991, n.2, pg.230
[8] Ibidem, pg. 232
[9]
U.Regina, La virtù della
verità, “Con-tratto”, Il Poligrafico, Padova, anno
II, 1993, n.1-2, pg.149-150
[10]
E.Morandi, Per una ontologia dell’etica: da Heidegger
ad Aristotele, “Con-tratto”, Il Poligrafico, Padova,
anno II, 1993, n.1-2, pg.74
[11]
M.Heidegger, L’essenza della verità, La scuola,
Brescia, 1973, pg.22-23
[12]
M.Heidegger, Che cos’è la metafisica?, La nuova
Italia, Firenze, 1979, pg.33
[13] I.Schuck, Il rapporto
inter - umano in Essere e tempo di M.Heidegger,
“Fenomenologia e società”, Edizioni Piemme, Casale, 1988,
n.1
[14]
M.Heidegger, Che cos’è la metafisica?, La nuova
Italia, Firenze, 1979, pg.23
[15]
M.Heidegger, L’essenza del fondamento, UTET, Torino,
1969, pg. 666
[16] U.Galimberti, note a M.Heidegger, L’essenza
della verità, La scuola, Brescia, 1973, pg.27
[17] Ibidem, pg.25
[18] Ibidem, pg.27
[19] N.Curcio, Implicazioni
etiche ed ontologiche nella ricerca heideggeriana dell’essenza
dell’ uomo nell’ Antigone di Sofloche, “Verifiche”,
Uspi, Gallarate, 1989, n.1-2, pg.57
[20] F.Battaglia, Heidegger e la filosofia dei valori,
Il Mulino, Bologna,1967, pg.21
[21] Ibidem, pg.41
[22] Ibidem, pg.91
[23]
M.Heidegger, L’essenza della verità, La scuola,
Brescia, 1973, pg.22
[24] G.Masi, Grande antologia filosofica(vol.25),
Marzorati, Milano, 1976, pg.691
[25] C.Angelino, L’etica della situazione tragica nel
pensiero di Heidegger, in L’etica della situazione,
Guida Editore, Napoli, 1974, pg.271
[26] C.Angelino, L’etica della situazione tragica nel
pensiero di Heidegger, in L’etica della situazione,
Guida Editore, Napoli, 1974, pg.276
[27] G.Leopardi, La ginestra,
in Tutte le poesie e le prose, Newton & Compton
editori, Roma, 1997, pg. 203
[28]
C.Angelino, L’etica della situazione tragica nel pensiero
di Heidegger, in L’etica della situazione,
Guida Editore, Napoli, 1974, pg.269
[29]
C.Resta, L’accordo della parola, “Con-tratto”,
Il Poligrafico, Padova, anno II, 1993, n.1-2, pg. 116
[30]
C.Resta, L’accordo della parola, “Con-tratto”,
Il Poligrafico, Padova, anno II, 1993, n.1-2, pg. 118-9
[31]
S.Benso, Con Heidegger.
Contro Heidegger. Suggestioni per un’etica ontologica,
“Filosofia e teologia”, Esi, Napoli, 1991, n.2, pg.
237
[32]
S.Benso, Con Heidegger.
Contro Heidegger. Suggestioni per un’etica ontologica,
“Filosofia e teologia”, Esi, Napoli, 1991, n.2, pg.240-1
[33]
R. Schürmann, Dai principi all’anarchia, Il Mulino,
Bologna, 1995, pg.46
[34]
R. Schürmann, Dai principi all’anarchia, Il Mulino,
Bologna, 1995, pg.50
[35]
M.Heidegger, Che cos’è la metafisica?, La nuova
Italia, Firenze, 1979, pg.33
[36]
M.Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano,
1995,pg. 158
[37]
J.Taminiaux, Poiesis e praxis nell’ontologia fondamentale
di Heidegger, “Aut-aut”, La Nuova Italia, Firenze,
1988, n.223-4, pg. 121
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