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ANDREA PIRAS, "L'ETICA ORIGINARIA: il problema morale nella filosofia di M. Heidegger"

 

A. Piras, L'etica originaria: il problema morale nella filosofia di Martin Heidegger, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.1 Marzo-Giugno 2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_1/14.htm

 

Il formalismo dell'etica heideggeriana

Nella sua maggiore opera, Essere e tempo, Heidegger ha più volte sottolineato che la sua analisi dell’esistenza umana è da pensare come “esistenziale” e non come “esistentiva”. Questa distinzione è fondamentale per comprendere la prospettiva dell’autore: esistenziale è tutto ciò che riguarda gli aspetti apriori dell’esistenza, cioè tutto ciò che “precede” l’esperienza, e la  rende possibile, kantianamente; gli esistenziali sono le strutture fondamentali dell’ “esserci” [1] , che rappresentano le condizioni di possibilità del rapporto col mondo. Esitentivo è ciò che è riconducibile, invece, alla concretezza, alla particolarità dell’esistenza; è ciò che è mutevole, passibile di modifica da parte di ogni esserci. Se quindi, la costituzionale progettualità dell’esserci è tale da riguardare l’essenzialità stessa di esso, nel senso che ne rappresenta un modo tipico e apriori, tale da differenziarlo da ogni altro ente, il contenuto che tale progettualità assume (i progetti concreti che ognuno di noi decide di intraprendere nella propria vita) è lasciato all’arbitrio dei singoli esserci e non tocca la ricerca filosofica.
Proprio per questa distinzione, la riflessione sull’agire fatta da Heidegger è immune da ogni prescrittivismo o da ogni direttività contenutistica. La sua analisi è un’analisi  formale, nel senso che si occupa delle forme dell’esistenza, dei modi di essere dell’esserci, e non di cosa esso fa concretamente. In quest’indagine egli contempla due prinicipali forme dell’esistere: autenticità e inautenticità.
“Formalismo” è una parola che assume nell’ambito quotidiano ed extrafilosofico un’accezione negativa e, a volte, dispregiativa: formale è ciò che ha a che fare con l’apparenza e non con la “sostanza delle  cose”, ciò che è convenzionale, conformistico, o  poco concreto. Nell’ambito filosofico il termine ha raggiunto la massima diffusione con Kant, la cui analisi dell’intelletto e della ragione umana, tesa alla scoperta delle forme apriori della conoscenza e dell’agire, delle loro modalità tipiche, è stata contestata e tacciata, appunto, di formalismo, dai successori, Fichte, Schelling, Hegel, con la motivazione che tale approccio “parziale” al mondo rompesse la strutturale unità del reale.
Nonostante l’opinione comune che il formalismo etico sia qualcosa di estremamente dannoso per l’uomo e per l’etica, la filosofia heideggeriana si situa proprio in questo ambito. Se così non fosse il filosofo avrebbe compromesso le premesse del suo discorso, cioè che l’esserci (l’uomo) è essenzialmente libero in quanto possibilità: «l’esserci è sempre la sua possibilità […]. Appunto perché l’esserci è essenzialmente la sua possibilità, questo ente può “scegliersi”, conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo “apparentemente”. Ma esso può aver perso se stesso o non essersi ancora conquistato solo perché la sua essenza comporta la possibilità dell’autenticità, dell’appropriazione di sé». [2] Se il pensatore tedesco avesse “imposto” una serie di norme o prescrizione rigide e concrete avrebbe messo in dubbio il poter essere dell’uomo, annullandone lo spazio di movimento  all’interno di categorie ampie ma non rigide.
Il formalismo è una delle condizioni della attualità dell’etica heideggeriana, e di ogni altra etica che si volesse proporre all’uomo contemporaneo, vivente in una società incompatibile con una visione organicistica della convivenza e con un’etica prescrittiva.
Di questo avviso anche S. Benso, la quale sostiene che l’etica heideggeriana «sembra porsi oltre la metafisica del soggetto, della volontà, della ragione sia […] per le “categorie” etiche che propone, sia per il suo modo di procedere – descrittivo e non normativo -, sia per il rapporto che essa intrattiene con l’essere». [3] Conferma l’ipotesi di una filosofia dell’agire pienamente formale anche R. Schürmann: «una cosa è mostrare il disgregarsi di tutti i fondamenti per rispondere alla domanda “che fare?”; altra cosa è tracciare un programma di azione o di azioni. […] Heidegger affronta il primo compito, lasciando agli altri il secondo». [4] Compito di Heidegger è stato di creare un orizzonte possibile per l’agire, cioè uno sfondo ontologico entro il quale pensare e collocare l’agire; secondo lo stesso autore, le condizioni ontologiche dell’agire umano non erano mai state indagate, e lo sforzo di Essere e tempo è stato quello di aver tracciato i contorni, la forma, appunto, dell’agire, attraverso il richiamo alla costituzione essenziale dell’esserci.

Etica come apertura e verità

A proposito della filosofia dell’agire di Heidegger si è parlato di un’ “etica ontologica” (S. Benso). Cercheremo ora di chiarire questo strano concetto. L’uomo ha un primato rispetto agli altri enti, che è quello di “aprire un mondo”, di rendere presente a se stesso l’ente. Ma l’esserci apre sempre autenticamente, cioè secondo le sue proprie possibilità, “un mondo”, oppure, al contrario, può succedergli di chiuderlo? È il caso, questo, della condizione quotidiana dell’esistenza, in cui accade che l’esserci “dimentichi” il suo compito e la sua funzione, la sua vocazione essenziale, l’ “apertura all’essere”: «poiché l’esserci è  essenzialmente la sua apertura, in quanto in se stesso aperto apre e scopre, esso è quindi essenzialmente “vero”. L’esserci è “nella verità”. Questa affermazione ha un senso ontologico. Essa non significa che l’esserci, onticamente, sia sempre e ogni volta insediato “nell’intera verità”». [5]
In Heidegger, apertura è sinonimo di verità. “Aprire” significa “illuminare”, “far venire all’essere”. L’uomo è l’unico ente capace di verità, in quanto capace di “illuminare” l’ente, farlo emergere tra gli altri: l’ente è vero in quanto venuto all’essere, ma abbisogna di apparire completamente alla luce; ciò è fatto dall’uomo quando denota un oggetto, lo usa, lo ricorda, lo percepisce, quando cioè ne è, in qualche modo, consapevole. Un mondo senza esserci sarebbe un mondo “cieco”, privo di orizzonte di comprensione.
È chiaro a questo punto che l’uomo deve ritrovare il suo essere soprattutto nel senso di un’apertura autentica alle cose e all’altro. In che modo ciò possa avvenire è stato variamente discusso.
G. Masi ha sostenuto che «il senso della verità risulta intimamente legato al comportamento dell’uomo, al suo libero conformarsi all’essenza della verità  così come essa si manifesta già nell’apparire degli enti» [6] ; la verità è, a detta dello stesso Heidegger, un esistenziale, cioè un costituente essenziale dell’uomo. Ma, come tale, in quanto possibilità di “scegliersi o perdersi”, l’uomo può tradire questa sua essenziale “vocazione” al vero; sta alla sua responsabilità e alla sua volontà non tradire la sua essenza e agire veritativamente, cioè “aprire l’ente” per quello che è: manifestazione dell’essere.
L’albero che ho di fronte quando alzo lo sguardo al di là della finestra è considerato autenticamente non quando lo vedo soggettivisticamente come “fonte di refrigerio”, o come “legna da ardere”, ma quando lo comprendo per quello che è, lo apro nella sua essenza, nella sua verità, e lo considero pura manifestazione d’essere. Agire in maniera più vera, più “giusta”, vuol dire agire in maniera più adeguata alla propria costituzione essenziale (autenticità), vuol dire aderire a un  dover essere  insito in noi stessi; vuol dire agire eticamente.
Ancora più in là della tesi da noi appena sostenuta, si spinge S. Benso, per la quale «l’etica è solo un’apertura – forse la sola – all’ontologia [non l’ontologia metafisica, oggettivante, ma l’esperienza dell’essere], una specie di porta di comunicazione (ma non di servizio) grazie a cui è possibile porsi in contatto con l’essere. L’etica è dunque una sorta di apriori […] tramite cui soltanto si realizza – ma senza garanzie sul suo accadere – l’incontro [tra uomo ed essere]» [7] .  L’etica è ciò attraverso cui, tramite la risposta alla chiamata dell’essere, «il Dasein si apre all’essere. Non più come nell’etica metafisica, un sistema di valori, una prescrizione di comportamenti, una serie di regole per raggiungere la felicità. L’etica diventa il luogo in cui si incontra l’essere». [8] L’agire etico è dunque la condizione primaria per fare esperienza dell’essere; pensare l’essere significa farne “esperienza pratica”, sentirne l’incontro “sulla propria pelle”. L’etica, secondo la Benso, e il suo è un punto di vista pienamente condivisibile, è la condizione di realizzabilità dell’essenza pensante dell’uomo; l’essere può essere pensato solo attraverso una sorta di “esercizio al lasciar essere” l’ente, non solo quello non umano, ma anche l’altro esserci, che esige la sua piena libertà, e rigetta ogni tipo di reificazione da parte dell’altro. In altre parole l’etica, l’ambito dell’agire concreto, è la condizione primaria della verità, dell’apparizione genuina dell’ente, proprio perché la verità non è un ente (Platone), né un rapporto di adeguazione tra soggetto ed oggetto (Tommaso), ma un modo d’essere
Un punto di vista più rigidamente storiografico esprimono U. Regina e E. Morandi. Il primo afferma che «per Heidegger la riconduzione gerarchica di tutte le virtù aristoteliche alla dimensione della felicità, e di questa alla manifestazione dell’essere del vivente nella piena realizzazione delle sue possibilità, riveste una grande importanza. In tal modo egli consegue l’obiettivo di far vedere che le virtù più alte sono in Aristotele altrettanti modi di “scoprire” l’essere […]. Sia la phronesis che la sophia indirizzano verso la radicalità del vero». [9] Ecco quindi un altro modo di spiegare cosa si intende per “etica ontologica”; le virtù etiche aristoteliche rappresentano modi di aprirsi alla verità, secondo l’interpretazione del pensatore tedesco; e questa interpretazione rimanderebbe indirettamente a un modo di concepire l’etica come svelamento della verit
Dello stesso avviso è E. Morandi, per il quale «l’etica concerne l’essere contingente dell’uomo che nel suo agire realizza la verità dell’esistenza: il suo agire è portare a concretezza la verità della sua esistenza […]; aristotelicamente fondamentale è quel movimento dell’essere di cui è parte l’agire concreto. Qui risiede il fondamento ontologico dell’etica […]; la verità dell’agire etico non va dall’azione a un principio morale ma riguarda l’accadere di un movimento dell’essere che nell’azione viene attuando qualcosa, lo scopo, di mutevole e contingente» [10]. Questo rapporto tra Aristotele ed Heidegger conferma la nostra interpretazione di un’etica considerata “medium” essenziale dell’accadere della verità. La verità non risiederebbe più nell’atto teoretico dell’adeguazione dell’intelletto all’oggetto, ma nell’agire, nel comportamento capace di restituire verità all’ente: io sono capace di verità, secondo Heidegger, non quando formo nel mio intelletto un’idea teoretica dell’albero (costituzione biologica, appartenenza generica, composizione chimica, ecc.) corrispondente alla realtà, perché questa corrispondenza presuppone un atto originario dell’uomo che fa emergere l’albero tra gli altri enti, un atto di apertura veritativa, condizione per ogni valutazione, uso, percezione di esso. La verità dell’albero non è la sua classificazione botanica o la capacità di “fornire ombra” o “dare frutto”, quanto semmai la sua appartenenza, come manifestazione chiaroscurale , all’essere.
È nel comportamento autentico che si svela la verità come apertura. È un apriori pratico che rende possibile non solo la riflessione teorica, ma anche originariamente la riflessione etica, cioè la riflessione su tale apriori pratico, ed anche il rapporto con l’essere.

Etica, dover essere e poter essere

Nella tradizione filosofica occidentale l'etica appare quasi invariabilmente legata al dover essere, cioè al richiamo ad uno stato, una condizione, una norma, una prescrizione, che trascende l'essere, cioè la concretezza attuale in cui l'uomo vive, almeno da Platone in poi. Si sono usati tanti termini per determinare tale contrapposizione: fatto e valore, materia e spirito, finito ed infinito, immediatezza sensibile e ragione pratica. È nostro compito, a questo punto determinare se e in quale misura la filosofia di Heidegger può essere ricondotta a questo paradigma dualistico.
In effetti Heidegger ha sempre manifestato, in tutte le sue opere, un rigetto del concetto di dover essere, in quanto esso è legato a una concezione metafisica dell'essere (cioè oggettivante e oscurante); un secondo motivo, non meno importante, del suo rifiuto è il fatto che dover essere è stato spesso sinonimo di valore, concetto che, in quanto derivato da un'idea soggettivistica dell'essere, per cui ha importanza solo ciò che vale per l'uomo, è stato sempre da lui duramente avversato.
Ma, nonostante l'apparenza, si può parlare, a proposito della filosofia dell'agire di Heidegger, della presenza di un qualche dover-essere? Non se ne può parlare se con dover essere si intende ciò che trascende l'essere, o ciò che è superiore ad esso; in effetti, come ribadisce in più punti di Essere e tempo, l'essere è il "trascendens" vero e proprio, nel senso che esso trascende l'ente, essendone l'orizzonte di apparizione, ciò che rende possibile la sua manifestazione, e quindi non si può identificare con esso. Nella filosofia heideggeriana niente è al di là dell'essere, tutto è in esso compreso e reso possibile da esso.
Abbiamo accennato nel precedente paragrafo ad una forma assai particolare di "dover essere", quella contenuta nella struttura stessa dell'esserci: il modo di essere autentico, contrapposto a quello deiettivo ed obliante. In che modo è da intendere tale struttura esistenziale? In effetti l'esserci può decidere di scegliersi, di "conquistarsi", o di perdersi. Ma, a che cosa è dovuto il termine "conquistare se stesso", che Heidegger spesso usa, riferendosi all'autenticità? Significa aderire in pieno alla sua struttura profonda, che è quella dell'apertura all'essere. Perché mai questo fatto dovrebbe comportare un dover essere? Heidegger non lo dice esplicitamente, ma il modo d'essere autentico è ciò che si deve essere se si vuole fare esperienza dell'essere e rispondere alla sua chiamata. Il dovere heideggeriano non è assoluto, categorico, incondizionato, ma esso è piegato all'esigenza dell'essere: se si vuole "essere prescelti" dall'essere per una sua rivelazione, l'esserci deve agire in modo autentico, cioè predisporsi alla sua chiamata e cercare di comprenderla nel senso autentico, evitando di fraintenderla come avviene "anzitutto e per lo più", cioè nel modo d'essere quotidiano. Si tratta di un dovere "condizionato", in tal senso, ma allo stesso tempo assoluto, in quanto l'unico tale da coinvolgere la struttura profonda dell'esserci, cioè la sua essenziale apertura all'essere. Dal punto di vista dell'essere , non c'è niente che mi costringa ad agire in una determinata maniera: io sono libero di accettare la chiamata per quello che è, oppure di ignorarla; in quest'ultimo caso non mi "accade nulla di male". La posta in gioco in realtà non è il mio personale benessere o la realizzazione di una "felicità suprema": è la verità del mio essere, la verità del mio agire, la sua conformità alla vocazione intima e indissolubile dell'uomo, che è quella di rapportarsi all'essere. Ritroviamo ancora l'inseparabile connubio tra etica e verità ci cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente.
Il dovere di cui si parla è allo stesso tempo "ontologico" ed "etico". Ontologico perché richiama alla verità del mio essere, e quindi anche al rapporto con l'essere. Etico in quanto presuppone una scelta libera ed una responsabilità nei confronti dell'essere, perché, come il filosofo tedesco avrà a dire dopo Essere e tempo, "l'essere ha bisogno dell'uomo", e viceversa, nel senso che tra i due c'è una coappartenenza indissolubile. Si tratta di un dovere che non chiede di trascendere l'essere verso un meta ultraterrena o ideale, ma al contrario esige di "rimanere nei limiti" dell'essere, in maniera autentica, cioè di far si che esso possa manifestarsi al di là della utilizzabilità dell'ente.
Chiarita la natura etica ed ontologica del dovere di rispondere alla chiamata, è ora necessario chiedersi cosa significhino concretamente espressioni come "responsabilità verso l'essere" o "rapporto con l'essere". Agire eticamente significa avere rispetto e cura per ogni manifestazione dell'essere, sia esso un ente o l'altro esserci; significa essenzialmente lasciar essere l'altro nella sua verità, per quello che è. Un ente, quando è pensato nella sua verità, nella sua essenza, è qualcosa di più di un semplice utensile, di un mezzo per…; diventa esso stesso manifestazione dell'essere, e, come tale, fonte di meditazione e reverenza nei confronti di esso, pur non dimenticando la sua funzione quotidiana. Solo così possiamo percepire il miracolo dell'essere: che l'ente è. Tutto ciò è espresso da Heidegger così: "la libertà nei confronti di ciò che si manifesta nell'apertura lascia che l'ente sia sempre quell'ente che è. La libertà ora si scopre come lasciare-essere l'ente […]. Il senso che qui è necessario conferire all'espressione: lasciar-essere l'ente, non si riferisce al tralasciare e all'indifferenza, ma al suo contrario. Lasciar-essere significa affidarsi all'ente […] che si manifesta" [11].
L’atteggiamento autentico nei confronti dell’ente si manifesta quando viene a sospendersi la quotidiana familiarità del mezzo, dovuta al suo non emergere nell’attività che facciamo servendoci di esso, e scopriamo in esso qualcosa di misterioso: «unicamente perché il niente si svela nel fondo dell’essere esistenziale  può sorgere entro noi il senso della piena straneità dell’essente; e soltanto se questa estraneità ci angustia, l’essente sveglia  e tira a sé lo stupore». [12]
Lo stesso, con altre proporzioni, avviene in riferimento al rapporto con l’altro esserci. A questo proposito Heidegger ha sempre sostenuto in Essere e tempo la distinzione tra modalità deiettiva e autentica dell’aver cura, sebbene una commentatrice, I. Schuck, abbia affermato in un suo scritto, secondo noi a torto, che il rapporto inter-umano in Essere e tempo sia stato indagato esclusivamente nella sua modalità quotidiana, perciò difettiva. [13] In effetti al modo del con-essere difettivo, tipico della quotidianità, ossia «l’esser-l’uno-contro-l’altro», si affianca come possibilità l’ «esser-l’uno-per-l’altro», che accade quando ci si scopre coappartenenti all’essere, e per questo legati da una relazione profonda, ontologica.
La prima modalità è un modo d'essere dominatore, sovrastante l'altrui libertà: l'altro è spesso visto come fonte di utilità per le proprie opere o addirittura come abbisognante del nostro intervento "correttivo": in questo modo deiettivo dell'aver cura l'esserci si sostituisce alla libertà dell'altro. L'aver cura autentico nei confronti dell'altro consiste invece nel lasciar essere l'altro per quello che essenzialmente è, cioè libertà e possibilità di essere in diversi modi.
Anche in questo aspetto del problema ritroviamo uno dei punti cardini del pensiero della filosofia heideggeriana, e cioè il concetto di apertura veritativa: l'atteggiamento etico nei confronti dell'ente e dell'altro esserci è quello che li scopre nella loro verità, nella loro essenza. Compito dell'uomo è quindi aderire alla sua verità, il che significa anche aderire all'altrui verità e perciò alla verità dell'essere.

Un altro carattere essenziale del pensiero del filosofo di Messkirch, è quello dell'essenza "trascendente" dell'uomo.
Ecco il significato di trascendenza: "questo essere "al di là e sopra" l'essente noi lo chiamiamo trascendenza. Se l'essere esistenziale non trascendesse […], non potrebbe mai riferirsi all'essente, e però neanche a se stesso" [14]; "l'oltrepassamento verso il mondo è la libertà stessa. Quindi la trascendenza non incontra l' "in-vista-di" come un valore e un fine per se sussistenti; ma è la libertà, e proprio nel suo esser libertà, a proporre e a contrapporre a se stessa l' "in-vista- di"" [15]. Trascendenza è sinonimo di libertà.
Nella modalità del Si (si deve, si dice, si pensa, ossia nel modo difettivo e omologante della quotidianità) l'esserci tende a perdere la sua radicale libertà e a reificarsi similmente agli oggetti che incontra nel mondo. Suo dovere primario è rinnovare la sua libertà in ogni istante, tentare di uscire dal "gorgo" dell'inautenticità.
Nella filosofia heideggeriana dover essere e poter essere, paradossalmente, coincidono. Abbiamo descritto infatti il dover essere come adeguazione alla propria più intima natura, la quale coincide appunto con il poter essere, l’esistenza, la trascendenza, la progettualità. Compito dell’uomo è esistere, esercitare la propria libertà, nel senso più pregnante della parola, «nel senso che la libertà dell’uomo lascia essere l’ente così  come è». [16] Il dovere coincide con il senso più profondo del potere: potere, appunto, di liberare gli enti dal velo di utilizzabilità che costantemente li avvolge. Dovere come poter essere, esistere, come « “star-fuori”, “emergere” dalla mera fatticità dell’orizzonte ontico, in cui gli enti opacamente sono, per porsi, all’interno di questo orizzonte, come coscienza dell’orizzonte stesso […] all’interno della non ascosità in cui l’essere si presenta». [17] «In questo senso la libertà è la condizione della verità perché espone alla non-ascosità dell’essere l’uomo che, in quanto esposto, si presenta come esistenza». [18] Facciamo nostre le parole di Galimberti.
Lo stesso, pressappoco, afferma N. Curcio: «l’etica, che qui possiamo definire “originaria” si fonda su ciò che regge e rende possibile il darsi dell’uomo come animale politico: l’uomo pelei (nel duplice significato del termine: “è” e “si erge imponendosi”) in quanto posto fra le opposte possibilità inconciliabili, le domina con la scelta. Ma questa possibilità di farsi carico delle proprie possibilità l’uomo ce l’ha sulla base del fatto che è colui che, collocato nel mezzo dell’ente, si rapporta  all’essere» [19]. L’etica originaria si fonda quindi sulla capacità dell’uomo di scegliere tra opzioni inconciliabili (aprire l’essere e ritrovarsi, oppure nascondere l’essere e perdersi nell’inautenticità) e quindi sulla libertà, sul poter essere, che non è inteso come semplice decidersi per un progetto particolare, ma come, nella sua forma genuina, decisione per l’esistenza. L’uomo è, come tale, capace di comportamento etico in quanto capace di decidere ritrovandosi o non scegliere, perdendosi nel Si.
F.Battaglia ha invece contestato duramente la nozione heideggeriana di libertà: «la libertà si rovescia in necessità» [20] ; «siamo sul piano della necessità (si richiama l’essere, si ascolta l’essere, si decide per l’essere, la coscienza è comprensione dell’essere), escludendosi ogni ascesa o rinascita morale che si appelli alla libertà vera, alla genuina scelta, all’obbligazione e alla norma morale». [21] Non si capisce, però, perché la centralità dell’essere debba escludere la possibilità dell’agire libero dell’uomo. Avviene proprio il contrario: l’essere ci ha dotato di libertà, che, pur essendo limitata, permette all’uomo di emergere tra gli enti. Inoltre il riferimento all’obbligazione e alla norma morale è, perlomeno fuori luogo, nel senso che sono proprio le obbligazioni e le norme rigide, determinate contenutisticamente, a limitare la libertà umana. L’appello dell’essere è un appello libero, nel senso che non costringe, ma “richiama”, e nel senso che prevede la possibilità che possa essere scelto, oppure no.
Battaglia mostra un completo fraintendimento del pensiero heideggeriano, quando afferma che «vengono quindi meno, privi di interesse, i problemi della conoscenza e della morale: quel tanto d’uomo, o residuo d’uomo, che ne risulta, non ha che da bearsi dell’essere […]». [22] Il problema è che, per “bearsi dell’essere”, l’uomo ha bisogno di un continuo esercizio, di una continua attenzione, di una costante predisposizione alla chiamata dell’essere; e ha bisogno di una decisione radicale che “infranga” lo scorrere tranquillo e rassicurante della sua esistenza, per far si che acceda ad una dimensione “altra” (etica) della realtà. Anche alla prima obiezione possiamo rispondere che la domanda “che fare?” è una di quelle che, paradossalmente, più interessa Heidegger, per il fatto che essa è condizionata strutturalmente dalla conformazione che l’essere storicamente assume.
Più adeguata appare l’opinione di G. Masi, il quale, facendo riferimento a una espressione contenuta ne L’essenza della verità ( «la libertà nei confronti di ciò che si manifesta nell’apertura lascia che l’ente sia sempre quell’ente che è» [23] ), mette in evidenza il fatto che il « “lasciar essere l’essere” non è un atteggiamento che l’uomo, in assoluto, possa scegliere: in quanto egli si trova già costituzionalmente fondato nell’apertura dell’essere, ovvero nella verità che lo possiede più di quanto sia da lui posseduta. Lo stesso è da ripetersi per la non verità». [24] È necessario, per comprendere appieno ciò che lo studioso vuole intendere, soffermarsi sull’espressione «in assoluto»; se l’esserci potesse scegliere, in maniera assoluta,  di “lasciar essere l’ente”, egli lo farebbe di sua spontanea iniziativa, “di punto in bianco”, di colpo, grazie a una lucida volontà proveniente interamente da se stesso. Se così fosse perderebbe qualsiasi senso il concetto di chiamata della coscienza, che, come tale, proviene da un luogo che non è l’esserci (l’esserci è solo un tramite): la chiamata proviene dall’essere, per cui l’agire etico, autentico, ha necessariamente uno stimolo esterno, è un movimento il cui inizio non è riconducibile a se stesso, ma presuppone la presenza dell’altro. Che l’esserci possa agire e decidere assolutamente non è concepibile per Heidegger, non è nello “stile” del suo pensiero, che è un pensiero d’ascolto e di attesa, mai di iniziativa radicale. Ma che l’iniziativa dell’essere escluda, come per Battaglia, qualsiasi libertà, questo non è accettabile: la chiamata, una volta giuntaci “dall’alto”, “dal di fuori” (o “dal di dentro”, dalla coscienza) necessita di una risposta, risposta che è libera e non determinata, nella misura in cui pone di fronte a due opzioni radicali (autenticità o deiezione nella ripetizione) che dobbiamo scegliere.

Etica, finitezza e ascolto

Molti autori hanno scorto nella filosofia heideggeriana un’etica “della finitezza” o della “tragicità”. È, quest’ultimo, il caso di C.Angelino, il quale ha addirittura intitolato un suo lavoro L’etica della situazione tragica nel pensiero di Heidegger (in L’etica della situazione, Guida Editore, Napoli, 1974). Lo scopo fondamentale dello studioso è stato quello di mostrare che «la figura dell’eroe tragico che il destino ha reso consapevole della nullità di ogni “potere” mondano del Dasein, che perciò stesso accetta imperturbabile i colpi della fortuna costituisce il presupposto e insieme l’ideale concreto che è alla base dell’analitica esistenziale heideggeriana». [25] Il senso della tragicità è sicuramente una delle componenti essenziali del pensiero heideggeriano: l’uomo di fronte al suo destino di morte, da solo, isolato nell’angoscia, percepisce tutta la tragicità dell’esistenza, e tuttavia ha coraggio di “guardare in faccia” la morte, ed anzi di portarla pienamente nella sua vita, essendo-per-la-morte. Il non senso apparente dell’esistenza è superato da un atteggiamento fermo, deciso e angosciato nei confronti della morte. La tragicità dell’esistenza non è invece percepita dal Si, il quale svia ogni accenno alla finitezza ed alla morte verso una prospettiva rassicurante e coprente. Da qui «l’etica heideggeriana può quindi legittimamente considerarsi un’etica della situazione [che] […] si colloca al punto d’incontro tra la dimensione trascendentale e la dimensione storica dell’esistere umano [in cui] […] la certezza tragica della morte, […] la perdita di senso che investe ogni cosa consueta, lo rendono partecipe e cittadino di un mondo in cui [ci si trova] accomunati e pacificati nell’invocazione di una parola che illumini, per ognuno e per tutti, il mistero  del loro destino» [26] ; la situazione tragica, in cui si manifesta la mortalità dell’esistenza, accomunerebbe tutti gli uomini in una “comunità dei mortali”, in cui l’etica diviene un elemento fondamentale di comunicazione autentica tra loro.
Queste considerazioni richiamano chiaramente il pensiero di Leopardi: «Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato, e che con franca lingua, / nulla al ver detraendo, / confessa il mal che ci fu dato in sorte, / e il basso stato e frale. […] Costei [la natura] chiama inimica; e incontro a questa / congiunta esser pensando, / siccome è il vero, ed ordinata in pria / l’umana compagnia, / tutti fra se confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor, porgendo / valida e pronta ed aspettando aita / negli alterni perigli e nelle angosce / della guerra comune» [27] . Ma se in Leopardi la tragicità dell’esistenza ha uno sbocco essenzialmente etico-umanistico, in Heidegger, essa ha un senso etico-ontologico, cioè «anziché precludere all’uomo ogni senso dell’essere, lo rende libero e aperto ad esso». [28] La tragicità dell’esistenza, pur passando per l’insensatezza dell’ente nell’angoscia, dona senso al proprio rapporto con l’essere, apre l’essere di un senso nuovo, sconosciuto dal modo di essere quotidiano, per il quale essere è ciò che è utilizzabili
J.Grondin, come ci riferisce C.Resta, «riconosce in un’ “etica della finitezza” l’intento di fondo che attraversa tutto il pensiero heideggeriano [J. Grodin, La persistence e les ressaurces etiques de la finitude chez Heidegger, “Revue de metaphysique et de moral”, n.3, 1988]» [29] ; come abbiamo già sottolineato in precedenza, il compito dell’uomo è comprendere la sua radicale finitezza, così come la finitezza degli enti, di modo che questi assumano una più elevata dignità, in virtù del loro manifestarsi e appassire repentino. Lo stesso vale per gli enti umani: comprendere pienamente la loro finitezza significa capirne più profondamente la natura ontologica, ma anche le esigenze, il dolore, le disillusioni; proprio per questo la comprensione della mortalità ha una rilevanza etica, in quanto spinge ad un agire a “misura d’uomo e non di dio”, più consapevole, meno egocentrico, più responsabile. La finitezza è ciò che pone un limite alla tracotanza dell’uomo, alla sua superbia, al suo tentativo di dominio sull’ente e sull’altro esserci; se non la si comprende, si è capaci di qualsiasi azione, in quanto è come se si agisse ritenendo di essere immortali o infallibili. La finitezza è anche, leopardianamente, la condizione per la comprensione della radicale coesistenza dei vari esserci, del loro con-esserci: il dio non abbisogna di niente e di nessuno, esso è chiuso in se stesso, autarchico, “causa sui”; l’uomo al contrario è tale in quanto vivente strutturalmente in mezzo ad altri uomini, in quanto ne condivide la tragicità e la sofferenza.
Se il pessimismo leopardiano si stempera nell’affermazione che di fronte al fato è compito dell’uomo unirsi agli altri, diventare solidale con essi, perché il dolore, se condiviso, è più accettabile, e anzi sembra che acquisti senso, come fonte di amore nei confronti della debolezza umana e di un agire etico, quello heideggeriano (ci si lasci passare questa forzatura) si capovolge nel ritrovamento di un senso perduto da secoli, il senso dell’essere; la vita insensata è quella condotta in nome della pienezza di noi stessi, della realizzazione quotidiana del sé, della perdita del senso del “sacro”, cioè dell’essere, inteso come eccedenza rispetto all’umano e al naturale, del “commercio cieco” con gli enti. La vita acquista senso, invece, nell’ottica della finitezza, per cui l’identità soggettivistica dell’io s’indebolisce affinché possa invece rafforzarsi il rimando all’altro, inteso in senso estensivo (ente, esserci, essere).
C. Resta ha individuato nell’opera heideggeriana «il filo conduttore di un’etica che, tuttavia, proprio per la sua aspirazione post-metafisica, risulta a prima vista irriconoscibile, […] un’ “etica prima dell’etica”[…], un’etica dell’ascolto e dell’impegno nella parola». [30] E proprio di questo aspetto dobbiamo parlare ora, dell’etica dell’ascolto, strettamente connessa con la tematica della finitezza.
Scrive S.Benso: «la sospensione della pretesa alla signoria equivale al consegnarsi alle dimensioni etiche – in quanto lasciano essere – della debolezza e dell’impotenza. Tale debolezza tuttavia risulta più potente che non la volontà e la hybris di dominio[…]. Il non-dominio dell’uomo sull’essere e sugli enti, a cui già Essere e tempo alludeva, si fa esplicito nella Lettera sull’umanismo» [31] ; ed ancora: «tali dimensioni sono un modo di abitare nel mondo, forse il solo modo grazie a cui è possibile pensare l’essere e oltrapassarne la dimenticanza, oltrepassando così anche la metafisica. Esse sono etiche in quanto riguardano l’ethos dell’uomo nella forma di un suo lasciar essere». [32] Sono considerazioni di radicale importanza nell’economia della presente indagine.
La finitezza è la condizione fondamentale e la ragione ultima del “taglio” stesso dell’intera filosofia heideggeriana. Solo attraverso un’autentica considerazione della finitezza dell’esserci è possibile capire per quale motivo Heidegger abbia insistito così a lungo e profondamente sul concetto di appello e di chiamata. Non c’è ascolto né attesa senza remissività, senza “debolezza”, senza negazione della tracotanza. Secondo R. Schürmann, l’esistenza autentica «prefigura l’abbandono (Gelassenheit) necessario al “pensare meditante”» [33] : è solo attraverso una particolare forma di abbandono che è possibile ricevere genuinamente la chiamata.
La filosofia heideggeriana è una filosofia dell’ascolto, in quanto all’azione dell’uomo è sempre presupposta la chiamata dell’essere, l’intervento da un “altro luogo”; l’etica, il modo di esistere che Heidegger propone non è mai, fichtianamente, un porre se stesso, un’autoaffermazione radicale della propria positività, un “afferrarsi e lanciarsi verso l’alto”, un’autodeterminazione assoluta; è semmai attesa vigile, aspettazione, sospensione. Per usare le parole di Musil ne L’uomo senza qualità, essa è “passività attiva”, come quella del carcerato che attende con attenzione ogni possibilità concreta di evadere dalla prigione. Egli è consapevole che, da solo, con le sue forze, non potrà mai riuscire nell’intento; attende coscientemente un aiuto esterno. Le possibilità di evasione sono le altrettante chiamate della coscienza: bisogna essere pronti per aderirvi, per corrispondervi autenticamente, altrimenti si corre il rischio di restare “imprigionati” nel gorgo del Si. La “passività attiva” è un modo d’essere a metà tra la veglia e la completa incoscienza: è “guardare con la coda dell’occhio”, è un rilassamento consapevole.
Se non si fosse consapevoli della finitezza del proprio essere e dei propri sforzi, tale discorso non avrebbe senso: si potrebbe credere che basti “forza di volontà” per agire autenticamente, senza bisogno di nessun aiuto esterno, “bastando a se stessi”. Proprio la consapevolezza della morte che incombe sulla nostra esistenza è il presupposto fondamentale di questo modo d’essere di attesa e di ascolto. È, questo, un modo d’essere raccolto, non in quanto ripiegato su se stesso, ma piuttosto volto a raccogliere,  appunto, una possibile occasione di riscatto dalla routine quotidiana.

Etica ed Antifinalismo

Tutto il pensiero heideggeriano è percorso da un filo conduttore costante: l'avversione per ogni tipo di finalità. L'etica non ha un fine o una meta superiore da conquistare; non ha neppure un ideale regolativo a cui conformarsi; essa si configura essenzialmente antifinalistica.
Su questo aspetto ha insistito soprattutto R.Schürmann, per il quale "parlare della morte come della possibilità più propria di ciascuno […] significa già introdurre un elemento di non-finalità nell'autenticità, elemento assente nella descrizione della cura […]. "Al di sopra della realtà sta la possibilità" […]. La possibilità e, di conseguenza, la potenzialità non ricadono mai nelle coordinate dell'archè e del telos" [34]. La morte, infatti, riconduce tutti i progetti a un'unica dimensione, che è quella della impossibilità della loro realizzazione definitiva: la morte è infatti "la possibilità dell'impossibilità" dell'esistenza.
Per mezzo della morte che incombe costantemente sulla nostra esistenza tutti i progetti si fanno tra loro simili, cioè votati al naufragio. Per questo la morte introduce un elemento di non-finalità nella nostra esistenza: che senso ha impegnarsi strenuamente in un fine, in una meta personale, se sappiamo che questa è, per lo meno, temporanea, caduca e instabile? Pervasa dalla morte, l'etica heideggiana ha una configurazione, perciò, essenzialmente antifinalistica.
Che senso ha questa determinazione? Essa non significa certo che ogni tipo di azione sia da accettare passivamente, in quanto frutto di arbitrio. Significa che l'agire autentico considera i progetti individuali per quello che sono, finiti appunto, e che un eccessivo sforzo verso essi è assolutamente ingiustificato; proprio questo atteggiamento spiega il "distacco" o l' "abbandono" di cui Heidegger parla spesse volte, a proposito delle condizioni per pensare autenticamente l'essere, soprattutto dopo Essere e tempo. Quando io utilizzo l'albero, ne ardo la legna, ne colgo il frutto, ne uso l'ombra, lo faccio per un fine specifico, ed agisco in vista della realizzazione di un bisogno personale: è questo l'ambito del calcolo ("quanta legna posso ricavare, quanti frutti posso cogliere?"), l'ambito della visione quotidiana delle cose, determinata da una considerazione computativa di esse. In quest'ambito della quotidianità non c'è spazio né bisogno di un agire etico; si tratta di un agire finalistico, costantemente diretto e affaccendato alla realizzazione di uno scopo, di un'opera, di un progetto. L'orizzonte dell'etica, intesa in senso specificamente heideggeriano, si apre nel momento in cui la misurazione delle cose tace improvvisamente, ed è sopraffatta dallo "stupore di fronte all'ente": "unicamente perché il niente si svela nel fondo dell'essere esistenziale può sorgere entro noi il senso della piena straneità dell'essente; e soltanto se questa straneità ci angustia, l'essente sveglia e tira a sé lo stupore. E solo dallo stupore - ossia dal rivelarsi del niente - sboccia la domanda: perché?" [35]. Lo spazio dell'etica si apre ogni qualvolta emerge negli "interstizi" dell'ente il niente, cioè il non-ente, cioè ciò che eccede l'ente, che lo trascende, ossia l'essere. L'orizzonte dell'etica, della considerazione non finalistica dell'ente, è quindi l'orizzonte stesso dell'essere. Solo "mettendo tra parentesi" la considerazione utilitaristica dell'ente, possiamo accedere a una sfera ulteriore dell'agire, non più caratterizzata dalla meccanicità, dalla routine, dal calcolo, dal "se…allora", ma fondata sulla libertà più alta dell'uomo, quella di poter entrare in rapporto con l'essere. L'orizzonte dell'essere è etico in quanto coinvolge l'ethos dell'uomo, il suo modo di essere nel mondo, la radicalità della sua appartenenza, ma anche perché ad esso si accede attraverso la risposta libera e responsabile dell'uomo alla chiamata dell'essere stesso, attraverso la scelta dell'esistenza autentica, costituita dalla possibilità di attuazione piena delle proprie potenzialità più specificamente umane.
L'ambito dell'etica, se coinvolge primariamente il nostro rapporto con l'essere, non esclude il rapporto interpersonale autentico, ma al contrario lo rinnova e lo "riqualifica": "il giocare tutto in comune per una medesima causa è determinato dall'esserci che ha afferrato se stesso in proprio. Solo questo legame autentico rende possibile la determinazione giusta della cosa in questione e rimette gli altri alla propria libertà" [36]. Aprendoci all'essere riscopriamo l'altro come fonte di verità, intesa come apertura e svelamento, in quanto ogni esserci è possibile "punto di convergenza" della luce dell'essere; l'altro è testimone fondamentale della finitezza e della tragicità dell'esistenza. È tuttavia indubbio che il rapporto primario, per Heidegger, rimane quello tra esserci ed essere, per il semplice motivo che è questo che rende autenticamente possibile quello tra esserci ed esserci, e tra esserci ed ente.
J.Tauminiaux prende in considerazione un altro aspetto del pensiero di Heidegger, in riferimento alla sua interpretazione della praxis aristotelica: "essa è un'attività che, anziché rapportarsi ad un fine che le è esteriore, include in sé il proprio fine[…]. Nell'attività della praxis, siamo continuamente quel che siamo e quel che siamo stati […]. Le cose stanno diversamente nell'attività della poiesis: non siamo contemporaneamente chi sta per costruire e chi ha già costruito[…]. Il Dasein era noto anche dall'antichità come azione autentica, come praxis" [37]. L'autore francese conferma la nostra ipotesi: l'autenticità (la praxis) non ha un fine esterno, come p.e. costruire una casa (poiesis), ma è tale da rivolgersi al se stesso più proprio; è un agire che non ha nessun fine determinato, ma decide la realizzazione del se stesso più autentico, cioè della vocazione al silenzio insita nella nostra natura.
Heidegger vuole liberare l'agire dalla intenzionalità tipica dell'etica occidentale, vuole andar oltre lo schema della "ipoteticità dell'agire": "se voglio quello, devo fare questo". L'agire heideggeriano rimane senza intenzione: non è attraverso uno sforzo di volontà che decidiamo di essere chiamati dall'essere. È piuttosto attraverso un agire "libero" da ogni commercio con gli enti, "genuino", relativamente alle finalità particolari dell'esserci, che è possibile "lasciar che l'essere ci scelga". Tocca a noi renderci disponibili alla chiamata, attraverso un distacco dalle faccende quotidiane, attraverso un agire che non vuole nulla, non esige nulla, non chiede nulla; solo mediante il recupero di una tale "innocenza" nei confronti dell'ente, è possibile che l'ente stesso sveli il suo segreto, che è anche il nostro: la radicale coappartenenza di esso e di noi uomini all'essere.

 


[1] Con questo termine il filosofo tedesco intende denotare quell’ente, l’uomo, presente a se stesso e capace di rendere presente l’ente, capace perciò di aprire un orizzonte di verità nell’essere. L’uomo ha quindi una posizione privilegiata rispetto agli altri enti.
[2]
M.Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1995, pg.65
[3]
S.Benso, Con Heidegger. Contro Heidegger. Suggestioni per un’etica ontologica, “Filosofia e  teologia”, Esi, Napoli, 1991, n.2, pg.241
[4] R. Schürmann, Dai principi all’anarchia, Il Mulino, Bologna, 1995, pg.475
[5] M.Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1995, pg.272
[6] G.Masi, Grande antologia filosofica(vol.25), Marzorati, Milano, 1976, pg.691
[7]
S.Benso, Con Heidegger. Contro Heidegger. Suggestioni per un’etica ontologica, “Filosofia e  teologia”, Esi, Napoli, 1991, n.2, pg.230
[8] Ibidem, pg. 232
[9] U.Regina, La virtù della verità,  “Con-tratto”,  Il Poligrafico, Padova, anno II, 1993, n.1-2, pg.149-150
[10] E.Morandi, Per una ontologia dell’etica: da Heidegger ad Aristotele, “Con-tratto”, Il Poligrafico, Padova, anno II, 1993, n.1-2, pg.74
[11] M.Heidegger, L’essenza della verità, La scuola, Brescia, 1973, pg.22-23
[12] M.Heidegger, Che cos’è la metafisica?, La nuova Italia, Firenze, 1979, pg.33
[13] I.Schuck, Il rapporto inter - umano in Essere e tempo  di M.Heidegger, “Fenomenologia e società”, Edizioni Piemme, Casale, 1988, n.1
[14] M.Heidegger, Che cos’è la metafisica?, La nuova Italia, Firenze, 1979, pg.23
[15] M.Heidegger, L’essenza del fondamento, UTET, Torino, 1969, pg. 666
[16] U.Galimberti, note a M.Heidegger, L’essenza della verità, La scuola, Brescia, 1973, pg.27
[17] Ibidem, pg.25
[18] Ibidem, pg.27
[19]
N.Curcio, Implicazioni etiche ed ontologiche nella ricerca heideggeriana dell’essenza dell’ uomo nell’  Antigone di Sofloche, “Verifiche”, Uspi, Gallarate, 1989, n.1-2, pg.57
[20] F.Battaglia, Heidegger e la filosofia dei valori, Il Mulino, Bologna,1967, pg.21
[21] Ibidem, pg.41
[22] Ibidem, pg.91
[23] M.Heidegger, L’essenza della verità, La scuola, Brescia, 1973, pg.22
[24] G.Masi, Grande antologia filosofica(vol.25), Marzorati, Milano, 1976, pg.691
[25] C.Angelino, L’etica della situazione tragica nel pensiero di Heidegger, in L’etica della situazione, Guida Editore, Napoli, 1974, pg.271
[26] C.Angelino, L’etica della situazione tragica nel pensiero di Heidegger, in L’etica della situazione, Guida Editore, Napoli, 1974, pg.276
[27] G.Leopardi, La ginestra, in Tutte le poesie e le prose,  Newton & Compton editori, Roma, 1997, pg. 203
[28] C.Angelino, L’etica della situazione tragica nel pensiero di Heidegger, in L’etica della situazione, Guida Editore, Napoli, 1974, pg.269
[29] C.Resta, L’accordo della parola, “Con-tratto”, Il Poligrafico, Padova, anno II, 1993, n.1-2, pg. 116
[30] C.Resta, L’accordo della parola, “Con-tratto”, Il Poligrafico, Padova, anno II, 1993, n.1-2, pg. 118-9
[31] S.Benso, Con Heidegger. Contro Heidegger. Suggestioni per un’etica ontologica, “Filosofia e  teologia”, Esi, Napoli, 1991, n.2, pg. 237
[32] S.Benso, Con Heidegger. Contro Heidegger. Suggestioni per un’etica ontologica, “Filosofia e  teologia”, Esi, Napoli, 1991, n.2, pg.240-1
[33] R. Schürmann, Dai principi all’anarchia, Il Mulino, Bologna, 1995, pg.46
[34] R. Schürmann, Dai principi all’anarchia, Il Mulino, Bologna, 1995, pg.50
[35] M.Heidegger, Che cos’è la metafisica?, La nuova Italia, Firenze, 1979, pg.33
[36] M.Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1995,pg. 158
[37] J.Taminiaux, Poiesis e praxis nell’ontologia fondamentale di Heidegger, “Aut-aut”, La Nuova Italia, Firenze, 1988, n.223-4, pg. 121