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MARTINO CAMBULA, "PROSPETTIVE DI "LETTURA" DEL TRACTATUS LOGICO-PHILOSOPHICUS DI WITTGENSTEIN: ANNOTAZIONI RAPSODICHE"

 

M. Cambula, Prospettive di "lettura" del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein: annotazioni rapsodiche, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.1 Marzo-Giugno 2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_1/3.htm

 

Continua dal numero precedente (http://www.giornalediconfine.net/n_3/art_2.htm)
la riflessione sull'opera filosofica di Wittgenstein, intessuta di paradossi. Che cosa c'è dietro certe formule dense del Tractatus, di gusto e di sapore ontologico, a tratti perfino parmenideo? C'è una nostalgia o malinconia metafisica, o una sommersa teoria dell'essere?

Che cosa c'è dietro certe formule dense del Tractatus, di gusto e di sapore ontologico, a tratti perfino parmenideo? C'è una nostalgia o malinconia metafisica, o una sommersa teoria dell'essere?
Popper è sprezzante nei confronti della filosofia linguistica del Tractatus (la parte centrale) ma è quasi affascinato e sorpreso dall'interesse che suscita il primo blocco di proposizioni dedicata ad una (implicita?) ontologia del mondo.
Anche il più noto studioso francese del Tractatus - come si ricorderà - Bouveresse, era convinto che esso " è un'opera di metafisica dogmatica ". E per chiudere questa minima rassegna delle opinioni di questi interpreti, ai quali aggiungo la mia, ricorderò una valutazione riassuntiva delò più aggiornato (forse) biografo di Wittgenstein, il professore viennese Peter Kampits: " Wittgenstein aveva molto da rimproverare alla metafisica tradizionale, contro la quale si scagliava anche il Circolo di Vienna. E questo per motivi che erano connessi con le componenti critico linguistiche del suo trattato. In fondo egli non aveva altro da dire, contro la metafisica tradizionale, se non definirla una ciancia e raccomandare, come terapia,il silenzio. (…) Io credo [però] che ogni idea filosofica abbia bisogno di uno sfondo metafisico. E questo sfondo io lo vedo anche in Wittgenstein. Nella sua concezione totale del mondo ci sono decisivi elementi metafisici. Nei suoi primi diari, per esempio, c'è un passo molto importante, nel quale egli dice che scandagliare la parola o il linguaggio significa anche scandagliare l'essenza del mondo. E questa è metafisica "[1] .
Effettivamente ci sono buone ragioni, filosoficamente fondate, di leggere anche la parte logica, centrale, del Tractatus, come sospesa e,forse, istituita su una intuizione o su un'idea metafisica di fondo.
Quando Wittgenstein articola in molte direzioni le sue analisi logico linguistiche, lo fa utilizzando la nozione di "forma logica". Ora, la "forma logica" è il punto di mediazione e d'incontro tra l'essenza del linguaggio e l'essenza della realtà.
La "forma logica" svolge nel Tractatus quella funzione connettiva tra realtà e pensiero che Kant aveva affidato nella sua Critica della ragion pura agli schemi trascendentali, in particolare alle anologie e alle anticipazioni dell'esperienza (pre) disegnate nelle forme dello spazio e del tempo.
Anche la soluzione di Kant è uno dei modi di superare il dualismo tra mondo e pensiero; che è uno dei nodi cruciali che il pensiero occidentale, amante delle distinzioni e delle differenze, si è ritrovato e si ritroverà sempre a dover, in qualche modo sciogliere.
La realtà, da una parte, e il pensiero e il linguaggio, dall'altra, sono conciliabili in un rapporto di senso, di corrispondenza e di verità, solo sulla base di una somiglianza reciproca che la filosofia antica aveva a tal punto accentuato fino all'identità del logos ( Parmenide, fr. 6, in Dieels- Kranz, 1969, 28 B 6).
Wittgenstein adotta, per spiegare il rapporto biunivoco tra realtà e pensiero-linguaggio, il criterio dell'isomorfismo: entrambi presentano la medesima forma logica.
Sulla "forma logica" gli studiosi hanno scritto molto, perfino più del dovuto. Credo sia necessario riportare le interpretazioni alla sobrietà del testo di Wittgenstein. Anche perché la prima qualità "logica", appunto, della forma logica è che essa si "mostra", ma non si dimostra (o si deduce), ne di essa si può parlare in proposizioni dotate di senso.
Sarebbe possibile parlarne solo nell'ipotesi irreale che noi potessimo uscire, per un momento almeno, dall'ambito del linguaggio, situarci fuori, magari in una ipotetica postazione iperuranica e da essa potessimo osservare come oggetti materiali (fonici o grafici) le proposizioni o le rappresentazioni mediante altre proposizioni. Sarebbe come se l'occhio si allontanasse da se stesso per porsi al centro del proprio campo visivo.
Ma ecco i testi di Wittgenstein:
" La proposizione può rappresentare la realtà tutta. (…) Ma non può rappresentare ciò che, con la realtà, essa deve avere in comune per poterla rappresentare - la forma logica. (…) La proposizione non può rappresentare la forma logica; questa si rispecchia in quella. Ciò, che nel linguaggio rispecchia, il linguaggio non può rappresentare. Ciò che nel linguaggio esprime sé, noi non possiamo esprimere mediante il linguaggio. La proposizione mostra la forma logica della realtà " (4.12).
Per un invito degli studiosi (giovani) alla filologia in funzione della scoperta del significato più aderente alla intentio auctoris, mi permetto di riportare in originale qualcuna delle proposizioni appena citate o evocate: 4.12 " Der Satz Kann die gesamta Wirklichkeit darstellen,aber er Rann nicht ads darstellen, was er mit der wirkilichkeit gamein haben muß , um sie darstellen zu können - die logische form. (…) Um die logische form darstellen zu können, müssten wir uns mit dem satz außerhalb der welt. 4.121. Der satz kann die logische form nicht darstellen, sie spiegelt sich in ihm. Was sich in der Sprache spiegelt, Kann sie nicht darstellen. Was sich in der Sprache ausdrückt, Können wir nicht durch sie ausdrücken. Der Satz zeigt di logische form der Wirkilichkeit. Er weist sie auf "[2] .
La forma logica è il presupposto assoluto e imprescindibile del linguaggio sensato, cioè delle proposizioni che parlano del mondo e che ci forniscono informazioni su ciò che accade nella realtà. Essa non può configurarsi e trasformarsi in oggetto di informazione perché è essa stessa l' atto dell'informazione, l'atto segnico-iconico dell'informazione.
Dunque si mostra come atto, ma non può essere detta come oggetto o come fatto, né atomico, né molecolare. Essa deve precedere il ( o essere presupposta al ) fatto, per poterlo rendere tale, cioè contenuto, detto e espresso o descritto, di una proposizione.
Questo vuol dire Wittgenstein qualificando la forma logica come "trascendentale": " la forma logica è trascendentale ". E lo è proprio nel più genuini senso kantiano del termine. La forma logica, ossia la struttura dinamica del pensiero e del linguaggio, il loro disporsi in un ordine operativo, il loro potersi articolare in modelli rappresentativi, sono l'elemento a priori senza il quale le proposizioni non possono raffigurare la realtà.
Ecco come un attento studioso tedesco di Wittgenstein sintetizza questa nozione " apiretica" della forma logica e della sua funzione nell'atto conoscitivo, evocando sullo sfondo la proposizione 6.13 del Tractatus : " possiamo applicare qui, ciò che Wittgenstein dice in altri passi sulla logica come totalità, e cioè che essa è trascendentale. Anche la forma logica è trascendentale. Essa è la condizione della possibilità che le proposizioni raffigurino la realtà (Sie ist die Bedingung der Möglichkeit dafür, daß Sätze die Wirklichkeit abbilden Könne). Questa condizione di possibilità ( dargestellt) essa stessa, afferma Wittgenstein " [3].
Sulla metafora dello " specchio", che in alcuni dei testi citati si affaccia in forma verbale ( spiegelt sich, prop. 4.121) lo studio analitico va condotto a parte, con molta acribia filologica. Anche perché proprio la metafora dello specchio potrebbe aprire un' altra prospettiva di apprendimento della nozione centrale ( nel Tractatus ) di Abbildung ( raffigurazione ) nei suoi rapporti semantici con Darstellung ( rappresentazione ? O ricostruzione ? O modello ? ) E col retrostante contesto di questo vocabolo nella teoria fisica di Hertz e di Helmholz.
Qui è sufficiente condensare provvisoriamente il significato generale della metafora dello specchio, rinviando a noti studiosi per ben altri approfondimenti, anche al di là di Wittgenstein: Severino, Blumemberg , Bodei, Rorty, Valent, Tagliapietra e tanti altri.
Nella proposizione 6.13 Wittgenstein afferma in maniera perentoria: " Die Logik ist Reine Lehre, sondern ein Spiegelbild der Welt. Die Logik ist transzendental ".
Dunque: 1) Nè la logica, nè la filosofia ( = critica del linguaggio, della totalità delle proposizioni) sono dottrina: non vertono su una parte della realtà da indagare - per così dire - in proprio; 2) la logica è l'immagine speculare del mondo; cioè: il mondo è a noi conosciuto solo in quanto lo vediamo riflesso, riprodotto, ricostruito, ridisegnato, riconfigurato dentro le forme del pensiero e del linguaggio, come dentro il riquadro o la superficie riflettente dello specchio.
Qual è il senso logico immediato della metafora, il senso che ci possa aiutare a comprendere la relazione reciproca tra linguaggio ( pensiero ) e mondo ( essere ) ?
Il senso è che : il linguaggio, come lo specchio, ci restituisce la forma delle cose, non l'essenza profonda. Nella prospettiva dello specchio l'essenza non è raffigurata ; essa è mostrata , cioè è implicita come condizione di ciò che è raffigurato.
Dunque: il linguaggio, come lo specchio, è un gioco delle luci che si incrociano e si rinviano l'una all'altra, fino a fondersi nella sintesi di una rappresentazione quasi pittorica dei fatti, delle cose, degli oggetti semplici. Come i numeri, che disposti nella progressività della loro serie, si implicano tutti reciprocamente e mostrano o esibiscono la loro possibilità operativa o rappresentativa di fatti
( ad es. : questi sono due fiori) nella loro forma logica, cioè in quella struttura comune che ogni numero o ogni figura geometrica ha con la cosa che rappresenta o di cui parla.
Si evoca, così, Pitagora? O alcune suggestioni matematico-teologiche legate a una non-impossibile natura "iconica" dei simboli numerici nei confronti della natura e indirettamente del senso divino, collocato fuori della natura ? Questa digressione, se di digressione si tratta, ci porta comunque, sull'altro versante del Tractatus, cioè sul versante etico, che per Wittgenstein era l'unico importante anche se non suscettibile di essere conosciuto e detto dal linguaggio.
La proposizione 6.371 del Tractatus sembra svolgere due funzioni ben precise: da una parte chiude il blocco centrale di proposizioni e di calcoli preposizionali rapportati alla possibilità di raffigurare la realtà; dall'altra, apre la parte del Tractatus che fa emergere alla ribalta del testo quelle intenzionalità segrete che, a detta di Wittgenstein e di molti suoi interpreti, attraversano, come una falda acquifera cristallina, il sottosuolo del Tractatus .
Ecco il testo della proposizione, abbastanza nota tra gli studiosi: " Tutta la moderna concezione del mondo si fonda sull'illusione che le cosiddette leggi naturali siano le spiegazioni dei fenomeni naturali " ( prop. 6.371 ).
Qui Wittgenstein non vuole ripudiare la sua concezione del linguaggio e della conoscenza come esaustivamente costitutivi dal sistema delle scienze naturali. La critica al principio di causalità ( ogni evento x è causato da un evento y , e così via , retrocedendo all'infinito ), che delle scienze naturali è il principio cardine, mira a devastare l'illusione scientista che di ogni determinato evento noi siamo in grado di scoprire l'unica e possibile causa che lo ha prodotto. Ogni evento potrebbe essere ricondotto a una pluralità di cause ( ancora sconosciute) .
In secondo luogo, Wittgenstein vuole dimostrare l'infondatezza della tesi che anche le azioni umane siano concepibili esclusivamente come una serie di fatti o di eventi causalmente connessi secondo un legame di necessità. Se questa tesi fosse vera, l'uomo sarebbe uno della miriade di fatti della natura, l'uno accanto all'altro, tutti ugualmente privi di valore.
Per le scienze descrittive ed esplicative - dice Wittgenstein - " (…) Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v'è in esso alcun valore - né , se vi fosse, sarebbe un valore " (prop. 6.41). Ma proprio nell'annotare in termini così perentori l'appartenenza dell'uomo al mondo della natura, egli è convinto che tra tutti gli enti ( i fatti?) che inabitato il mondo, c'è uno, uno solo di essi che ha la possibilità di emergere dalla serie piatta ( orizzontale) dei fatti, di romperne la catena, di uscire fuori di sé, di trascendersi, di esporsi al rischio pascaliano delle scelte e delle scommesse, di rifiutare e negare la propria datità naturalistica.
Io , uomo, sono nella natura, tra i fatti; ma per un altro verso, proprio nel momento in cui il logos ( pensiero e linguaggio ) trascrive dentro i propri spazi logici i fatti della natura, io comprendo me stesso come un evento dotato di valore.
" Il senso del mondo [e della vita ] dev'esssere fuori di esso. […] Dev'essere fuori del mondo " (prop. 6.41). Il senso, dunque, non è oggetto di ricerca scientifica. Il limite interno del pensiero e del linguaggio rendono vuota tale ricerca. Sarebbe come tentare di svuotare l'oceano con un secchio senza fondo o " pretendere di versare un ettolitro d'acqua in un bicchiere".
Proprio a causa dei limiti interni del pensiero e del linguaggio, non possono darsi né libri sull'etica né tantomeno libri di etica. Scrive Wittgenstein: " Né, quindi, vi possono essere proposizioni dell'etica. Le proposizioni non possono esprimere nulla ch'è più alto [del mondo] " (prop. 6.42).
E, a conclusione, Wittgenstein aggiunge la proposizione forse più radicale dell'antifondazionalismo della concezione del pensiero e del linguaggio: " E' chiaro che l'etica non può formularsi. L'etica è trascendentale. (Etica ed estetica sono uno)" (prop. 6.421).
La discussione degli studiosi stringe in un assedio ermeneutico implacabile queste proposizioni finali del Tractatus, fortemente resistenti non solo ad ogni tentativo di decifrazione univoca, ma perfino a una qualsiasi comprensione di senso, che sia almeno affine a quello che le parole dell'etica hanno designato o almeno tracciato sulle mappe della filosofia morale dell'occidente.
Dal punto di vista della struttura formale del Tractatus, ossia del suo piano di scrittura, abbiamo già notato che il blocco di proposizioni dedicate a "mostrare" l'etica, chiude l'opera non solo in senso strettamente formale, ma rivelandone l'intenzionalità unificatrice di fondo.
Il Tractatus può essere interpretato come un minisaggio di logica, posto al centro di due saggi minimi: anzi incastonato tra essi e costruito in funzione del loro significato. I due saggi minimi, formati ciascuno di poche pagine, sono dedicati rispettivamente: Il primo all'ontologia e il secondo all'etica "impossibile" (come scienza). Entrambi assomigliano ad un'operazione da speleologi o da trivellatori dei fondi marini, alla ricerca di un fondamento, mirata ad esperire l'assenza di ogni fondamento; o, almeno, di un fondamento chiaramente esprimibile secondo le regole che governano il linguaggio umano.
L'ontologia è il discorso sul mondo in quanto io mi ritrovo ad essere un "fatto" del mondo e in quanto il mondo c'è, è presente dentro il mio linguaggio, come il cielo dentro lo specchio azzurro del mare. Il mondo è senza perché (ohne Warum); come la vita: "io vivo perché vivo" , dicevano i mistici evocati da Wittgenstein: "ich lebe darum, daß ich lebe" [4].
Nell'ontologia inespressa del mondo, nella sua dimensione tacita, ubicata nel silenzio della scienza, Wittgenstein segnala il "luogo metafisico" (mistico) del codice genetico delle interrogazioni etiche.
Il demone (o lo spirito) dell'etica incominciò ad inquietarlo durante il servizio militare in guerra; da infermiere subiva ogni giorno la presenza insolente del male e della morte.
Il 10 gennaio 1917 - come si è già accennato - mette per iscritto l'ultimo strato di una domanda inquietante che gli si agitava nella mente: " Se è permesso il suicidio, tutto è permesso. Se qualcosa non è permesso, il suicidio non è permesso. Questo getta luce sull'essenza dell'etica. Infatti il suicidio è, per così dire il peccato elementare. E se lo si indaga, e come quando si indaga il mercurio per comprendere l'essenza dei vapori. O anche il suicidio è, in sé, né buono né cattivo?" [5].
Il "peccato elementare" è il peccato contro l' "elemento" della vita, cioè contro l'essenza dell'esistenza umana. Ora, la vita c'è, e non si può immaginarla non esistente; come non si può immaginare non-esistente il mondo.
Le aspirazioni etiche, i diritti e i doveri, i divieti e la ricerca del senso del mondo e della vita, il desiderio della felicità, la libertà e il valore "assoluto", sono i presupposti inconoscibili e indicibili, che rendono possibile la biografia di un numero infinito di persone.
Wittgenstein si era convinto, leggendo le Confessioni di Agostino e il Diario di Kirkegaard, che la storia e le storie tortuose degli uomini nel mondo, sarebbero tutte un cumulo di assurdità, se non fossero inscritte o disegnate a priori nello spazio trascendentale dell'etica.
Perché gli uomini sono profondamente persuasi che il mondo è degno di essere conosciuto mediante le scienze? Perché Wittgenstein si è dedicato con lavori e fatiche estenuanti alla ricerca sulla natura del linguaggio e della logica? Egli stesso si domanda: vale la pena spendere parte della mia vita in astruse ricerche sul calcolo preposizionale, se io non divento un uomo (moralmente) decente (anständig)?
La ricerca etica è stata sempre al punta sommersa della sua ricerca logica, perché il tessuto etico dell'esistenza ("il dovere di vivere felici") è la condizione a priori (trascendentale) del tessuto logico della conoscenza. Il sapere - come diceva Kant - implica, come sua ragion d'essere, il dovere (Kennen impliziert Sollen) .
Una testimonianza di Russel ci aiuta a capire come etica e logica fossero le due presenze inquiete - nel senso quasi agostiniano - nelle mente di Wittgenstein. Riferendosi ai suoi primi anni di studio a Cambridge, Russel racconta: " Soleva venirmi a trovare ogni sera a mezzanotte; si metteva a camminare su e giù per la stanza, come una belva in gabbia, e durava così per tre ore di fila in silenzio agitato. Una volta gli chiesi: "stai pensando alla logica o ai tuoi peccati?". "A entrambi", rispose e continuò il suo andirivieni. Non osavo accennare il fatto che era ora di andare letto, perché sembrava probabile a lui come a me, che se mi avesse lasciato si sarebbe ucciso " [6].
L'episodio raccontato da Russel segnala senza dubbio un indizio della complessità del carattere di Wittgenstein e di una certa fragilità emotiva che non gli consentiva di dominare i momenti di eccedenza dei suoi stati d'animo, dei suoi cambiamenti d'umore, di una sua certa malinconia esistenziale, pur accompagnata da momenti di grande entusiasmo e di intensa gioia [7].
Ma il significato profondo della testimonianza di Russel è un altro; forse non del tutto compreso dallo stesso Russel: esso riguarda il modo e l'intensità partecipativa con cui viveva il suo lavoro di studioso e di (anti)filosofo: da una parte, le ricerche logiche, dalle quali andavano emergendo sempre più chiaramente i confini e i limiti intrinseci del linguaggio ( la "gabbia"); dall'altra, l'esperienza "inesprimibile" della dimensione etica del suo lavoro e della sua vita.
Avvolta, la sua vita, in una apparente privazione di senso, rispetto al sistema dinamico della natura descritto dalle scienze, gli appariva esposta al rischio della scelta nichilistica del suicidio.
Da alcune testimonianze di amici; accennate con riserbo e con rispetto, rintracciabili nelle varie raccolte di Lettere, si può avere l'impressione che l'idea del suicidio gli tornasse alla mente come un piccolo grumo ossessivo, sia mentre viveva da soldato-infermiere durante la guerra (1916-1918), sia nei tempi successivi in cui la memoria ne riproduceva, controvoglia, gli orrori.
La somma delle cose esistenti e dei fatti vissuti non equivale ad una totalità compiuta, dotata di senso. Le conoscenze si dispongono tutte in una serie indefinita, l'una accanto all'altra, senza trascendere il piano osservativi fattuale e senza sporgersi verso quell'infinito oggetto del desiderio, che è sempre e solo documentato dalla tendenza naturale ad essere felici, ma mai conosciuto e articolabile in un linguaggio di validità intersoggettiva.
Ecco perché Wittgenstein scrive verso la fine del Tractatus: " Del volere quale portatore dell'etica non può parlarsi. E la volontà quale fenomeno interressa solo la psicologia ". E subito dopo precisa che: " Se il volere buono o cattivo àltera il mondo,esso può alterare solo i limiti del mondo, non i fatti, non ciò che può essere espresso dal linguaggio. In breve, il mondo deve perciò divenire un altro mondo. Esso deve, per così dire, decrescere o crescere in toto. Il mondo felice è un altro dal mondo dell'infelice " ( prop. 6.43).
Dunque: la volontà buona avvolge il mondo di un senso che lo trascende; lo trasfigura, non in se stesso ma ponendolo in relazione con la possibilità che l'uomo diventi felice.
"Sii felice": questo è l'assioma unico dell'etica, implicito nell'ontologia, quasi si dovesse sentenziare: tutto è per la felicità; o, per dirla, con Bernanos, in termini teologici: "Tutto è grazia".
Cerchiamo adesso di trovare i fili più profondi che annodano e uniscono i fili di pensiero condensati nelle tre parti del Tractatus, in un arcipelago di proposizioni che solo una ripetuta e autocorrettiva fatica delle analisi può in (qualche) relazione reciproca.
Le scienze naturali ci forniscono tutte le informazioni possibili sul mondo: ci dicono "come il mondo è". Ma " come il mondo è , è affatto indifferente per ciò ch'è più alto. Dio non rivela sé nel mondo" (prop. 6.432).
Dunque: Wittgenstein per giustificare l'esistenza del mondo e del linguaggio, per renderla in qualche modo comprensibile, deve supporre che si dà qualcosa "di più alto".
Ora, questo "qualcosa" no è Dio, anche se non è esclusa la sua esistenza. Ma certamente è esclusa l'onto-teologia, proprio sul piano linguistico; dunque per ragioni più radicali di quelle sviluppate da Kierkegaard, da Barth e da Heidegger.
E tuttavia, l'essenza dell'uomo, e cioè del suo pensare e del suo parlare, è attraversata dalla "tendenza naturale" a rapportarsi e a trascendersi in un Dio "mistico", cioè avvolto plotinianamete in quella che lo Pseudo-Dionigi definiva - riproducendo un calco linguistico dell'Esodo (20-21) - "la caligine del casto silenzio".
Ripete, dunque, Wittgenstein, come impigliato in una rete di difficoltà insuperabili: " Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è. Intuire il mondo sub specie aeterni è intuirlo quale tutto -limitato -. Sentire il mondo quale tutto limitato è il mistico " (prop. 6.45).
Che il mondo o la realtà sia una totalità limitata lo percepiamo inabitando le stanze aperte e chiare delle scienze. Il tutto dell'esperienza viene percepito come "inferiore" al tutto della realtà.
Ecco la conclusione esplicita del Tractatus: " Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali (Lebensprobleme) non sono ancora neppure toccati: Certo allora non mi resta più domanda (scientifica) alcuna; e appunto questa è la risposta (filosofica) " (prop. 6.52). Infatti, recita ancora il Tractatus: " Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale - dunque, qualcosa che con la filosofia nulla ha a che fare -, e poi, ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico (racchiudere in proposizioni l'Essere, Dio o la dimensione etica dell'uomo), mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno(…) " (prop. 6.53).
Ma è proprio nel luogo vuoto di significato empirico che nasce quell'esigenza naturale del senso etico (-teologico) che continuamente riemerge dai silenzi e dalle fratture tematiche del Tractatus, congiungendoli in una difficile e problematica unità di fondo.
Sul finire dell'autunno 1919, col manoscritto del Tractatus, Wittgenstein inviò una lettera, ormai nota a tutti gli studiosi, a Ludwig von Ficker. Nel testo della lettera egli delucida chiaramente l'intenzionalità etica oggettiva e soggettiva dell'opera. Si direbbe - con una formula tomistica di secolare fortuna - che nel Tractatus il senso etico costituisce sia il "finis operis", sia il "finis operanti".
Ecco il testo: " Forse le sarà di aiuto se le scrivo un paio di parole sul mio libro: dalla lettura di questo,infatti, Le - e questa è la mia esatta opinione - non ne tirerà fuori u granchè. Difatti lei non lo capirà; l'argomento le apparirà del tutto estraneo. In realtà, però, esso non le è estraneo, poiché il senso del libro è un senso etico. Una volta volevo includere nella prefazione una proposizione, che ora di fatto lì non c'è, ma che io ora scriverò per Lei, poiché essa sarà forse per Lei una chiave per capire il libro. In effetti, io volevo scrivere che il mio lavoro consiste in due parti: di quello che ho scritto ed inoltre di quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella più importante. Ad opera del mio libro l'etico viene delimitato, per così dire, dall'interno; e sono convinto che l'etico è da delimitare rigorosamente solo in questo modo " [8].
Due asserzioni emergono chiare dal testo di questa lettera "filosofica": 1) l'interpretazione del Tractatus fornita dai neopositivisti del Circolo di Vienna, pur fondato, è solo parziale. E' vero che vi si traccia una netta linea di demarcazione tra proposizioni dotate di senso (=quelle delle scienze naturali) e proposizioni vuote di senso (empirico-fattuale), cioè tra le cose di cui si può parlare e le cose di cui si deve tacere. Quest'operazione logico-epistemologica è stata compiuta anche dai neopositivisti. Ma c'è una differenza essenziale che colloca il pensiero di Wittgenstein in un altro universo di discorso.
" La differenza è soltanto che essi [ i neopositivisti] non avevano niente di cui tacere. Il [ neo] positivismo sostiene - e questa è la sua essenza - che ciò di cui possiamo parlare è tutto ciò che conta nella vita. Invece Wittgenstein crede appassionatamente che tutto ciò che conta nella vita umana è proprio ciò di cui, secondo il suo odo di vedere, dobbiamo tacere " [9].
Dunque: il fine o il senso ultimo dell'esistenza dell'uomo e del mondo, Dio, l'immortalità dell'anima sono ambiti di ricerca non "afferrabili" dal pensiero discorsivo e non codificabili nel linguaggio delle proposizioni regolate dalla sintassi logica; essi però non svaniscono nel nulla; perché, se vogliamo dare senso compiuto all'ambito della realtà accessibile alle scienze, dobbiamo assumere come presupposto tacito (o, per lo meno, abbiamo ragioni per assumerlo) che esiste un "Io" diverso da quello psicologico e gnoseologico, un senso più alto di quello empirico, e perfino, forse un Dio, di cui non so nulla, ma che se esistesse darebbe senso a tutto, anche al male eal dolore innocente.
In questi ambiti del desiderio o della "tendenza naturale" si muove quel libro "virtuale" che Wittgenstein non ha potuto scrivere, ma che è il contenuto implicito del Tractatus, l'altra faccia, quella bianca e silenziosa, di ogni pagina scritta. Del resto, perché ci sono persone che scrivono saggi filosofici su autori rinomati? Se vogliono sapere solo quello che essi hanno detto, è sufficiente sostare sul libro scritto; ma in ogni libro c'è dietro appunto un libro virtuale, talvolta un anti-libro, un libro sommerso che gli studiosi - con un'operazione di speleologia storico-filosofiche - devono o vogliono portare alla luce.
Come gli esecutori di uno spartito musicale; la musica non è ubicata - per così dire - nella datità materiale delle note del pentagramma. Essa vive negli spazi in sonori e pieni di silenzio delle pause.
Come il senso etico (teologico) - parola di Wittgenstein - vive nel vuoto e nel nulla di senso (empirico) delle proposizioni della scienza e nelle tautologie della logica.

 


[1] A. Verrecchia, Intervista su Wittgenstein con il suo biografo Peter Campits, in ID,Incontri viennesi, Marietti 1990, p.155. Per un tentativo di interpretazione della figura di Wittgenstein come " Der metaphische solipsist ", cfr. W. Vossenkull, Ludwig Wittgenstein, Verlag C. H. Beck, München 1995, pp.176-182.
[2] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, con un'introduzione di B. Russel, testo tedesco non trad. inglese a fronte, London 1922.
[3] W. Vossenkull, Ludwig Wittgenstein, cit., p. 402
[4] M. Eckhart, Vom Mystischen Leben. Eine Auswahl aus sinen deutschen Predigten, Basel 1951, p.81.
[5] Quaderni 1914-1916,ed. cit., p.195.
[6] B. Russel, Ritratti a memoria,trad. It. , Longanesi, Milano 1969, p.27.
[7] Cfr. D. H. Pinsent, Vacanze con Wittgenstein. Pagine di diario , trad. It. di Bollati Boringhieri, Milano 1992 ( il riferimento è agli anni 1912-1913).
[8] L. Wittgenstein, Lettere a Ludwig Von Fucker, trad. it. Di D. Antiseri, Armando, Roma 1974, p.72.
[9] P. Engelmann, Lettere di L. Wittgenstein, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1970, p.70.