Leggendo il libro di Flavio
De Bernardinis, Ossessioni terminali - Apocalissi e riciclaggi
alla fine del cinesecolo (Costa & Nolan 1999), ci si
imbatte di frequente, quasi ad ogni paragrafo, nella seguente
constatazione: nulla e nessuno può stare al posto
della macchina. Da presa, s'intende. L'insistenza su questo
concetto è quasi il cardine, il filo conduttore dei
saggi contenuti nel volume che si apre, non a caso, con
una sorta di prologo dal titolo Suggestioni hegeliane.
Nelle Lezioni di estetica sarebbe contenuta, infatti, una
sorta di prefigurazione del cinema, sebbene solo a livello,
per l'appunto, di "suggestione" utopica: alla
vigilia della morte dell'arte l'artista è scisso
tra una condizione di massima soggettività (Beethoven)
e, viceversa, una di esasperata oggettività (la pittura
fiamminga). Per ripristinare l'antico equilibrio tra forma
e contenuto bisognerebbe dare al soggettivo estremizzato
dell'artista una forma obiettiva; cosa, per Hegel, impossibile.
"Improvvisamente, 1895: è giunto il cinema.
Ossia una macchina in grado di cogliere la fattura delle
infinite performance di cui il mondo è fatto e si
nutre: una macchina che fa propria la sopravvenuta, romantica,
indifferenza dell'artista ormai pago di sé, una macchina
dunque innanzi tutto obiettiva" (F.
DE BERNARDINIS, Ossessioni terminali, Ancona-Milano, Costa
& Nolan, 1999, p. 14.). L'assunzione su di sé
dell'atteggiamento di indifferenza, proprio dell'artista
romantico, nei confronti del reale (indifferenza che, senza
la sintesi del cinema, avrebbe finito per dare luogo, hegelianamente,
ai due esiti tra loro antitetici dell'imitazione e della
deformazione, sotto forma di ironia romantica) fa della
macchina da presa il luogo di un sentire neutro, obiettivo.
Un sentire, ciò che più importa, altro rispetto
a quello dell'operatore, nonostante lo spazio di percezione
estetica (ma sarebbe più esatto, per le ragioni che
vedremo, dire: il campo), cioè il set, rimanga condiviso.
Questo ci porta al secondo importante concetto su cui De
Bernardinis snoda le sue riflessioni cine-stetiche, cioè
quello del transito enigmatico dallo stesso allo stesso,
ovvero dal sentire macchinico al vedere dell'operatore-cineasta
(e a quello dello spettatore). Ma prima di affrontare questo
punto, sarà forse bene osservare come la precisazione
del ruolo della macchina in un discorso sull'estetica cinematografica,
ruolo spesso misconosciuto, soprattutto da quei teorici
inclini a identificare l'occhio del dispositivo con quello
dell'uomo (escludendo quindi quella proficua distinzione
fra sguardo, momento iniziale del cinema, puro sentire,
e visione, cioè fruizione da parte del pubblico di
ciò che quello sguardo ha veduto), comporti un allineamento
ben preciso su una delle due grandi scuole di pensiero al
riguardo: la scuola, potremmo dire, benjaminiana. La teoria
umanistica di un Bazin, che vuole il cinema come l'espressione
più alta dell'arte classica quattro-cinquecentesca,
arte che si fonda sulla tecnica della prospettiva (tecnica
illusoria, ma dai connotati realistici), non può
accordarsi col presupposto di un sentire di base affidato
alla macchina, dunque sostanzialmente estraneo al sentire
del regista, che ha assoluto bisogno di visionare i giornalieri
(cioè la pellicola impressionata al termine di ogni
giornata di riprese) o di tenere sotto costante controllo
il monitor sul set. Per il padre fondatore dei Cahiers du
cinéma (si legga a questo proposito la sua Ontologia
dell'immagine fotografica e Montaggio proibito, due fra
i saggi più significativi raccolti nel volume Che
cos'è il cinema?) l'autore esprime attraverso la
macchina da presa la propria visione del mondo, ritagliando
nello spazio reale una scena i cui connotati di realtà
saranno garantiti dall'uso della profondità di campo
e da una sostanziale messa al bando del montaggio, a favore
invece del piano-sequenza. È chiaro che una simile
concezione terrà conto principalmente della presenza,
dietro l'obiettivo, dell'Autore, il cui sguardo viene anzi
identificato con quello della macchina.
Profondamente diverso il pensiero di Walter Benjamin, che
si sofferma, tra l'altro, sulla capacità della macchina
di dare all'umana percezione del mondo una sorta di plusvalore,
mettendo a nudo l'inconscio ottico: rivelando, cioè,
cosa c'è tra la mano e la penna che essa impugna.
Benjamin già si avvicina ad una concezione estetica
fisica, quantistica potremmo dire con De Bernardinis, del
cinema, per cui la macchina da presa non riproduce passivamente
la scena allestita dal cineasta, non illustra, cioè,
uno "spazio" inteso in senso rinascimentale, bensì
interagisce con un campo di energia che non va più
solo visto, ma sentito, percepito. Ecco allora lo sganciarsi
della macchina cinema dalla tirannia autoriale dell'artista;
ecco inverarsi l'intuizione hegeliana, non più utopia,
non più mera suggestione, di una forma obiettiva
data al sentire estremamente e irrimediabilmente soggettivo
dell'artista romantico.
La realtà di cui noi abbiamo sentore, la realtà
come percezione quotidiana di immagini, odori, sensazioni
tattili, la realtà "newtoniana" insomma,
di cui ogni giorno facciamo esperienza, è un caso
limite della realtà fisica dell'infinitamente piccolo,
cioè quella dei quanti, dei fotoni, delle particelle
subatomiche, che noi non vediamo ma che ci sono, così
come lo è dell'infinitamente grande (anch'esso per
noi invisibile, ed accessibile solo mediante la categoria
dell'astrazione). Possiamo dire che la conoscenza "newtoniana"
che noi abbiamo della realtà, con le sue leggi ormai
consolidate e quasi entrate a far parte del senso comune,
non è sbagliata, è semplicemente un caso-limite
della realtà einsteinianamente intesa. Così,
la macchina mette a nudo l'anima einsteiniana del reale,
sfuggendo alle intenzioni di rappresentazione classica dell'operatore.
Detto questo, non si può certo ignorare la parte
costruttiva e razionale della lavorazione di un film da
parte del regista e del montatore, quella appunto del montaggio
delle sequenze secondo un ordine che sarà sempre
arbitrario, anche nei tentativi più arditi di costruzione
onirica e a-logica di assemblaggio delle parti. Ma la teoria,
ancora benjaminiana, dello choc cui il cinema, arte purissima
della modernità, sottopone lo spettatore attraverso
la sua natura discontinua e frantumata, se giustifica l'assimilazione
dell'esperienza ricettiva a quella del sogno (oltre che
accostare la fruizione cinematografica all'incontro dell'uomo
metropolitano con la fantasmagoria della merce), e dunque
rende legittima la distrazione che accompagna la visione,
propone anche un risvolto critico dalla parte del fruitore,
piuttosto che dell'autore. Scrive Mario Pezzella: "Benjamin
ha considerato le forme della ricezione distratta in una
duplice prospettiva: da un lato essa è semplicemente
la forma percettiva della fantasmagoria delle merci [
].
Ma d'altra parte è possibile rovesciare criticamente
l'attenzione distratta [
]. A questo scopo la ricezione
nella distrazione deve essere integrata da un altro polo,
quello della "presenza di spirito" [
]. Essa
realizza una forma nuova e diversa di selezione percettiva:
nel mare delle connessioni possibili, attualizza esattamente
quelle che corrispondono ai conflitti da cui sono investito,
ai pericoli che mi minacciano, alle possibilità di
salvarmi" (M. PEZZELLA, Estetica
del cinema, Bologna, Il Mulino, 2001², p. 16.).
Il cinema, in altre parole, offre allo spettatore (costituzionalmente
distratto) gli strumenti per operare una scelta, desta e
consapevole, fra i "possibili" messigli a disposizione
in modo neutro dal sentire della macchina.
Il tipo di cinema così auspicato da Benjamin è
quello critico-espressivo, di contro al cinema spettacolare
che mira a tenere il più possibile lo spettatore
in uno stato di contemplazione passiva, lascian-dolo, attraverso
un montaggio che dia l'illusione della lineare continuità
della storia, al di qua della soglia della "presenza
di spirito". "Il cinema è il sintomo espressivo
e insieme l'antidoto possibile alla di-strazione dispersa,
in cui avviene l'esperienza moderna. Con le tecniche del
primo piano, del rallentamento, dell'accelerazione, pone
in rilievo ciò che resta inconscio nella percezione
abituale. Ci rivela così un vero e proprio "inconscio
ottico", dilatando e dividendo anche il più
semplice dei gesti e così rendendolo presente allo
spirito. Il gesto è la vera cellula originante del
cinema critico-espressivo, che lo strappa alla ricezione
distratta del cinema spettacolare" (Ibidem,
p. 17.).
Torniamo ora al concetto di transito enigmatico dallo stesso
allo stesso, messo in campo da De Bernardinis. Più
che fare riferimento alle vecchie categorie di sguardo e
visione (che, preoccupandosi del rapporto tra sguardo dell'autore
e ricezione del pubblico, poco o nulla si curavano del ruolo
del dispositivo, e cioè di un suo proprio ed inalienabile
sentire) lo studioso parla di "osservazione" (la
percezione della realtà da parte della macchina,
che nessuno, tranne la macchina stessa, può fruire)
e "visibilità", categoria più ampia
di quella di visione in quanto riguarda tutte le successive
percezioni di ciò che è stato filmato: quella
del regista che visiona i giornalieri, quella del regista
in fase di montaggio, quella dello spettatore al cinema,
quella - eventuale - del passaggio televisivo del film che
sarà sempre diversa pur riguardando la medesima performance.
"Il cinema, dunque, si fonda su un simile "spazio",
l'impassibilità della macchina e l'interiorizzazione
dell'artista. Ciò che la macchina guarda è
esattamente "ciò che non si dà a vedere"
al di fuori della performance della macchina stessa [
]:
il campo visivo della macchina, quindi, è "campo
estetico per definizione", poiché si fonda necessariamente
su un sentire" (F. DE BERNARDINIS,
Ossessioni terminali, Ancona-Milano, Costa & Nolan,
1999, p. 15. I numeri che seguono le citazioni indicano
le pagine di quest'edizione).
La macchina da presa è dunque quello strumento che
attira su di sé la romantica indifferenza dell'artista
per il reale, dandone una rappresentazione, come si è
visto, obiettiva, e gli permette di esprimere la propria
interiorità senza dover pervenire alla deformazione
della medesima, secondo quanto sostenuto da Hegel. La macchina
attiva, einsteinianamente, una delle infinite possibilità
di percezione del reale, partecipando così della
relatività che governa i fenomeni fisici (e ricusando,
invece, la fattispecie di un'arte dell'Autore che impone
allo spettatore il suo sguardo, unico e unisenso, la cui
interpretazione sia possibile esaurire attraverso un discorso
ermeneutico: già la teoria di Benjamin sul cinema
escludeva la possibilità di una sua riduzione a qualsivoglia
esaustiva interpretazione). Scrive De Bernardinis: "Il
cinema [
] è il luogo di un sentire, un sentire
innanzi tutto "artificiale" perché della
macchina, e anche "impersonale" perché
il cineasta non penetra affatto il mondo immaginandolo nel
proprio genio, ma egli si fa, per così dire, un tramite
della macchina stessa, un'eco di pietra del campo estetico
che il dispositivo cinematografico del set produce intorno.
Il cinema, così, è innanzi tutto arte meccano-performativa,
apparato tecnologico in azione, immagine prodotta in movimento
che scandaglia il mondo e i suoi infiniti particolari, obiettivamente,
senza che tale interiorizzazione pervenga a deformare l'apparenza
delle cose" (pp. 18,19. Il corsivo
è mio).
Dei capitoli seguenti, che, come scrive lo stesso autore,
"riguardano la dimensione contemporanea del sentire
nel suo complesso: le possessioni, i riciclaggi, le perversioni
e le apocalissi" (p.32),
ci interessa in modo particolare quello intitolato Il cinema:
caso limite della realtà. Come abbiamo accennato,
la teoria della relatività di Einstein ha rivoluzionato
le coordinate della nostra immagine del mondo e dell'universo
che lo contiene; lungi dallo smentire le leggi della fisica
di Newton, le ha accolte come caso limite di una realtà
che è quella da noi quotidianamente percepita, con
le sue forze di azione e reazione, i suoi pieni e i suoi
vuoti eccetera, senza considerazione per tutto ciò
che è, per i suoi strumenti, invisibile e intangibile,
come le particelle subatomiche: "in tal caso, quindi,
il sentire comune altro non è che il caso limite
della realtà fisica. Ebbene, il cinema costituisce
e raffigura una simile condizione, la percezione abituale
del mondo" (pp. 60,61).
È chiaro che le precedenti considerazioni di Pezzella
sulla capacità, da parte della macchina, di rivelare
l'inconscio ottico della nostra normale percezione visiva
della realtà, vanno superate ed esasperate: non è
necessario, in altri termini, rifarsi a procedimenti tipicamente
cinefotografici quali la moviola o l'ingrandimento per testimoniare
della natura mostrante del cinema: "Non si tratta [
]
della rivelazione del lato nascosto delle cose, oppure dell'intuizione
visionaria di un oltre della realtà, l'inconscio
al lavoro [
]. Il cinema, piuttosto, lavora su quell'eccesso
che è già, di suo, la percezione quotidiana
delle cose" (p. 61).
Il cinema dunque non rivela: mostra. Il fatto stesso che
la macchina da presa assuma, all'interno del set, una posizione
ben definita (che niente e nessuno, nemmeno l'operatore
con l'occhio appiccicato all'obiettivo, può condividere
con essa), ci fa capire come essa - e con essa il cinema
- partecipi "della condizione estetica, del sentire,
innescata dalla fisica sperimentale, a partire dalla teoria
della relatività" (p. 60): assume infatti un
punto di vista preciso da cui la realtà ci viene
mostrata in un modo, diversamente da quanto accadrebbe assumendone
un altro.
L'autore (non sempre è possibile sfuggire alla vecchia
nomenclatura!) che per primo si presta ad una lettura simile
è David Lynch. Gli è dedicato il paragrafo
d'apertura di questo capitolo, intitolato: Entità
astratte dalle sembianze umane. David Lynch e la caratura
fisico-estetica del cinema. I film di Lynch si richiamano
quasi sempre a generi cinematografici consolidati (d'altronde
ammiccare al cinema di genere è uno dei modi migliori
per evitare la "trappola" del film d'autore a
tutti i costi): Strade perdute (Lost Highway, 1997), per
esempio, è un thriller. In realtà, come recita
appunto il titolo del paragrafo, i suoi protagonisti sono
entità astratte dalle sembianze umane. Lynch, cioè,
sembra concretizzare, a livello sia di performance esibita
sullo schermo, sia di intreccio narrativo, l'intuizione
scientifica delle particelle subatomiche che, pur non mostrandosi
al nostro sguardo, sono reali. Fa il lavoro opposto dello
scienziato che va dal quotidiano e visibile all'invisibile:
Lynch va dall'invisibile (Mystery Man di Strade perdute
è come un fotone col dono dell'ubiquità) al
quotidiano (la storia, l'intreccio, qui reso ancor più
"palpabile" dal fatto di appartenere ad un genere,
il thriller, ben noto al pubblico). La funzione della macchina
da presa, in questo tipo di cinema, è quella dell'interfaccia
che mette in comunicazione tra loro diversi campi di forze,
diverse curvature dello spaziotempo apparentemente irriducibili
le une alle altre, immergendosi letteralmente nel gioco
fisico delle particelle in continuo movimento (così
come fanno, nei film del regista, molti oggetti, solitamente
ritrovati della più o meno recente tecnologia: sempre
in Strade perdute, la videocassetta che mostra Fred e sua
moglie ripresi mentre dormono da una misteriosa entità;
o il telefono cellulare che Mystery Man consegna a Fred
durante il party ordinandogli di chiamarlo, in quello stesso
istante, a casa sua, e rivelando in tal modo la propria
sconcertante ubiquità). Scrive De Bernardinis: "I
film di David Lynch, in apparenza fondati sulla consueta
opposizione irriducibile tra bene e male, su dinamiche esclusivamente
oniriche, partecipano del rapporto "consapevole"
tra il cinema e l'ambito della fisica quantistica. Il cinema
è arte moderna per eccellenza perché tende
all'astrazione, ma l'astrazione altro non è che lo
strato più profondo della realtà fisica"
(p. 64. Più avanti è detto:
"L'interfaccia, dunque, è la modalità
della performance audiovisiva contemporanea, il punto di
transito dell'immagine lungo le figure e icone di cui è
composta", p. 69. Si legga a questo proposito un altro
interessante intervento dello stesso autore, la scheda dedicata
a Mulholland Drive di Lynch su "SegnoCinema",
114, marzo-aprile 2002, pp. 41-42, con un'ulteriore precisazione
del concetto e del ruolo dell'interfaccia nella poetica
lynchana.)
Queste ci sembrano le acquisizioni più interessanti,
sicuramente suscettibili di ulteriori approfondimenti e
sviluppi, del libro di De Bernardinis, a proposito di un
"cinesentire" caparbiamente rivendicato al supporto
macchinico (come lui stesso scrive: ma ci si permetta almeno
di rilevare l'antipatia di certi neologismi) di cui l'uomo,
cineasta o cinematografaro che sia, finisce per farsi un
tramite col pubblico. Tramite ben importante, tuttavia,
se si tratta nientemeno che dell'erede di quel lontano artista
ottocentesco votato (come le hegeliane Lezioni di estetica
avevano sancito) a morte sicura a causa di un'ormai irrevocabile
iato tra forma e contenuto, tra soggettivismo esasperato
e tendenza assoluta al realismo. Sarebbe stata l'invenzione
del cinema, dunque, ad aver conciliato questi due estremi
dando vita ad un'arte capace di restituirci il nostro comune
sentire, che di lì a breve Einstein avrebbe dichiarato
come percezione-limite della complessa realtà fisica
che ci circonda. Non molto lontano da questa istanza è
il pensiero di Luis Buñuel, non a caso citato da
De Bernardinis: "L'obiettivo, quest'occhio senza tradizione,
senza morale, senza pregiudizi ma tuttavia capace di interpretare
per proprio conto, vede il mondo. Il cineasta, poi, lo ordina.
Macchina e uomo. Espressione purissima della nostra epoca,
arte nostra, autentica arte di tutti i giorni" (Ibidem,
p. 11).
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Bibliografia dei testi citati:
- André Bazin, Che cos'è il cinema?, Milano,
Garzanti, 1973
- Walter Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità
tecnica, Torino, Einaudi, 1966
- Flavio De Bernardinis, Ossessioni terminali - Apocalissi
e riciclaggi alla fine del cinesecolo, Ancona-Milano, Costa
& Nolan, 1999.
- Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Arte e morte dell'arte.
Percorso nelle lezioni di estetica, a cura di P. Gambazzi,
G. Scaramuzza, Milano, Bruno Mondadori, 1997
- Mario Pezzella, Estetica del cinema, Bologna, Il Mulino,
2001²
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