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ANTONIO MANCA, "CINEMA E FISICA"

 

A. Manca, Cinema e Fisica. Un'estetica all'insegna del transito, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.1 Marzo-Giugno 2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_1/8.htm

 

Leggendo il libro di Flavio De Bernardinis, Ossessioni terminali - Apocalissi e riciclaggi alla fine del cinesecolo (Costa & Nolan 1999), ci si imbatte di frequente, quasi ad ogni paragrafo, nella seguente constatazione: nulla e nessuno può stare al posto della macchina. Da presa, s'intende. L'insistenza su questo concetto è quasi il cardine, il filo conduttore dei saggi contenuti nel volume che si apre, non a caso, con una sorta di prologo dal titolo Suggestioni hegeliane.
Nelle Lezioni di estetica sarebbe contenuta, infatti, una sorta di prefigurazione del cinema, sebbene solo a livello, per l'appunto, di "suggestione" utopica: alla vigilia della morte dell'arte l'artista è scisso tra una condizione di massima soggettività (Beethoven) e, viceversa, una di esasperata oggettività (la pittura fiamminga). Per ripristinare l'antico equilibrio tra forma e contenuto bisognerebbe dare al soggettivo estremizzato dell'artista una forma obiettiva; cosa, per Hegel, impossibile. "Improvvisamente, 1895: è giunto il cinema. Ossia una macchina in grado di cogliere la fattura delle infinite performance di cui il mondo è fatto e si nutre: una macchina che fa propria la sopravvenuta, romantica, indifferenza dell'artista ormai pago di sé, una macchina dunque innanzi tutto obiettiva" (F. DE BERNARDINIS, Ossessioni terminali, Ancona-Milano, Costa & Nolan, 1999, p. 14.). L'assunzione su di sé dell'atteggiamento di indifferenza, proprio dell'artista romantico, nei confronti del reale (indifferenza che, senza la sintesi del cinema, avrebbe finito per dare luogo, hegelianamente, ai due esiti tra loro antitetici dell'imitazione e della deformazione, sotto forma di ironia romantica) fa della macchina da presa il luogo di un sentire neutro, obiettivo. Un sentire, ciò che più importa, altro rispetto a quello dell'operatore, nonostante lo spazio di percezione estetica (ma sarebbe più esatto, per le ragioni che vedremo, dire: il campo), cioè il set, rimanga condiviso.
Questo ci porta al secondo importante concetto su cui De Bernardinis snoda le sue riflessioni cine-stetiche, cioè quello del transito enigmatico dallo stesso allo stesso, ovvero dal sentire macchinico al vedere dell'operatore-cineasta (e a quello dello spettatore). Ma prima di affrontare questo punto, sarà forse bene osservare come la precisazione del ruolo della macchina in un discorso sull'estetica cinematografica, ruolo spesso misconosciuto, soprattutto da quei teorici inclini a identificare l'occhio del dispositivo con quello dell'uomo (escludendo quindi quella proficua distinzione fra sguardo, momento iniziale del cinema, puro sentire, e visione, cioè fruizione da parte del pubblico di ciò che quello sguardo ha veduto), comporti un allineamento ben preciso su una delle due grandi scuole di pensiero al riguardo: la scuola, potremmo dire, benjaminiana. La teoria umanistica di un Bazin, che vuole il cinema come l'espressione più alta dell'arte classica quattro-cinquecentesca, arte che si fonda sulla tecnica della prospettiva (tecnica illusoria, ma dai connotati realistici), non può accordarsi col presupposto di un sentire di base affidato alla macchina, dunque sostanzialmente estraneo al sentire del regista, che ha assoluto bisogno di visionare i giornalieri (cioè la pellicola impressionata al termine di ogni giornata di riprese) o di tenere sotto costante controllo il monitor sul set. Per il padre fondatore dei Cahiers du cinéma (si legga a questo proposito la sua Ontologia dell'immagine fotografica e Montaggio proibito, due fra i saggi più significativi raccolti nel volume Che cos'è il cinema?) l'autore esprime attraverso la macchina da presa la propria visione del mondo, ritagliando nello spazio reale una scena i cui connotati di realtà saranno garantiti dall'uso della profondità di campo e da una sostanziale messa al bando del montaggio, a favore invece del piano-sequenza. È chiaro che una simile concezione terrà conto principalmente della presenza, dietro l'obiettivo, dell'Autore, il cui sguardo viene anzi identificato con quello della macchina.
Profondamente diverso il pensiero di Walter Benjamin, che si sofferma, tra l'altro, sulla capacità della macchina di dare all'umana percezione del mondo una sorta di plusvalore, mettendo a nudo l'inconscio ottico: rivelando, cioè, cosa c'è tra la mano e la penna che essa impugna. Benjamin già si avvicina ad una concezione estetica fisica, quantistica potremmo dire con De Bernardinis, del cinema, per cui la macchina da presa non riproduce passivamente la scena allestita dal cineasta, non illustra, cioè, uno "spazio" inteso in senso rinascimentale, bensì interagisce con un campo di energia che non va più solo visto, ma sentito, percepito. Ecco allora lo sganciarsi della macchina cinema dalla tirannia autoriale dell'artista; ecco inverarsi l'intuizione hegeliana, non più utopia, non più mera suggestione, di una forma obiettiva data al sentire estremamente e irrimediabilmente soggettivo dell'artista romantico.
La realtà di cui noi abbiamo sentore, la realtà come percezione quotidiana di immagini, odori, sensazioni tattili, la realtà "newtoniana" insomma, di cui ogni giorno facciamo esperienza, è un caso limite della realtà fisica dell'infinitamente piccolo, cioè quella dei quanti, dei fotoni, delle particelle subatomiche, che noi non vediamo ma che ci sono, così come lo è dell'infinitamente grande (anch'esso per noi invisibile, ed accessibile solo mediante la categoria dell'astrazione). Possiamo dire che la conoscenza "newtoniana" che noi abbiamo della realtà, con le sue leggi ormai consolidate e quasi entrate a far parte del senso comune, non è sbagliata, è semplicemente un caso-limite della realtà einsteinianamente intesa. Così, la macchina mette a nudo l'anima einsteiniana del reale, sfuggendo alle intenzioni di rappresentazione classica dell'operatore.
Detto questo, non si può certo ignorare la parte costruttiva e razionale della lavorazione di un film da parte del regista e del montatore, quella appunto del montaggio delle sequenze secondo un ordine che sarà sempre arbitrario, anche nei tentativi più arditi di costruzione onirica e a-logica di assemblaggio delle parti. Ma la teoria, ancora benjaminiana, dello choc cui il cinema, arte purissima della modernità, sottopone lo spettatore attraverso la sua natura discontinua e frantumata, se giustifica l'assimilazione dell'esperienza ricettiva a quella del sogno (oltre che accostare la fruizione cinematografica all'incontro dell'uomo metropolitano con la fantasmagoria della merce), e dunque rende legittima la distrazione che accompagna la visione, propone anche un risvolto critico dalla parte del fruitore, piuttosto che dell'autore. Scrive Mario Pezzella: "Benjamin ha considerato le forme della ricezione distratta in una duplice prospettiva: da un lato essa è semplicemente la forma percettiva della fantasmagoria delle merci […]. Ma d'altra parte è possibile rovesciare criticamente l'attenzione distratta […]. A questo scopo la ricezione nella distrazione deve essere integrata da un altro polo, quello della "presenza di spirito" […]. Essa realizza una forma nuova e diversa di selezione percettiva: nel mare delle connessioni possibili, attualizza esattamente quelle che corrispondono ai conflitti da cui sono investito, ai pericoli che mi minacciano, alle possibilità di salvarmi" (M. PEZZELLA, Estetica del cinema, Bologna, Il Mulino, 2001², p. 16.). Il cinema, in altre parole, offre allo spettatore (costituzionalmente distratto) gli strumenti per operare una scelta, desta e consapevole, fra i "possibili" messigli a disposizione in modo neutro dal sentire della macchina.
Il tipo di cinema così auspicato da Benjamin è quello critico-espressivo, di contro al cinema spettacolare che mira a tenere il più possibile lo spettatore in uno stato di contemplazione passiva, lascian-dolo, attraverso un montaggio che dia l'illusione della lineare continuità della storia, al di qua della soglia della "presenza di spirito". "Il cinema è il sintomo espressivo e insieme l'antidoto possibile alla di-strazione dispersa, in cui avviene l'esperienza moderna. Con le tecniche del primo piano, del rallentamento, dell'accelerazione, pone in rilievo ciò che resta inconscio nella percezione abituale. Ci rivela così un vero e proprio "inconscio ottico", dilatando e dividendo anche il più semplice dei gesti e così rendendolo presente allo spirito. Il gesto è la vera cellula originante del cinema critico-espressivo, che lo strappa alla ricezione distratta del cinema spettacolare" (Ibidem, p. 17.).
Torniamo ora al concetto di transito enigmatico dallo stesso allo stesso, messo in campo da De Bernardinis. Più che fare riferimento alle vecchie categorie di sguardo e visione (che, preoccupandosi del rapporto tra sguardo dell'autore e ricezione del pubblico, poco o nulla si curavano del ruolo del dispositivo, e cioè di un suo proprio ed inalienabile sentire) lo studioso parla di "osservazione" (la percezione della realtà da parte della macchina, che nessuno, tranne la macchina stessa, può fruire) e "visibilità", categoria più ampia di quella di visione in quanto riguarda tutte le successive percezioni di ciò che è stato filmato: quella del regista che visiona i giornalieri, quella del regista in fase di montaggio, quella dello spettatore al cinema, quella - eventuale - del passaggio televisivo del film che sarà sempre diversa pur riguardando la medesima performance. "Il cinema, dunque, si fonda su un simile "spazio", l'impassibilità della macchina e l'interiorizzazione dell'artista. Ciò che la macchina guarda è esattamente "ciò che non si dà a vedere" al di fuori della performance della macchina stessa […]: il campo visivo della macchina, quindi, è "campo estetico per definizione", poiché si fonda necessariamente su un sentire" (F. DE BERNARDINIS, Ossessioni terminali, Ancona-Milano, Costa & Nolan, 1999, p. 15. I numeri che seguono le citazioni indicano le pagine di quest'edizione).
La macchina da presa è dunque quello strumento che attira su di sé la romantica indifferenza dell'artista per il reale, dandone una rappresentazione, come si è visto, obiettiva, e gli permette di esprimere la propria interiorità senza dover pervenire alla deformazione della medesima, secondo quanto sostenuto da Hegel. La macchina attiva, einsteinianamente, una delle infinite possibilità di percezione del reale, partecipando così della relatività che governa i fenomeni fisici (e ricusando, invece, la fattispecie di un'arte dell'Autore che impone allo spettatore il suo sguardo, unico e unisenso, la cui interpretazione sia possibile esaurire attraverso un discorso ermeneutico: già la teoria di Benjamin sul cinema escludeva la possibilità di una sua riduzione a qualsivoglia esaustiva interpretazione). Scrive De Bernardinis: "Il cinema […] è il luogo di un sentire, un sentire innanzi tutto "artificiale" perché della macchina, e anche "impersonale" perché il cineasta non penetra affatto il mondo immaginandolo nel proprio genio, ma egli si fa, per così dire, un tramite della macchina stessa, un'eco di pietra del campo estetico che il dispositivo cinematografico del set produce intorno. Il cinema, così, è innanzi tutto arte meccano-performativa, apparato tecnologico in azione, immagine prodotta in movimento che scandaglia il mondo e i suoi infiniti particolari, obiettivamente, senza che tale interiorizzazione pervenga a deformare l'apparenza delle cose" (pp. 18,19. Il corsivo è mio).
Dei capitoli seguenti, che, come scrive lo stesso autore, "riguardano la dimensione contemporanea del sentire nel suo complesso: le possessioni, i riciclaggi, le perversioni e le apocalissi" (p.32), ci interessa in modo particolare quello intitolato Il cinema: caso limite della realtà. Come abbiamo accennato, la teoria della relatività di Einstein ha rivoluzionato le coordinate della nostra immagine del mondo e dell'universo che lo contiene; lungi dallo smentire le leggi della fisica di Newton, le ha accolte come caso limite di una realtà che è quella da noi quotidianamente percepita, con le sue forze di azione e reazione, i suoi pieni e i suoi vuoti eccetera, senza considerazione per tutto ciò che è, per i suoi strumenti, invisibile e intangibile, come le particelle subatomiche: "in tal caso, quindi, il sentire comune altro non è che il caso limite della realtà fisica. Ebbene, il cinema costituisce e raffigura una simile condizione, la percezione abituale del mondo" (pp. 60,61). È chiaro che le precedenti considerazioni di Pezzella sulla capacità, da parte della macchina, di rivelare l'inconscio ottico della nostra normale percezione visiva della realtà, vanno superate ed esasperate: non è necessario, in altri termini, rifarsi a procedimenti tipicamente cinefotografici quali la moviola o l'ingrandimento per testimoniare della natura mostrante del cinema: "Non si tratta […] della rivelazione del lato nascosto delle cose, oppure dell'intuizione visionaria di un oltre della realtà, l'inconscio al lavoro […]. Il cinema, piuttosto, lavora su quell'eccesso che è già, di suo, la percezione quotidiana delle cose" (p. 61).
Il cinema dunque non rivela: mostra. Il fatto stesso che la macchina da presa assuma, all'interno del set, una posizione ben definita (che niente e nessuno, nemmeno l'operatore con l'occhio appiccicato all'obiettivo, può condividere con essa), ci fa capire come essa - e con essa il cinema - partecipi "della condizione estetica, del sentire, innescata dalla fisica sperimentale, a partire dalla teoria della relatività" (p. 60): assume infatti un punto di vista preciso da cui la realtà ci viene mostrata in un modo, diversamente da quanto accadrebbe assumendone un altro.
L'autore (non sempre è possibile sfuggire alla vecchia nomenclatura!) che per primo si presta ad una lettura simile è David Lynch. Gli è dedicato il paragrafo d'apertura di questo capitolo, intitolato: Entità astratte dalle sembianze umane. David Lynch e la caratura fisico-estetica del cinema. I film di Lynch si richiamano quasi sempre a generi cinematografici consolidati (d'altronde ammiccare al cinema di genere è uno dei modi migliori per evitare la "trappola" del film d'autore a tutti i costi): Strade perdute (Lost Highway, 1997), per esempio, è un thriller. In realtà, come recita appunto il titolo del paragrafo, i suoi protagonisti sono entità astratte dalle sembianze umane. Lynch, cioè, sembra concretizzare, a livello sia di performance esibita sullo schermo, sia di intreccio narrativo, l'intuizione scientifica delle particelle subatomiche che, pur non mostrandosi al nostro sguardo, sono reali. Fa il lavoro opposto dello scienziato che va dal quotidiano e visibile all'invisibile: Lynch va dall'invisibile (Mystery Man di Strade perdute è come un fotone col dono dell'ubiquità) al quotidiano (la storia, l'intreccio, qui reso ancor più "palpabile" dal fatto di appartenere ad un genere, il thriller, ben noto al pubblico). La funzione della macchina da presa, in questo tipo di cinema, è quella dell'interfaccia che mette in comunicazione tra loro diversi campi di forze, diverse curvature dello spaziotempo apparentemente irriducibili le une alle altre, immergendosi letteralmente nel gioco fisico delle particelle in continuo movimento (così come fanno, nei film del regista, molti oggetti, solitamente ritrovati della più o meno recente tecnologia: sempre in Strade perdute, la videocassetta che mostra Fred e sua moglie ripresi mentre dormono da una misteriosa entità; o il telefono cellulare che Mystery Man consegna a Fred durante il party ordinandogli di chiamarlo, in quello stesso istante, a casa sua, e rivelando in tal modo la propria sconcertante ubiquità). Scrive De Bernardinis: "I film di David Lynch, in apparenza fondati sulla consueta opposizione irriducibile tra bene e male, su dinamiche esclusivamente oniriche, partecipano del rapporto "consapevole" tra il cinema e l'ambito della fisica quantistica. Il cinema è arte moderna per eccellenza perché tende all'astrazione, ma l'astrazione altro non è che lo strato più profondo della realtà fisica" (p. 64. Più avanti è detto: "L'interfaccia, dunque, è la modalità della performance audiovisiva contemporanea, il punto di transito dell'immagine lungo le figure e icone di cui è composta", p. 69. Si legga a questo proposito un altro interessante intervento dello stesso autore, la scheda dedicata a Mulholland Drive di Lynch su "SegnoCinema", 114, marzo-aprile 2002, pp. 41-42, con un'ulteriore precisazione del concetto e del ruolo dell'interfaccia nella poetica lynchana.)
Queste ci sembrano le acquisizioni più interessanti, sicuramente suscettibili di ulteriori approfondimenti e sviluppi, del libro di De Bernardinis, a proposito di un "cinesentire" caparbiamente rivendicato al supporto macchinico (come lui stesso scrive: ma ci si permetta almeno di rilevare l'antipatia di certi neologismi) di cui l'uomo, cineasta o cinematografaro che sia, finisce per farsi un tramite col pubblico. Tramite ben importante, tuttavia, se si tratta nientemeno che dell'erede di quel lontano artista ottocentesco votato (come le hegeliane Lezioni di estetica avevano sancito) a morte sicura a causa di un'ormai irrevocabile iato tra forma e contenuto, tra soggettivismo esasperato e tendenza assoluta al realismo. Sarebbe stata l'invenzione del cinema, dunque, ad aver conciliato questi due estremi dando vita ad un'arte capace di restituirci il nostro comune sentire, che di lì a breve Einstein avrebbe dichiarato come percezione-limite della complessa realtà fisica che ci circonda. Non molto lontano da questa istanza è il pensiero di Luis Buñuel, non a caso citato da De Bernardinis: "L'obiettivo, quest'occhio senza tradizione, senza morale, senza pregiudizi ma tuttavia capace di interpretare per proprio conto, vede il mondo. Il cineasta, poi, lo ordina. Macchina e uomo. Espressione purissima della nostra epoca, arte nostra, autentica arte di tutti i giorni" (Ibidem, p. 11).


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Bibliografia dei testi citati:

- André Bazin, Che cos'è il cinema?, Milano, Garzanti, 1973
- Walter Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966
- Flavio De Bernardinis, Ossessioni terminali - Apocalissi e riciclaggi alla fine del cinesecolo, Ancona-Milano, Costa & Nolan, 1999.
- Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Arte e morte dell'arte. Percorso nelle lezioni di estetica, a cura di P. Gambazzi, G. Scaramuzza, Milano, Bruno Mondadori, 1997
- Mario Pezzella, Estetica del cinema, Bologna, Il Mulino, 2001²