I.
Demonismi mercuriali
Poiché
là dove non sono dèi, regnano spettri, dovremo
protettivamente scegliere alla nostra ricerca una divinità-guida,
per non brancolare privi di consiglio in preda a demoni
burloni; la scelta si presenta imbarazzante e degna della
massima cautela, dato che ragionevolmente ci sono da temere
ritorsioni da parte di questi esseri chiacchieratori e
malevoli, narcisi e sovvertitori, come sono gli dèi.
Tutti gli dèi parlano, e molto, visto che altrimenti
neppure esisterebbero; ognuno di essi ama la parola in
cui gli è dato esprimere la propria essenza, il
mythos col quale al limite coincide, coincidenza all'interno
del limite della figura, della Gestalt. Ma, al di qua
della divina logorrea, divinità di una ricerca
che indaga la natura della parola mortale (quella che
ci è dato pronunciare), dovrà essere un
dio facilmente raggiungibile, quasi terra terra. Troppo
faticoso e importuno scalare l'Olimpo, autoinvitandoci
come ospiti indegni alla sua mensa; sfidare la commensalità
degli dèi e degli uomini (del dio fratelli infelici)
e l'ambiguità della tavola comune, lo si poteva
solamente durante il periodo della theôn xenía,
la festa cui i divini partecipavano in qualità
di nostri ospiti, celebrata non a caso in onore di Apollo
il distante, il terribile.
Ma ora necessitiamo invece di un dio più abbordabile,
che parli con minore obliquità, che si accompagni
a noi senza ribrezzo, che in definitiva pretenda meno
e ci lasci in pace. Ovvero un dio demonico: "li Iddii
sono immortali e impassibili: gli uomini sono passibili
e mortali: i Demoni certamente sono immortali, ma sono
passibili". Animali che sotto la Luna abitano la
regione del Fuoco etereo, e dell'Aria pura o nubilosa,
i demoni patiscono affetti, anche se non propriamente
umane passioni: intrusivi e impiccioni, "amicabilmente
e ardentemente mescolano nel governare le cose inferiori
e massime le umane" [1]. I doni dei demoni
all'uomo sono sette, secondo Ficino: "sottilità
di contemplare, potenzia di governare, animosità,
chiarezza di sensi, ardore d'Amore, acume di interpretare,
e fecondità di generare"; e spiega: "il
dono della contemplazione fortifica Saturno per mezzo
de' Demonii Saturnini. La potenzia del governo e dello
imperio, Giove col ministerio de' suoi Gioviali Demonii,
e similmente Marte per li Marziali favoreggia la grandezza
dell'Animo. Il Sole con l'aiuto de' Demonii Solari aiuta
la clarità de' sensi, e delle oppenioni: onde seguita
lo indovinare. Venere per li Venerei incita allo Amore.
Mercurio per li Mercuriali desta a lo interpretare e pronunziare".
Tentiamo dunque d'indovinare il nostro daimon parolaio
ed espressivo, compagno per una chiacchierata, nella figura
di Hermes, dio quasi terrestre, quasi demone, quasi umanamente
amico, che sprona alla pronuncia e all'interpretazione;
i suoi tratti, pur divini, rimandano a quell'ambito demonico
che, per la natura mediatrice e piena di spirito, significa
la mercurialità della mitologia e del linguaggio.
Profondamente ermetico e demonico è tutto il mondo
mitologico; la sua mercurialità si esprime in figure
mediante cui, come Schelling illustra, la coscienza caduta
fuori di sé si sforza strenuamente di tornare alla
primeva radice di ogni possibilità di parola e
forma, restaurandosi nell'originaria libertà e
potenzialità. L'ermetico è l'elemento della
lingua, il luogo della parola; Hermes perciò, dio
della scrittura e del canto, è stato considerato
fin dai tempi più remoti sermonis dator, colui
che concede il linguaggio; hérma è affine
al latino sermo, come cheîma sta a cheimón,
esplicazione. Hermes è l'hermeneús, il mediatore
per mezzo della lingua, generatore per essenza e portatore
di qualcosa di luminoso, un 'illuminatore' secondo Kerényi
[2], dio della spiegazione e dell'interpretazione;
vicino ai grandi misteri, 'ermetico' quindi, ma poco portato
all'esoterismo, conserva come suo proprio mistero appunto
quello della parola, il mystérion dell'apparizione
di una figura parlante, ingannevole o veritiera che sia,
il mistero di una voce che pronuncia - Hermes lo psithyristés,
il sussurratore. La parola ermetica dà accesso,
apre, spalanca: Hermes è anche propylaios quando
la sua immagine si trova davanti a un tempio, mediando
il mondo degli dèi con quello degli uomini; è
pylios, "quello della porta", e strophaîos,
connesso al cardine, al centro di gravità e di
moto che regge l'ingresso. Tetelesménos, il perfetto,
è invece epiteto connesso con una qualche forma
di iniziazione, teleîn: iniziazione, possiamo pensare,
al linguaggio; tetelesménoi Hermeî, iniziandi
ai misteri del dio, possiamo dunque solcare la soglia,
intraprendere il viaggio; augurando, come si sarebbe detto
nella grecità, "buon Hermes" alla nostra
via
II. Mobilità
ermetica
Hermes è
il 'quarto' spirituale che sempre si muove. "Ánghelon
athanáton erioúnion" (v. 3 Inno Omerico)
[3], veloce messaggero degli immortali, "polytropon,
aimylométen", con molte risorse, dalla mente
sottile, conduttore di sogni ("hegétor oneíron"),
sta in agguato alle porte e veglia di notte (vv. 13-5).
Il quattro è il suo numero, simbolo di solidità
tetragona, come nell'erma: numerus quadratus ipsi Cyllenio
deputatur, numero base, fondamenta, pietra. Forma archetipica
della totalità, piantata nel fondamento stesso
del mondo, la quaternità è basamento ctonio,
radicato, teleios come ciò che comprende in sé
l'intero essere, compreso il lato oscuro e sotterraneo.
A Cillene il dio è venerato come phallos (Pausania,
VI 26,5); l'erma è il suo correlativo oggettivo,
costituita da una stele cui talvolta vengono aggiunti
abbozzi di una testa e di un fallo; da qui una parentela
con un primitivo dionisismo. Da notare che in greco non
esiste la traduzione della parola erma: la stele itifallica
era semplicemente chiamata "Hermes di pietra":
era Hermes pietrificato. Portafortuna, amuleto, talismano
d'abbondanza e di buona sorte, protegge la via; un mucchio
di sassi gettati al lato della strada viene chiamato anch'esso
hermés o hérmakes, oppure con l'aggettivo
sostantivato del suo nome: hermaîon o hermeîon,
hermaîos lóphos, il cumulo ermetico. Il carattere
elementare e petroso dell'impertinenza fallica è
insopprimibile persino nella morte: anche sui sepolcri
si ponevano falli. I miti sull'origine degli hermaia sono
numerosi; Hermes stesso, si dice, gettava un sasso lungo
le strade da lui purificate, sasso che rimaneva come segnale
propizio al viandante dell'avvenuto rito catartico; per
allontanare il male anch'egli ripeteva devotamente il
gesto. La ripetizione provocò l'accumulo di mucchi
di pietre benigne nelle quali si scorgeva, in mezzo alla
solitudine dell'errare, la presenza di un dio; secondo
W. F. Otto il nome Hermes significa "quello del mucchio".
Il nome del dio e la sua origine sono perciò indistricabili
da questo primevo simbolo aniconico e dall'erma itifallica,
l'hermes; tutti nascono insieme dal sostantivo neutro
hérma, la singola pietra messa in piedi. Questo
carattere estremamente maschile ricorda però anche
un essere precedente la divisione tra i sessi, l'Hermaphroditos,
spesso concepito come figlio di Hermes e Afrodite, o aspetto
maschile della stessa grande dèa: l'Aphroditos,
che precede l'eccitazione della natura maschile e la sua
insorgenza nel cosmo. La virilità è evocata
da una dèa promordiale (di quelle il cui nome si
confonde), la "grande evocatrice" che fa propria
l'occasione dell'amante primordiale.
Hermes è dio dei pastori e dei viandanti, di coloro
che migrano e viaggiano; la scultura lo raffigura spesso
come kriophoros, con un ariete sulle spalle, sacrificio
teriomorfo ed espiatorio che lega il mondo animale a quello
divino attraverso la mediazione dell'umano. È dio
degli armenti in quanto spirito fecondo, Hermes polymelos,
dal molto gregge, "ottimo nell'accrescere il bestiame"
(Teogonia); dio dell'abbondanza e della generazione, prolifico,
conduce sempre ad un prodursi e riprodursi: fecondità
e facondia verbale sono legate. Con Apollo condivide l'appellativo
di nomios, dio del pascolo delle greggi; di Apollo è
infatti scapestrato fratello minore, tollerato con sorriso
superiore. L'Inno omerico a Hermes traccia i rapporti
tra i due diversissimi dèi attraverso l'episodio
parzialmente comico del furto degli armenti di Apollo
compiuto da Hermes neonato; egli è infatti il prototipo
del fanciullo primordiale, birichino infante, sfacciato,
ingenuo mentitore, perverso polimorfo; epifania del puer
divino, mente con faccia tosta e candidamente al terribile
signore discolpandosi. Gli dèi olimpici sono eterni
fanciulli divini nella loro essenza primaria, preesistente
allo stesso ordinamento olimpico: Hermes dall'animo lieto,
charidótes, dispensatore di gioia, "esimio
ciarlatano e imbroglione", lo definisce il ferocissimo
Apollo con generosa, divertita sufficienza, ben sapendo
a chi sia imputabile il furto.
Hermes infatti ma le ruberie, i ladrocini e lo spegiuro,
è patrono di assassini e ladri; dio arcaicamente
malintenzionato, è signore dei furfanti e dei furbi
(Inno, vv. 175, 292, 446); la sua attività viene
designata col termine antitoréo, "forare",
"entrare da un buco"; egli attraversa le porte
e penetra elusivamente come una nebbia attraverso le serrature
(Inno, v. 146); divino esempio dei bugiardi come Autolico,
l'avo di Odisseo per parte materna, arciladro esperto
nell'arte della menzogna, il molto esperto, scaltro, versato
nell'inganno e nel travestimento. A Hermes più
che ad ogni altro immortale è gradito accompagnarsi
agli uomini (Il., XXIV, 334), è il più benevolo
amico e 'dispensatore di doni', come tutti gli dèi
vengono chiamati, ma lui in particolare. Argeiphóntes,
uccisore di Argo posto a guardia di Io; euskópos,
dalla vista acuta, che gli serve però per i fini
mascalzoni della sua dolíe téchne (vv. 73
e76). Araldo e messaggero divino nell'Odissea, nell'Iliade
veste i calzari alati, veloce inviato e coppiere di Zeus;
dio degli schiavi, dei liberi di modeste possibilità,
il suo culto è diffuso presso i ceti più
umili. Prometeo lo schernisce come servo degli dèi
(Prom., 954, 966, 983), Odisseo nei suoi travestimenti
gli chiede aiuto per diventare un buon domestico (Od.,
XV, 319). Divinità forse minore, intesa come figura
servitrice dei maggiori dèi, in realtà svolge
compiti unici di cui nessun divino né ctonio né
olimpico sarebbe capace.
Anche l'amore è da lui inteso come commercio e
furto, godimento fortuito, furtum. I suoi amori con le
Ninfe nel fondo di grotte deliziose, per esempio, hanno
il carattere dell'avventura occasionale che egli sempre
coglie e padroneggia: dio del momento, della cattura umana
dell'attimo. Carattere costante di Hermes è la
spudoratezza; nell'Inno omerico non ha riserbo nemmeno
nel cantare l'amore dei propri genitori al momento di
generarlo, questa scena primaria d'amore furtivo, segreto,
adulterino, tra Zeus e la ninfa Maia, col sonno di Hera
complice all'inganno, e la copertura della notte profonda:
entrambi elementi ermetici. Chiamato naturalmente all'intrattenimento,
dal guscio della tartaruga, suo primo omen, Hermes crea
la lira, chelys, lyra; il suo canto alla cetra stupisce
perfino Apollo, che subito ne reclama il possesso offrendo
in cambio il caduceo; e per prima Hermes canta Mnemosyne,
la madre delle Muse: da lei rammemora la sua genealogia
(vv. 429-30) [4]. Mnemosyne appare
quasi Parca del destino suo e di tutti gli dèi
che cantano, e cantando ricordano; quasi tutti gli dèi
essa richiama ai fondamenti primordiali del loro esistere,
impedendo loro di dimenticarsi.
III. Transito
dell'anima
Pare che Pitagora
definisse Hermes tamías psychôn, ministro
delle anime; "ciò che oscilla tra essere e
non essere, che è apparentemente impotente, che
è oppresso e schiavo, che è la vita ridotta
alla notte del seme, ritrova la via in sù. Hermes,
lo psicopompo, lo Harmateus anche, vetturino delle anime,
lo conduce e lo riporta", dice Kerényi. Sempre
Hermes ha relazione con Psyche (come Eros), rappresentando
l'origine maschile della vita; egli è lo "spanditore
di anime" sotto l'aspetto fallico; alcune raffigurazioni
vascolari attiche lo mostrano, barbuto e itifallico, mentre
alcune sue gocce di sperma si tramutano in farfalla, cioé
in psyché; mitos, sperma, è anche il nome
del primo uomo nei misteri cabirici di Samotracia; seme
che è già frutto, generatore perpetuo e
potente funzione di vita, abisso del mobile seme, inesauribile
sorgente delle anime. Il doppio significato della parola
psyché in greco è confermata dal nome simile
della phállaina, femminile di phallós, latino
phallaena, italiano falena. La femminile farfalla-anima
che vola via ha un'origine maschile, porta con sé
un elemento maschile mobile (il quale a sua volta è
stato evocato dal femminile primordiale) in un continuo
intrecciarsi e alternarsi ermafroditico tra i sessi. Lo
spandimento delle anime, l'Hermes itifallico come loro
guida e dio dei misteri cabirici, hanno forse sullo sfondo
il segno inafferrabile e ben più alto del dionisiaco.
Secondo Schelling Dio, in quanto immediata potenza di
essere, è anche il materiale divino nella sua estroversione
nell'essere, to spérma toû theoû, il
seme del dio; un'immagine ci mostra Hermes col caduceo
alzato dinanzi all'apertura di un immenso recipiente conficcato
nel suolo, dal quale fuoriesce uno sciame di anime alate;
nella festa delle anime, ultimo giorno delle Antesterie,
si sacrificava a Hermes infero, chthonios. Guida delle
anime seducente, trae verso la morte, mortifero, vitale,
guida l'anima al regno della vita. Hermes scorta Euridice
liberata fuori dal regno tenebroso dell'Ade, ma non appena
ella si volta la prende per mano e con dolcezza la riconduce
nell'ombra. Nell'ultimo canto dell'Odissea, anch'esso
posto sotto l'erma, si ha un'epifania di Hermes davvero
rivelativa: Hermes evoca le anime dei Proci, chiamandole
fuori dalle membra, evoca i morti prima della loro sepoltura
per condurli verso i prati di asfodeli, sospendoli con
l'aurea verga magica, "horrida virga" per Orazio
(Carm., I, 24). 'Veloce' è appellativo perfetto
di un dio che trascorre alla morte; Aristofane dice che
lo erioúnios Hermes è quello chthónios,
veloce come la morte.
Hermes è il dio della mobilità e del nomadismo,
di chi non può star fermo e non ha nessun luogo
destinato come casa; per questo lo si ricorda lungo i
percorsi e le vie, Hermes enódios, ed è
sempre via e scorta al viandante, hegemón, pompaîos,
pompós. La principale attività di accompagnatore
fidato Hermes la svolge nei riguardi degli appena trapassati
verso gli Inferi; Hermes psychopompós scorta l'anima
alla sua finale destinazione sotterranea. Hermes viene
infatti definito nei testi più antichi piuttosto
catactonio che psicopompo, termine tardo e specificamente
filosofico'; Edipo, cieco, trova grazie alla sua
conduzione il luogo in cui poter morire (Edipo a Col.,
1547). Ma non diventa mai un dio della morte, piuttosto
del passaggio; non ha l'aspetto sinistro di Ade né
di un certo Dioniso oltretombale; Eschilo (Choeph. 622)
usa l'espressione "Hermes lo prende" per definire
l'attimo della morte, ma più come incatturabile
istante del trapasso che come stato di dissoluzione o
sprofondamento: Hermes propriamente conduce altrove, prende
per la mano, sta al fianco e accompagna. Il suo mondo,
nota Kerényi, non è il mondo eroico dell'Iliade,
nel quale la morte dell'eroe matura insieme all'eccezionalità
della vita, e quando la sua ombra fugge verso un pallido
stato d'illatenza accusando il proprio destino, è
già inseguita dalla fama. La morte ermetica non
fa provare mali eroici, è dio dell'espediente mortale;
l'epiteto akáketa indica un mite dio di morte,
indolore, cui non interessa la gloria, che mai fa del
male agli uomini. Servitore degli olimpi come degli inferi,
"il perfetto messaggero presso Ade", come definito
nell'Inno (vv. 572-3), scende nel mondo squallido e pieno
di tenebre per assistere l'anima spaurita, come può
salire nell'etere luminoso - ma Hermes è diverso
sia dagli olimpi sia dagli inferi, e amato in ogni sfera:
superis deorum gratus et imis (Orazio, Carmina, I, 10);
discesa e ritorno hanno il medesimo accompagnatore: "ed
ora egli si accompagna a tutti, i mortali e gl'immortali:/
rare volte soccorre, infinite volte inganna, nella notte
oscura, le stirpi degli uomini mortali" (vv. 575-8).
L'Odissea, poema del viaggio, è certo più
ermetico dell'Iliade, ed è quell'oscillante mondo
della vita che è in continuo contatto con la morte,
come il dritto di un tessuto col suo rovescio, dice Kerényi;
qui Hermes il viaggiatore segue Odisseo, che ha perso
i contatti con la terra, lasciando il suolo materno per
l'elemento instabile e mitico per eccellenza del mare
- non di Boden, di suolo, ma di mare è tramato
il mito, cosa della quale i suoi più brutali e
ottusi esegeti mai si sono accorti. A casa solo per strada
è il vero viaggiatore ermetico, e specialmente
sul primordiale mondo del sentiero umido, hygra kéleutha
del mare: "se uno si sente a casa sua in questo mondo
di strade, il suo dio è Hermes". La mitologia
stessa è una religione di naviganti, di coloro
che amano avventurarsi nell'estraneo (si pensi alla riemergenza
in Hölderlin di questo tema), lasciando la sicura
terra per il più infido e periglioso dei luoghi,
per questo bel mostro. I marinai dipendono sempre, per
il loro destino, da segnali di superstizione o miracolosi,
e in ogni caso di fenomeni che cadono dall'alto; in mare
cessa ogni soccorso umano, ogni stabilità terrena
- essenziale è la relazione tra mito e mare. La
lingua della navigazione è appesa al volo di un
uccello che indichi la meta, al fulmine di Giove che colpisce
le acque, al disco della luna che solleva a sé
le maree, alla stella saputa che porta orientamento. Naviganti
erano i Greci omerici: tutta la Grecia si stendeva sul
mare come colonia; nota Herder che la mitologia greca
non poteva essere un tesoro arcaico, immobile per millenni
sotto le sabbie del deserto, come per gli Egizi: ma una
religione dell'estraneo, e dell'infinita declinazione
linguistica; solo sul mare dovrebbero esser letti i suoi
poemi, vissuti solo da naviganti.
Volentieri Hermes percorre un tratto di strada insieme,
è compagno di viaggio all'uomo, ed ha con esso
quello scambio libero, schietto e sincero come avviene
tra sconosciuti viaggiatori - "come due anime nude".
Il viaggio è un ratto ermetico, condizione amorosa
del librarsi sull'abisso, mai fermi su un solido Grund,
sospesi tra vita e morte; l'ermetico è la strada,
il sentiero, la via, la circolazione; Hermes è
l'enódios, lo ódios che ha percorso ogni
strada del mondo e puoi incontrare su qualunque sentiero,
per quanto lontano e solitario tu sia. Egli è sempre
principio di movimento e di mobilità, sta sempre
per passar oltre, compagno di strada, angelo conduttore.
Ánghelos come Hekate, che tiene le chiavi degli
inferi e come Hermes evoca le anime; l'anghelía,
il messaggio degli dèi che egli porta con sé,
riesce ad arrivare con più facilità se rimangono
aperti e percorribili i confini tra vita e morte, caducità
ed eternità, mondo mortale e Olimpo: la parola
trapassa, trama, si tramanda.
IV. La parola
ermetica
Al regno femminile
delle anime appartengono fin dall'origine scrittura e
parola, mitologemi, evocazioni; Hermes, qui animas ducere
et reducere solet, pertiene al mondo della circolazione
dell'anima, all'anulus pagano. Hermes psychopompos e psicagogo
è uno spudorato seduttore delle anime grazie alla
sua suadente parola, alla sua nascosta persuasività:
Hermes logios, retore, incantatore e sofista (come Eros
nel Simposio), Hermes klepsíphronos (v. 413 Inno),
che cela e ruba il suo pensiero. Mite ma inflessibile,
seducente e sconcertante, pórimos e incantatore,
il messaggero ha parentela più che evidente col
"grande demone"; dio avventuriero, rappresenta
secondo la tesi di Kerényi il momento virile primigenio
del cosmo, e come lo svenimento e la morte scioglie le
membra, e come Eros è alato, e il suo patire è
passionale. Ma Hermes è figura anzitutto del primo
corpo spirituale: la parola.
Per Schelling [5], che ne privilegia
quest'aspetto 'mitologico', Hermes è presente all'antico
culto misterico dei Cabiri dell'isola di Samotracia. Egli
vi rappresenta per l'appunto il quarto dio dopo la triade
Demetra, Persefone, Dioniso (venerati in forma cabirica
come Axieros, Axiokersa, Axiokersos). In quest'antichissima
dottrina di salvezza, che per prima espresse attraverso
cerimonie iniziatiche la credenza nella vita dell'aldilà
(il cui contenuto era costituito tra l'altro dalla rivelazione
dell'identità di Hades/Dioniso e dell'egiziano
Osiride, seguendo Plutarco), il quarto cabiro, Kasmilos,
latino Camillus, servitore degli dèi sia superni
sia inferi, è identificabile per Schelling in Hermes.
Si tratta del dio sottoforma di servo, ma ancor più
di mediatore e messaggero, di araldo demonico - il vero
concetto di Hermes è individuato proprio nel mediare
tra dèi 'di sopra' e 'di sotto'. Il nome Kasmilos
significa infatti "colui che procede dal dio",
annunciatore e araldo del kommender Gott, del dio a venire;
vero angelo e necessario, egli media la parola di un dio
che non ha nome, inconoscibile, ne predice l'avvento,
e serve non gli dèi precedenti, ma un dio futuro
che verrà o farà ritorno, al quale, in anticipo
sul compiersi dei tempi, già si sottomette in veste
d'araldo e servitore.
Successivamente Schelling, libero dalla fascinazione creuzeriana,
lo identificherà piuttosto nell'egiziano dio Thot
(Mercurio, secondo Cicerone, trovò le lettere dell'alfabeto
e le leggi per gli Egizi sotto forma di Theut); Thot è
il dio del pensiero discorsivo, "del pensiero che
scompone e distingue, il dio di quell'unità che
è più che meramente sostanziale, perchè
è saputa, dunque dell'unità del dio che
comprende contemporaneamente la molteplicità delle
figure". Il quarto dio è lo spirito che si
libra al di sopra delle tre forme 'hegeliane' del dio,
"estrema spiritualità della divinità";
"come afferma Giamblico, Ermete era il dio comune
di tutti i sacerdoti [...], vale a dire la coscienza comune
a tutto; egli era la coscienza paritetica dei tre dèi,
come coscienza = alla sostanza, che è la loro unità.
Dalla bocca di Ermete i sacerdoti avevano ricevuto la
sapienza assieme ai libri sacri. Egli era lo storiografo
degli dèi, il fondatore e inventore del linguaggio
articolato, della grammatica, perciò maestro dello
stesso pensiero discorsivo, analitico, inventore della
scrittura, dell'aritmetica, dell'astronomia, dell'architettura
religiosa e della musica strettamente ad essa connessa
[...]. Questo Ermete da annoverarsi tra gli dèi
intelligibili era detto Ermete il grande, il tre volte
grande (Hermês trismégistos). [...] Il tre
volte grande significa che egli pone e comprende per tre
volte il dio supremo, perchè egli è l'unico
legame che ancora connette quella trinità suprema,
intelligibile, è la coscienza suprema che in tutto
risiede, che tien ferma l'unità assoluta, ossia
sostanziale, di Dio anche nelle figure distinte come tali
e che, viceversa, mentre pensa l'unità distingue
tuttavia le tre figure" [6]. Hermes omnia
solus et ter unus rappresenta la coscienza che collega
superni ed inferni, che si muove tra l'abisso e l'eccelso,
che si abbandona e si riprende, sprofonda e si risolleva:
collegando i tre dèi, li pone nuovamente in quell'unità
che propriamente è in ciascuno di essi ma è
insieme rappresentata come un quarto; è l'ente
amico di tutti, tanto ctonio, quanto ultraterreno.
"Aber was ist das Wesen der Nacht, wenn nicht Mangel,
Bedürftigkeit und Sehnsucht?", si domanda Schelling
nel saggio sul cabirismo: cos'è la notte se non
mancanza, privazione, anelito? Hermes, amico della nera
notte (v. 290 Inno) ne è lo spirito stesso, adombrato
dal suo mantello, esploratore notturno senza fissa dimora,
e d'improvviso s'accompagna al solitario mentre questi
vaga tra rumori incerti, ombre che sembran vive, vicinanze
e brividi nel mondo a parte dell'oscurità [7].
Spiriti maligni e benevoli accompagnatori si scambiano
le parti, le tenebre invitano a far tacere la vita nel
sonno, la notte copre l'intimità degli amanti d'innumerevoli
occhi astrali - la notte è la materia stessa di
Hermes, la notte da cui l'anima proviene e in cui rientra
dopo l'esistenza: "egli è certamente la profonda
oscurità, da cui noi stessi proveniamo", dice
Kerényi: noi che siamo misteri. Misteriosa è
l'imponderabilità con cui Hermes viene incontro
durante un cammino al viandante, quando questi meno se
lo aspetta. Il colpo di fortuna, un inatteso guadagno
si dice hermaîon; è il protettore dai pericoli,
alexíkakos, propri dello spazio aperto e insicuro,
dell'apertura sull'ignoto; gli appartiene il fuori dell'oikos,
il mondo esterno oltre il confine della proprietà,
è in antitesi con la divinità femminile
del focolare, Hestia, e col suo mondo di rifugio e sicurezza
[8]. La vita avventurosa, l'imbattersi in via in
qualcosa di prezioso, il rovescio di fortuna, il ritrovarsi
all'improvviso le mani o la borsa pieni. Incontrare per
caso sulla via è una rivelazione ermetica, ricchezze
donate dalla sua verga: è l'hérmaion, elemento
primordiale del caso, figlio di Chaos; i dadi, i sorteggi
e gli oracoli tratti dalla casualità degli eventi
sono segni ermetici, sortes Mercurii.
Vico stesso, nella Scienza Nuova, esemplifica i 'geroglifici'
del mondo umano attraverso il caduceo di Mercurio, la
verga dell'ambasciatore, di colui che si invia per trattare,
il caduceator; la sua parola porta pace, dopo che è
trascorso il tempo senza legge della perpetua inimicizia
tra le genti, tempo la cui ostilità reciproca terminò
solo con lo stipulare patti di pace. Il caduceo ne è
simbolo; come dice il Ripa nell'Iconologia, "chiamorno
gli Latini Caduceo, perchè al suo apparire faceva
cadere tutte le discordie, et fu per ciò l'insegna
della pace". Pace si porta innanzitutto attraverso
la parola, il dialogo, la mediazione. La bacchetta d'oro
pacificatrice, con cui getta l'incantesimo negli occhi,
ha la facoltà di addormentare gli uomini e ridestarli,
e anche di pietrificare; inizialmente semplice verga da
pastore, ha poi assunto l'aspetto consueto nella raffigurazione
iconografica del caduceo, kerykeion, da kérux,
araldo, con un doppio anello formato dalle volute intrecciate
delle due diramazioni (spesso due serpenti avvinti in
modo amoroso-ostile). La bacchetta però è
chiaramente connessa, ancora per noi, con l'elemento magico,
misterico, ermetico; è l'iniziale magia della parola,
la voce che risuona e indica, mediatrice di altre realtà,
re-ligiosa per essenza: la parola magico-ermetica (senza
che peraltro quest'elemento sia in origine connesso a
pratiche torbidamente misteriche o particolarmente cialtronesche).
Il presagio, la voce dalla misteriosa provenienza che
esprime una parola lungimirante e profetica, si dice in
greco kledón; la cledonomanzia è arte da
sempre posta nel dominio di Hermes come dio della parola.
Hermes che non è in senso proprio profeta oracolare,
ma piuttosto maestro d'eloquenza e seduzione: al momento
in cui gli dèi adornano Pandora, Hermes le mette
in cuore bugie, lusinghe e malizia e le dona la voce.
Ambasciatore del mondo umano presso l'Olimpo irraggiungibile,
la sua figura convoglia tutti i residui delle concezioni
magiche primeve; i piedi alati, il mantello infernale
che rende invisibili e la bacchetta lo rendono patrono
delle arti magiche e occulte, della medicina mercuriale,
e mago lui stesso fino alla tardissima antichità
e oltre, grazie al potere demonico di legare i diversi
mondi.
Il legame tra i mondi attraverso la parola, la mediazione
e l'ermeneutica che la parola esige, propiziati dalla
grande mobilità ermetica, che non trova mai il
confine che la ferma, lo rendono il dio di tutti coloro
che della parola hanno fatto il proprio oggetto amoroso
di contesa, di vocazione, di espressione più precisa
ed essenziale dell'umano e dello spirito: dio dell'umanesimo.
Affinché si compiano le nozze tra lo Psychopompos
e Philologia, grande compito umanistico è meditare
e far rivivere la mitologia. La mitologia, dice Schlegel,
è il più fitto intreccio dello spirito umano:
ciò che altrimenti sfuggirebbe eternamente la coscienza,
qui è fatto sensibile e spirituale, tenuto fermo
come l'anima nel corpo; e chi potrà conclusivamente
dire dove le storie abbiano la loro patria originaria,
se lassù o quaggiù?
Da notare infine che, come controparte, anche il silenzio
si addice all'eloquente dio: come riporta Plutarco, se
durante una riunione o una conversazione cade repentinamente
quel momento singolare in cui tutti tacciono all'unisono,
allora si dice che "è entrato Hermes".
V. Ermetismo
della scienza umanistica
Mercurius nuntius,
il bonus angelus scorta l'intero dialogo umanistico di
Kerényi col Doctor Hermeticus Thomas Mann, dalle
prime alle ultime lettere del carteggio [9], valicando
i decenni e una guerra mondiale. "La mia divinità
preferita", lo definisce Mann (M 24 III '34), nei
cui romanzi si rilevano tracce del passaggio del dio;
ermetica è, secondo Kerényi, la situazione
del viaggiatore spirituale Hans Castorp nella Montagna
incantata, ma soprattutto la seconda parte del Faust (K
30 IV '34), vero romanzo ermetico, ad un tempo pagano
e tedesco (Tacito, nella Germania, afferma infatti che
questo popolo venerava soprattutto Mercurio). "Fascino
del divino, fascino del troppo umano, e fascino dello
spirito che "apre" le vie nelle due direzioni:
questo è un hermaîon, un successo ermetico"
[10]; "il dominio della formula dualistica
introdotta da Nietzsche nella storia dello spirito europeo
- di qua l'apollineo, di là il dionisiaco - fu
infranto solo nel nostro carteggio [...]. Come terzo vi
si aggiunse l'ermetico [...] inteso sul piano della mitologia
antica", scrive Kerényi.
Ma è la scienza stessa, la scienza umanistica,
comune allo scrittore, al mitologo, al filosofo, all'uomo
di religione, ad avere carattere ermetico; uno dei grandi
temi che questo carteggio affronta, anche attraverso ripetute
critiche all'impresa scientifica intesa alla Wilamowitz,
è cosa voglia significare la scienza per la vita.
Prima fondamentale ipotesi avanzata da Kerényi
è che caratteristica essenziale della scienza umanistica
sia quella di porsi in contatto con la morte, "la
situazione del trovarsi in prossimità della morte
e i conseguenti atteggiamenti verso la morte stessa";
in quel regno intermedio di circolazione tra vita e morte
l'umanista deve tentare di muoversi come i greci reputavano
si muovesse Ermete. Il messaggero, dio della parola, riesce
a correlare i due regni, a trasfonderli in forme verbali,
a legarli in continuità; da qui il carattere ermetico
della scienza umanistica, al cui intrinseco operare appartiene
perciò il rapporto mediato dell'hermeneia. Humanitas,
in greco anthropismós, umanesimo, è la conservazione
della possibilità di esssere uomo; Kerényi
pronuncia qui un'altra affermazione che fa meditare, connessa
a quella sul carattere sospeso tra vita e morte: "noi
siamo misteri" (K 13 VI '47).
A fronte di quest'impegnativa assunzione dell'oscillatorio
e misterioso trapassare tra i due regni, gli umanisti
si trovano spesso "soli con la propria ombra, come
colui [Nietzsche] che uscì per tempo dalla casa
degli "scienziati" erroneamente trionfanti.
Ed è molto se possiedono almeno la loro ombra;
se nel loro isolamento non hanno perduto anche le radici
dalle quali può forse ancora crescere qualcosa
per l'avvenire". E sul periodo del nazismo: "ho
avuto l'impressione di una indicibile sofferenza dello
spirito, di un muto aggregarsi dei mediocri, del loro
collaborazionismo e della famelica smania di imporsi da
parte di tutti quelli che sono peggio che mediocri. Devo
confessare che mi preoccuperei ben poco della mediocrità
se non avesse dalla sua il peso della massa, sotto la
quale lo spirito - coi suoi rappresentanti - rischia di
rimanere schiacciato. La "intelligenza" tedesca
è già crollata. Ma soltanto il crollo della
spiritualità superiore sarà spaventoso:
la sorte di Hölderlin e Nietzsche moltiplicata in
misura ingente e la vittoria di quelle cose, di fronte
alle quali Hölderlin e Nietzsche rappresentano dappertutto,
non solo nell'ambito tedesco, l'unico mondo possibile
degli intellettuali. O non andrà a finire che il
mondo delle mediocrità si schianti contro il mondo
dello spirito, anche se lo spirito resta muto? Io credo
in Apollo e nella sua facile vittoria. Intanto però
qui tacet, consentire videtur. E con ciò credo
di non aver detto nulla sotto l'aspetto "politico".
E nemmeno se aggiungo ciò che forse è ancora
più spaventoso: la pessima, non dionisiaca (disdionisiaca,
potrei dire) follia della gioventù [nazionalsocialista]"
(K 13 VIII '34). Significativo passo che tra muto, avalutativo
acconsentire scientifico e follia sanguinaria pone una
connessione tanto più significativa, quanto più
inafferrabile è quello spirito, lo spirito dei
grandi folli solitari Nietzsche e Hölderlin, cui
bisogna richiamarsi per essere opposizione: "la fiducia
nello spirito è la fiducia nell'avverarsi dell'incalcolabile,
del non predisponibile, e questo avverarsi è a
sua volta la prova che esistono quei fili sottili i quali
legano gli uomini tra loro e con la fonte delle creazioni"
(K 2 XI '48).
Dietro ogni scienza dello spirito si deve nascondere una
più intima vita dello spirito, in quanto i più
profondi interessi dell'anima che si attuano nel lavoro
spirituale dovrebbero essere essi stessi spirituali; spesso
però, oggi come allora, si verifica la situazione
assolutamente contraddittoria per cui gli studi e la vita
degli scienziati mancano di spirito, non sono determinati
da alcuna profonda esigenza spirituale, e lo 'spirito'
che qui si esprime è contrario alla libertà
stessa - una vera contradictio in adiecto: "da quando
il consenziente Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff riportò
la vittoria scientifica sul tedesco dissenziente, su Nietzsche,
il "conoscitore di sé, il carnefice di se
stesso", l'idea umanistica cedette il passo a una
res publica doctorum virorum [...] e diede via libera
alla volontaria subordinazione sotto il dispotismo di
poche autorità", ad un movimento autoritario
privo di reali autorità. Chi non conosce i petits
secrets des savants?, l'indagine in apparenza spassionata,
immune da tratti esistenziali e lirici, che crede non
esista l'interpretazione, senza per contro giungere mai
nei suoi risultati a quella suprema oggettività
propria delle grandi personalità: "die Wissenschaft
des nicht Wissenswerten", scienza di ciò che
non val la pena di sapere; l'umanista dovrebbe star ben
attento ad evitare l'irrilevanza della sua ricerca, oppure
che essa stessa "non diventi un peccato contro lo
spirito libero o il suicidio dell'umanesimo" (K 3
II '45). Il concetto statico e antiquario di cultura come
accumulo di nozioni, in sé spaventoso, lo è
tanto più in quei momenti in cui lo spirito deve
far barriera e difesa e agire; occorrerebbe invece una
presa di posizione precedente l'inizio di ogni ricerca
scientifica, preliminare ad ogni suo eventuale risultato.
Appunto è il concetto di Uomo che qui entra in
gioco: la distanza tra uomo e umanista, la mediocrità
umana dell'umanista, che grida vendetta al cospetto di
tutta la storia dello spirito. Una 'scienza' altrimenti
concepita, una scienza priva di uomini, anti-umanistica,
che non inizia per motivi spirituali, non può opporre
(e infatti non ha opposto) la benché minima resistenza
agli attacchi totalitari dell'incultura, della sciagura
politica o della barbarica erudizione.
"Quel "ritorno dello spirito europeo alle realtà
supreme, alle realtà mitiche" [...] è
in verità una grande e buona causa nella storia
dello spirito, e io posso vantarmi di avervi parte, in
certo qual modo, con la mia opera. Ma confido nella Sua
comprensione se Le dico che alla moda "irrazionale"
si accompagna spesso la smania di sacrificare, di buttare
maliziosamente a mare conquiste e principi che non solo
rendono europeo l'europeo, ma persino uomo l'uomo. [...]
Lei m'ha bell'e capito. Io sono un partigiano dell'equilibrio.
Mi appoggio istintivamente a sinistra quando la barca
minaccia di ribaltare a destra e viceversa" (M 20
II '34 - senz'altro quest'ultima frase potrebbe costituire
un'esauriente critica dell'impolitico manniano). Comunque
sia, il metodo per strappare il mito dalle mani dei falsari
ideologici, per fermare l'abuso e lo scempio di quest'umana
creazione a fini oltraggiosamente politici, e per ricondurlo
verso l'umanesimo, è secondo Mann la psicologia;
far convivere le recondite oscurità mitologiche
della nostra vita psichica con la sempre più decisa
difesa della libertà dello spirito: "e quale
dovrebbe essere ora il mio elemento se non il mito aggiunto
alla psicologia? Da un pezzo sono un amico appassionato
di questa combinazione poiché di fatto la psicologia
è il mezzo per strappar di mano il mito agli oscurantisti
fascisti e "transfunzionarlo" (umfunktionieren)
in umanità" (M 18 II 1941). Ma l'elemento
psicologico, lungi dall'esserle opposto, è per
Mann strettamente dipendente da quello religioso; entrambi
richiedono la stessa immersione in un mondo di solennità
mistica, di dignità umana, di sacramentale tendenza
a rendere festosa la vita: "sacramentale" è
la vicinanza del religioso all'umano, il convertirsi dell'uno
nell'altro, dice Mann.
La storia delle religioni è un fatto 'umano', umanistico,
nel senso kerényiano del mito come "mito dell'uomo",
formula nella quale il genitivo deve essere inteso sia
in senso oggettivo, sia in senso soggettivo: mito formato
dall'uomo, uomo formato dal mito. La vita della mitologia
deve infatti ritornare a quel luogo originariamente umano
che le spetta, ai "giochi misteriosi dello spirito",
ai suoi misteri ermetici; Hercule malgré lui, di
spalle larghe e meditante forza di sopportazione, d'estrema
tolleranza, l'umanista è "il custode e il
conservatore, premuto dalla necessità (custode
e conservatore pure, in fondo, malgré lui) di comuni,
tradizionali tesori dell'umanità europea, di un
retaggio che si tratta di salvare e trasportare da un
mondo vecchio in uno nuovo". La dottrina degli dèi
come dottrina dell'uomo, che fa tutt'uno con "l'accademia
da me sognata" (K 27 XI '46), comporta "l'approfondimento
dell'umanesimo mediante l'elemento religioso, che ancora
credo possibile senza dogmatismi non degni di fede, è
forse l'unico modo di conferirgli la forza impegnante
di cui ha bisogno per raccogliere la sbandata umanità
intorno a un'autorità nuova. Senza questa raccolta
e un'ideale formazione di rispetto e di vita comune, il
risultato dell'intricato esperimento "uomo"
sarebbe, come ognuno sa, molto minaccioso, anzi senza
speranza" (M 12 II '46).
Ma soprattutto la scienza futura deve agire per la "conservazione
di questo bene prettamente umanistico: la capacità,
in genere, di agitazioni spirituali" (K 4 III '47):
"finché è possibile destare un "turbamento"
[...] la causa dell'umanesimo non è del tutto perduta.
E aggiungo: finché può risuonare quel perfetto
linguaggio che esprime interamente tutto ciò che
Lei ha pensato e vissuto, quel linguaggio umano col quale
[...] Lei fa comprendere perché Lei voglia essere
lo strumento, per così dire, àtopo dello
spirito e non lo "scrittore tedesco" come lo
si immagina" (K 26 II '46). Scrittore ermetico, non
tedesco come Goethe che, pur ospitando in sé un
elemento demonico, mancava di quell'importante simpatia
umana che unisce e impegna: di conseguenza, da lui non
poteva irradiare alcun umanesimo. Kerényi rileva
il fallimento del contegno goethiano quale spirito umanistico
e, al suo posto, la necessità del vicendevole avvicinamento
tra la poesia pura e un serio, religioso o secolare, umanesimo.
L'approfondimento che qui ci si prefigge dell'elemento
religioso, solidale e tragico dell'umanesimo contrasta
non poco con la posizione di splendido isolamento di Goethe
a Weimar: "eppure la riservatezza di Goethe, fatale
per lo spirito germanico, anzi per tutta l'umanità,
la sua mancanza di solidarietà umanistica [...]
mi sembra oggi il tragico completamento delle divoranti
solitudini di altri grandi tedeschi: Hölderlin e
Nietzsche" (K 1 VIII '46, ancora i due grandi umanisti
sui generis). L'umanesimo diventa dunque, al di là
di ogni utopia conciliativa o di ogni nettunismo goethiano,
"un'arcipelagica armonia di voci insulari",
voci però di divorante solitudine che si ergono
come isole disperate a colloquio, vette separate da abissi,
che conducono se stesse inevitabilmente ben più
in là della comune tristitia humanistarum - "come
d'altro canto anche la disperazione è una cosa
singolare: reca già in se stessa la trascendenza
dellla speranza" (M 1 I '47). Voci sole, isolate,
che hanno scelto se stesse, possono avere un dialogo;
con quale fine per l'esperimento non è dato di
sapere; certo, anche a fronte della più disperata
disillusione sull'uomo empirico, "mein Herz heisst
Dennoch": il mio cuore dice: nonostante tutto. L'umanesimo
sarà paradossalmente sempre fonte di sconforto
e delusione verso l'umano; il suo anelito spirituale sarà
sempre frustrato pensando alle interiori infinite possibilità
dello spirito e alla miseria del loro realizzarsi nell'azione,
nella passione, nelle opere della figura, solo potenzialmente
bellissima, dell'Uomo; la conseguente solitudine prossima
alla morte, o alla follia, rimarrà come ermetica
testimonianza di "una felicità difficile -
ma pur sempre felicità".
[1] M. Ficino,
Sopra lo Amore, ovvero Convito di Platone, VI, IV, a cura
e con pref. di G. Rensi, Carabba editore, Lanciano 1914,
p. 87.
[2]Le citazioni senza ulteriore specificazione, così
come gran parte della trama del materiale mitologico su
questa figura, sono tratte dallo studio di K. Kerényi
Hermes der Seelenführer. Das Mythologem von männlichen
Lebensursprung, originariamente in "Eranos Jahrbuch"
1942, poi in "Albae Vigiliae", vol.I, Zurigo
1944; trad. it. di A. Brelich, Hermes, la guida delle
anime: il mitologema delle origini maschili della vita,
in K. Kerényi, Miti e misteri, introd. di F. Jesi,
Bollati Boringhieri, Torino 1979 e 2000.
[3] Seguo l'edizione degli Inni omerici a cura di F. Cassola,
Mondadori, Milano 1994.
[4] Sul concetto fondamentale di genealogia, cfr. il saggio
di P. Philippson, Genealogie als mythische Form. Studien
zurTheogonie des Hesiod, Symbolae Osloenses fasc. supplet.
VII, Brogger, Oslo 1936. In esso si evidenzia come la
genealogia, intesa come appartenenza a un génos,
sia necessaria ad operare sensibilmente l'unione tra le
tre dimensioni temporali, unendo passato presente e futuro
nelle vicissitudini della stirpe; il dio più comprensivo
è sempre il più anziano. Inoltre la genealogia
è simbolo del cosmo, potenza formata dal mito cosmogonico
in figure nelle cui apparizioni le forze e le leggi del
cosmo trovano profonda unità. "Weltmythos
in der Form physischen Werdens", la genealogia è
cantata all'inizio dalla Musa come Da-sein delle figure
di theôn génos aidoîon (Theog., 44).
Solo quando si riesce a ricordare ci si può convincere:
questo il potere persuasivo del canto; basti pensare all'importanza
collettiva che ha lo sforzo del poeta tradizionale greco
nel determinare le origini (teogoniecome sequenze e teorie
di dèi, ricerca di una rituale correttezza), rammemorazione
che raggiunge l'originario, che tenta il fondo dell'essere.
Il mito cosmogonico si esprime sempre, nelle varie saghe,
nella forma che gli è propria: la genealogia appunto,
unendo a suo modo essere e divenire, mentre la storia
si rivela invece nella forma dell'epoca (p. 37). Il rapporto
tra gli dèi, osserva Schelling nella Philosophie
der Kunst, non può che esser pensato come rapporto
genealogico, come nella Teogonia, in quanto si tratta
dell'unico rapporto di filiazione in cui però non
vi è dipendenza e sottomissione, e il dipendente
resta assoluto in se stesso: assoluto figlio divino.
[5] F. W. J. Schelling, Über die Gottheiten von Samothrake,
in Schellings Werke, a cura di M. Schröter, IV Band,
München 1927. Lo scritto è dedicato all'analisi
del culto cabirico nell'isola di Samotracia, considerato
da Schelling (che cita come fonti filologiche Creuzer
e perfino Sainte-Croix) antichissimo, procedente dai tempi
della confusa e indistinta coscienza pelasgica, i cui
Grundbegriffe si sarebbero tramandati nei misteri dell'isola
suddetta. Il sistema dei Cabiri, di pretesa origine al
solito egiziana, o orientale, e in ogni caso oscura, non
è discenditivo né emanazionistico (tant'è
vero che l'ultima divinità, Cadmilos, è
la più importante): gli dèi concatenati
che lo compongono creano piuttosto una scala votata alla
trasfigurazione, una serie ascendente di gradini che una
forza immanente sospinge verso l'Uno, una successione
progressiva di rivelazioni che oltrepassa la mondanità
e la cosmicità delle divinità servitrici
e annunciatrici verso il dio sovranaturale (Schelling
si oppone già alla tesi di un monoteismo originario
sorto da una rivelazione primitiva, pur sfruttando ampiamente
intuizioni creuzeriane). I cabiri risultano così
nature e forze magiche e teurgiche che evocano gli dèi
più alti all'azione e alla manifestazione attraverso
la concatenazione che sono capaci di istituire tra il
mondo e gli dèi oltremondani, attirandoli magicamente
verso il reale. Il loro nome significa infatti unione
indissolubile, sono dèi consentes e complices;
distinti e molteplici e tuttavia uniti, essi "possono
vivere solo l'uno con l'altro e l'uno con l'altro morire",
in una sorta di vita e morte a catena. Rappresentazione
della continuità della vita e dell'indissolubilità
del cosmo, dell'universale legame della magia teurgica,
e di come l'invisibile sovrareale sempre di nuovo si trasfonda
in rivelazioni e realtà: questa la sacra dottrina
dei Cabiri, puramente demonica, nella quale l'iniziato
diveniva un anello della catena, egli stesso un cabiro,
legato in vita e in morte al destino dei più alti
dèi.
[6] F. W. J. Schelling, Philosophie der Mythologie, in
Ausgewählte Schriften, Band 6 (1842-1852), Suhrkamp
Taschenbuch, Frankfurt a. M. 1985; trad. it. Filosofia
della mitologia, a cura di L. Procesi, Mursia, Milano
1990, lezioni 19 e 29.
[7] Cfr. W. F. Otto, Gli dèi della Grecia [Die
Götter Griechenlands, Bonn 1929], trad. it. di G.
Federici Airoldi, La Nuova Italia 1941, pp. 127-156, in
particolare, sull'Ermete notturno, la suggestiva descrizione
del par. 9. Le pagine dedicate ad Hermes sono probabilmente
le più belle che Otto abbia scritto dal punto di
vista letterario, come già nota Kerényi
nel suo studio su Hermes e ribadisce A. Magris nel volume
su Kerényi. Il quale rivolge ad Otto una profonda
critica: l'aver escluso dalla figura del dio "qualcosa
di singolarmente conturbante e tutt'altro che familiare",
e assai poco concepibile; ad Hermes appartengono sì
la grazia del condurre, la dolcezza e la benignità,
ma anche la spudoratezza del carattere fallico e l'appartenenza
all'elementare oltre che allo spirituale. Otto rischia
dunque di dimenticare, limitandone la figura e ipostatizzandola,
il proprio di Hermes: la sua demonica medietà e
l'intero suo lato d'ombra e cifrato: l'ermetico stesso,
forzato nella luminosità del pantheon olimpico.
Anche la parola Gestalt, con la quale sempre si indica
il dio greco, è forma per Otto, figura per Kerényi,
ed ha mutato significato, 'laicizzandosi' e abbandonando
il conciliato senso classicista: la figura non coincide
più col suo perfetto limite di bella luce.
[8] J. P. Vernant, Hestia-Hermès, "L'homme",
III, 1963, pp. 12 segg., poi in Mythe et pensée
chez les Grecs, Paris 1965, trad. it. Mito e pensiero
presso i Greci, Einaudi, Torino 1970.
[9] C. Kerényi - T. Mann, Dialogo, trad. di E.
Pocar, Il Saggiatore, Milano 1963 (che traduce le due
parti del carteggio Romndichtung und Mythologie, Zurigo
1945 e Gespräch in Briefen, Zurigo 1960); indico
le lettere con la data e l'iniziale del cognome dello
scrivente.
[10] Si noti la finezza della caratterizzazione di Mann,
"grande entelechia con inclinazione mitologica",
in questo giudizio: "ciò dipendeva dalla sua
natura ermetica che favoriva l'ironia senza raggiungere
mai la tagliente acutezza apollinea" (p. 129).