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Susanna Mati, Mercurialità della parola: l'ermetico

 

Susanna Mati, Mercurialità della parola: l'ermetico, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.2 Luglio-Ottobre 2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_2/12.htm

 

I. Demonismi mercuriali

Poiché là dove non sono dèi, regnano spettri, dovremo protettivamente scegliere alla nostra ricerca una divinità-guida, per non brancolare privi di consiglio in preda a demoni burloni; la scelta si presenta imbarazzante e degna della massima cautela, dato che ragionevolmente ci sono da temere ritorsioni da parte di questi esseri chiacchieratori e malevoli, narcisi e sovvertitori, come sono gli dèi. Tutti gli dèi parlano, e molto, visto che altrimenti neppure esisterebbero; ognuno di essi ama la parola in cui gli è dato esprimere la propria essenza, il mythos col quale al limite coincide, coincidenza all'interno del limite della figura, della Gestalt. Ma, al di qua della divina logorrea, divinità di una ricerca che indaga la natura della parola mortale (quella che ci è dato pronunciare), dovrà essere un dio facilmente raggiungibile, quasi terra terra. Troppo faticoso e importuno scalare l'Olimpo, autoinvitandoci come ospiti indegni alla sua mensa; sfidare la commensalità degli dèi e degli uomini (del dio fratelli infelici) e l'ambiguità della tavola comune, lo si poteva solamente durante il periodo della theôn xenía, la festa cui i divini partecipavano in qualità di nostri ospiti, celebrata non a caso in onore di Apollo il distante, il terribile.
Ma ora necessitiamo invece di un dio più abbordabile, che parli con minore obliquità, che si accompagni a noi senza ribrezzo, che in definitiva pretenda meno e ci lasci in pace. Ovvero un dio demonico: "li Iddii sono immortali e impassibili: gli uomini sono passibili e mortali: i Demoni certamente sono immortali, ma sono passibili". Animali che sotto la Luna abitano la regione del Fuoco etereo, e dell'Aria pura o nubilosa, i demoni patiscono affetti, anche se non propriamente umane passioni: intrusivi e impiccioni, "amicabilmente e ardentemente mescolano nel governare le cose inferiori e massime le umane" [1]. I doni dei demoni all'uomo sono sette, secondo Ficino: "sottilità di contemplare, potenzia di governare, animosità, chiarezza di sensi, ardore d'Amore, acume di interpretare, e fecondità di generare"; e spiega: "il dono della contemplazione fortifica Saturno per mezzo de' Demonii Saturnini. La potenzia del governo e dello imperio, Giove col ministerio de' suoi Gioviali Demonii, e similmente Marte per li Marziali favoreggia la grandezza dell'Animo. Il Sole con l'aiuto de' Demonii Solari aiuta la clarità de' sensi, e delle oppenioni: onde seguita lo indovinare. Venere per li Venerei incita allo Amore. Mercurio per li Mercuriali desta a lo interpretare e pronunziare".
Tentiamo dunque d'indovinare il nostro daimon parolaio ed espressivo, compagno per una chiacchierata, nella figura di Hermes, dio quasi terrestre, quasi demone, quasi umanamente amico, che sprona alla pronuncia e all'interpretazione; i suoi tratti, pur divini, rimandano a quell'ambito demonico che, per la natura mediatrice e piena di spirito, significa la mercurialità della mitologia e del linguaggio. Profondamente ermetico e demonico è tutto il mondo mitologico; la sua mercurialità si esprime in figure mediante cui, come Schelling illustra, la coscienza caduta fuori di sé si sforza strenuamente di tornare alla primeva radice di ogni possibilità di parola e forma, restaurandosi nell'originaria libertà e potenzialità. L'ermetico è l'elemento della lingua, il luogo della parola; Hermes perciò, dio della scrittura e del canto, è stato considerato fin dai tempi più remoti sermonis dator, colui che concede il linguaggio; hérma è affine al latino sermo, come cheîma sta a cheimón, esplicazione. Hermes è l'hermeneús, il mediatore per mezzo della lingua, generatore per essenza e portatore di qualcosa di luminoso, un 'illuminatore' secondo Kerényi [2], dio della spiegazione e dell'interpretazione; vicino ai grandi misteri, 'ermetico' quindi, ma poco portato all'esoterismo, conserva come suo proprio mistero appunto quello della parola, il mystérion dell'apparizione di una figura parlante, ingannevole o veritiera che sia, il mistero di una voce che pronuncia - Hermes lo psithyristés, il sussurratore. La parola ermetica dà accesso, apre, spalanca: Hermes è anche propylaios quando la sua immagine si trova davanti a un tempio, mediando il mondo degli dèi con quello degli uomini; è pylios, "quello della porta", e strophaîos, connesso al cardine, al centro di gravità e di moto che regge l'ingresso. Tetelesménos, il perfetto, è invece epiteto connesso con una qualche forma di iniziazione, teleîn: iniziazione, possiamo pensare, al linguaggio; tetelesménoi Hermeî, iniziandi ai misteri del dio, possiamo dunque solcare la soglia, intraprendere il viaggio; augurando, come si sarebbe detto nella grecità, "buon Hermes" alla nostra via

II. Mobilità ermetica

Hermes è il 'quarto' spirituale che sempre si muove. "Ánghelon athanáton erioúnion" (v. 3 Inno Omerico) [3], veloce messaggero degli immortali, "polytropon, aimylométen", con molte risorse, dalla mente sottile, conduttore di sogni ("hegétor oneíron"), sta in agguato alle porte e veglia di notte (vv. 13-5). Il quattro è il suo numero, simbolo di solidità tetragona, come nell'erma: numerus quadratus ipsi Cyllenio deputatur, numero base, fondamenta, pietra. Forma archetipica della totalità, piantata nel fondamento stesso del mondo, la quaternità è basamento ctonio, radicato, teleios come ciò che comprende in sé l'intero essere, compreso il lato oscuro e sotterraneo.
A Cillene il dio è venerato come phallos (Pausania, VI 26,5); l'erma è il suo correlativo oggettivo, costituita da una stele cui talvolta vengono aggiunti abbozzi di una testa e di un fallo; da qui una parentela con un primitivo dionisismo. Da notare che in greco non esiste la traduzione della parola erma: la stele itifallica era semplicemente chiamata "Hermes di pietra": era Hermes pietrificato. Portafortuna, amuleto, talismano d'abbondanza e di buona sorte, protegge la via; un mucchio di sassi gettati al lato della strada viene chiamato anch'esso hermés o hérmakes, oppure con l'aggettivo sostantivato del suo nome: hermaîon o hermeîon, hermaîos lóphos, il cumulo ermetico. Il carattere elementare e petroso dell'impertinenza fallica è insopprimibile persino nella morte: anche sui sepolcri si ponevano falli. I miti sull'origine degli hermaia sono numerosi; Hermes stesso, si dice, gettava un sasso lungo le strade da lui purificate, sasso che rimaneva come segnale propizio al viandante dell'avvenuto rito catartico; per allontanare il male anch'egli ripeteva devotamente il gesto. La ripetizione provocò l'accumulo di mucchi di pietre benigne nelle quali si scorgeva, in mezzo alla solitudine dell'errare, la presenza di un dio; secondo W. F. Otto il nome Hermes significa "quello del mucchio". Il nome del dio e la sua origine sono perciò indistricabili da questo primevo simbolo aniconico e dall'erma itifallica, l'hermes; tutti nascono insieme dal sostantivo neutro hérma, la singola pietra messa in piedi. Questo carattere estremamente maschile ricorda però anche un essere precedente la divisione tra i sessi, l'Hermaphroditos, spesso concepito come figlio di Hermes e Afrodite, o aspetto maschile della stessa grande dèa: l'Aphroditos, che precede l'eccitazione della natura maschile e la sua insorgenza nel cosmo. La virilità è evocata da una dèa promordiale (di quelle il cui nome si confonde), la "grande evocatrice" che fa propria l'occasione dell'amante primordiale.
Hermes è dio dei pastori e dei viandanti, di coloro che migrano e viaggiano; la scultura lo raffigura spesso come kriophoros, con un ariete sulle spalle, sacrificio teriomorfo ed espiatorio che lega il mondo animale a quello divino attraverso la mediazione dell'umano. È dio degli armenti in quanto spirito fecondo, Hermes polymelos, dal molto gregge, "ottimo nell'accrescere il bestiame" (Teogonia); dio dell'abbondanza e della generazione, prolifico, conduce sempre ad un prodursi e riprodursi: fecondità e facondia verbale sono legate. Con Apollo condivide l'appellativo di nomios, dio del pascolo delle greggi; di Apollo è infatti scapestrato fratello minore, tollerato con sorriso superiore. L'Inno omerico a Hermes traccia i rapporti tra i due diversissimi dèi attraverso l'episodio parzialmente comico del furto degli armenti di Apollo compiuto da Hermes neonato; egli è infatti il prototipo del fanciullo primordiale, birichino infante, sfacciato, ingenuo mentitore, perverso polimorfo; epifania del puer divino, mente con faccia tosta e candidamente al terribile signore discolpandosi. Gli dèi olimpici sono eterni fanciulli divini nella loro essenza primaria, preesistente allo stesso ordinamento olimpico: Hermes dall'animo lieto, charidótes, dispensatore di gioia, "esimio ciarlatano e imbroglione", lo definisce il ferocissimo Apollo con generosa, divertita sufficienza, ben sapendo a chi sia imputabile il furto.
Hermes infatti ma le ruberie, i ladrocini e lo spegiuro, è patrono di assassini e ladri; dio arcaicamente malintenzionato, è signore dei furfanti e dei furbi (Inno, vv. 175, 292, 446); la sua attività viene designata col termine antitoréo, "forare", "entrare da un buco"; egli attraversa le porte e penetra elusivamente come una nebbia attraverso le serrature (Inno, v. 146); divino esempio dei bugiardi come Autolico, l'avo di Odisseo per parte materna, arciladro esperto nell'arte della menzogna, il molto esperto, scaltro, versato nell'inganno e nel travestimento. A Hermes più che ad ogni altro immortale è gradito accompagnarsi agli uomini (Il., XXIV, 334), è il più benevolo amico e 'dispensatore di doni', come tutti gli dèi vengono chiamati, ma lui in particolare. Argeiphóntes, uccisore di Argo posto a guardia di Io; euskópos, dalla vista acuta, che gli serve però per i fini mascalzoni della sua dolíe téchne (vv. 73 e76). Araldo e messaggero divino nell'Odissea, nell'Iliade veste i calzari alati, veloce inviato e coppiere di Zeus; dio degli schiavi, dei liberi di modeste possibilità, il suo culto è diffuso presso i ceti più umili. Prometeo lo schernisce come servo degli dèi (Prom., 954, 966, 983), Odisseo nei suoi travestimenti gli chiede aiuto per diventare un buon domestico (Od., XV, 319). Divinità forse minore, intesa come figura servitrice dei maggiori dèi, in realtà svolge compiti unici di cui nessun divino né ctonio né olimpico sarebbe capace.
Anche l'amore è da lui inteso come commercio e furto, godimento fortuito, furtum. I suoi amori con le Ninfe nel fondo di grotte deliziose, per esempio, hanno il carattere dell'avventura occasionale che egli sempre coglie e padroneggia: dio del momento, della cattura umana dell'attimo. Carattere costante di Hermes è la spudoratezza; nell'Inno omerico non ha riserbo nemmeno nel cantare l'amore dei propri genitori al momento di generarlo, questa scena primaria d'amore furtivo, segreto, adulterino, tra Zeus e la ninfa Maia, col sonno di Hera complice all'inganno, e la copertura della notte profonda: entrambi elementi ermetici. Chiamato naturalmente all'intrattenimento, dal guscio della tartaruga, suo primo omen, Hermes crea la lira, chelys, lyra; il suo canto alla cetra stupisce perfino Apollo, che subito ne reclama il possesso offrendo in cambio il caduceo; e per prima Hermes canta Mnemosyne, la madre delle Muse: da lei rammemora la sua genealogia (vv. 429-30) [4]. Mnemosyne appare quasi Parca del destino suo e di tutti gli dèi che cantano, e cantando ricordano; quasi tutti gli dèi essa richiama ai fondamenti primordiali del loro esistere, impedendo loro di dimenticarsi.

III. Transito dell'anima

Pare che Pitagora definisse Hermes tamías psychôn, ministro delle anime; "ciò che oscilla tra essere e non essere, che è apparentemente impotente, che è oppresso e schiavo, che è la vita ridotta alla notte del seme, ritrova la via in sù. Hermes, lo psicopompo, lo Harmateus anche, vetturino delle anime, lo conduce e lo riporta", dice Kerényi. Sempre Hermes ha relazione con Psyche (come Eros), rappresentando l'origine maschile della vita; egli è lo "spanditore di anime" sotto l'aspetto fallico; alcune raffigurazioni vascolari attiche lo mostrano, barbuto e itifallico, mentre alcune sue gocce di sperma si tramutano in farfalla, cioé in psyché; mitos, sperma, è anche il nome del primo uomo nei misteri cabirici di Samotracia; seme che è già frutto, generatore perpetuo e potente funzione di vita, abisso del mobile seme, inesauribile sorgente delle anime. Il doppio significato della parola psyché in greco è confermata dal nome simile della phállaina, femminile di phallós, latino phallaena, italiano falena. La femminile farfalla-anima che vola via ha un'origine maschile, porta con sé un elemento maschile mobile (il quale a sua volta è stato evocato dal femminile primordiale) in un continuo intrecciarsi e alternarsi ermafroditico tra i sessi. Lo spandimento delle anime, l'Hermes itifallico come loro guida e dio dei misteri cabirici, hanno forse sullo sfondo il segno inafferrabile e ben più alto del dionisiaco.
Secondo Schelling Dio, in quanto immediata potenza di essere, è anche il materiale divino nella sua estroversione nell'essere, to spérma toû theoû, il seme del dio; un'immagine ci mostra Hermes col caduceo alzato dinanzi all'apertura di un immenso recipiente conficcato nel suolo, dal quale fuoriesce uno sciame di anime alate; nella festa delle anime, ultimo giorno delle Antesterie, si sacrificava a Hermes infero, chthonios. Guida delle anime seducente, trae verso la morte, mortifero, vitale, guida l'anima al regno della vita. Hermes scorta Euridice liberata fuori dal regno tenebroso dell'Ade, ma non appena ella si volta la prende per mano e con dolcezza la riconduce nell'ombra. Nell'ultimo canto dell'Odissea, anch'esso posto sotto l'erma, si ha un'epifania di Hermes davvero rivelativa: Hermes evoca le anime dei Proci, chiamandole fuori dalle membra, evoca i morti prima della loro sepoltura per condurli verso i prati di asfodeli, sospendoli con l'aurea verga magica, "horrida virga" per Orazio (Carm., I, 24). 'Veloce' è appellativo perfetto di un dio che trascorre alla morte; Aristofane dice che lo erioúnios Hermes è quello chthónios, veloce come la morte.
Hermes è il dio della mobilità e del nomadismo, di chi non può star fermo e non ha nessun luogo destinato come casa; per questo lo si ricorda lungo i percorsi e le vie, Hermes enódios, ed è sempre via e scorta al viandante, hegemón, pompaîos, pompós. La principale attività di accompagnatore fidato Hermes la svolge nei riguardi degli appena trapassati verso gli Inferi; Hermes psychopompós scorta l'anima alla sua finale destinazione sotterranea. Hermes viene infatti definito nei testi più antichi piuttosto catactonio che psicopompo, termine tardo e specificamente ‚filosofico'; Edipo, cieco, trova grazie alla sua conduzione il luogo in cui poter morire (Edipo a Col., 1547). Ma non diventa mai un dio della morte, piuttosto del passaggio; non ha l'aspetto sinistro di Ade né di un certo Dioniso oltretombale; Eschilo (Choeph. 622) usa l'espressione "Hermes lo prende" per definire l'attimo della morte, ma più come incatturabile istante del trapasso che come stato di dissoluzione o sprofondamento: Hermes propriamente conduce altrove, prende per la mano, sta al fianco e accompagna. Il suo mondo, nota Kerényi, non è il mondo eroico dell'Iliade, nel quale la morte dell'eroe matura insieme all'eccezionalità della vita, e quando la sua ombra fugge verso un pallido stato d'illatenza accusando il proprio destino, è già inseguita dalla fama. La morte ermetica non fa provare mali eroici, è dio dell'espediente mortale; l'epiteto akáketa indica un mite dio di morte, indolore, cui non interessa la gloria, che mai fa del male agli uomini. Servitore degli olimpi come degli inferi, "il perfetto messaggero presso Ade", come definito nell'Inno (vv. 572-3), scende nel mondo squallido e pieno di tenebre per assistere l'anima spaurita, come può salire nell'etere luminoso - ma Hermes è diverso sia dagli olimpi sia dagli inferi, e amato in ogni sfera: superis deorum gratus et imis (Orazio, Carmina, I, 10); discesa e ritorno hanno il medesimo accompagnatore: "ed ora egli si accompagna a tutti, i mortali e gl'immortali:/ rare volte soccorre, infinite volte inganna, nella notte oscura, le stirpi degli uomini mortali" (vv. 575-8).
L'Odissea, poema del viaggio, è certo più ermetico dell'Iliade, ed è quell'oscillante mondo della vita che è in continuo contatto con la morte, come il dritto di un tessuto col suo rovescio, dice Kerényi; qui Hermes il viaggiatore segue Odisseo, che ha perso i contatti con la terra, lasciando il suolo materno per l'elemento instabile e mitico per eccellenza del mare - non di Boden, di suolo, ma di mare è tramato il mito, cosa della quale i suoi più brutali e ottusi esegeti mai si sono accorti. A casa solo per strada è il vero viaggiatore ermetico, e specialmente sul primordiale mondo del sentiero umido, hygra kéleutha del mare: "se uno si sente a casa sua in questo mondo di strade, il suo dio è Hermes". La mitologia stessa è una religione di naviganti, di coloro che amano avventurarsi nell'estraneo (si pensi alla riemergenza in Hölderlin di questo tema), lasciando la sicura terra per il più infido e periglioso dei luoghi, per questo bel mostro. I marinai dipendono sempre, per il loro destino, da segnali di superstizione o miracolosi, e in ogni caso di fenomeni che cadono dall'alto; in mare cessa ogni soccorso umano, ogni stabilità terrena - essenziale è la relazione tra mito e mare. La lingua della navigazione è appesa al volo di un uccello che indichi la meta, al fulmine di Giove che colpisce le acque, al disco della luna che solleva a sé le maree, alla stella saputa che porta orientamento. Naviganti erano i Greci omerici: tutta la Grecia si stendeva sul mare come colonia; nota Herder che la mitologia greca non poteva essere un tesoro arcaico, immobile per millenni sotto le sabbie del deserto, come per gli Egizi: ma una religione dell'estraneo, e dell'infinita declinazione linguistica; solo sul mare dovrebbero esser letti i suoi poemi, vissuti solo da naviganti.
Volentieri Hermes percorre un tratto di strada insieme, è compagno di viaggio all'uomo, ed ha con esso quello scambio libero, schietto e sincero come avviene tra sconosciuti viaggiatori - "come due anime nude". Il viaggio è un ratto ermetico, condizione amorosa del librarsi sull'abisso, mai fermi su un solido Grund, sospesi tra vita e morte; l'ermetico è la strada, il sentiero, la via, la circolazione; Hermes è l'enódios, lo ódios che ha percorso ogni strada del mondo e puoi incontrare su qualunque sentiero, per quanto lontano e solitario tu sia. Egli è sempre principio di movimento e di mobilità, sta sempre per passar oltre, compagno di strada, angelo conduttore. Ánghelos come Hekate, che tiene le chiavi degli inferi e come Hermes evoca le anime; l'anghelía, il messaggio degli dèi che egli porta con sé, riesce ad arrivare con più facilità se rimangono aperti e percorribili i confini tra vita e morte, caducità ed eternità, mondo mortale e Olimpo: la parola trapassa, trama, si tramanda.

IV. La parola ermetica

Al regno femminile delle anime appartengono fin dall'origine scrittura e parola, mitologemi, evocazioni; Hermes, qui animas ducere et reducere solet, pertiene al mondo della circolazione dell'anima, all'anulus pagano. Hermes psychopompos e psicagogo è uno spudorato seduttore delle anime grazie alla sua suadente parola, alla sua nascosta persuasività: Hermes logios, retore, incantatore e sofista (come Eros nel Simposio), Hermes klepsíphronos (v. 413 Inno), che cela e ruba il suo pensiero. Mite ma inflessibile, seducente e sconcertante, pórimos e incantatore, il messaggero ha parentela più che evidente col "grande demone"; dio avventuriero, rappresenta secondo la tesi di Kerényi il momento virile primigenio del cosmo, e come lo svenimento e la morte scioglie le membra, e come Eros è alato, e il suo patire è passionale. Ma Hermes è figura anzitutto del primo corpo spirituale: la parola.
Per Schelling [5], che ne privilegia quest'aspetto 'mitologico', Hermes è presente all'antico culto misterico dei Cabiri dell'isola di Samotracia. Egli vi rappresenta per l'appunto il quarto dio dopo la triade Demetra, Persefone, Dioniso (venerati in forma cabirica come Axieros, Axiokersa, Axiokersos). In quest'antichissima dottrina di salvezza, che per prima espresse attraverso cerimonie iniziatiche la credenza nella vita dell'aldilà (il cui contenuto era costituito tra l'altro dalla rivelazione dell'identità di Hades/Dioniso e dell'egiziano Osiride, seguendo Plutarco), il quarto cabiro, Kasmilos, latino Camillus, servitore degli dèi sia superni sia inferi, è identificabile per Schelling in Hermes. Si tratta del dio sottoforma di servo, ma ancor più di mediatore e messaggero, di araldo demonico - il vero concetto di Hermes è individuato proprio nel mediare tra dèi 'di sopra' e 'di sotto'. Il nome Kasmilos significa infatti "colui che procede dal dio", annunciatore e araldo del kommender Gott, del dio a venire; vero angelo e necessario, egli media la parola di un dio che non ha nome, inconoscibile, ne predice l'avvento, e serve non gli dèi precedenti, ma un dio futuro che verrà o farà ritorno, al quale, in anticipo sul compiersi dei tempi, già si sottomette in veste d'araldo e servitore.
Successivamente Schelling, libero dalla fascinazione creuzeriana, lo identificherà piuttosto nell'egiziano dio Thot (Mercurio, secondo Cicerone, trovò le lettere dell'alfabeto e le leggi per gli Egizi sotto forma di Theut); Thot è il dio del pensiero discorsivo, "del pensiero che scompone e distingue, il dio di quell'unità che è più che meramente sostanziale, perchè è saputa, dunque dell'unità del dio che comprende contemporaneamente la molteplicità delle figure". Il quarto dio è lo spirito che si libra al di sopra delle tre forme 'hegeliane' del dio, "estrema spiritualità della divinità"; "come afferma Giamblico, Ermete era il dio comune di tutti i sacerdoti [...], vale a dire la coscienza comune a tutto; egli era la coscienza paritetica dei tre dèi, come coscienza = alla sostanza, che è la loro unità. Dalla bocca di Ermete i sacerdoti avevano ricevuto la sapienza assieme ai libri sacri. Egli era lo storiografo degli dèi, il fondatore e inventore del linguaggio articolato, della grammatica, perciò maestro dello stesso pensiero discorsivo, analitico, inventore della scrittura, dell'aritmetica, dell'astronomia, dell'architettura religiosa e della musica strettamente ad essa connessa [...]. Questo Ermete da annoverarsi tra gli dèi intelligibili era detto Ermete il grande, il tre volte grande (Hermês trismégistos). [...] Il tre volte grande significa che egli pone e comprende per tre volte il dio supremo, perchè egli è l'unico legame che ancora connette quella trinità suprema, intelligibile, è la coscienza suprema che in tutto risiede, che tien ferma l'unità assoluta, ossia sostanziale, di Dio anche nelle figure distinte come tali e che, viceversa, mentre pensa l'unità distingue tuttavia le tre figure" [6]. Hermes omnia solus et ter unus rappresenta la coscienza che collega superni ed inferni, che si muove tra l'abisso e l'eccelso, che si abbandona e si riprende, sprofonda e si risolleva: collegando i tre dèi, li pone nuovamente in quell'unità che propriamente è in ciascuno di essi ma è insieme rappresentata come un quarto; è l'ente amico di tutti, tanto ctonio, quanto ultraterreno.
"Aber was ist das Wesen der Nacht, wenn nicht Mangel, Bedürftigkeit und Sehnsucht?", si domanda Schelling nel saggio sul cabirismo: cos'è la notte se non mancanza, privazione, anelito? Hermes, amico della nera notte (v. 290 Inno) ne è lo spirito stesso, adombrato dal suo mantello, esploratore notturno senza fissa dimora, e d'improvviso s'accompagna al solitario mentre questi vaga tra rumori incerti, ombre che sembran vive, vicinanze e brividi nel mondo a parte dell'oscurità [7]. Spiriti maligni e benevoli accompagnatori si scambiano le parti, le tenebre invitano a far tacere la vita nel sonno, la notte copre l'intimità degli amanti d'innumerevoli occhi astrali - la notte è la materia stessa di Hermes, la notte da cui l'anima proviene e in cui rientra dopo l'esistenza: "egli è certamente la profonda oscurità, da cui noi stessi proveniamo", dice Kerényi: noi che siamo misteri. Misteriosa è l'imponderabilità con cui Hermes viene incontro durante un cammino al viandante, quando questi meno se lo aspetta. Il colpo di fortuna, un inatteso guadagno si dice hermaîon; è il protettore dai pericoli, alexíkakos, propri dello spazio aperto e insicuro, dell'apertura sull'ignoto; gli appartiene il fuori dell'oikos, il mondo esterno oltre il confine della proprietà, è in antitesi con la divinità femminile del focolare, Hestia, e col suo mondo di rifugio e sicurezza [8]. La vita avventurosa, l'imbattersi in via in qualcosa di prezioso, il rovescio di fortuna, il ritrovarsi all'improvviso le mani o la borsa pieni. Incontrare per caso sulla via è una rivelazione ermetica, ricchezze donate dalla sua verga: è l'hérmaion, elemento primordiale del caso, figlio di Chaos; i dadi, i sorteggi e gli oracoli tratti dalla casualità degli eventi sono segni ermetici, sortes Mercurii.
Vico stesso, nella Scienza Nuova, esemplifica i 'geroglifici' del mondo umano attraverso il caduceo di Mercurio, la verga dell'ambasciatore, di colui che si invia per trattare, il caduceator; la sua parola porta pace, dopo che è trascorso il tempo senza legge della perpetua inimicizia tra le genti, tempo la cui ostilità reciproca terminò solo con lo stipulare patti di pace. Il caduceo ne è simbolo; come dice il Ripa nell'Iconologia, "chiamorno gli Latini Caduceo, perchè al suo apparire faceva cadere tutte le discordie, et fu per ciò l'insegna della pace". Pace si porta innanzitutto attraverso la parola, il dialogo, la mediazione. La bacchetta d'oro pacificatrice, con cui getta l'incantesimo negli occhi, ha la facoltà di addormentare gli uomini e ridestarli, e anche di pietrificare; inizialmente semplice verga da pastore, ha poi assunto l'aspetto consueto nella raffigurazione iconografica del caduceo, kerykeion, da kérux, araldo, con un doppio anello formato dalle volute intrecciate delle due diramazioni (spesso due serpenti avvinti in modo amoroso-ostile). La bacchetta però è chiaramente connessa, ancora per noi, con l'elemento magico, misterico, ermetico; è l'iniziale magia della parola, la voce che risuona e indica, mediatrice di altre realtà, re-ligiosa per essenza: la parola magico-ermetica (senza che peraltro quest'elemento sia in origine connesso a pratiche torbidamente misteriche o particolarmente cialtronesche). Il presagio, la voce dalla misteriosa provenienza che esprime una parola lungimirante e profetica, si dice in greco kledón; la cledonomanzia è arte da sempre posta nel dominio di Hermes come dio della parola. Hermes che non è in senso proprio profeta oracolare, ma piuttosto maestro d'eloquenza e seduzione: al momento in cui gli dèi adornano Pandora, Hermes le mette in cuore bugie, lusinghe e malizia e le dona la voce. Ambasciatore del mondo umano presso l'Olimpo irraggiungibile, la sua figura convoglia tutti i residui delle concezioni magiche primeve; i piedi alati, il mantello infernale che rende invisibili e la bacchetta lo rendono patrono delle arti magiche e occulte, della medicina mercuriale, e mago lui stesso fino alla tardissima antichità e oltre, grazie al potere demonico di legare i diversi mondi.
Il legame tra i mondi attraverso la parola, la mediazione e l'ermeneutica che la parola esige, propiziati dalla grande mobilità ermetica, che non trova mai il confine che la ferma, lo rendono il dio di tutti coloro che della parola hanno fatto il proprio oggetto amoroso di contesa, di vocazione, di espressione più precisa ed essenziale dell'umano e dello spirito: dio dell'umanesimo. Affinché si compiano le nozze tra lo Psychopompos e Philologia, grande compito umanistico è meditare e far rivivere la mitologia. La mitologia, dice Schlegel, è il più fitto intreccio dello spirito umano: ciò che altrimenti sfuggirebbe eternamente la coscienza, qui è fatto sensibile e spirituale, tenuto fermo come l'anima nel corpo; e chi potrà conclusivamente dire dove le storie abbiano la loro patria originaria, se lassù o quaggiù?
Da notare infine che, come controparte, anche il silenzio si addice all'eloquente dio: come riporta Plutarco, se durante una riunione o una conversazione cade repentinamente quel momento singolare in cui tutti tacciono all'unisono, allora si dice che "è entrato Hermes".

V. Ermetismo della scienza umanistica

Mercurius nuntius, il bonus angelus scorta l'intero dialogo umanistico di Kerényi col Doctor Hermeticus Thomas Mann, dalle prime alle ultime lettere del carteggio [9], valicando i decenni e una guerra mondiale. "La mia divinità preferita", lo definisce Mann (M 24 III '34), nei cui romanzi si rilevano tracce del passaggio del dio; ermetica è, secondo Kerényi, la situazione del viaggiatore spirituale Hans Castorp nella Montagna incantata, ma soprattutto la seconda parte del Faust (K 30 IV '34), vero romanzo ermetico, ad un tempo pagano e tedesco (Tacito, nella Germania, afferma infatti che questo popolo venerava soprattutto Mercurio). "Fascino del divino, fascino del troppo umano, e fascino dello spirito che "apre" le vie nelle due direzioni: questo è un hermaîon, un successo ermetico" [10]; "il dominio della formula dualistica introdotta da Nietzsche nella storia dello spirito europeo - di qua l'apollineo, di là il dionisiaco - fu infranto solo nel nostro carteggio [...]. Come terzo vi si aggiunse l'ermetico [...] inteso sul piano della mitologia antica", scrive Kerényi.
Ma è la scienza stessa, la scienza umanistica, comune allo scrittore, al mitologo, al filosofo, all'uomo di religione, ad avere carattere ermetico; uno dei grandi temi che questo carteggio affronta, anche attraverso ripetute critiche all'impresa scientifica intesa alla Wilamowitz, è cosa voglia significare la scienza per la vita. Prima fondamentale ipotesi avanzata da Kerényi è che caratteristica essenziale della scienza umanistica sia quella di porsi in contatto con la morte, "la situazione del trovarsi in prossimità della morte e i conseguenti atteggiamenti verso la morte stessa"; in quel regno intermedio di circolazione tra vita e morte l'umanista deve tentare di muoversi come i greci reputavano si muovesse Ermete. Il messaggero, dio della parola, riesce a correlare i due regni, a trasfonderli in forme verbali, a legarli in continuità; da qui il carattere ermetico della scienza umanistica, al cui intrinseco operare appartiene perciò il rapporto mediato dell'hermeneia. Humanitas, in greco anthropismós, umanesimo, è la conservazione della possibilità di esssere uomo; Kerényi pronuncia qui un'altra affermazione che fa meditare, connessa a quella sul carattere sospeso tra vita e morte: "noi siamo misteri" (K 13 VI '47).
A fronte di quest'impegnativa assunzione dell'oscillatorio e misterioso trapassare tra i due regni, gli umanisti si trovano spesso "soli con la propria ombra, come colui [Nietzsche] che uscì per tempo dalla casa degli "scienziati" erroneamente trionfanti. Ed è molto se possiedono almeno la loro ombra; se nel loro isolamento non hanno perduto anche le radici dalle quali può forse ancora crescere qualcosa per l'avvenire". E sul periodo del nazismo: "ho avuto l'impressione di una indicibile sofferenza dello spirito, di un muto aggregarsi dei mediocri, del loro collaborazionismo e della famelica smania di imporsi da parte di tutti quelli che sono peggio che mediocri. Devo confessare che mi preoccuperei ben poco della mediocrità se non avesse dalla sua il peso della massa, sotto la quale lo spirito - coi suoi rappresentanti - rischia di rimanere schiacciato. La "intelligenza" tedesca è già crollata. Ma soltanto il crollo della spiritualità superiore sarà spaventoso: la sorte di Hölderlin e Nietzsche moltiplicata in misura ingente e la vittoria di quelle cose, di fronte alle quali Hölderlin e Nietzsche rappresentano dappertutto, non solo nell'ambito tedesco, l'unico mondo possibile degli intellettuali. O non andrà a finire che il mondo delle mediocrità si schianti contro il mondo dello spirito, anche se lo spirito resta muto? Io credo in Apollo e nella sua facile vittoria. Intanto però qui tacet, consentire videtur. E con ciò credo di non aver detto nulla sotto l'aspetto "politico". E nemmeno se aggiungo ciò che forse è ancora più spaventoso: la pessima, non dionisiaca (disdionisiaca, potrei dire) follia della gioventù [nazionalsocialista]" (K 13 VIII '34). Significativo passo che tra muto, avalutativo acconsentire scientifico e follia sanguinaria pone una connessione tanto più significativa, quanto più inafferrabile è quello spirito, lo spirito dei grandi folli solitari Nietzsche e Hölderlin, cui bisogna richiamarsi per essere opposizione: "la fiducia nello spirito è la fiducia nell'avverarsi dell'incalcolabile, del non predisponibile, e questo avverarsi è a sua volta la prova che esistono quei fili sottili i quali legano gli uomini tra loro e con la fonte delle creazioni" (K 2 XI '48).
Dietro ogni scienza dello spirito si deve nascondere una più intima vita dello spirito, in quanto i più profondi interessi dell'anima che si attuano nel lavoro spirituale dovrebbero essere essi stessi spirituali; spesso però, oggi come allora, si verifica la situazione assolutamente contraddittoria per cui gli studi e la vita degli scienziati mancano di spirito, non sono determinati da alcuna profonda esigenza spirituale, e lo 'spirito' che qui si esprime è contrario alla libertà stessa - una vera contradictio in adiecto: "da quando il consenziente Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff riportò la vittoria scientifica sul tedesco dissenziente, su Nietzsche, il "conoscitore di sé, il carnefice di se stesso", l'idea umanistica cedette il passo a una res publica doctorum virorum [...] e diede via libera alla volontaria subordinazione sotto il dispotismo di poche autorità", ad un movimento autoritario privo di reali autorità. Chi non conosce i petits secrets des savants?, l'indagine in apparenza spassionata, immune da tratti esistenziali e lirici, che crede non esista l'interpretazione, senza per contro giungere mai nei suoi risultati a quella suprema oggettività propria delle grandi personalità: "die Wissenschaft des nicht Wissenswerten", scienza di ciò che non val la pena di sapere; l'umanista dovrebbe star ben attento ad evitare l'irrilevanza della sua ricerca, oppure che essa stessa "non diventi un peccato contro lo spirito libero o il suicidio dell'umanesimo" (K 3 II '45). Il concetto statico e antiquario di cultura come accumulo di nozioni, in sé spaventoso, lo è tanto più in quei momenti in cui lo spirito deve far barriera e difesa e agire; occorrerebbe invece una presa di posizione precedente l'inizio di ogni ricerca scientifica, preliminare ad ogni suo eventuale risultato. Appunto è il concetto di Uomo che qui entra in gioco: la distanza tra uomo e umanista, la mediocrità umana dell'umanista, che grida vendetta al cospetto di tutta la storia dello spirito. Una 'scienza' altrimenti concepita, una scienza priva di uomini, anti-umanistica, che non inizia per motivi spirituali, non può opporre (e infatti non ha opposto) la benché minima resistenza agli attacchi totalitari dell'incultura, della sciagura politica o della barbarica erudizione.
"Quel "ritorno dello spirito europeo alle realtà supreme, alle realtà mitiche" [...] è in verità una grande e buona causa nella storia dello spirito, e io posso vantarmi di avervi parte, in certo qual modo, con la mia opera. Ma confido nella Sua comprensione se Le dico che alla moda "irrazionale" si accompagna spesso la smania di sacrificare, di buttare maliziosamente a mare conquiste e principi che non solo rendono europeo l'europeo, ma persino uomo l'uomo. [...] Lei m'ha bell'e capito. Io sono un partigiano dell'equilibrio. Mi appoggio istintivamente a sinistra quando la barca minaccia di ribaltare a destra e viceversa" (M 20 II '34 - senz'altro quest'ultima frase potrebbe costituire un'esauriente critica dell'impolitico manniano). Comunque sia, il metodo per strappare il mito dalle mani dei falsari ideologici, per fermare l'abuso e lo scempio di quest'umana creazione a fini oltraggiosamente politici, e per ricondurlo verso l'umanesimo, è secondo Mann la psicologia; far convivere le recondite oscurità mitologiche della nostra vita psichica con la sempre più decisa difesa della libertà dello spirito: "e quale dovrebbe essere ora il mio elemento se non il mito aggiunto alla psicologia? Da un pezzo sono un amico appassionato di questa combinazione poiché di fatto la psicologia è il mezzo per strappar di mano il mito agli oscurantisti fascisti e "transfunzionarlo" (umfunktionieren) in umanità" (M 18 II 1941). Ma l'elemento psicologico, lungi dall'esserle opposto, è per Mann strettamente dipendente da quello religioso; entrambi richiedono la stessa immersione in un mondo di solennità mistica, di dignità umana, di sacramentale tendenza a rendere festosa la vita: "sacramentale" è la vicinanza del religioso all'umano, il convertirsi dell'uno nell'altro, dice Mann.
La storia delle religioni è un fatto 'umano', umanistico, nel senso kerényiano del mito come "mito dell'uomo", formula nella quale il genitivo deve essere inteso sia in senso oggettivo, sia in senso soggettivo: mito formato dall'uomo, uomo formato dal mito. La vita della mitologia deve infatti ritornare a quel luogo originariamente umano che le spetta, ai "giochi misteriosi dello spirito", ai suoi misteri ermetici; Hercule malgré lui, di spalle larghe e meditante forza di sopportazione, d'estrema tolleranza, l'umanista è "il custode e il conservatore, premuto dalla necessità (custode e conservatore pure, in fondo, malgré lui) di comuni, tradizionali tesori dell'umanità europea, di un retaggio che si tratta di salvare e trasportare da un mondo vecchio in uno nuovo". La dottrina degli dèi come dottrina dell'uomo, che fa tutt'uno con "l'accademia da me sognata" (K 27 XI '46), comporta "l'approfondimento dell'umanesimo mediante l'elemento religioso, che ancora credo possibile senza dogmatismi non degni di fede, è forse l'unico modo di conferirgli la forza impegnante di cui ha bisogno per raccogliere la sbandata umanità intorno a un'autorità nuova. Senza questa raccolta e un'ideale formazione di rispetto e di vita comune, il risultato dell'intricato esperimento "uomo" sarebbe, come ognuno sa, molto minaccioso, anzi senza speranza" (M 12 II '46).
Ma soprattutto la scienza futura deve agire per la "conservazione di questo bene prettamente umanistico: la capacità, in genere, di agitazioni spirituali" (K 4 III '47): "finché è possibile destare un "turbamento" [...] la causa dell'umanesimo non è del tutto perduta. E aggiungo: finché può risuonare quel perfetto linguaggio che esprime interamente tutto ciò che Lei ha pensato e vissuto, quel linguaggio umano col quale [...] Lei fa comprendere perché Lei voglia essere lo strumento, per così dire, àtopo dello spirito e non lo "scrittore tedesco" come lo si immagina" (K 26 II '46). Scrittore ermetico, non tedesco come Goethe che, pur ospitando in sé un elemento demonico, mancava di quell'importante simpatia umana che unisce e impegna: di conseguenza, da lui non poteva irradiare alcun umanesimo. Kerényi rileva il fallimento del contegno goethiano quale spirito umanistico e, al suo posto, la necessità del vicendevole avvicinamento tra la poesia pura e un serio, religioso o secolare, umanesimo. L'approfondimento che qui ci si prefigge dell'elemento religioso, solidale e tragico dell'umanesimo contrasta non poco con la posizione di splendido isolamento di Goethe a Weimar: "eppure la riservatezza di Goethe, fatale per lo spirito germanico, anzi per tutta l'umanità, la sua mancanza di solidarietà umanistica [...] mi sembra oggi il tragico completamento delle divoranti solitudini di altri grandi tedeschi: Hölderlin e Nietzsche" (K 1 VIII '46, ancora i due grandi umanisti sui generis). L'umanesimo diventa dunque, al di là di ogni utopia conciliativa o di ogni nettunismo goethiano, "un'arcipelagica armonia di voci insulari", voci però di divorante solitudine che si ergono come isole disperate a colloquio, vette separate da abissi, che conducono se stesse inevitabilmente ben più in là della comune tristitia humanistarum - "come d'altro canto anche la disperazione è una cosa singolare: reca già in se stessa la trascendenza dellla speranza" (M 1 I '47). Voci sole, isolate, che hanno scelto se stesse, possono avere un dialogo; con quale fine per l'esperimento non è dato di sapere; certo, anche a fronte della più disperata disillusione sull'uomo empirico, "mein Herz heisst Dennoch": il mio cuore dice: nonostante tutto. L'umanesimo sarà paradossalmente sempre fonte di sconforto e delusione verso l'umano; il suo anelito spirituale sarà sempre frustrato pensando alle interiori infinite possibilità dello spirito e alla miseria del loro realizzarsi nell'azione, nella passione, nelle opere della figura, solo potenzialmente bellissima, dell'Uomo; la conseguente solitudine prossima alla morte, o alla follia, rimarrà come ermetica testimonianza di "una felicità difficile - ma pur sempre felicità".


[1] M. Ficino, Sopra lo Amore, ovvero Convito di Platone, VI, IV, a cura e con pref. di G. Rensi, Carabba editore, Lanciano 1914, p. 87.
[2]Le citazioni senza ulteriore specificazione, così come gran parte della trama del materiale mitologico su questa figura, sono tratte dallo studio di K. Kerényi Hermes der Seelenführer. Das Mythologem von männlichen Lebensursprung, originariamente in "Eranos Jahrbuch" 1942, poi in "Albae Vigiliae", vol.I, Zurigo 1944; trad. it. di A. Brelich, Hermes, la guida delle anime: il mitologema delle origini maschili della vita, in K. Kerényi, Miti e misteri, introd. di F. Jesi, Bollati Boringhieri, Torino 1979 e 2000.
[3] Seguo l'edizione degli Inni omerici a cura di F. Cassola, Mondadori, Milano 1994.
[4] Sul concetto fondamentale di genealogia, cfr. il saggio di P. Philippson, Genealogie als mythische Form. Studien zurTheogonie des Hesiod, Symbolae Osloenses fasc. supplet. VII, Brogger, Oslo 1936. In esso si evidenzia come la genealogia, intesa come appartenenza a un génos, sia necessaria ad operare sensibilmente l'unione tra le tre dimensioni temporali, unendo passato presente e futuro nelle vicissitudini della stirpe; il dio più comprensivo è sempre il più anziano. Inoltre la genealogia è simbolo del cosmo, potenza formata dal mito cosmogonico in figure nelle cui apparizioni le forze e le leggi del cosmo trovano profonda unità. "Weltmythos in der Form physischen Werdens", la genealogia è cantata all'inizio dalla Musa come Da-sein delle figure di theôn génos aidoîon (Theog., 44). Solo quando si riesce a ricordare ci si può convincere: questo il potere persuasivo del canto; basti pensare all'importanza collettiva che ha lo sforzo del poeta tradizionale greco nel determinare le origini (teogoniecome sequenze e teorie di dèi, ricerca di una rituale correttezza), rammemorazione che raggiunge l'originario, che tenta il fondo dell'essere. Il mito cosmogonico si esprime sempre, nelle varie saghe, nella forma che gli è propria: la genealogia appunto, unendo a suo modo essere e divenire, mentre la storia si rivela invece nella forma dell'epoca (p. 37). Il rapporto tra gli dèi, osserva Schelling nella Philosophie der Kunst, non può che esser pensato come rapporto genealogico, come nella Teogonia, in quanto si tratta dell'unico rapporto di filiazione in cui però non vi è dipendenza e sottomissione, e il dipendente resta assoluto in se stesso: assoluto figlio divino.
[5] F. W. J. Schelling, Über die Gottheiten von Samothrake, in Schellings Werke, a cura di M. Schröter, IV Band, München 1927. Lo scritto è dedicato all'analisi del culto cabirico nell'isola di Samotracia, considerato da Schelling (che cita come fonti filologiche Creuzer e perfino Sainte-Croix) antichissimo, procedente dai tempi della confusa e indistinta coscienza pelasgica, i cui Grundbegriffe si sarebbero tramandati nei misteri dell'isola suddetta. Il sistema dei Cabiri, di pretesa origine al solito egiziana, o orientale, e in ogni caso oscura, non è discenditivo né emanazionistico (tant'è vero che l'ultima divinità, Cadmilos, è la più importante): gli dèi concatenati che lo compongono creano piuttosto una scala votata alla trasfigurazione, una serie ascendente di gradini che una forza immanente sospinge verso l'Uno, una successione progressiva di rivelazioni che oltrepassa la mondanità e la cosmicità delle divinità servitrici e annunciatrici verso il dio sovranaturale (Schelling si oppone già alla tesi di un monoteismo originario sorto da una rivelazione primitiva, pur sfruttando ampiamente intuizioni creuzeriane). I cabiri risultano così nature e forze magiche e teurgiche che evocano gli dèi più alti all'azione e alla manifestazione attraverso la concatenazione che sono capaci di istituire tra il mondo e gli dèi oltremondani, attirandoli magicamente verso il reale. Il loro nome significa infatti unione indissolubile, sono dèi consentes e complices; distinti e molteplici e tuttavia uniti, essi "possono vivere solo l'uno con l'altro e l'uno con l'altro morire", in una sorta di vita e morte a catena. Rappresentazione della continuità della vita e dell'indissolubilità del cosmo, dell'universale legame della magia teurgica, e di come l'invisibile sovrareale sempre di nuovo si trasfonda in rivelazioni e realtà: questa la sacra dottrina dei Cabiri, puramente demonica, nella quale l'iniziato diveniva un anello della catena, egli stesso un cabiro, legato in vita e in morte al destino dei più alti dèi.
[6] F. W. J. Schelling, Philosophie der Mythologie, in Ausgewählte Schriften, Band 6 (1842-1852), Suhrkamp Taschenbuch, Frankfurt a. M. 1985; trad. it. Filosofia della mitologia, a cura di L. Procesi, Mursia, Milano 1990, lezioni 19 e 29.
[7] Cfr. W. F. Otto, Gli dèi della Grecia [Die Götter Griechenlands, Bonn 1929], trad. it. di G. Federici Airoldi, La Nuova Italia 1941, pp. 127-156, in particolare, sull'Ermete notturno, la suggestiva descrizione del par. 9. Le pagine dedicate ad Hermes sono probabilmente le più belle che Otto abbia scritto dal punto di vista letterario, come già nota Kerényi nel suo studio su Hermes e ribadisce A. Magris nel volume su Kerényi. Il quale rivolge ad Otto una profonda critica: l'aver escluso dalla figura del dio "qualcosa di singolarmente conturbante e tutt'altro che familiare", e assai poco concepibile; ad Hermes appartengono sì la grazia del condurre, la dolcezza e la benignità, ma anche la spudoratezza del carattere fallico e l'appartenenza all'elementare oltre che allo spirituale. Otto rischia dunque di dimenticare, limitandone la figura e ipostatizzandola, il proprio di Hermes: la sua demonica medietà e l'intero suo lato d'ombra e cifrato: l'ermetico stesso, forzato nella luminosità del pantheon olimpico. Anche la parola Gestalt, con la quale sempre si indica il dio greco, è forma per Otto, figura per Kerényi, ed ha mutato significato, 'laicizzandosi' e abbandonando il conciliato senso classicista: la figura non coincide più col suo perfetto limite di bella luce.
[8] J. P. Vernant, Hestia-Hermès, "L'homme", III, 1963, pp. 12 segg., poi in Mythe et pensée chez les Grecs, Paris 1965, trad. it. Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi, Torino 1970.
[9] C. Kerényi - T. Mann, Dialogo, trad. di E. Pocar, Il Saggiatore, Milano 1963 (che traduce le due parti del carteggio Romndichtung und Mythologie, Zurigo 1945 e Gespräch in Briefen, Zurigo 1960); indico le lettere con la data e l'iniziale del cognome dello scrivente.
[10] Si noti la finezza della caratterizzazione di Mann, "grande entelechia con inclinazione mitologica", in questo giudizio: "ciò dipendeva dalla sua natura ermetica che favoriva l'ironia senza raggiungere mai la tagliente acutezza apollinea" (p. 129).