DIARIO
IN VENTUN BATTUTE
di Claudia Crabuzza
1.
In una notte di mezzaluna lasciai la mia testa nel mare.
La vidi allontanarsi verso l'Atlantico, sino a sparire
Me ne andai correndo senza pensare
Solo mare nei polmoni e sulla pelle
Era una notte mezzo fredda.
Seduta sul tronco di un albero godevo degli ultimi istanti
Tutto questo lo perdo di nuovo
Ma resta la mia testa affogata
Viaggiando sino al Pacifico
Disperdendosi nel fondo
Tra rocce e corallo
Tra mostri e raggi di luna
La lascio qui perché continui a godere
Che si goda tutto questo, che si goda tutto
Sino a farsi acqua
Sino a farsi onde
Sino a farsi mare
2.
Fuori solo neve. Neve in alto in basso, in mezzo. Neve bianca
e morta. Ieri ho fatto il bagno in un mare verde di alghe.
Oggi neve bianca.
Dentro ci sono persone che camminano tutte diverse ma con
la stessa espressione nella faccia. Più o meno tutte.
Come la mia. Spaesata. È un aeroporto bianco di pannelli
bianchi dentro e bianco di neve fuori. Dalle immense vetrate
entra solo quel bianco mortale. C'è un ragazzone
nordamericano con maglietta Harley Davidson che si siede
a mangiare un'insalata gigante con una coca o una fanta
o una sprite. Chissà. C'è un bell'uomo con
la maglia e la barba bianca. Ci sono ragazzine bionde con
apparecchio e bambini indiani forse, con strano turbante
annodato davanti. E delle signore obese. Guardo tutte le
facce per vedere se conosco qualcuno. Ma nessuno mi guarda.
Nessuno vede che potrei avere freddo ché sono vestita
come ieri dentro il lago. Che vorrei mangiare o fumare.
Qui non si fuma. Ni modo. Devi mettere i piedi nella neve
per una sigaretta. È il prezzo. I giapponesi hanno
i capelli colorati e i berretti più strani e corrono
via. Questo posto è brutto ma un aeroporto non può
essere bello. C'è solo una moltitudine che se ne
va. E lascia strisce di impazienza per il posto che sta
raggiungendo, o di nostalgia perché l'ha appena lasciato,
o di stanchezza perché è stato faticoso, o
di noia per le code come se fosse la posta il giorno delle
pensioni. O forse questi sono i miei sentimenti. Solo miei.
Posso fermare qualcuno per chiedergli come si sente. Io
ho voglia di andare via o di tornare o di fermarmi finalmente
o di cambiare tutto di nuovo o di un abbraccio stretto o
di sesso silenzioso e veloce in uno sgabuzzino delle pulizie.
Comunque di tornare in mezzo ai colori ché in altri
posti ce ne sono tanti. Anche nella mia piccola città.
Passano due bei ragazzi neri fischiettando don't worry be
happy.
3.
Il tempo fa effetti strani, a sorpresa. Mi è mancata
molto Marianna da subito. E Giò ora che sto tornando
e ho paura di non avere più una casa. E adesso mi
manca il ragazzo della isla di già, è come
se ne facesse parte. E poi mi mancò Armando Montejano
quando mi scrisse parole bellissime che non mi aspettavo.
E Vinicio con le sue canzoni a manovella. Soprattutto mi
è mancata in questi giorni l'idea di poter tornare
a casa. Camminare e conservare tutto negli occhi e nelle
foto e male ai piedi per i mosquitos e caldo e un po' di
solitudine triste però quando torni, torni a casa.
Questo mi è mancato. Per questo sono stata un po'
debole. Per questo ora ho paura di tornare. Nadia non mi
è mancata molto. Avevo bisogno di lasciarla per un
po'. Si, più di tutti mi è mancata la casa
dall'altra parte a farmi coraggio. Aveva ragione Habib.
È inutile continuare ad andare via senza un posto
in cui tornare. È lì che devi lasciare quello
che porti dal viaggio. Altrimenti è solo fatica.
E poi mi sono mancati i soldi. Sempre. Ma questo non conta.
Ecco c'è anche il viaggiatore dell'est, strano personaggio
che ha visto metà mondo e ti sa dire il nome della
posada e l'orario dei treni di qualunque paese. Lui mi manca
perché non sono riuscita a conoscerlo. Dovrà
succedere qualche volta. Quanti uomini vorrei tenere legati
al mio ricordo e donne. E con tutti vorrei un rapporto esclusivo.
Solo io in quel momento e io dentro quel ricordo.
4.
Ritorno alla normalità dormo tanto mi sveglio e riannodo
fili, risistemo scenari sipari bucati. Prima di tutto vedo:
molte buche molti fossi sulla strada erano voragini ora
li guardo bene e sono piccoli inciampi, pietroline che sembravano
montagne. È facile camminare dritto adesso. Ho visto
difficile anche respirare, ora posso addirittura correre.
La scala dei valori è: prima la tranquillità
poi la tranquillità sino all'ultimo gradino. Il resto
è conseguenza, viene quasi spontaneo. Io sono solo
il mezzo per sentimenti e furori e idee e passioni che mi
attraversano. Non voglio disturbare. Prenderò quello
che arriva anche se non ho fatto niente per meritarlo e
non mi lascerò frustrare da assenze ingiuste. Ha
ragione il biondo. Non opporsi alle doti e alla fortuna.
Lascio fluire e mi sembra molto più facile sopravvivere.
Lui non si oppone neanche alla fine. Se torno morto, dice,
sarà difficile parlarti. Così cerchiamo di
parlare adesso. Noi lo sappiamo e non ci spaventiamo. Grazie
biondo.
5.
Nemmeno terra c'è nemmeno terra
Nemmeno sole c'è nemmeno pioggia
È arrivata nostalgia un'altra volta
Non si ferma, non so come fermarla
Nostalgia di colori tuoi, di suoni soavi
Nostalgia di parole piene, di vecchi sguardi
Nostalgia fuerte loca
Di trappole in cui mi persi, in cui morivo
Di trappole di mani avvicinandosi
Non so come fermarla, non si ferma.
6.
Non ce l'ho con te coglione. È che ti ho preso in
un momento in cui non capisci. Ma tu non c'entri. Tu non
puoi capire niente. Non lo vedi. Non lo vedi che mi stai
perdendo, non lo vedi che sei cieco. Che sei uno stronzo
cieco che ti butti via da solo che non hai il coraggio di
vedere che ti amo è da maggio che ti amo da giugno
quando mi parlavi di tutto da agosto che abbiamo dormito
insieme e abbiamo fatto l'amore e ci siamo stretti le mani
e ti amavo a settembre e ti volevo ammazzare e a ottobre
e novembre quando c'era buio e a dicembre ti amavo ancora
e a gennaio che volevo scappare e ti amavo a febbraio e
poi sono scappata e laggiù continuavo ad amarti e
poi ad aprile ti amavo ancora e ora è di nuovo maggio
e io ti amo come sempre come un anno fa. E non mi hai dato
niente per giustificare tutto questo. E non ti meriti niente
di questo e io inspiegabilmente continuo ad amarti, involontariamente;
posso solo aspettare ma non finisce è come un muscolo
come il respiro che puoi anche trattenerlo per un po' ma
poi lo devi lasciare andare, è questo che subisco
ogni giorno di te, ti subisco dentro come un inquilino da
sfrattare bastardo non vedi proprio niente non vedi niente
e non ti meriti niente. Sposati, sposati con lei che ti
lascia fare quello che vuoi bambino viziato di quarant'anni,
tanto lei ti perdona tutto, lei si sacrifica per te. Io
continuerò a farmi prendere da chiunque per restare
sempre più vuota e tristemente e tu perdimi del tutto.
Ecco la fine che stiamo facendo.
7.
Mi stupisce la bellezza delle parole scritte o magari di
queste parole leggere nell'abito e soavi e lisce che quando
le pensi o le immagini soltanto non riesci a capire come
fanno ad essere così dense così piene come
una piccola donna con una voce grande, come un bambino che
ti stupisce con una frase adulta. Da dove hai tirato fuori
queste parole da dove, come hai fatto a metterle insieme
se sono solo parole semplici se non hai usato la memoria
per ricordarle ché sono parole di ogni giorno, comuni
parole di tutti i giorni. Eppure mi stupiscono. Mi incanta
vederle in fila ordinate e leggere, una dopo l'altra e ti
vorrei abbracciare forte per ringraziarti di tutto. Ti vorrei
baciare e stirare le camicie e portarti un caffè
con l'acqua e regalarti i fiori e curarti se ti senti male
e solo. Bello scrittore vecchio come mio padre, se solo
mio padre non avesse deciso di invecchiare di più
ad un certo punto, vecchio vorrei portare le tue parole
anche a lui per curarlo dalla sua tristezza. Vorrei salvarlo
con i tuoi racconti di ronzii e rumori di fondo. In modo
che coprano i suoi che sono brutti e neri. Mi serve una
mano. Di quelle che non tradiscono.
8.
Oggi ho lasciato senza pensieri tristi il mio amico Giovanni.
Lui partirà per il nord e poi tornerà a casa
che non è la mia stessa casa. Da oggi non staremo
più vicini e se ci penso è una cosa molto
triste. Ma siamo viaggiatori e l'amore ci resterà
sempre uguale sempre uguale, l'amore che abbiamo non si
strappa se ci allontaniamo troppo. Se lui se ne va troppo
al nord e io sempre più a sud. La sua isola poi è
questa per sempre. La mia è un po' più in
là. Le nostre isolitudini si assomigliano, però,
e si attraggono e ci tengono stretti vicini lo stesso. E
alla fine è stato un regalo una sorpresa inaspettata.
Qualcosa di più che non ho fatto niente per meritarmi.
Un regalo bello. E poi amo la calia e come sempre ho esagerato.
9.
Guarda che non è il giorno di morire padre mio
Guarda che non è il tempo di andartene padre mio
Esci da quella stanza esci da questa tristezza
Esci che mi vedo sola, escine per favore
Padre non tormentarmi padre mio proprio ora
Ora che ti capisco ora che ti ho trovato
Padre io non volevo, padre io non sapevo niente
Padre sono caduta, non ti ho amato per niente
Il bisogno di adesso è vederti ridere di nuovo
Ché ti voglio vedere vivo, ché mi fa male
il tuo dolore
Ché non abbiamo più tempo, ché ti voglio
vedere ridere
Padre mio fammi il favore, padre mio per favore
Guarda che non è il giorno padre mio bellissimo
Ti vedo ogni giorno morire padre mio
10.
Quanto dolore mi porto dentro, da quando tempo, per quanto
tempo ancora devo vederne per riconoscere che il mio è
più dolce ed è più vuoto perché
non chiede caldo e acqua da bere e pane morbido perché
è dolore di dentro solo piccolo dolore di sentirmi
sola sempre e abbandonata e dimenticata e sconosciuta e
buttata via, quanto dolore mi è entrato nelle ossa
perché continuo a sputarlo fuori dalla pelle dagli
occhi dalle mani bagnate dalla fronte rugata, quanto ne
ho ancora da sputare quanto devo gridare per chiedere aiuto
quanto devo piangere per averlo chiesto nel modo sbagliato.
Quanto ancora devo soffrire aspettando che arrivi qualcuno
a bussare alla porta. Quanto amore devo distruggere per
compensare il dolore che mi brucia i pensieri. Voglio che
vieni a stringermi la faccia a baciarmi gli occhi voglio
che mi abbracci e mi tieni compagnia, è ancora tutto
uguale sono ancora così piccola e sola, mi sento
sola e basta e distruggo tutto quello che ho come non ho
mai fatto, distruggo quello che avrei dovuto distruggere
con le mani invece di fare finta di essere forte. Non ho
mai rotto un piatto o una porta o un vetro o un mio braccio.
Non ho mai gridato non ho mai dato uno schiaffo a nessuno
e ora distruggo tutto con le parole e con lo sguardo. Ma
perché non sei qui con me perché non mi hai
voluto ascoltare perché ancora non mi rassegno se
è così chiaro è così brutto
tutto e io ancora non ci credo e aspetto che bussi alla
porta. E non c'è posto per scappare non trovo nessuna
soluzione non trovo il modo, ho paura come se fossi una
bambina per la strada. Ho paura che non finisca più
ho paura che non mi basterà un figlio e un amore
grande ho paura che non basterà nessun amico vero
e nessun viaggio dentro la fame nera dentro la morte per
diarrea per tosse per raffreddore. Tu perché mi hai
amato solo per un giorno? E non è neanche novembre.
11.
Così finisce agosto invernale di questa estate fredda
e tutto è uguale. Un anno intero un anno passato,
in fondo è solo un anno poteva andare peggio. Un
anno lungo e un estate fredda, un anno perso a trovare modi
nuovi per non sentire il male che fa. Il freddo intorno
alle spalle e mani vuote e baci che mi do sulle spalle per
sentirmi meno sola. Ho pelle morbida e pelle giovane e tu
perché non te ne sei accorto? Chi ti ha preso il
cuore scapestrato infedele. Anche questo San Lorenzo sono
cadute le stelle sulle spiagge di notte e non ho fatto altro
che chiederti indietro. Chi ha ricevuto le mie insistenti
richieste? In quale burocrazia stellare si sono perse? E
allora ho un altro desiderio. Lasciami per favore in pace
distratto traditore di mani ingenue, di mani sensibili e
ingenue.
12.
FOTOGRAFIE
1. Prove suoni dietro lo stadio. Scritta sul muro: fuori
i fascisti da KR in grande, e un simbolo strano con una
freccia che indica proprio a un metro la camionetta blu
carica di sbirri. Molto bella foto.
2. Lolli che canta con il libretto di testi in mano e legge
ogni frase. Dolce.
3. Altalena con sostegno in ferro blu in mezzo al mare.
Tanto giusto da dondolare fuori sul pelo delle onde di riva.
Dietro sullo sfondo draghe.
4. Abusivismo edilizio sulla costa crotonese. 10 foto.
5. Costa di Crotone. Crosta di fango grigio verde secco
in alto e friabile in basso dove bagna l'onda, fango molle
come il das che si scioglie e ci puoi fare i massaggi e
le maschere di bellezza.
6. Io seduta su uno scoglio piedi e pantaloni bianchi dentro
l'acqua. Seno dritto all'aria del sud e cielo scuro. Io
che scrivo.
ALTRE FOTOGRAFIE
1. Io che ballo in mutande nella spiaggetta deserta. La
faccia verde e fissa di fango seccato. Canto ma solo a mente
e ballo con piroette e volute tra l'acqua e il bagnasciuga.
È più che una foto, un piccolo filmino.
2. Altre 10 foto sul tema abusivismo selvaggio sulla costa
crotonese.
3. Piccola targa sul muro dove ho deciso di fermarmi: piazzetta
Rino Gaetano. C'è molto amore per lui.
4. Ragazzino con capelli a panettone che salta sulle braccia
a ritmo hip hop in fondo alla piazzetta Rino Gaetano. Sullo
sfondo il mare e la falsa scogliera di argilla.
13.
Solo questo ti chiedo amico, solo questo. Per favore mio
amico, quando arrivo voglio vederti lì fumando le
tue sigarette di marijuana, ridendo di tutto, delle donne
che ti guardano, della vita che si sei speso, ridendo del
lavoro e del tuo corpo fragile. Solo questo voglio amico
mio. Solo guardarti da lontano e sapere che ancora resisti.
Sei forte, sei pulito e forte. Devi aspettarmi lì,
voglio fumare con te voglio dirti non lasciarmi mai più
senza notizie senza una maledetta lettera. Non lasciarmi
mai.. non lasciarti cadere amico mio caro. Non farmi questo
scherzo.
14.
Il pianista che canta davanti al mare dietro il mare con
il mare intorno. Canta le sue canzoni di lingua italiana
e spagnola e di voce di pianista. Voce timida e impaurita
come se la sua vita non fosse già perfetta. Perché
non ti salvi pianista. Perché ti stai abbandonando
al lavoro senza sosta, perché questo tempo non è
diventato la tua salvezza, perché non ti sta servendo.
Perché non stai più attento sotto l'onda del
successo di questi concerti bellissimi, sempre sotto l'onda
e non ti accorgi che stai per annegare. Non ti accorgi che
io sono salva. Io non ho bisogno di aiuto da te. Tu hai
bisogno di me. Io ti voglio portare in una foresta in un
porto sconosciuto in un'autostrada infinita ti voglio portare
a dormire in un garage o per terra sotto gli alberi. Ti
voglio portare in mezzo all'argilla che scende dalla scogliera.
Scogli di fango di casa tua che tu forse non hai mai visto
perché tu hai paura. Ma non lo vedi che affascini
il mondo con quella voce stentata con la tua faccia che
chiede amore con quella faccia di piccolo pianista sulla
sedia davanti alla famiglia a Natale. Tu sei grande, sai
suonare.
15.
Victor suonava la chitarra anche senza le mani e la gente
seguiva cantando anche senza voce, senza più voce
ma con l'anima dritta e tagliente e sempre pungendo coscienze
vendute di traditori.
Ernesto correva correva e non aveva fiato non respirava
bene la notte nella selva con l'amaca colgada tra gli alberi
umidi. E aveva colonne al suo seguito che lo accompagnarono
sino all'isola, a prendere l'isola dello zucchero.
E Piero parla alla radio e trasmette canzoni intelligenti
e si tiene legato alla vita con fare prepotente. Niente
lo uccide e lui si gioca ogni giorno sparando sul mondo
e difendendo le anime pulite. Piero si salva e regala speranza.
Peppino ha scelto di raccontare le stesse cose, ma non si
è tenuto la vita, l'ha scambiata con il potere della
libertà. Ha perso come sempre. O ha vinto. Ha scelto,
ecco tutto. Ha scelto di non avere paura e ha pianto di
notte per non avere la possibilità di diventare vecchio.
El Sup lo dice, si lotta per quelli di domani. Ce ne andremo
in un modo o nell'altro senza vedere nessun risultato per
noi. Nessuna speranza per domani, solo per molti domani
dopo.
El Sup continua con forza e non perde il suo umorismo. La
sua risata seppellirà i presidenti che verranno e
sarà molto più intelligente dei loro discorsi
televisivi.
16.
Belle donne bei culi belle facce truccate. Brave, bella
linea e io sono sconvolta perché per il petrolio
sono morti 500 mila bambini solo in Iraq solo negli ultimi
dieci anni e ce ne sono tanti malformati senza le braccia
con la testa che esplode bambini che hanno solo respirato
le bombe intelligenti degli americani quelle che non fanno
scoppiare un carro armato, lo sciolgono lo bruciano come
i corpi dei soldati che lo guidavano, tu ti lamenti signora
americana che voleva fare la carriera militare, ti lamenti
perché il tuo corpo è devastato e i tuoi bambini
non hanno gli organi e mi dispiace e piango anche per loro,
anche per te perché sei stata ingannata e usata.
Il patriottismo che maschera la miseria del potere a tutti
i costi. Mi dispiace anche per te ma tu che cosa ci sei
andata a fare in Iraq, che cosa credevi? Come hai fatto
a farti fottere senza protestare? I tuoi ideali di onesta
cittadina americana.. perché non hai pensato che
era il solito modo di impossessarsi della vita di tutto
un popolo di tutta una generazione e delle generazioni che
verranno. Donna sei uguale a tutti quelli che si lasciano
terrorizzare senza pensare che chi fa del male non sono
i disgraziati che si ribellano, ma i signori democratici
senza scrupoli. Ne valeva la pena? Si, dice la signora Albright
un'altra donna, un'altra vergogna sicura di sé, un'altra
artefice della sconfitta che stiamo attirando. Il senso
della vita, l'intelligenza, la Natura. La vergogna e lo
stupore sono la mia risposta. Contro quell'altra donna,
contro la sua rabbia e il suo orgoglio.
17.
Magra di cristallo mi ha portato a casa e mi ha spinto le
sue ossa appuntite contro per penetrarmi per farmi gridare
e io l'ho fatto a lei come in uno specchio due corpi uguali
uno contro l'altro. Vorrei scrivere una storia che parla
di due donne piccole e magre due donne che camminano sfrontate
tenendosi per mano e si spogliano quasi nella febbre del
vino e del desiderio sotto un lampione in città,
due piccole donne magre che si amano limpide, amore misurato
e giovane quasi da bambini. Quello grande col tormento e
la passione quello che ti cambia la giornata e le aspettative
non c'è più non c'è ora. Non lo voglio
più mi ha spaccato l'anima e i denti mi ha preso
a schiaffi e non ho nient'altro da porgere. Torno a amori
vergini e disincantati sesso e leggerezza. Evidentemente
non è il momento di amare in grande. Evidentemente
il colpo è stato duro e mi sono salvata per un pelo.
Come sempre. Devo regalare amore a manciate come riso ai
matrimoni e raccogliere da terra le caramelle che si trovano.
Mi lascio amare da tutti e tutti sono il mio unico amore.
Devo ricordarmelo. Il treno sfila veloce nella galleria.
Fischio nelle orecchie e buio e porte che sbattono.
18.
Que pasa compañera ti stai perdendo nel deserto di
Almeria, la strada infinita che porta al sud, le serre di
plastica otto ore di lavoro per trenta euro e 50 gradi sulla
testa. Tu vorresti gridare ma ti hanno intrappolato occhi
trasparenti dall'altra parte dello specchio, que pasa ti
hanno portato via sino al mare nero del sud, vino d'estate
e mate e un passaggio per Granada città araba, il
barrio di jasmin, le mani dei gitani suonano musica da ballare
e Javier ha occhi trasparenti, guardi il mare e ti dimentichi
delle barche dei naufraghi, delle giovani donne dentro le
serre dei nuovi schiavi del mondo che cade a pezzi. Ma ora
questo è per te compañera nutrimento per la
guerra che viene, provvista per quando verrà la guerra.
19.
Tre settimane, al caldo del deserto a vedere le stelle pulite
e chiare e vedere pezzi di storia antica che ti si attaccano
dentro l'anima per sempre. Per non dimenticare quanto è
piccola la nostra epoca, quanto corre veloce senza lasciare
altro che immondezza nell'aria e nella terra e nel mare
e nello spazio. Quanto può restare di quello che
stiamo lasciando. Resteranno i bambini resterà mio
figlio a maledire i vecchi a vergognarsi e a piangere davanti
a una piramide, o a un castillo, a chiedersi perché
non abbiamo imparato niente dalla storia perché l'abbiamo
trasformata in un parco di divertimento per turisti con
il cappellino mcdonald perché abbiamo calpestato
luoghi sacri solo per metterci in posa per le foto che gli
amici non hanno mai voglia di vedere, luoghi dove uomini
e donne sacrificavano la vita agli dei e alla pace sulla
terra, all'armonia con la natura Madre e sorella. Noi ci
arrampichiamo sulla punta più alta della piramide
per verificare se là c'è copertura per il
telefono e non sappiamo stare zitti davanti all'energia
accumulata nei millenni, non riconosciamo la magia del silenzio
della storia perché stiamo gridando stupidaggini.
Che cosa succede, hombre, vuoi dimenticarti tutto, vuoi
cancellare tutto? Io voglio sedermi davanti a un albero
e sentire se mi dice qualcosa, se mi dice come mai non mi
sono mai fermata prima ad ascoltarlo. Se mi dice che sono
anch'io una povera sola abbandonata e avvelenata.
21.
Caro Javier
è l'istante in cui fa notte,
la luce se n'è andata tra un cielo scuro e il mare
azzurrobianco,
sembra fermo il mare ad aspettare che torni il giorno.
Resta solo l'ombra di Capo Caccia col suo piccolo faro
ogni sei secondi 6 battiti di cuore 6 barche all'orizzonte
6 secondi per un istante di luce,
sei battiti del mio cuore raffreddato sei respiri affrettati.
Capo Caccia è un gigante addormentato,
sulla testa porta un lampo di luce ogni sei battiti.
Come me, ogni tanto una luce lontana mi illumina,
ogni tanto mi siedo ad aspettarla quando fa notte.
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RISVEGLIO
di Mauro Righi
Dovrei
proprio comprarmi uno di quegli stupidi cappellini da pesca,
e lenze e ami e tutto l'occorrente. Sabato, tempo permettendo,
potrei cominciare questo nuovo hobby e fare contento il
mio psicanalista, il quale sostiene che un sano interesse
aiuti a dimenticare l'alcol e le porcherie che ne derivano.
Dovrei proprio comprarmelo uno di quegli stupidi cappelli,
ficcarmelo in testa e sedermi davanti a qualche fiume o
canale ad aspettare che i pesci abbocchino.
Ma l'unico che abbocca sono io, che ascolto tutto quello
che mi dicono. E poi non mi è mai piaciuta la pesca,
mi sembra uno sport troppo violento. E non ci trovo niente
di interessante nello strappare quelle povere creaturine
dal loro ambiente e ficcarle in padella. Non mi piace la
pesca. Io avevo proposto il biliardo, ma il mio psicanalista
mi ha detto che le sale da biliardo sono tutte munite di
bar, quindi per un alcolista non è questo l'hobby
più indicato.
Mi ha anche detto che mi farebbe molto bene tenere un diario
e scriverci sopra quello che mi accade e quello che mi passa
per la testa durante il giorno.
Mi ha anche detto che il mio problema risale ad un cattivo
rapporto con i genitori da ricondurre ai miei primi anni
di vita. Come se già non sapessi che tutti gli strizzacervelli
prima o poi tentano di farti arrivare alla conclusione che
sei triste perché da bambino, alzandoti la notte
per fare la pipì, hai beccato il papà e la
mamma che facevano l'amore.
Mi ha anche detto che quello che non faccio adesso nella
mia vita non lo farò mai più.
Mi ha detto che devo reagire e devo uscire da questo stato
di apatia in cui sono cascato.
Mi ha detto un sacco di cose, il mio psicanalista.
Me le ha dette tutte a settantamilalire l'ora, che è
una cifra di tutto rispetto.
Mi ha anche detto che sto facendo un sacco di resistenze
alla cura, che non collaboro e che così non migliorerò
mai. Certo che se sapesse che oggi ho passato il pomeriggio
davanti ad un negozio di articoli sportivi a guardare i
cappellini da pesca certamente non sarebbe orgoglioso di
me. Non sarebbe orgoglioso di me, ma le settanta carte le
vorrebbe lo stesso.
A volte penso che quello che mi sta capitando è proprio
quello che merito, non faccio altro che fare cazzate. E'
tutta la vita che faccio cazzate.
Ieri sono stato qualche ora seduto in soffitta a scrivere
su una vecchia scrivania mentre fuori pioveva e alla radio
trasmettevano quella musica di colore, in questo paese in
cui la gente odia i colori. Mi sono messo lì e ho
pensato che, anziché tenere un diario, avrei potuto
scrivere ad un amico. Sono salito in soffitta, ho guardato
dentro il baule dei ricordi fino a che non ho trovato le
foto di un po' di amici - scusate la rima - dei tempi felici.
Dei tempi in cui si girava tutta la notte e si finiva di
far baldoria all'alba. In certe notti spensierate dove l'unico
imperativo era divertirsi. Bei tempi. E adesso?
E adesso a casa da solo. A bere. Bere per dimenticare. No,
troppo banale. Bere per bere. Perché starsene a casa
da soli è proprio il massimo dell'infelicità.
E' questo che penso. La casa vuota. Forse abitata da fantasmi
o cose del genere. Scricchiolii ovunque. E' la mia anima
o il vecchio pavimento di parquet?
Accendo la radio e metto su il bricco del caffè tanto
per riempire la casa di note e odori. Tanto per scacciare
i fantasmi.
Poi mi fermo in mezzo alla stanza, annuso, ascolto e d'un
tratto la casa si riempie di amici. Ce ne sono quindici,
forse venti. Offro loro dello champagne o più' semplicemente,
birra. Per non perdere la buona tradizione mi verso del
whisky e lo assaporo gelosamente dietro la finestra più
bella di tutta la casa, quella che affaccia sul mare.
Un mare azzurro e una spiaggia bianca, alcune vele in lontananza
e tanti gabbiani e uno strano gioco di luce. E pensare che
poco prima pioveva e la spiaggia era una tangenziale e il
mare una città grigia e il cielo fumoso e nero e
io ero solo; mi giro per dire ai miei amici "guardate
che bello venite qui con i vostri bicchieri vicino alla
finestra e facciamo un brindisi".
Mi giro e non c'è più nessuno. Mi rigiro verso
la finestra. E' ricominciato a piovere, è ritornata
la tangenziale e il cielo grigio.
Tutti gli amici se ne sono andati. Il caffè è
traboccato dalla moka e si è incrostato sui fornelli.
Guarda che casa mi hanno lasciato
mozziconi sul tappeto,
bicchieri e bottiglie vuote dappertutto.
Begli amici. Se ne vanno sempre sul più bello. Amici.
Amici un cazzo.
Però c'eravate proprio tutti. Quando tornerete a
trovarmi?
Voglio vedere il vostro bicchiere svuotarsi insieme al mio.
Come ai vecchi tempi. Rispondete a questa lettera. Rispondete
e ditemi che mi volete bene. E sbronzatevi, offro io.
****************************************
I
DIECI MINUTI
di Angelo Vargiu
Tornava a casa a piedi, come
ogni sera. Passo agile da trentenne e mani in tasca.
Era tardi. Non avrebbe incontrato nessuno.
Un'automobile passava più veloce del solito sulla
strada finalmente libera dal traffico; sfrecciava irridendo
i semafori lampeggianti; nel silenzio si poteva sentire
la sofferenza delle gomme sul lastricato. Non avrebbe voluto
che gli si fermasse accanto, accostandosi al marciapiede,
e il vicino di casa si sporgesse con un movimento scomodo
sul sedile del passeggero e gli aprisse la portiera. Non
a quell¹ora. Non era ora di faticosi convenevoli. E
se si fosse fermato uno sconosciuto? Una volta, una macchina
sportiva si era accostata dall'altra parte della strada
e un tipo aveva abbassato il finestrino e l'aveva seguito
lentamente per un pezzo di strada. Lui l'aveva ignorato
cercando di non cambiare il passo e provando a riprendere
il filo dei pensieri che aveva avuto fino a quel momento,
ma la presenza del motore al minimo, alla sua destra, gli
impediva di ragionare e l'aveva costretto a svegliare la
percezione dei propri passi, del respiro, di ogni rumore
intorno, delle mani nelle tasche, senza lasciare spazio
ad altro, nella sua testa. Il tipo, dopo un tempo lunghissimo,
si era deciso a rivolgergli la parola e gli aveva chiesto
se volesse un passaggio. Lui, senza rallentare, si era girato,
come accorgendosi solo allora della presenza della macchina,
e aveva risposto tranquillamente di no, che era quasi arrivato.
Ma quello insistette tanto che, per toglierselo di torno
il più in fretta possibile, lui salì in macchina
e, durante i pochi minuti che lo separarono da casa, rispose
alle domande dell¹uomo occhialuto, spelacchiato e profumato,
con una giacca marinaresca dai bottoni argentati e un foulard
al collo. Ripensandoci adesso, mentre passava per il tratto
di strada dove la macchina si era accostata, gli veniva
da sorridere accorgendosi che il fastidioso inseguimento
era durato solo per un centinaio di metri: due minuti che
gli erano sembrati venti. Cosa era riuscito a chiedergli
in quei pochi minuti fino a casa sua? Come mai tornava da
solo. E se faceva sport. E chissà quante ragazze...
Grazie sono arrivato. E¹ stato molto gentile. Si,si,
un'altra volta. Arrivederci. (Baecagga!).
Il lungo viale era pieno di
negozi chiusi, bar con la serranda semiabbassata, le sedie
rovesciate sui tavolini e il pavimento lucido, appena lavato,
che rifletteva il neon abbagliante. Nelle parti dove gli
alberi facevano ombra alla luna e ai lampioni, portoni grandi
e piccoli di condomini vecchi e nuovi. E staccionate di
cantieri di demolizione, costruzione o ristrutturazione.
Dietro una di quelle staccionate, le tavole grezze lasciavano
intravvedere un enorme cratere rettangolare con dentro i
pezzi di traliccio di una gru da montare, una ruspa, e grandi
confezioni di mattoni. Si ricordava che, solo due mesi prima,
tornando più tardi del solito, lì aveva sentito
l'odore conturbante del pane appena sfornato e aveva bussato
alla serranda chiusa, da cui filtrava la luce del negozietto,
per comprare un panino e gliel'avevano regalato, con le
mani bianche di farina. Accanto alla panetteria ricordava
una palazzina anni quaranta, un pò diroccata, con
un portone che cadeva a pezzi, e sarebbe sembrata abitata
solo dai topi, se una vecchietta, quasi per dare un estremo
barlume di
esistenza, non avesse passato il tempo affacciata alla finestra
al piano terra, la faccia tra i gerani e il basilico, a
scrutare tutti quelli che gli passavano sotto il naso. Ricordava
l'ambulanza che ne aveva portato via il corpo, una mattina,
e la finestra chiusa, e i vasetti vecchi e le piantine avvizzite.
Il cartello, alla fine della palizzata, mostrava il progetto
di un palazzo di cinque piani. La città aveva il
suo passo, lento, costante, e camminava nella sua stessa
direzione.
Svoltò a sinistra; lasciò
la strada principale che portava fuori città per
una più stretta che l¹avrebbe portato al suo
quartiere, in periferia. La stradina passava in mezzo a
una piccola pineta con bei prati, incrociava quindi lo stretto
binario della ferrovia regionale, che costeggiava la pineta
e, dopo una larga curva, passava davanti a una scuola.
Aveva sempre trovato piacevole questo mezzo chilometro;
da anni, prima o poi, si riprometteva di andare a passeggiare
nel prato in mezzo al fresco dei pini; e quando ci passava
tornando a casa, gli dispiaceva che durasse così
poco. A volte non si capacitava di esserne già arrivato
alla fine,
quando gli sembrava di avere appena svoltato dal viale.
Camminava già da mezzora e dopo la scuola e un giardinetto
quasi rinselvatichito, svoltò ancora a sinistra,
per l'ultimo tratto di strada.
Gli ultimi cinquecento metri erano in lieve discesa, quindi
non faticosi, anche piacevoli, si potrebbe pensare, per
chi aveva già mezzora sulle gambe. Ma era una strada
vuota. Non c¹erano case né alberi. Sul lato
destro, la lunga cancellata di due o tre scuole immerse
nel buio e poi un alto muro. A
sinistra, invece, un unico muro di cemento, sempre uguale
per tutti i cinquecento metri. Un muro nudo, alto più
di due metri, separato dal marciapiede e dalla strada, da
una lunga trincea di terra battuta.
Se nella stradina in mezzo alla pineta qualche volta si
era sentito quasi arrivato, ora aveva davanti a se uno spazio
di tempo vuoto da riempire. Perché, se da quando
era partito e fino a quel momento le gambe avevano marciato
da sole - come se le avesse avviate e avesse acceso il pilota
automatico - e il passo regolare aveva attivato la dinamo
dei pensieri, ora doveva comandare ogni dettaglio di se,
del suo camminare e della strada su cui camminava. Era stata
la strada, fino a quel momento, a portarlo, a spostarlo
nello spazio, da un portone all'altro, da un bar al ricordo
della vecchietta alla finestra, e da un albero all'altro,
nella pineta. Ora toccava a lui trasportarsi, muovere i
passi, coprire, percorrere gli ultimi dieci minuti sentendo
gambe, piedi, respiro e attivare anche i pensieri che
da soli non sapevano uscire dalla sua testa.
Ricominciò allora il
gioco che aveva inventato per riempire quel tempo vuoto.
Aveva cominciato misurando lo spazio di quegli ultimi dieci
minuti di strada con i passi: seicento - potevano variare
di quattro o cinque, se era molto stanco o col vento contrario;
venti lampioni - trenta passi per ogni
lampione; i respiri - ogni inspirazione ed espirazione in
sei passi, per un totale di cento respiri; cinque per ogni
lampione. Non era riuscito a misurare esattamente quanti
battiti cardiaci sarebbero occorsi fino a casa, se non con
un calcolo della media e aveva stabilito che il suo cuore
in dieci minuti, seicento passi, cento respiri, venti lampioni,
batteva quattrocentotrentadue volte - trentasei battiti
per ogni lampione. Era diventato un orologio ticchettante,
un motore regolato che lo portava a casa.
E poi aveva cominciato, a quel punto del rientro a casa,
a ricostruire mentalmente delle azioni e tutti i gesti che
le componevano, misurando la durata di ogni particolare
con l'orologio dei passi, lampioni, respiri, battiti. Aveva
costruito una libreria, utilizzando i materiali migliori
e tutti gli attrezzi e i macchinari necessari. Ogni sera
ricominciava da capo e per molte sere, finché ogni
gesto, il misurare le tavole, il tagliarle, l'incollarle,
il tingerle, non si era adattato alle precise durate del
suo camminare. Era diventato bravo e si era cimentato con
un mobiletto completo di sportelli e cassetti.
Poi, per almeno due settimane, aveva smontato, pulito e
rimontato il carburatore della sua vecchia cinquecento,
da tempo rottamata. Aveva dipinto paesaggi e nature morte.
Aveva percorso in lungo e in largo il traghetto Flaminia,
dal bar al ristorante, per corridoi, ponti copertini, ascensori
e garages; anche col mare grosso - cosa che lo faceva quasi
barcollare, lì nella via.
Riusciva a compiere nei dieci minuti di quei cinquecento
metri, azioni per le quali sarebbero occorse molte ore.
Ogni azione ripetuta sera dopo sera, fino a quando la durata
di ogni gesto non si era uniformata alle scansioni di se
stesso-orologio.
Aveva poi preso a immaginare la cena che l'aspettava, già
pronta, a casa. Dal momento in cui si sedeva a tavola e
toglieva il coperchio al tegame, sul tavolo apparecchiato
solo per lui da sua madre prima di andare a letto - sessanta
passi, dal primo al terzo lampione, dieci respiri, settantadue
battiti cardiaci; constatare cosa c'era: di solito pasta
ancora tiepida, tiepida e profumata: ne andava pazzo - sei
passi. Ne versava una porzione consistente nel piatto e
riappoggiava il tegame - sessanta passi fino al quinto lampione.
Cominciava a mangiare. A questo punto aveva rinunciato a
calcolare il battito cardiaco che tendeva ad accelerare,
ma in compenso aveva regolato la masticazione sul ritmo
dei passi e respiri, ma senza contare quante ne faceva:
quando ci aveva provato si era perso e aveva rovinato la
cena. La prima porzione di pasta finiva al dodicesimo lampione
e, nei sessanta passi che lo portavano al tredicesimo e
al quattordicesimo, si puliva le labbra col tovagliolo,
versava un bicchiere di vino e lo beveva avidamente in una
lunga sorsata. Si versava la restante pasta nel piatto,
più velocemente di prima, in novanta passi, e mangiava
di gusto, già aspettandosi la malinconia del piatto
finito, fino al diciasettesimo lampione. Ancora il tovagliolo
sulle labbra, per dodici passi - due respiri completi. Si
versava un mezzo bicchiere di rosso che beveva più
lentamente fino a ventidue passi dopo il diciannovesimo
lampione. All'arrivo al ventesimo lampione, si lasciava
andare sullo schienale della sedia.
La cena era diversa dalle altre azioni: durava effettivamente
dieci minuti. Non aveva dovuto accelerare le azioni per
adattarle al suo orologio. E le sensazioni erano talmente
reali che non sarebbe stato possibile accelerare gesti che
gli permettevano di ricordare, e quindi sentire, il gusto
della pasta, o il fresco acidulo del vino sul palato e in
gola, o la piacevole ruvidità del tovagliolo sulle
labbra appena umide.
Ma adesso, e già da alcune sere, il gioco aveva subito
una evoluzione, forse per l'appetito che si risvegliava
a quel punto della strada, e lui lasciava che le azioni
sensoriali non avessero costrizioni, che durassero il loro
tempo giusto, e ne misurava le durate. Il suo orologio si
era ormai
automatizzato: erano mesi che ci giocava tutte le sere,
ma, abbandonandosi alla immaginazione sensoriale, ogni gesto
era andato dilatandosi sempre di più e la strada
non bastava più a finire la cena.
Non se ne preoccupò e lasciò che i tempi si
allungassero sempre di più. Il gioco lo aveva preso
al punto che la strada e il tempo precedenti agli ultimi
cinquecento metri, erano diventati la loro preparazione,
l'aperitivo alla cena. Arrivava alla fine della stradina
nella pineta già concentrato e
soprattutto affamato. E negli ultimi dieci minuti tirava
tanto a lungo le sensazioni, le prolungava, per coglierne
ogni possibile piega, che ormai della cena era rimasto solo
il momento in cui toglieva il coperchio dal tegame dei maccheroni.
Aveva rallentato il ritmo dei respiri, ne faceva uno ogni
dieci passi, e l'inspirazione era più lunga dell'espirazione
- che era rapida per rincorrere una nuova inspirazione -
perché nell'inspirazione cercava e trovava ogni particella
del profumo che usciva dal tegame, nel momento in cui lo
scoperchiava.
Quando arrivava a casa, svegliato improvvisamente dalla
trance, aveva una fame feroce e divorava i suoi maccheroni
in tre minuti, direttamente dal tegame, con forchettate
sovraccariche.
Anche quel giorno cercava l¹illusione
di un'unico, lunghissimo respiro che durasse i seicento
passi. E ci riuscì. Riuscì a sentire, prolungato
per dieci minuti, il momento dell'apertura del tegame, o
meglio: i dieci minuti si erano ridotti ai pochi attimi
in cui l¹odore dei maccheroni si spandeva fuori dal
tegame e raggiungeva il suo naso, e impregnava le mucose
durante una lunghissima inspirazione. Aveva raggiunto lo
zen del profumo dei maccheroni.
Il giorno dopo ritirò
lo stipendio e finalmente aveva l'anticipo per comprarsi
una macchina.
La sera, mentre rientrava a casa, la distrusse contro il
diciasettesimo palo.
Pensato dalle 23,40 alle 23,50 del 27
novembre 2002, in via Solari, a Sassari.
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