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GIOCHI E PAROLE

 

"GIOCHI E PAROLE", XÁOS. Giornale di confine, Anno II, N.2 Luglio-Ottobre 2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_1/18.htm

Hanno scritto: Claudia Crabuzza, Mauro Righi, Anngelo Vargiu

DIARIO IN VENTUN BATTUTE
di Claudia Crabuzza

1.
In una notte di mezzaluna lasciai la mia testa nel mare.
La vidi allontanarsi verso l'Atlantico, sino a sparire
Me ne andai correndo senza pensare
Solo mare nei polmoni e sulla pelle
Era una notte mezzo fredda.
Seduta sul tronco di un albero godevo degli ultimi istanti
Tutto questo lo perdo di nuovo
Ma resta la mia testa affogata
Viaggiando sino al Pacifico
Disperdendosi nel fondo
Tra rocce e corallo
Tra mostri e raggi di luna
La lascio qui perché continui a godere
Che si goda tutto questo, che si goda tutto
Sino a farsi acqua
Sino a farsi onde
Sino a farsi mare

2.
Fuori solo neve. Neve in alto in basso, in mezzo. Neve bianca e morta. Ieri ho fatto il bagno in un mare verde di alghe. Oggi neve bianca.
Dentro ci sono persone che camminano tutte diverse ma con la stessa espressione nella faccia. Più o meno tutte. Come la mia. Spaesata. È un aeroporto bianco di pannelli bianchi dentro e bianco di neve fuori. Dalle immense vetrate entra solo quel bianco mortale. C'è un ragazzone nordamericano con maglietta Harley Davidson che si siede a mangiare un'insalata gigante con una coca o una fanta o una sprite. Chissà. C'è un bell'uomo con la maglia e la barba bianca. Ci sono ragazzine bionde con apparecchio e bambini indiani forse, con strano turbante annodato davanti. E delle signore obese. Guardo tutte le facce per vedere se conosco qualcuno. Ma nessuno mi guarda. Nessuno vede che potrei avere freddo ché sono vestita come ieri dentro il lago. Che vorrei mangiare o fumare. Qui non si fuma. Ni modo. Devi mettere i piedi nella neve per una sigaretta. È il prezzo. I giapponesi hanno i capelli colorati e i berretti più strani e corrono via. Questo posto è brutto ma un aeroporto non può essere bello. C'è solo una moltitudine che se ne va. E lascia strisce di impazienza per il posto che sta raggiungendo, o di nostalgia perché l'ha appena lasciato, o di stanchezza perché è stato faticoso, o di noia per le code come se fosse la posta il giorno delle pensioni. O forse questi sono i miei sentimenti. Solo miei. Posso fermare qualcuno per chiedergli come si sente. Io ho voglia di andare via o di tornare o di fermarmi finalmente o di cambiare tutto di nuovo o di un abbraccio stretto o di sesso silenzioso e veloce in uno sgabuzzino delle pulizie. Comunque di tornare in mezzo ai colori ché in altri posti ce ne sono tanti. Anche nella mia piccola città. Passano due bei ragazzi neri fischiettando don't worry be happy.

3.
Il tempo fa effetti strani, a sorpresa. Mi è mancata molto Marianna da subito. E Giò ora che sto tornando e ho paura di non avere più una casa. E adesso mi manca il ragazzo della isla di già, è come se ne facesse parte. E poi mi mancò Armando Montejano quando mi scrisse parole bellissime che non mi aspettavo. E Vinicio con le sue canzoni a manovella. Soprattutto mi è mancata in questi giorni l'idea di poter tornare a casa. Camminare e conservare tutto negli occhi e nelle foto e male ai piedi per i mosquitos e caldo e un po' di solitudine triste però quando torni, torni a casa. Questo mi è mancato. Per questo sono stata un po' debole. Per questo ora ho paura di tornare. Nadia non mi è mancata molto. Avevo bisogno di lasciarla per un po'. Si, più di tutti mi è mancata la casa dall'altra parte a farmi coraggio. Aveva ragione Habib. È inutile continuare ad andare via senza un posto in cui tornare. È lì che devi lasciare quello che porti dal viaggio. Altrimenti è solo fatica. E poi mi sono mancati i soldi. Sempre. Ma questo non conta. Ecco c'è anche il viaggiatore dell'est, strano personaggio che ha visto metà mondo e ti sa dire il nome della posada e l'orario dei treni di qualunque paese. Lui mi manca perché non sono riuscita a conoscerlo. Dovrà succedere qualche volta. Quanti uomini vorrei tenere legati al mio ricordo e donne. E con tutti vorrei un rapporto esclusivo. Solo io in quel momento e io dentro quel ricordo.

4.
Ritorno alla normalità dormo tanto mi sveglio e riannodo fili, risistemo scenari sipari bucati. Prima di tutto vedo: molte buche molti fossi sulla strada erano voragini ora li guardo bene e sono piccoli inciampi, pietroline che sembravano montagne. È facile camminare dritto adesso. Ho visto difficile anche respirare, ora posso addirittura correre. La scala dei valori è: prima la tranquillità poi la tranquillità sino all'ultimo gradino. Il resto è conseguenza, viene quasi spontaneo. Io sono solo il mezzo per sentimenti e furori e idee e passioni che mi attraversano. Non voglio disturbare. Prenderò quello che arriva anche se non ho fatto niente per meritarlo e non mi lascerò frustrare da assenze ingiuste. Ha ragione il biondo. Non opporsi alle doti e alla fortuna. Lascio fluire e mi sembra molto più facile sopravvivere. Lui non si oppone neanche alla fine. Se torno morto, dice, sarà difficile parlarti. Così cerchiamo di parlare adesso. Noi lo sappiamo e non ci spaventiamo. Grazie biondo.

5.
Nemmeno terra c'è nemmeno terra
Nemmeno sole c'è nemmeno pioggia
È arrivata nostalgia un'altra volta
Non si ferma, non so come fermarla
Nostalgia di colori tuoi, di suoni soavi
Nostalgia di parole piene, di vecchi sguardi
Nostalgia fuerte loca
Di trappole in cui mi persi, in cui morivo
Di trappole di mani avvicinandosi
Non so come fermarla, non si ferma.

6.
Non ce l'ho con te coglione. È che ti ho preso in un momento in cui non capisci. Ma tu non c'entri. Tu non puoi capire niente. Non lo vedi. Non lo vedi che mi stai perdendo, non lo vedi che sei cieco. Che sei uno stronzo cieco che ti butti via da solo che non hai il coraggio di vedere che ti amo è da maggio che ti amo da giugno quando mi parlavi di tutto da agosto che abbiamo dormito insieme e abbiamo fatto l'amore e ci siamo stretti le mani e ti amavo a settembre e ti volevo ammazzare e a ottobre e novembre quando c'era buio e a dicembre ti amavo ancora e a gennaio che volevo scappare e ti amavo a febbraio e poi sono scappata e laggiù continuavo ad amarti e poi ad aprile ti amavo ancora e ora è di nuovo maggio e io ti amo come sempre come un anno fa. E non mi hai dato niente per giustificare tutto questo. E non ti meriti niente di questo e io inspiegabilmente continuo ad amarti, involontariamente; posso solo aspettare ma non finisce è come un muscolo come il respiro che puoi anche trattenerlo per un po' ma poi lo devi lasciare andare, è questo che subisco ogni giorno di te, ti subisco dentro come un inquilino da sfrattare bastardo non vedi proprio niente non vedi niente e non ti meriti niente. Sposati, sposati con lei che ti lascia fare quello che vuoi bambino viziato di quarant'anni, tanto lei ti perdona tutto, lei si sacrifica per te. Io continuerò a farmi prendere da chiunque per restare sempre più vuota e tristemente e tu perdimi del tutto. Ecco la fine che stiamo facendo.

7.
Mi stupisce la bellezza delle parole scritte o magari di queste parole leggere nell'abito e soavi e lisce che quando le pensi o le immagini soltanto non riesci a capire come fanno ad essere così dense così piene come una piccola donna con una voce grande, come un bambino che ti stupisce con una frase adulta. Da dove hai tirato fuori queste parole da dove, come hai fatto a metterle insieme se sono solo parole semplici se non hai usato la memoria per ricordarle ché sono parole di ogni giorno, comuni parole di tutti i giorni. Eppure mi stupiscono. Mi incanta vederle in fila ordinate e leggere, una dopo l'altra e ti vorrei abbracciare forte per ringraziarti di tutto. Ti vorrei baciare e stirare le camicie e portarti un caffè con l'acqua e regalarti i fiori e curarti se ti senti male e solo. Bello scrittore vecchio come mio padre, se solo mio padre non avesse deciso di invecchiare di più ad un certo punto, vecchio vorrei portare le tue parole anche a lui per curarlo dalla sua tristezza. Vorrei salvarlo con i tuoi racconti di ronzii e rumori di fondo. In modo che coprano i suoi che sono brutti e neri. Mi serve una mano. Di quelle che non tradiscono.

8.
Oggi ho lasciato senza pensieri tristi il mio amico Giovanni. Lui partirà per il nord e poi tornerà a casa che non è la mia stessa casa. Da oggi non staremo più vicini e se ci penso è una cosa molto triste. Ma siamo viaggiatori e l'amore ci resterà sempre uguale sempre uguale, l'amore che abbiamo non si strappa se ci allontaniamo troppo. Se lui se ne va troppo al nord e io sempre più a sud. La sua isola poi è questa per sempre. La mia è un po' più in là. Le nostre isolitudini si assomigliano, però, e si attraggono e ci tengono stretti vicini lo stesso. E alla fine è stato un regalo una sorpresa inaspettata. Qualcosa di più che non ho fatto niente per meritarmi. Un regalo bello. E poi amo la calia e come sempre ho esagerato.

9.
Guarda che non è il giorno di morire padre mio
Guarda che non è il tempo di andartene padre mio
Esci da quella stanza esci da questa tristezza
Esci che mi vedo sola, escine per favore
Padre non tormentarmi padre mio proprio ora
Ora che ti capisco ora che ti ho trovato
Padre io non volevo, padre io non sapevo niente
Padre sono caduta, non ti ho amato per niente
Il bisogno di adesso è vederti ridere di nuovo
Ché ti voglio vedere vivo, ché mi fa male il tuo dolore
Ché non abbiamo più tempo, ché ti voglio vedere ridere
Padre mio fammi il favore, padre mio per favore
Guarda che non è il giorno padre mio bellissimo
Ti vedo ogni giorno morire padre mio

10.
Quanto dolore mi porto dentro, da quando tempo, per quanto tempo ancora devo vederne per riconoscere che il mio è più dolce ed è più vuoto perché non chiede caldo e acqua da bere e pane morbido perché è dolore di dentro solo piccolo dolore di sentirmi sola sempre e abbandonata e dimenticata e sconosciuta e buttata via, quanto dolore mi è entrato nelle ossa perché continuo a sputarlo fuori dalla pelle dagli occhi dalle mani bagnate dalla fronte rugata, quanto ne ho ancora da sputare quanto devo gridare per chiedere aiuto quanto devo piangere per averlo chiesto nel modo sbagliato. Quanto ancora devo soffrire aspettando che arrivi qualcuno a bussare alla porta. Quanto amore devo distruggere per compensare il dolore che mi brucia i pensieri. Voglio che vieni a stringermi la faccia a baciarmi gli occhi voglio che mi abbracci e mi tieni compagnia, è ancora tutto uguale sono ancora così piccola e sola, mi sento sola e basta e distruggo tutto quello che ho come non ho mai fatto, distruggo quello che avrei dovuto distruggere con le mani invece di fare finta di essere forte. Non ho mai rotto un piatto o una porta o un vetro o un mio braccio. Non ho mai gridato non ho mai dato uno schiaffo a nessuno e ora distruggo tutto con le parole e con lo sguardo. Ma perché non sei qui con me perché non mi hai voluto ascoltare perché ancora non mi rassegno se è così chiaro è così brutto tutto e io ancora non ci credo e aspetto che bussi alla porta. E non c'è posto per scappare non trovo nessuna soluzione non trovo il modo, ho paura come se fossi una bambina per la strada. Ho paura che non finisca più ho paura che non mi basterà un figlio e un amore grande ho paura che non basterà nessun amico vero e nessun viaggio dentro la fame nera dentro la morte per diarrea per tosse per raffreddore. Tu perché mi hai amato solo per un giorno? E non è neanche novembre.

11.
Così finisce agosto invernale di questa estate fredda e tutto è uguale. Un anno intero un anno passato, in fondo è solo un anno poteva andare peggio. Un anno lungo e un estate fredda, un anno perso a trovare modi nuovi per non sentire il male che fa. Il freddo intorno alle spalle e mani vuote e baci che mi do sulle spalle per sentirmi meno sola. Ho pelle morbida e pelle giovane e tu perché non te ne sei accorto? Chi ti ha preso il cuore scapestrato infedele. Anche questo San Lorenzo sono cadute le stelle sulle spiagge di notte e non ho fatto altro che chiederti indietro. Chi ha ricevuto le mie insistenti richieste? In quale burocrazia stellare si sono perse? E allora ho un altro desiderio. Lasciami per favore in pace distratto traditore di mani ingenue, di mani sensibili e ingenue.

12.
FOTOGRAFIE
1. Prove suoni dietro lo stadio. Scritta sul muro: fuori i fascisti da KR in grande, e un simbolo strano con una freccia che indica proprio a un metro la camionetta blu carica di sbirri. Molto bella foto.
2. Lolli che canta con il libretto di testi in mano e legge ogni frase. Dolce.
3. Altalena con sostegno in ferro blu in mezzo al mare. Tanto giusto da dondolare fuori sul pelo delle onde di riva. Dietro sullo sfondo draghe.
4. Abusivismo edilizio sulla costa crotonese. 10 foto.
5. Costa di Crotone. Crosta di fango grigio verde secco in alto e friabile in basso dove bagna l'onda, fango molle come il das che si scioglie e ci puoi fare i massaggi e le maschere di bellezza.
6. Io seduta su uno scoglio piedi e pantaloni bianchi dentro l'acqua. Seno dritto all'aria del sud e cielo scuro. Io che scrivo.

ALTRE FOTOGRAFIE
1. Io che ballo in mutande nella spiaggetta deserta. La faccia verde e fissa di fango seccato. Canto ma solo a mente e ballo con piroette e volute tra l'acqua e il bagnasciuga. È più che una foto, un piccolo filmino.
2. Altre 10 foto sul tema abusivismo selvaggio sulla costa crotonese.
3. Piccola targa sul muro dove ho deciso di fermarmi: piazzetta Rino Gaetano. C'è molto amore per lui.
4. Ragazzino con capelli a panettone che salta sulle braccia a ritmo hip hop in fondo alla piazzetta Rino Gaetano. Sullo sfondo il mare e la falsa scogliera di argilla.

13.
Solo questo ti chiedo amico, solo questo. Per favore mio amico, quando arrivo voglio vederti lì fumando le tue sigarette di marijuana, ridendo di tutto, delle donne che ti guardano, della vita che si sei speso, ridendo del lavoro e del tuo corpo fragile. Solo questo voglio amico mio. Solo guardarti da lontano e sapere che ancora resisti. Sei forte, sei pulito e forte. Devi aspettarmi lì, voglio fumare con te voglio dirti non lasciarmi mai più senza notizie senza una maledetta lettera. Non lasciarmi mai.. non lasciarti cadere amico mio caro. Non farmi questo scherzo.

14.
Il pianista che canta davanti al mare dietro il mare con il mare intorno. Canta le sue canzoni di lingua italiana e spagnola e di voce di pianista. Voce timida e impaurita come se la sua vita non fosse già perfetta. Perché non ti salvi pianista. Perché ti stai abbandonando al lavoro senza sosta, perché questo tempo non è diventato la tua salvezza, perché non ti sta servendo. Perché non stai più attento sotto l'onda del successo di questi concerti bellissimi, sempre sotto l'onda e non ti accorgi che stai per annegare. Non ti accorgi che io sono salva. Io non ho bisogno di aiuto da te. Tu hai bisogno di me. Io ti voglio portare in una foresta in un porto sconosciuto in un'autostrada infinita ti voglio portare a dormire in un garage o per terra sotto gli alberi. Ti voglio portare in mezzo all'argilla che scende dalla scogliera. Scogli di fango di casa tua che tu forse non hai mai visto perché tu hai paura. Ma non lo vedi che affascini il mondo con quella voce stentata con la tua faccia che chiede amore con quella faccia di piccolo pianista sulla sedia davanti alla famiglia a Natale. Tu sei grande, sai suonare.

15.
Victor suonava la chitarra anche senza le mani e la gente seguiva cantando anche senza voce, senza più voce ma con l'anima dritta e tagliente e sempre pungendo coscienze vendute di traditori.
Ernesto correva correva e non aveva fiato non respirava bene la notte nella selva con l'amaca colgada tra gli alberi umidi. E aveva colonne al suo seguito che lo accompagnarono sino all'isola, a prendere l'isola dello zucchero.
E Piero parla alla radio e trasmette canzoni intelligenti e si tiene legato alla vita con fare prepotente. Niente lo uccide e lui si gioca ogni giorno sparando sul mondo e difendendo le anime pulite. Piero si salva e regala speranza.
Peppino ha scelto di raccontare le stesse cose, ma non si è tenuto la vita, l'ha scambiata con il potere della libertà. Ha perso come sempre. O ha vinto. Ha scelto, ecco tutto. Ha scelto di non avere paura e ha pianto di notte per non avere la possibilità di diventare vecchio.
El Sup lo dice, si lotta per quelli di domani. Ce ne andremo in un modo o nell'altro senza vedere nessun risultato per noi. Nessuna speranza per domani, solo per molti domani dopo.
El Sup continua con forza e non perde il suo umorismo. La sua risata seppellirà i presidenti che verranno e sarà molto più intelligente dei loro discorsi televisivi.

16.
Belle donne bei culi belle facce truccate. Brave, bella linea e io sono sconvolta perché per il petrolio sono morti 500 mila bambini solo in Iraq solo negli ultimi dieci anni e ce ne sono tanti malformati senza le braccia con la testa che esplode bambini che hanno solo respirato le bombe intelligenti degli americani quelle che non fanno scoppiare un carro armato, lo sciolgono lo bruciano come i corpi dei soldati che lo guidavano, tu ti lamenti signora americana che voleva fare la carriera militare, ti lamenti perché il tuo corpo è devastato e i tuoi bambini non hanno gli organi e mi dispiace e piango anche per loro, anche per te perché sei stata ingannata e usata. Il patriottismo che maschera la miseria del potere a tutti i costi. Mi dispiace anche per te ma tu che cosa ci sei andata a fare in Iraq, che cosa credevi? Come hai fatto a farti fottere senza protestare? I tuoi ideali di onesta cittadina americana.. perché non hai pensato che era il solito modo di impossessarsi della vita di tutto un popolo di tutta una generazione e delle generazioni che verranno. Donna sei uguale a tutti quelli che si lasciano terrorizzare senza pensare che chi fa del male non sono i disgraziati che si ribellano, ma i signori democratici senza scrupoli. Ne valeva la pena? Si, dice la signora Albright un'altra donna, un'altra vergogna sicura di sé, un'altra artefice della sconfitta che stiamo attirando. Il senso della vita, l'intelligenza, la Natura. La vergogna e lo stupore sono la mia risposta. Contro quell'altra donna, contro la sua rabbia e il suo orgoglio.

17.
Magra di cristallo mi ha portato a casa e mi ha spinto le sue ossa appuntite contro per penetrarmi per farmi gridare e io l'ho fatto a lei come in uno specchio due corpi uguali uno contro l'altro. Vorrei scrivere una storia che parla di due donne piccole e magre due donne che camminano sfrontate tenendosi per mano e si spogliano quasi nella febbre del vino e del desiderio sotto un lampione in città, due piccole donne magre che si amano limpide, amore misurato e giovane quasi da bambini. Quello grande col tormento e la passione quello che ti cambia la giornata e le aspettative non c'è più non c'è ora. Non lo voglio più mi ha spaccato l'anima e i denti mi ha preso a schiaffi e non ho nient'altro da porgere. Torno a amori vergini e disincantati sesso e leggerezza. Evidentemente non è il momento di amare in grande. Evidentemente il colpo è stato duro e mi sono salvata per un pelo. Come sempre. Devo regalare amore a manciate come riso ai matrimoni e raccogliere da terra le caramelle che si trovano. Mi lascio amare da tutti e tutti sono il mio unico amore. Devo ricordarmelo. Il treno sfila veloce nella galleria. Fischio nelle orecchie e buio e porte che sbattono.

18.
Que pasa compañera ti stai perdendo nel deserto di Almeria, la strada infinita che porta al sud, le serre di plastica otto ore di lavoro per trenta euro e 50 gradi sulla testa. Tu vorresti gridare ma ti hanno intrappolato occhi trasparenti dall'altra parte dello specchio, que pasa ti hanno portato via sino al mare nero del sud, vino d'estate e mate e un passaggio per Granada città araba, il barrio di jasmin, le mani dei gitani suonano musica da ballare e Javier ha occhi trasparenti, guardi il mare e ti dimentichi delle barche dei naufraghi, delle giovani donne dentro le serre dei nuovi schiavi del mondo che cade a pezzi. Ma ora questo è per te compañera nutrimento per la guerra che viene, provvista per quando verrà la guerra.

19.
Tre settimane, al caldo del deserto a vedere le stelle pulite e chiare e vedere pezzi di storia antica che ti si attaccano dentro l'anima per sempre. Per non dimenticare quanto è piccola la nostra epoca, quanto corre veloce senza lasciare altro che immondezza nell'aria e nella terra e nel mare e nello spazio. Quanto può restare di quello che stiamo lasciando. Resteranno i bambini resterà mio figlio a maledire i vecchi a vergognarsi e a piangere davanti a una piramide, o a un castillo, a chiedersi perché non abbiamo imparato niente dalla storia perché l'abbiamo trasformata in un parco di divertimento per turisti con il cappellino mcdonald perché abbiamo calpestato luoghi sacri solo per metterci in posa per le foto che gli amici non hanno mai voglia di vedere, luoghi dove uomini e donne sacrificavano la vita agli dei e alla pace sulla terra, all'armonia con la natura Madre e sorella. Noi ci arrampichiamo sulla punta più alta della piramide per verificare se là c'è copertura per il telefono e non sappiamo stare zitti davanti all'energia accumulata nei millenni, non riconosciamo la magia del silenzio della storia perché stiamo gridando stupidaggini. Che cosa succede, hombre, vuoi dimenticarti tutto, vuoi cancellare tutto? Io voglio sedermi davanti a un albero e sentire se mi dice qualcosa, se mi dice come mai non mi sono mai fermata prima ad ascoltarlo. Se mi dice che sono anch'io una povera sola abbandonata e avvelenata.

21.
Caro Javier
è l'istante in cui fa notte,
la luce se n'è andata tra un cielo scuro e il mare azzurrobianco,
sembra fermo il mare ad aspettare che torni il giorno.
Resta solo l'ombra di Capo Caccia col suo piccolo faro
ogni sei secondi 6 battiti di cuore 6 barche all'orizzonte 6 secondi per un istante di luce,
sei battiti del mio cuore raffreddato sei respiri affrettati.
Capo Caccia è un gigante addormentato,
sulla testa porta un lampo di luce ogni sei battiti.
Come me, ogni tanto una luce lontana mi illumina,
ogni tanto mi siedo ad aspettarla quando fa notte.

 

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RISVEGLIO
di Mauro Righi

Dovrei proprio comprarmi uno di quegli stupidi cappellini da pesca, e lenze e ami e tutto l'occorrente. Sabato, tempo permettendo, potrei cominciare questo nuovo hobby e fare contento il mio psicanalista, il quale sostiene che un sano interesse aiuti a dimenticare l'alcol e le porcherie che ne derivano. Dovrei proprio comprarmelo uno di quegli stupidi cappelli, ficcarmelo in testa e sedermi davanti a qualche fiume o canale ad aspettare che i pesci abbocchino.
Ma l'unico che abbocca sono io, che ascolto tutto quello che mi dicono. E poi non mi è mai piaciuta la pesca, mi sembra uno sport troppo violento. E non ci trovo niente di interessante nello strappare quelle povere creaturine dal loro ambiente e ficcarle in padella. Non mi piace la pesca. Io avevo proposto il biliardo, ma il mio psicanalista mi ha detto che le sale da biliardo sono tutte munite di bar, quindi per un alcolista non è questo l'hobby più indicato.
Mi ha anche detto che mi farebbe molto bene tenere un diario e scriverci sopra quello che mi accade e quello che mi passa per la testa durante il giorno.
Mi ha anche detto che il mio problema risale ad un cattivo rapporto con i genitori da ricondurre ai miei primi anni di vita. Come se già non sapessi che tutti gli strizzacervelli prima o poi tentano di farti arrivare alla conclusione che sei triste perché da bambino, alzandoti la notte per fare la pipì, hai beccato il papà e la mamma che facevano l'amore.
Mi ha anche detto che quello che non faccio adesso nella mia vita non lo farò mai più.
Mi ha detto che devo reagire e devo uscire da questo stato di apatia in cui sono cascato.
Mi ha detto un sacco di cose, il mio psicanalista.
Me le ha dette tutte a settantamilalire l'ora, che è una cifra di tutto rispetto.
Mi ha anche detto che sto facendo un sacco di resistenze alla cura, che non collaboro e che così non migliorerò mai. Certo che se sapesse che oggi ho passato il pomeriggio davanti ad un negozio di articoli sportivi a guardare i cappellini da pesca certamente non sarebbe orgoglioso di me. Non sarebbe orgoglioso di me, ma le settanta carte le vorrebbe lo stesso.
A volte penso che quello che mi sta capitando è proprio quello che merito, non faccio altro che fare cazzate. E' tutta la vita che faccio cazzate.
Ieri sono stato qualche ora seduto in soffitta a scrivere su una vecchia scrivania mentre fuori pioveva e alla radio trasmettevano quella musica di colore, in questo paese in cui la gente odia i colori. Mi sono messo lì e ho pensato che, anziché tenere un diario, avrei potuto scrivere ad un amico. Sono salito in soffitta, ho guardato dentro il baule dei ricordi fino a che non ho trovato le foto di un po' di amici - scusate la rima - dei tempi felici. Dei tempi in cui si girava tutta la notte e si finiva di far baldoria all'alba. In certe notti spensierate dove l'unico imperativo era divertirsi. Bei tempi. E adesso?
E adesso a casa da solo. A bere. Bere per dimenticare. No, troppo banale. Bere per bere. Perché starsene a casa da soli è proprio il massimo dell'infelicità.
E' questo che penso. La casa vuota. Forse abitata da fantasmi o cose del genere. Scricchiolii ovunque. E' la mia anima o il vecchio pavimento di parquet?
Accendo la radio e metto su il bricco del caffè tanto per riempire la casa di note e odori. Tanto per scacciare i fantasmi.
Poi mi fermo in mezzo alla stanza, annuso, ascolto e d'un tratto la casa si riempie di amici. Ce ne sono quindici, forse venti. Offro loro dello champagne o più' semplicemente, birra. Per non perdere la buona tradizione mi verso del whisky e lo assaporo gelosamente dietro la finestra più bella di tutta la casa, quella che affaccia sul mare.
Un mare azzurro e una spiaggia bianca, alcune vele in lontananza e tanti gabbiani e uno strano gioco di luce. E pensare che poco prima pioveva e la spiaggia era una tangenziale e il mare una città grigia e il cielo fumoso e nero e io ero solo; mi giro per dire ai miei amici "guardate che bello venite qui con i vostri bicchieri vicino alla finestra e facciamo un brindisi".
Mi giro e non c'è più nessuno. Mi rigiro verso la finestra. E' ricominciato a piovere, è ritornata la tangenziale e il cielo grigio.
Tutti gli amici se ne sono andati. Il caffè è traboccato dalla moka e si è incrostato sui fornelli. Guarda che casa mi hanno lasciato… mozziconi sul tappeto, bicchieri e bottiglie vuote dappertutto.
Begli amici. Se ne vanno sempre sul più bello. Amici. Amici un cazzo.
Però c'eravate proprio tutti. Quando tornerete a trovarmi?
Voglio vedere il vostro bicchiere svuotarsi insieme al mio. Come ai vecchi tempi. Rispondete a questa lettera. Rispondete e ditemi che mi volete bene. E sbronzatevi, offro io.

 

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I DIECI MINUTI
di Angelo Vargiu

Tornava a casa a piedi, come ogni sera. Passo agile da trentenne e mani in tasca.
Era tardi. Non avrebbe incontrato nessuno.
Un'automobile passava più veloce del solito sulla strada finalmente libera dal traffico; sfrecciava irridendo i semafori lampeggianti; nel silenzio si poteva sentire la sofferenza delle gomme sul lastricato. Non avrebbe voluto che gli si fermasse accanto, accostandosi al marciapiede, e il vicino di casa si sporgesse con un movimento scomodo sul sedile del passeggero e gli aprisse la portiera. Non a quell¹ora. Non era ora di faticosi convenevoli. E se si fosse fermato uno sconosciuto? Una volta, una macchina sportiva si era accostata dall'altra parte della strada e un tipo aveva abbassato il finestrino e l'aveva seguito lentamente per un pezzo di strada. Lui l'aveva ignorato cercando di non cambiare il passo e provando a riprendere il filo dei pensieri che aveva avuto fino a quel momento, ma la presenza del motore al minimo, alla sua destra, gli impediva di ragionare e l'aveva costretto a svegliare la percezione dei propri passi, del respiro, di ogni rumore intorno, delle mani nelle tasche, senza lasciare spazio ad altro, nella sua testa. Il tipo, dopo un tempo lunghissimo, si era deciso a rivolgergli la parola e gli aveva chiesto se volesse un passaggio. Lui, senza rallentare, si era girato, come accorgendosi solo allora della presenza della macchina, e aveva risposto tranquillamente di no, che era quasi arrivato. Ma quello insistette tanto che, per toglierselo di torno il più in fretta possibile, lui salì in macchina e, durante i pochi minuti che lo separarono da casa, rispose alle domande dell¹uomo occhialuto, spelacchiato e profumato, con una giacca marinaresca dai bottoni argentati e un foulard al collo. Ripensandoci adesso, mentre passava per il tratto di strada dove la macchina si era accostata, gli veniva da sorridere accorgendosi che il fastidioso inseguimento era durato solo per un centinaio di metri: due minuti che gli erano sembrati venti. Cosa era riuscito a chiedergli in quei pochi minuti fino a casa sua? Come mai tornava da solo. E se faceva sport. E chissà quante ragazze... Grazie sono arrivato. E¹ stato molto gentile. Si,si, un'altra volta. Arrivederci. (Baecagga!).

Il lungo viale era pieno di negozi chiusi, bar con la serranda semiabbassata, le sedie rovesciate sui tavolini e il pavimento lucido, appena lavato, che rifletteva il neon abbagliante. Nelle parti dove gli
alberi facevano ombra alla luna e ai lampioni, portoni grandi e piccoli di condomini vecchi e nuovi. E staccionate di cantieri di demolizione, costruzione o ristrutturazione. Dietro una di quelle staccionate, le tavole grezze lasciavano intravvedere un enorme cratere rettangolare con dentro i pezzi di traliccio di una gru da montare, una ruspa, e grandi confezioni di mattoni. Si ricordava che, solo due mesi prima, tornando più tardi del solito, lì aveva sentito l'odore conturbante del pane appena sfornato e aveva bussato alla serranda chiusa, da cui filtrava la luce del negozietto, per comprare un panino e gliel'avevano regalato, con le mani bianche di farina. Accanto alla panetteria ricordava una palazzina anni quaranta, un pò diroccata, con un portone che cadeva a pezzi, e sarebbe sembrata abitata solo dai topi, se una vecchietta, quasi per dare un estremo barlume di
esistenza, non avesse passato il tempo affacciata alla finestra al piano terra, la faccia tra i gerani e il basilico, a scrutare tutti quelli che gli passavano sotto il naso. Ricordava l'ambulanza che ne aveva portato via il corpo, una mattina, e la finestra chiusa, e i vasetti vecchi e le piantine avvizzite.
Il cartello, alla fine della palizzata, mostrava il progetto di un palazzo di cinque piani. La città aveva il suo passo, lento, costante, e camminava nella sua stessa direzione.

Svoltò a sinistra; lasciò la strada principale che portava fuori città per una più stretta che l¹avrebbe portato al suo quartiere, in periferia. La stradina passava in mezzo a una piccola pineta con bei prati, incrociava quindi lo stretto binario della ferrovia regionale, che costeggiava la pineta e, dopo una larga curva, passava davanti a una scuola.
Aveva sempre trovato piacevole questo mezzo chilometro; da anni, prima o poi, si riprometteva di andare a passeggiare nel prato in mezzo al fresco dei pini; e quando ci passava tornando a casa, gli dispiaceva che durasse così poco. A volte non si capacitava di esserne già arrivato alla fine,
quando gli sembrava di avere appena svoltato dal viale.
Camminava già da mezzora e dopo la scuola e un giardinetto quasi rinselvatichito, svoltò ancora a sinistra, per l'ultimo tratto di strada.
Gli ultimi cinquecento metri erano in lieve discesa, quindi non faticosi, anche piacevoli, si potrebbe pensare, per chi aveva già mezzora sulle gambe. Ma era una strada vuota. Non c¹erano case né alberi. Sul lato destro, la lunga cancellata di due o tre scuole immerse nel buio e poi un alto muro. A
sinistra, invece, un unico muro di cemento, sempre uguale per tutti i cinquecento metri. Un muro nudo, alto più di due metri, separato dal marciapiede e dalla strada, da una lunga trincea di terra battuta.
Se nella stradina in mezzo alla pineta qualche volta si era sentito quasi arrivato, ora aveva davanti a se uno spazio di tempo vuoto da riempire. Perché, se da quando era partito e fino a quel momento le gambe avevano marciato da sole - come se le avesse avviate e avesse acceso il pilota automatico - e il passo regolare aveva attivato la dinamo dei pensieri, ora doveva comandare ogni dettaglio di se, del suo camminare e della strada su cui camminava. Era stata la strada, fino a quel momento, a portarlo, a spostarlo nello spazio, da un portone all'altro, da un bar al ricordo della vecchietta alla finestra, e da un albero all'altro, nella pineta. Ora toccava a lui trasportarsi, muovere i passi, coprire, percorrere gli ultimi dieci minuti sentendo gambe, piedi, respiro e attivare anche i pensieri che
da soli non sapevano uscire dalla sua testa.

Ricominciò allora il gioco che aveva inventato per riempire quel tempo vuoto. Aveva cominciato misurando lo spazio di quegli ultimi dieci minuti di strada con i passi: seicento - potevano variare di quattro o cinque, se era molto stanco o col vento contrario; venti lampioni - trenta passi per ogni
lampione; i respiri - ogni inspirazione ed espirazione in sei passi, per un totale di cento respiri; cinque per ogni lampione. Non era riuscito a misurare esattamente quanti battiti cardiaci sarebbero occorsi fino a casa, se non con un calcolo della media e aveva stabilito che il suo cuore in dieci minuti, seicento passi, cento respiri, venti lampioni, batteva quattrocentotrentadue volte - trentasei battiti per ogni lampione. Era diventato un orologio ticchettante, un motore regolato che lo portava a casa.
E poi aveva cominciato, a quel punto del rientro a casa, a ricostruire mentalmente delle azioni e tutti i gesti che le componevano, misurando la durata di ogni particolare con l'orologio dei passi, lampioni, respiri, battiti. Aveva costruito una libreria, utilizzando i materiali migliori e tutti gli attrezzi e i macchinari necessari. Ogni sera ricominciava da capo e per molte sere, finché ogni gesto, il misurare le tavole, il tagliarle, l'incollarle, il tingerle, non si era adattato alle precise durate del suo camminare. Era diventato bravo e si era cimentato con un mobiletto completo di sportelli e cassetti.
Poi, per almeno due settimane, aveva smontato, pulito e rimontato il carburatore della sua vecchia cinquecento, da tempo rottamata. Aveva dipinto paesaggi e nature morte. Aveva percorso in lungo e in largo il traghetto Flaminia, dal bar al ristorante, per corridoi, ponti copertini, ascensori e garages; anche col mare grosso - cosa che lo faceva quasi barcollare, lì nella via.
Riusciva a compiere nei dieci minuti di quei cinquecento metri, azioni per le quali sarebbero occorse molte ore. Ogni azione ripetuta sera dopo sera, fino a quando la durata di ogni gesto non si era uniformata alle scansioni di se stesso-orologio.
Aveva poi preso a immaginare la cena che l'aspettava, già pronta, a casa. Dal momento in cui si sedeva a tavola e toglieva il coperchio al tegame, sul tavolo apparecchiato solo per lui da sua madre prima di andare a letto - sessanta passi, dal primo al terzo lampione, dieci respiri, settantadue
battiti cardiaci; constatare cosa c'era: di solito pasta ancora tiepida, tiepida e profumata: ne andava pazzo - sei passi. Ne versava una porzione consistente nel piatto e riappoggiava il tegame - sessanta passi fino al quinto lampione. Cominciava a mangiare. A questo punto aveva rinunciato a calcolare il battito cardiaco che tendeva ad accelerare, ma in compenso aveva regolato la masticazione sul ritmo dei passi e respiri, ma senza contare quante ne faceva: quando ci aveva provato si era perso e aveva rovinato la cena. La prima porzione di pasta finiva al dodicesimo lampione e, nei sessanta passi che lo portavano al tredicesimo e al quattordicesimo, si puliva le labbra col tovagliolo, versava un bicchiere di vino e lo beveva avidamente in una lunga sorsata. Si versava la restante pasta nel piatto, più velocemente di prima, in novanta passi, e mangiava di gusto, già aspettandosi la malinconia del piatto finito, fino al diciasettesimo lampione. Ancora il tovagliolo sulle labbra, per dodici passi - due respiri completi. Si versava un mezzo bicchiere di rosso che beveva più lentamente fino a ventidue passi dopo il diciannovesimo lampione. All'arrivo al ventesimo lampione, si lasciava andare sullo schienale della sedia.
La cena era diversa dalle altre azioni: durava effettivamente dieci minuti. Non aveva dovuto accelerare le azioni per adattarle al suo orologio. E le sensazioni erano talmente reali che non sarebbe stato possibile accelerare gesti che gli permettevano di ricordare, e quindi sentire, il gusto della pasta, o il fresco acidulo del vino sul palato e in gola, o la piacevole ruvidità del tovagliolo sulle labbra appena umide.
Ma adesso, e già da alcune sere, il gioco aveva subito una evoluzione, forse per l'appetito che si risvegliava a quel punto della strada, e lui lasciava che le azioni sensoriali non avessero costrizioni, che durassero il loro tempo giusto, e ne misurava le durate. Il suo orologio si era ormai
automatizzato: erano mesi che ci giocava tutte le sere, ma, abbandonandosi alla immaginazione sensoriale, ogni gesto era andato dilatandosi sempre di più e la strada non bastava più a finire la cena.
Non se ne preoccupò e lasciò che i tempi si allungassero sempre di più. Il gioco lo aveva preso al punto che la strada e il tempo precedenti agli ultimi cinquecento metri, erano diventati la loro preparazione, l'aperitivo alla cena. Arrivava alla fine della stradina nella pineta già concentrato e
soprattutto affamato. E negli ultimi dieci minuti tirava tanto a lungo le sensazioni, le prolungava, per coglierne ogni possibile piega, che ormai della cena era rimasto solo il momento in cui toglieva il coperchio dal tegame dei maccheroni.
Aveva rallentato il ritmo dei respiri, ne faceva uno ogni dieci passi, e l'inspirazione era più lunga dell'espirazione - che era rapida per rincorrere una nuova inspirazione - perché nell'inspirazione cercava e trovava ogni particella del profumo che usciva dal tegame, nel momento in cui lo scoperchiava.
Quando arrivava a casa, svegliato improvvisamente dalla trance, aveva una fame feroce e divorava i suoi maccheroni in tre minuti, direttamente dal tegame, con forchettate sovraccariche.

Anche quel giorno cercava l¹illusione di un'unico, lunghissimo respiro che durasse i seicento passi. E ci riuscì. Riuscì a sentire, prolungato per dieci minuti, il momento dell'apertura del tegame, o meglio: i dieci minuti si erano ridotti ai pochi attimi in cui l¹odore dei maccheroni si spandeva fuori dal tegame e raggiungeva il suo naso, e impregnava le mucose durante una lunghissima inspirazione. Aveva raggiunto lo zen del profumo dei maccheroni.

Il giorno dopo ritirò lo stipendio e finalmente aveva l'anticipo per comprarsi una macchina.
La sera, mentre rientrava a casa, la distrusse contro il diciasettesimo palo.


Pensato dalle 23,40 alle 23,50 del 27 novembre 2002, in via Solari, a Sassari.