Che
cosa hanno in comune i dubbi di Sesto Empirico, Alice nel
paese delle meraviglie, la nevrosi, Tonio Kröger e
Paolo di Tarso? Apparentemente nulla, naturalmente. Eppure,
qualcosa in comune ce l'hanno, almeno stando all'autore
di questo strano e, per certi versi, avvincente libro. Non
solo! L'elenco potrebbe continuare, includendo il "mago"
della ipnosi Milton Erickson, Charles M. Schulz (sì,
proprio il disegnatore di Charlie Brown e Snoopy), l' "idiota"
di Dostoevskij e molti altri. In 173 pagine dense di idee,
suggestioni, ritratti di personaggi famosi e soprattutto
dense di irrisolti (e ovviamente non risolvibili) rompicapi,
Andrea Oppo ci propone un viaggio lungo e pieno di deviazioni.
Un libro anarchico e soggettivo, che soltanto alla fine
-dopo una lettura altrettanto anarchica e altrettanto soggettiva-
rivela con sorpresa il suo filo conduttore: un obiettivo
o una chimera che l'autore ha cercato, con convinzione e
apparente disordine. Del resto, come si dichiara nel prologo
"la linearità, gran cosa in sé, ha un
inconveniente non da poco: presuppone un ordine che in natura
non esiste" (p.20).
Andrea Oppo, nato a Sassari nel 1970, si è laureato
in filosofia a Firenze sotto la guida del prof. Givone con
una tesi su Sestov. Oggi vive tra la Sardegna (Ghilarza,
il paese di Antonio Gramsci) e Dublino, dove sta lavorando
ad una tesi di dottorato che si spinge forse più
verso temi letterari che puramente filosofici (se questa
distinzione ha ancora un senso nell'anno 2003). E quest'ultima
direzione sembra riguardare, in certa misura, anche questa
raccolta di saggi, pubblicata da un piccolo editore per
un piccolo pubblico.
In un mondo accademico che sempre più spesso si auto-compiace
dei propri minimi successi e delle conseguenti certezze,
diffidando, a volte con eccessivo accanimento, di qualunque
slancio di fantasia e vitalità, questo libro si propone
obiettivi elevatissimi, pur cercando di perseguirli con
strumenti semplici. Si parte innanzitutto da un profondo
senso delle distanze (quelle che ci separano, ahimè,
dalla verità) e dal coraggio di scegliere una strada
difficile e tortuosa. E' un libro che, pur indulgendo talvolta
sui suoi stessi difetti, e provando a farne degli aspetti
interessanti dell'indagine (quasi come degli indizi mancanti),
offre comunque una merce rarissima: l'autentica, a volte
disperata, necessità della ricerca. L'origine -in
fondo- di qualunque attività filosofica.
La filosofia è qui intesa come un attrezzo, "l'unico
strumento capace di smontare per davvero la realtà"
(p.15); uno strumento distruttivo e, perciò, costruttore
di cose nuove, un cacciavite: un attrezzo che serve per
scoprire ciò che apparentemente non interessa nessuno.
Così appare, fastidiosamente, il filosofo per ciò
che davvero è o dovrebbe essere, ossia uno che pensa
che: "un televisore non è fatto per essere acceso
e guardato ma per essere smontato" (p.15). Una specie
di monello dalla testa dura, insomma.
Tuttavia, "se in superficie il mare è liscio
come l'olio e la navigazione è più che garantita,
a chi interessano le turbolenze che hanno luogo a mille
metri di profondità e che mai verranno a galla?"
(p.19) Eppure, come ricorda l'antico argomento presocratico
che dà il titolo al libro: il bastone immerso nell'acqua
appare spezzato benché non lo sia affatto, e se deve
apparire dritto "dovrà essere storto nella realtà"
(p.79). E di bastoni storti -come ricordava Immanuel Kant
pur in ben altro contesto- è pieno il mondo. Ciascuno
di noi lo è. E ciascuno ama e, spesso, vanamente
ricerca "le turbolenze che hanno luogo a mille metri
di profondità" e che un bel giorno vengono a
galla, con gran sorpresa, rivelando un intero mondo fino
a quel momento sconosciuto. Ciò che non si vede,
non necessariamente non c'è; e ciò che si
vede
be', chi può dirlo?
Il "Bastone immerso nell'acqua" è una raccolta
di saggi divisa in due parti. Nella prima, assai frammentaria
e fin troppo piena di idee e allusioni, si ricercano i fili
dell'impossibile scelta tra "arte" e "vita"
o anche tra "dentro" e "fuori" come
l'autore stesso decide di riferirsi alla perenne ricerca
che coinvolge personaggi del calibro di Heidegger, Borges,
Husserl e forse l'intero popolo russo, inteso quasi come
un'entità unica. La seconda parte, intitolata "profili",
è un omaggio a sette grandi protagonisti della storia
del pensiero (a volte protagonisti involontari); tutti scelti
partendo dal presupposto che la grandezza sta nel voler
cercare la verità, pur non negando il terribile naufragio
nel quale l'umanità ha deciso di perdersi. In quest'ottica
conosciamo, attraverso aspetti apparentemente secondari,
ma in realtà illuminanti, il conte Lev Tolstoj che
adora perdere a scacchi purché tutti i pezzi che
ha avuto in mano possano aver vissuto la partita pienamente,
allo sbaraglio, nella convinzione che, se lui, proprio lui,
il conte, aveva fallito nella ricerca dell'amore, "nessun
altro ce l'avrebbe fatta" (p.140). Conosciamo Jerzy
Grotowski che rivoluziona il teatro insegnando che si deve
pensare prima con il corpo poi con la mente e, non pago
di ciò, "era convinto che il testo scritto non
fosse che un pallido ricordo della realtà e addirittura
si innervosiva con chi prendeva appunti alle sue lezioni"
(p.146). E ancora Charles Schulz e i suoi personaggi che
imitano il "non è" (certo! Piperita Patty,
e la sua prima sufficienza scolastica; il pallone che Charlie
Brown sta sempre per calciare "prima che Lucy glielo
tolga ogni volta dai piedi"; oppure Linus e la sua
eterna e inutile attesa del Grande Cocomero). Particolarmente
ricco e di grande impatto emotivo è poi il profilo
di Milton Erickson, costretto su una sedia a rotelle e costretto
anche, da un altro, ennesimo difetto fisico, a vedere tutto
il mondo di colore "violetto"; una specie di meraviglioso
mostro che costruisce la sua forza con il pensiero e l'uso
sapiente delle parole, la finzione, la convinzione di potercela
fare, sempre. Incontriamo infine: Fritz Perls (lo scopritore
della psicoterapia della Gestalt), il grande matematico
Kurt Gödel, lo scrittore George Bernanos (a leggerlo
"si ha la sicurezza, la prima, che il sole, quello
vero, esiste", p.143).
Questa seconda parte appare forse più compiuta e
distaccata rispetto alla prima parte, nella quale l'autore
si lascia talvolta trascinare dal necessario disordine delle
cose e dall'ubriacatura che dà l'avere in mano un'arma
terribile e difficile come un cacciavite. Nella prima parte
suggeriamo alcune "perle" filosofiche fra i trenta
problemi sollevati, a volte solo accennati, dall'autore.
Un brillante saggio su Lewis Carroll e i suoi tentativi
di curare la propria nevrosi costringendo la piccola Alice
a vagare, senza senso apparente, nel paese delle meraviglie
(del resto "tecnicamente parlando, la nevrosi è
il tentativo di soluzione di un problema insolubile",
p.65). Il saggio o investigazione n.10 sull'affascinante
storia del prof. Gabbiano e del più grande libro
"mai" scritto, in cui il lettore prova allo stesso
tempo pietà e compassione per un grande ingannatore
che, in fondo, a guardar bene, non aveva poi tutti i torti
ma
forse non si dovrebbe svelare il finale di questa storia,
proprio come nei romanzi gialli. Spuntano fuori poi altri
incredibili personaggi, grandi esperti nell'uso di cacciaviti,
quali il giovane Holden di Salinger, Plotino o ancora Shakespeare
e il prof. Benson, eroe del film -italiano- di fantascienza
"Il pianeta degli uomini spenti" (1961) che ricorda
che "difficile non è dire la verità,
difficile è essere creduti". Gli si può
forse dare torto davanti a una così variegata e nobile
schiera di manovratori di cacciaviti?
Il libro -il cui titolo completo è "Il bastone
immerso nell'acqua, 37 investigazioni su ciò che
appare", sottotitolo assai chiarificatore, ingiustamente
omesso dall'editore- occorre specificarlo, nonostante la
sua apparenza bambinesca o, quanto meno "adolescenziale",
la sua catena infinita di domande spiazzanti e talvolta
crudeli, è un'opera seria, scritta con grande acutezza
ed eleganza, accortezza tecnica e accuratezza (soprattutto
per quanto concerne l'etimologia delle parole: tedesche,
latine, greche e, specialmente, russe). E' possibile perfino
tracciare alcuni confini e indicare le coordinate entro
le quali si muove il percorso di Andrea Oppo: senza dubbio
Dostoevskij (e in particolare estòv, il suo
grande "interprete" nonché filosofo per
conto proprio), ma forse anche l'intera Russia e lo spirito
del popolo slavo, il cinema (Abbas Kiarostami, e soprattutto
Stanley Kubrick: a lui è dedicato il saggio n. 21:
"L'ultima parola del maestro"); poi ancora il
cristianesimo, la psicanalisi e la poesia, il teatro.
All'interno di queste coordinate il viaggio è lungo,
affascinate e non sempre piacevole, molte sono le incursioni
negli aspetti più bui o insoddisfacenti dell'animo
umano. Si raccomanda in particolare la crudeltà del
saggio n. 9 "Uomini in Gabbia" (la madre di tutte
le gabbie è "il bisogno del nostro complemento,
ovvero la paura che non vi sia", l'uomo infatti trascorre
il tempo a ricercare il plauso del pubblico -se è
un pianista- la risata degli altri -se è un umorista-
piuttosto che accettare semplicemente che "a chi son
io di pro se manca il sole?", è uno splendido
endecasillabo di sesta, con un'armonia irregolare e un tono
di nobile diversità, che già di per sé
dovrebbe essere qualcosa di compiuto e autosussistente
pp.50-51).
O ancora l'ardito saggio n.5 sulla misoginia o il n.14,
nel quale il maggiordomo (sì, quello che è
sempre l'assassino nei romanzi gialli) diventa il simbolo
stesso della presunzione con la quale si cerca di coprire
la ricerca della "verità" con la banalità
delle piccole verità subito disponibili.
Un libro arduo e coraggioso insomma, un romanzo filosofico
ma anche una specie di raccolta di "poesie in prosa",
un tentativo vivo, talvolta esagerato, di sfidare i confini
-ahimè alquanto ristretti- delle pubblicazioni filosofiche
sempre più ispirate alla logica del maggiordomo,
"viviamo e siamo immersi nel grigio" (p.75), pur
sapendo, come diceva Dostoevskij che "qui sulla terra
tutto comincia e nulla finisce". E pur dovendosi arrendere,
alla fine, alla necessità di non dire tutto: "non
è facile ammetterlo. Forse aveva davvero ragione
Tonio Kröger: a fermarsi e tornare indietro. Lasciando
perdere ultimo, penultimo, e tutto ciò che precede.
La vita stessa. Rotta verso nord, ritorno all'origine. Alla
prima porta. Già, Tonio. Chissà cosa avrà
trovato, cosa avrà visto, lassù?" (p.129)
E in quel "non è facile ammetterlo " e
"chissà cosa avrà trovato" c'è
la follia che spinge ancora a scrivere libri di filosofia.
E' giusto che sia così? O c'è forse un'altra
ragione per farlo?
Andrea Oppo, Il bastone immerso
nell'acqua, Gabrieli Editore, Roma 2003, prezzo 10,33
Euro
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