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Domenico Fiormonte, Il cyborghese piccolo piccolo. Riflessioni a margine del rapporto fra tecnologia e letteratura

Domenico Fiormonte, Il cyborghese piccolo piccolo. Riflessioni a margine del rapporto fra tecnologia e letteratura, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.2 Luglio-Ottobre 2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_2/19.htm

 

Le pagine che seguono sono estratte dal volume Scrittura e filologia nell'era digitale, Torino, Bollati Boringhieri, che uscirà alla fine di settembre. Ciò che qui viene pubblicato sono le conclusioni alla Parte I, in una versione però arricchita di alcuni paragrafi inediti che sono stati eliminati per la versione libro. Ho effettuato i tagli per varie ragioni, ma credo che il testo proposto conservi una sua autonomia e soprattutto una sua attualità. Non mi dispiace dunque pubblicarlo su invito di Dolores Ballone, che ringrazio per il suo entusiasmo e la sua generosità intellettuale.
Mi sia permesso ora di spiegare brevemente la storia di questo testo. Mi scuso se abuserò della (scarsa) pazienza del video-lettore per intrecciare la storia con un apologo sull'editoria di casa nostra.

Una prima stesura di questo capitolo risale agli anni 1995-1996, quando proposi all'editore Laterza un volume dal titolo La scrittura elettronica. L'idea inizialmente piacque molto a Pepe Laterza, che mi spronò ad andare avanti. Per tutta l'estate lavorai a Edimburgo con grande entusiasmo e a ottobre spedii le prime cinquanta pagine a Roma. La risposta che ricevetti fu inaspettatamente gelida. L'editore, nonostante avessi già ricevuto una approvazione di massima all'indice, aveva dato in pasto le mie cinquanta pagine a una redattrice che le smontò pezzo per pezzo. Quando passai per Roma a dicembre incontrai di persona sia Pepe Laterza che la redattrice. Mi ci vollero pochi minuti per capire che il libro non era stato compreso. Fu una vera e propria umiliazione, che però subii in totale silenzio. Contro le mie cinquanta pagina si scagliò l'acribia dell'editore e della sua collaboratrice, che si soffermò su molteplici e dettagliati aspetti fuorché sulla sostanza del progetto. Ovvero sulla sua scommessa intellettuale.

Facciamo un passo indietro. Siamo nell'estate 1996: Internet in Italia è appena agli inizi. Il boom commerciale della rete non è ancora palese. Ci sono - ci sarebbero - gli spazi per operazioni innovative. Magari un po' rischiose. Un libro sulla scrittura elettronica - oggi ce ne sono una mezza dozzina anche in italiano - non era un "azzardo" in quel momento: si trattava di un argomento sulla bocca di tutti, c'erano stati articoli e studi, e qualche monografia sul problema della didattica. Se avessimo poi dovuto dare retta poi al 'trend' culturale statunitense (tornavo da un soggiorno di un anno presso la Michigan Technological University), era chiaro che di lì a poco il tema sarebbe esploso. Ma nonostante la meritoria attenzione di Laterza per Internet e la multimedialità non vi era ancora la consapevolezza di che cosa avrebbe comportato la digitalizzazione dal punto di vista dell'architettura della conoscenza. L'editore, insomma, non capì.

A distanza di sette anni, grazie a Bollati Boringhieri, vede finalmente la luce quel lontano progetto. Ampliato, aggiornato e in gran parte riscritto (eccetto che per le pagine che vi propongo).
Forse dovrei ringraziare Laterza per quel rifiuto, perché il libro che esce oggi è di gran lunga meno peggio di quello che avrei scritto nel 1996. Nondimeno credo che il compito di un editore di cultura sia quello di rischiare con temi innovativi e autori giovani e poco noti. Questo gli editori italiani non lo sanno, e soprattutto non lo vogliono fare, in ciò seguendo la tendenza degenerativa dell'università italiana, che ha ormai rinunciato a costruire opportunità per i giovani ricercatori. Non riesce ad abbandonarmi l'idea che, se avesse avuto di fronte un interlocutore accademico "di peso", l'editore di Benedetto Croce si sarebbe comportato diversamente.

Sia come sia, il "libro di sette anni", nato "apripista", si è trasformato in un studio che fa il punto della situazione e indica strade percorse e da percorrere. Ai lettori il giudizio su ciò che è. Ai posteri su ciò che sarebbe stato...



IL CYBORGHESE PICCOLO PICCOLO. Riflessioni a margine del rapporto fra tecnologia e letteratura

1.1 Il negozio di Minsky


In un'intervista concessa qualche anno fa a una rivista spagnola, Marvin Minsky, padre-pasdaran dell'intelligenza artificiale al MIT di Boston, si abbandonava alla descrizione di scenari fantascientifici. Fra le altre cose diceva Minsky: "Gli uomini hanno dei limiti: un cervello che funziona a una certa velocità, con neuroni con qualche milione di bit di memoria. Ma ci stancheremo di ciò e vorremo più memoria, migliori idee e dunque attaccheremo il computer alla nostra testa nello stesso modo in cui ampliamo la memoria del PC o gli mettiamo un microprocessore più veloce. Credo che nel futuro la gente andrà al negozio e comprerà più cervello." (Salomone / Minsky 1996: 72) [1]. Ho adoperato sopra la parola "fantascientifico": a tutti credo sarà venuto in mente leggendo questa frase il romanzo Il terminale uomo di Micheal Crichton. Sei mesi dopo l'intervista a Minsky, Arthur Clarke, l'autore di 2001 Odissea nello spazio, intervistato dalla Cable TV inglese EBN affermava che entro cento anni l'educazione si baserà sulla trasmissione di dati e informazioni direttamente nel cervello, tanto da rendere obsoleto l'apprendimento e dunque scuole, università, ecc. Siamo di fronte a uno di quei casi - sempre meno rari - in cui uno scrittore di fantascienza, anche il più profetico e visionario, arranca dietro le dichiarazioni dell'establishment scientifico. Kevin Warwick (1997), professore di cibernetica all'università del Sussex descrive nel suo ultimo libro (March of the Machines) uno scenario che sembra preso pari pari da un cattivo racconto di fantascienza degli anni Cinquanta. Il sottotitolo del libro è sufficiente per farsi un'idea: "Why the New Race of Robots Will Rule the World."
Minsky è sempre stato uno dei sostenitori della tesi 'forte' dell'intelligenza artificiale, quella secondo la quale il cervello umano può essere, prima o poi, in una maniera o nell'altra, replicato, riprodotto, migliorato e conseguentemente messo sul mercato. Ciò che lascia sbalorditi è indubbiamente l'idea che un domani andare per cervelli sarà un po' come andare per funghi. Ma perché poi limitarsi al cervello, mi domando? La lista dei pezzi di ricambio sarebbe lunga.
Gli scienziati americani non sono nuovi a queste provocazioni. Tuttavia Minsky con quella frase scopre un nervo molto sensibile della società occidentale: il terrore della morte. Parola che fa capolino subito dopo: alla domanda "Non crede sia pericoloso che esista un supercomputer capace di analizzare il cervello umano?", Minsky risponde: "Sì, certo che può essere un rischio. Tutto è pericoloso, per questo motivo dobbiamo stare molto attenti. Però è più terribile non essere immortali - e con i cervelli artificiali si conseguirà questo obiettivo"[2]. All'interno della tecnologia il problema della morte consiste dunque nell'inventare il suo 'superamento', un sorpasso che il negozio di Minsky intende pianificato dal mercato.
(Un inciso: avrete notato che in questi discorsi raramente si sente parlare di umanità. 'Fattori' come tempo, fame, dolore, giustizia, coscienza, ecc. non vengono presi in considerazione. L'immortalità di cui parlano gli scienziati cyborghesi assomiglia a una lobotomizzazione: nessuno si chiede se saremo felici o meno, ciò che conta è non morire. Sorge spontanea una domanda: essere immortali a Beverly Hills è la stessa cosa che esserlo a Tirana?)

1.2 Nanoletterature

Alla frontiera fra fantascienza e ricerca tecnologica vi sono oggi l'ingegneria molecolare e le nanotecnologie (e a essa si riferisce credo Minsky quando parla delle 'pillole' cerebrali). Esiste un gruppo con questo nome al MIT, di cui Minsky fa parte, che ha iniziato a trattare questi temi negli anni Ottanta. Che cosa sono queste nanomacchine? piccoli e superpotenti nuovi computer? Non esattamente. Sono ipotetiche strutture simil-biologiche ricalcate su modelli molecolari in grado di 'produrre' oggetti e fenomeni in 'disciplina controllata'. Alejandro Piscitelli, epistemologo argentino tra i pochi ad aver scritto su questi temi da una prospettiva non primo-mondista, così sintetizza il progetto:


La domanda con la quale cominciò il programma di lavoro che oggi ossessiona Drexler [uno dei massimi teorici di questa disciplina] fu: "Che succederebbe se si potessero manipolare le molecole che i biologi incontrano nei sistemi organizzati?" La sua risposta fu: "Si potrebbero costruire macchine molecolari e utilizzarle per creare migliori macchine molecolari." In poco tempo si avrebbe una tecnologia molto potente che ci darebbe un controllo completo sulla struttura della materia. [...] La pietra fondamentale di tutta questa struttura è il supercomputer che lavorerà ordendo e disordendo fili di un atomo di lunghezza. La memoria sarà immagazzinata in lunghe molecole. [...] Questa macchina avrà lo stesso potere che il più grande dei supercomputer attuali, ma lavorerà 100 volte più rapidamente e occuperà un millesimo del volume di una cellula del corpo. (Piscitelli 1995: 54-56; trad. mia).


Questo in pratica vorrebbe dire, continua Piscitelli, avere "macchine riparatrici di cellule capaci di estendere il nostro ciclo di vita e migliorare la salute." Dovremo abituarci ai miracoli della medicina: "pillole che diagnosticano o curano, riparazione chirurgica cellulare [...] e fabbricazione di nuovi organi a partire dal nulla, con aspettative di vita di centinaia o migliaia di anni." Una singola molecola "martellatrice" potrebbe, geneticamente programmata, "colpire gli atomi di carbonio nell'angolo giusto con la potenza precisa affinché formino la struttura del diamante. [...] Le fibre di diamante ottenibili da [questi] assemblatori saranno dieci volte più forti che l'acciaio", e "sarà tanto economico costruire un navicella spaziale con questo materiale che un viaggio interstellare costerà meno di quello che paghiamo oggi per un biglietto aereo." Naturalmente molti sono scettici su queste previsioni: ammesso che tali macchine diventino realtà ciò che lascia perplessi molti scienziati è la controllabilità di questi fenomeni (se avete presente una bomba atomica capirete il perché). Insomma, siamo ancora alla fantascienza - anche se a questa fantascienza si dedicano riunioni mensili in un laboratorio del Massachusetts.
Ma finalmente, che cosa c'entrano l'angoscia di morte, il MIT e le nanotecnologie con la scrittura e la letteratura? C'entrano, perché il problema della comunicazione del futuro, e dunque anche della scrittura, è né più e né meno che il problema delle 'macchine', di cosa saranno esse e di cosa saremo noi in grado di fargli fare. È azzardato dire che dalle macchine dipenderà la nostra immaginazione? L'orologio è una macchina e non è questo che dà forma alla nostra quotidiana concezione e rappresentazione del tempo? Ed è la stessa narrativa del tempo (ciclico) di Omero, quello (lineare) del romanzo poliziesco e quello (puntiforme e einsteiniano) di Proust? (Assisteremo dunque alla nascita di una nanoletteratura?) In realtà, dietro l'azzardata equazione tecnologia= immaginazione, come abbiamo visto vi sono teorie insospettabilmente consolidate:


[…] così la storiografia dei media finisce spesso con l'attribuire a epoche passate una consapevolezza concettuale del ruolo della comunicazione […]. L'applicazione retrospettiva dell'idea odierna di comunicazione al passato può anche dar luogo a una sorta di filosofia della storia. Nelle formulazioni di Marshall McLuhan, volutamente estreme, l'avvicendarsi dei diversi strumenti utilizzati per inviare e ricevere messaggi è la chiave per interpretare l'intera vicenda dell'umanità sulla terra […]. (Ortoleva 19972: 11).


E tuttavia, pur diffidando delle tesi deterministe, non si può negare che la tecnologia, creazione dell'uomo, ma che all'uomo dà a sua volta senso, nel corso della storia sceglie i suoi canali di comunicazione e questi danno luogo a forme espressive. Negli ultimi tre o quattro secoli una fra queste - non l'unica - noi abbiamo scelto di chiamarla letteratura.
Parlando con i letterati (ma capita anche con ingegneri e informatici) spesso si ha l'impressione che il problema della tecnologia non conti o conti solo marginalmente. L'estate scorsa, in seguito alla pubblicazione di un appello a sostegno dell'Informatica Umanistica [3] sul newsgroup free.it.lavoro.informatica, frequentato prevalentemente da informatici, trovai nella mia casella di posta il seguente messaggio: "L'informatica non deve parlare di contenuti, i contenuti non devono parlare di informatica". Come a dire: ognuno faccia il suo mestiere. Oltre al terrore per le interferenze (e alla negazione dello scambio), tali opinioni sottintendono la nota tesi progressista del computer 'strumento neutro'. "Smettiamola di pensare al Grande Fratello ogni volta che si parla di calcolatori", dicono costoro, "all'apparire di ogni nuova tecnologia è sempre la stessa storia: apocalittici e nostalgici da un lato, entusiasti e integrati dall'altro." Questa è l'opinione di maîtres à penser come Eco, di critici di scuole anche concorrenti, di filosofi come Fernando Savater [4], e naturalmente di quasi tutti gli scienziati. Perché? Il discorso sarebbe lungo, ma è probabile che la cultura occidentale sia ancora troppo legata al Dio-Autore [5] (e al suo Sacerdote-Interprete) per far finta di nulla di fronte a quella sorta di "espropriazione testuale" che la tecnologia informatica mette in atto nei confronti dell'opera. E anche sotto le critiche di parte progressista ogni tanto si sente puzza di bruciato. Gli attacchi rivolti alle opere 'senza autore', interattive, 'aperte', ecc., di cui pure abbiamo discusso e indicato i limiti, sembrano riflettere l'angoscia di perdere, più che il diritto dell'autore a 'possedere' l'opera, il potere che i suoi interpreti hanno costruito su di essa attraverso i secoli.


1.3 'Connessioni profonde' e 'strumenti neutri'


Le macchine, si diceva. Certo molto ancora dipende da noi. Ma non illudiamoci: nel senso che per ora quel 'noi' include gli scienziati (che sfornano nuovi prodotti), l'industria (che li paga e gestisce) e il mercato, che nessuno sa ormai più cosa sia ma al quale lo stesso Minsky (con qualche lamento) ammette di essere al servizio.
Sin qui ho cercato di discutere tanto la tesi degli 'strumenti neutri' che i millenarismi/primitivismi, fra loro speculari, di apocalittici ed entusiasti. Al fondo di tutto vi è l'antica disputa fra chi crede l'uomo geneticamente programmato, e quindi relativamente 'indipendente' dall'ambiente, e chi lo ritiene invece più legato al mondo degli oggetti, delle persone e degli eventi che lo circondano e che egli stesso ha contribuito a forgiare. Questa dialettica, riassumendo un po' brutalmente, è stata per lungo tempo al centro del dibattito filosofico e linguistico [6]. Come nella Scilla e Cariddi di joyciana memoria, si sono affrontate due scuole: quella che vedeva il linguaggio come una capacità prevalentemente innata e quella convinta che il suo sviluppo e la sua "costruzione" siano determinati, in modo decisivo, da fattori ambientali e sociali. Non si tratta di posizioni necessariamente in contrasto, ma forse lo scarso interesse di Chomsky (1988, 1996) per i fattori per così dire 'esterni', ha concentrato il dibattito dei linguisti su altri temi, lasciando in ombra la questione degli strumenti (e la stessa scrittura, riscoperta dai linguisti negli ultimi dieci-quindici anni). Uno dei temi negletti è che i linguaggi, intesi come insieme di strumento e supporto, lingua/alfabeto, scrittura/mezzi, ecc., siano di per sé portatori di senso (Goody 1989; Cardona 1985-2001). E che i sistemi linguistici, inscindibili dalle culture che rappresentano e di cui allo stesso tempo si nutrono, possano dare luogo a precise configurazioni mentali [7]. La visione chomskyana sembra tendere verso una interpretazione molto precisa - e forse un po' rigida - di mente, in cui c'è poco spazio per gli eventi esterni:


I emphasized biological facts, and I didn't say anything about historical and social facts. And I am going to say nothing about these elements in language acquisition. The reason is that I think they are relatively unimportant. As far as I know, the development of human mental capacity like language, it just happens, the way you learn to walk. […] Acquisition of language is something that happens to you; it is not something that you do. (Chomsky 1988: 173-174).


E più avanti:


The question is, Are there some deeper and more subtle connections between the level of production and the kind of thinking that can be done? My suspicion is that the answer to that is no. So I don't think there would be very much difficulty in teaching modern physics or modern mathematics to a person who knows only Stone Age technology. It would be difficult in the sense that certain experiments and practical applications would not be available, but I'm not convinced that anything deeper than that would be involved. (Chomsky 1988: 193-194).


Leggendo questo passo, per contrasto, non può non venire in mente quel famoso esperimento di Vygotskij e Lurija (Lurija 1974: 19-20) in cui il contadino analfabeta dell'Asia Minore, alla richiesta di 'classificare' le figure di una scure, un ciocco, una pala e una sega, risponde mettendo insieme scure, ciocco e sega, lasciando da parte la pala "perché non serve" (19). L'operazione di classificazione per categorie astratte (ciocco = materiale, pala, scure e sega.= strumento), spiega Lurija, "agevolmente compiuta dai nostri soggetti più progrediti nello sviluppo culturale, risultò inaccessibile per il gruppo di coloro che vivevano in condizioni economiche più arretrate […] Il posto dell'operazione teorica - annoverare in un'unica categoria astratta - era qui occupato da un'operazione pratica: ricondurre a una situazione concreta comune. […] Nello stesso modo erano costruite anche le più complesse operazioni del discorso e tutto ciò mostrava […] che la struttura fondamentale del pensiero procedeva in queste persone secondo le leggi della pratica comune […]"; conclude Lurjia: "Le ricerche compiute […] hanno mostrato un fatto fondamentale: le leggi psicologiche dei processi cognitivi non sono universali e immutabili; non solo il contenuto, ma anche le forme dell'attività cognitiva sono un prodotto dello sviluppo storico-sociale" (Lurija 1974: 20-21 [corsivi dell'autore]). Se persino i processi di autocoscienza, considerati da Descartes "il punto di partenza di ogni attività psichica", sono un prodotto della storia, si può comprendere come una visione del genere sia in conflitto con tutte le tesi 'idealiste', compreso l'innatismo chomskyano.
Come sintetizza efficacemente Leont'ev, Vygotskij


compì sul piano teorico una critica della concezione dell'uomo in chiave biologica e naturalistica, contrapponendo a queste la sua teoria dello sviluppo storico-culturale. La cosa più importante in tutto questo fu che egli introdusse l'idea della storicità della natura della psiche umana, l'idea della trasformazione dei meccanismi naturali dei processi psichici nel corso dello sviluppo storico-sociale e ontogenico nella concreta sperimentazione psicologica. Una tale trasformazione era vista da Vygotskij come il risultato necessario dell'appropriazione dei prodotti della cultura umana da parte dell'uomo, nel processo della comunicazione di questo con le persone circostanti. [8]


La concezione "storica" della formazione e evoluzione della psiche di Vygotskij (1978, 1998), da cui trarrà ispirazione la psicologia culturale di Jerome Bruner [9], ci riporta al paradigma della scuola di Toronto [10], a Leroi-Gourhan, a Cardona e a tutte quelle discipline che studiano l'influenza degli human artifacts, e dunque anche della tecnologia, sui processi vuoi cultural-sociali, vuoi psicologici o mentali. Questa linea di pensiero, che trova in Vygotskij uno dei primi e più lucidi interpreti, è un filo che unisce scienziati, filosofi e letterati del Novecento, spesso anche molto lontani fra loro: da Wittgenstein a Bruner, da Innis a Dewey a Stephen J. Gould, c'è una corrente sotterranea che andrebbe portata alla luce e esplorata in modo aperto e interdisciplinare.
Per ora, sui confini fra psicologia e genetica, fra environmentalism e selezione naturale, i due schieramenti si danno ancora battaglia. Il problema è, tra l'altro, che sulla mente sappiamo ancora troppo poco. Anche se la plasticità del cervello è un fatto dato per acquisito (Aoki / Siekevitz 1988, Boncinelli 1999: 75) non sappiamo in che misura e secondo quali modalità i fenomeni che ci circondano possano marcare, o addirittura determinare, i nostri futuri comportamenti. Il motivo della contrapposizione è chiaro: qualsiasi ammissione che i sistemi linguistici insieme ad altre forme di comunicazione possano cambiare sotto la pressione di eventi esterni si concilia male con l'innatismo e, viceversa, posizioni come la selection theory ("Per il 'selezionista', l'assoluta verità è che tutto ciò che facciamo nella vita è scoprire ciò che è già contenuto nel nostro cervello" Gazzaniga 1992: 2) minacciano i metodi sperimentali degli 'strumentalisti'.
Applicata al nostro caso, il confronto è fra chi crede che le nuove tecnologie della comunicazione possano incidere non solo sui comportamenti e le abitudini, ma sulle attività cognitive, e chi colloca le cause di tali cambiamenti (se esistono) altrove.
Anche nell'area dell'Intelligenza Artificiale e della psicologia cognitiva cominciano a farsi strada teorie che tengono conto del ruolo giocato dagli artifacts. Per Andy Clark fino a oggi abbiamo ideato i nostri oggetti come meccanismi "intrusivi" o "modificatori" dell'ambiente. Lo psicologo fa l'esempio di un tonno-robot costruito nei laboratori del MIT secondo i modelli della Vita Artificiale: il robot cerca di imitare il modo in cui il pesce reale sfrutta mulinelli, spire e vortici d'acqua per "sovralimentare la propulsione e la manovrabilità" (1999: 193). Barche e sottomarini realizzati dagli uomini non ottengono simili risultati perché affrontano l'ambiente come un ostacolo che deve essere contrastato: "Il caso del tonno ci ricorda che i sistemi biologici sfruttano fortemente la struttura dell'ambiente locale. L'ambiente non è da concepire unicamente come un dominio problematico da affrontare. È altrettanto, e soprattutto, una risorsa di cui avvalersi nelle soluzioni" (193). Vygotskij fornisce all'autore argomenti per sfumare il confine fra sistema intelligente e mondo: e riprendendo la lezione dello psicologo russo, Clark ricorda che l'artefatto non solo serve per risolvere problemi, ma riconfigura le strutture esterne e le nostre capacità di modellarle. Similmente, il linguaggio non serve solo a comunicare, ma influenza lo sviluppo cognitivo, adattandosi a - ma anche plasmando - memoria e apprendimento [11].
Non può sorprendere dunque che la sponda vygotskjiana abbia dal primo momento offerto riparo agli studi sui rapporti fra tecnologia e literacy, l'alfabetizzazione-apprendimento della parola scritta:


Vygotsky's views on knowledge as a social construction offer a new model for conceptualizing how to use computers in conferencing, problem solving, documentation, and training contexts. His work is central to contemporary discussions of discourse and learning and, therefore, has relevance to any discussion of writing "with and for" the computer. […] his ideas should be brought into our analysis of writing with and for the computer. (Barrett 19883: xxii, xxiv).


E una recente ricerca (Haas 1999) applica il metodo storico-genetico dello psicologo russo nell'analisi del rapporto fra vecchie e nuove metodologie di scrittura:


Understanding twentieth-century literacy means understanding the multiple technologies that support it, have supported it, and continue to support it. […] A Vygotskian approach to the study of technology, then, suggests a) that multiple technologies for literacy exist, b) that their history-of-use is complex and overlapping, and c) that technology's uses are tied intrinsically to other human activities. A Vygotskian view of technology clearly makes a simple model such as the straightforward progress model difficult to sustain, because for Vygotsky past behaviors, practices, and tools are deeply embedded in present ones. (Haas 1999: 4).


Questo esperimento di sintesi teorica fra storia della tecnologia e psicologia non potrebbe annunciare meglio gli argomenti che affronterò nelle pagine successive.

 


[1] La tesi è esposta in modo articolato in un articolo pubblicato sullo "Scientific American" (Minsky 1997).
[2] "Everyone wants wisdom and wealth. Nevertheless, our health often gives out before we achieve them. To lengthen our lives, and improve our minds, in the future we will need to change our bodies and brains." (Minsky 1997).
[3] Tutte le informazioni sono disponibili su: http://www.unitus.it/lingue/docenti/informatica/appello.
[4] Vedi l'intervista su www.selc.ed.ac.uk/italian/digitalvariants.
[5] Molto interessanti a questo proposito le osservazioni di Guglielmo Cavallo (1997: 8) sulla trasformazione della figura dello scriba medievale da schiavo a "autore" avvenuta grazie all'impulso dato dalla chiesa alla copiatura delle sacre scritture.
[6] In particolare della semiotica: "[…] il segno come oggetto di un continuo patteggiamento fra mittente e destinatario, come continuo processo interpretativo […] è il succo di una evoluzione all'interno della moderna riflessione semiologica." (Gensini 1999: 25).
[7] Sul ruolo odierno della literacy nell'acquisizione del linguaggio vedi per esempio la ricerca di Miller (1993). I dati riportati in questo studio sembrano dimostrare che gran parte della lingua parlata che si apprende dopo i 6-7 anni d'età ha una stretta dipendenza dagli standard della lingua scritta. Dunque per l'autore la teoria secondo la quale "children develop their entire linguistic capacity before going to school […] is wrong." (Miller 1993: 128).
[8] A. N. Leont'ev, "Del metodo storico nello studio dello psichico umano", in "La scienza psicologica in URSS", vol. 1, pp. 9-56 (citato nell'introduzione di M. Serena Vegetti Finzi a Vygotskij 1974: 22).
[9] Vanno ricordati soprattutto i suoi studi sulla "costruzione narrativa" della realtà (Bruner 1991). La costruzione dell'identità per Bruner "non può proseguire senza la capacità di narrare". Una volta dotati di questa capacità, possiamo produrre un'identità che ci collega agli altri, che ci permette di riandare selettivamente al nostro passato, mentre ci prepariamo per la possibilità di un futuro immaginato. […] Per quanto possiamo fare assegnamento su un cervello funzionante per conseguire la nostra identità, fin da principio siamo virtualmente espressioni della cultura che ci nutre." (Bruner 2002: 99).
[10] Havelock, in uno dei suoi ultimi interventi (pubblicato postumo), si richiama esplicitamente agli esperimenti di Lurija (Havelock 1991: 16). Ugualmente riconosciuta l'influenza di Vygotskij su Goody. A questo proposito, in polemica con Chomsky, Goody scrive: "Il presupposto di una struttura profonda comune non rende giustizia al significato delle differenze che stanno al livello dell'uso reale, della pratica anziché della struttura. Risulta singolare che un gruppo di essere umani che probabilmente dedicano alla lettura e alla scrittura molto più tempo di quanto ne passino a parlare e ad ascoltare siano stati così negligenti nei confronti delle implicazioni sociali e psicologiche della loro disciplina. Forse l'inclinazione a una scienza sociale anzitutto 'mentalista' […] ha portato a trascurare i fattori storici, sociali e materiali che Vygotskij […] aveva esplorato." (Goody 1989. 270).
[11] Lo scetticismo riguardo la posizione innatista è implicito: "Questo adattamento rovesciato - dall'artefatto al fruitore - suggerisce un possibile punto di vista nella controversia riguardante i meccanismi innati di acquisizione e comprensione del linguaggio" (Clark 1999: 170).


Opere citate

- Aoki, C. / Siekevitz, P. (1988): "Plasticity in Brain Develpment", in: "Scientific American", december, pp. 34-42.
- Barrett, E. (19883): "Introduction: a new paradigm for writing with and for the computer", in: (Barett ed. 19883, pp. xiii-xxv).
- Barrett, E. (ed.) (19883): "Text, ConText, and HyperText. Writing with and for the Computer". Cambridge (Mass): MIT Press.
- Boncinelli, E. (1999): "Il cervello, la mente e l'anima". Milano: Mondadori.
- Bruner, J. (1983 [1989]): In search of Mmind: Essays in Autobiography. New York: Harper & Row (trad. it. Autobiografia: alla ricerca della mente. Roma: Armando).
- Bruner, J. (1991): "The Narrative Construction of Reality", in: "Critical Inquiry", Autumn: 1-21.
- Bruner, J. (1998): "Celebrare la divergenza: Piaget e Vygotskij", in: Liverta Sempio, O (a cura di) Liverta Sempio, "Vygotskij, Piaget, Bruner. Concezioni dello sviluppo". Milano: Raffaello Cortina, pp. 21-36.
- Bruner, J. (2002): "La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura", vita. Roma-Bari: Laterza.
- Cardona, G. R. (1985-2001): "I sei lati del mondo. Linguaggio ed esperienza". Roma-Bari: Laterza.
- Cavallo, G. (1997): "Pratiche di scrittura come rappresentazione. Qualche traccia", in: Leonardi, C. / Morelli, M. / Santi, F. (a cura di), "Modi di scrivere. Tecnologie e pratiche della scrittura dal manoscritto al CD-ROM". Atti dell'incontro di studio della Fondazione Ezio Franceschini e della Fondazione IBM Italia (Certosa del Galluzzo, 11-12 ottobre 1996). Firenze-Spoleto: Fondazione Ezio Franceschini - Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, pp. 5-15.
- Chomsky, N. (1988 [1991]): "Language and Problems of Knowledge. The Managua Lectures". Cambridge (Mass.): MIT Press (trad. it. "Linguaggio e problemi della conoscenza". Bologna: Il Mulino).
- Chomsky, N. (1996): "Powers and Prospects. Reflections on Human Nature and the Social Order". London: Pluto Press.
- Clark, A. (1997 [1999]): "Being There". Cambridge (Mass.): MIT Press (trad. it. "Dare corpo alla mente". Milano: McGraw-Hill).
- Gazzaniga, M. S. (1992): "Nature's mind. The biological roots of thinking, emotions, sexuality, language, and intelligence". New York: Basic Books.
- Gensini, S. (1999): "Preliminari sul segno e la comunicazione", in Gensini (a cura di), "Manuale di comunicazione". Roma: Carocci, pp. 21-51.
- Goody, J. (1987 [1989]): "The interface between the written and the oral". Cambridge: Cambridge University Press (trad. it. "Il suono e i segni". Milano: Il Saggiatore).
- Haas, C. (1999): "On the relationship between old and new technologies", in "Computers and Composition", 16, 2. URL:http://corax.cwrl.utexas.edu/cac/archives/v16/16_2_html/16_2_feature.html.
- Havelock, E. A. (1991): "The oral-literate equation: a formula for the modern mind", in: Olson, D. R. / Torrance, N. (eds.), "Literacy and orality". Cambridge: Cambridge University Press, pp. 11-27.
- Lurija, A. R. (1974): "Neuropsicologia e neurolinguistica". Roma: Editori Riuniti.
- Miller, J. (1993): "Spoken and Written Language: Language Acquisition and Literacy", in: Scholes, R. J. (ed.), "Literacy and Language Analysis". Hillsdale (NJ): Lawrence Erlbaum, pp. 99-139.
- Minsky, M. L. (1997): "Will Robots Inherit the Earth?", in: "Scientific American", October 1994). URL: http://www.ai.mit.edu/people/minsky/papers/sciam.inherit.html
- Ortoleva, P. (19972): "Mediastoria. Comunicazione e cambiamento sociale nel mondo contemporaneo". Parma: Pratiche Editrice.
- Piscitelli, A. (1995): "Cyberculturas. En la era de las máquinas inteligentes". Barcelona: Paidós.
- Salomone, M. / Minsky, M. L. (1996): "Marvin Minsky: 'En el futuro no habrá diferencias entre hombres y máquinas'", in: Conocer, 12 settembre, pp. 70-72.
- Vygotskij, L. S. (1974-1990): "Storia dello sviluppo delle funzioni psicologiche superiori e altri scritti". Firenze: Giunti (tit. or. "Istorija razvitija vyssih psihiceskih funktcij").
- Vygotskij, L. S. (1978 [1987-1997]): "Mind in society. The development of higher psychological processes". Cambridge (Mass) and London: Harvard University Press (trad. it. "Il processo cognitivo". Torino: Bollati Boringhieri).
- Vygotskij, L. S. (19984): Pensiero e linguaggio. Roma-Bari: Laterza (tit. or. "Myšlenie i rec'. Psichologiceskie issledovanja". Moskva-Leningrad: Gosudarstvennoe Social'no-Ekonomiceskoe Izdatel'stvo, 1934).
- Warwick, K. (1997): "March of the Machines. Why the New Race of Robots Will Rule the World". London: Century.


Domenico Fiormonte. Professore a contratto di Informatica Applicata al Testo Letterario presso l'Università di Roma Tor Vergata e di Informatica Umanistica presso l'Università di Roma La Sapienza. Ha studiato retorica e comunicazione tecnica alla Michigan Technological University e dal 1996 al 1999 è stato titolare di una Research Scholarship presso la School of European Languages and Cultures dell'Università di Edimburgo, dove ha conseguito il PhD. Dirige il progetto di archiviazione elettronica di testi di autori contemporanei spagnoli e italiani Digital Variants (www.selc.ed.ac.uk/italian/digitalvariants). Nel 1998 ha fondato e organizzato a Edimburgo il seminario internazionale "Computer, letteratura e filologia", oggi giunto alla quinta edizione (http://www.uclm.es/gcynt/clip2002/index.htm). È membro del network europeo di eccellenza CHIME (Computing and Humanities in a Multilingual Europe: http://www.uclm.es/gcynt/chime/).Ha pubblicato vari articoli su libri e riviste sul ruolo delle nuove tecnologie nella didattica e nella ricerca in campo umanistico. Insieme a Ferdinanda Cremascoli è autore del Manuale di scrittura (Bollati Boringhieri, Torino 1998). Insieme a J. Usher ha curato il volume New Media and the Humanities: Research and Applications, Oxford: Oxford University Humanities Computing Unit, 2001. Ha infine curato Informatica umanistica: dalla ricerca all'insegnamento, Roma, Bulzoni, 2003.