Le
pagine che seguono sono estratte dal volume Scrittura
e filologia nell'era digitale, Torino, Bollati Boringhieri,
che uscirà alla fine di settembre. Ciò che
qui viene pubblicato sono le conclusioni alla Parte I, in
una versione però arricchita di alcuni paragrafi
inediti che sono stati eliminati per la versione libro.
Ho effettuato i tagli per varie ragioni, ma credo che il
testo proposto conservi una sua autonomia e soprattutto
una sua attualità. Non mi dispiace dunque pubblicarlo
su invito di Dolores Ballone, che ringrazio per il suo entusiasmo
e la sua generosità intellettuale.
Mi sia permesso ora di spiegare brevemente la storia di
questo testo. Mi scuso se abuserò della (scarsa)
pazienza del video-lettore per intrecciare la storia con
un apologo sull'editoria di casa nostra.
Una prima stesura di questo
capitolo risale agli anni 1995-1996, quando proposi all'editore
Laterza un volume dal titolo La scrittura elettronica.
L'idea inizialmente piacque molto a Pepe Laterza, che mi
spronò ad andare avanti. Per tutta l'estate lavorai
a Edimburgo con grande entusiasmo e a ottobre spedii le
prime cinquanta pagine a Roma. La risposta che ricevetti
fu inaspettatamente gelida. L'editore, nonostante avessi
già ricevuto una approvazione di massima all'indice,
aveva dato in pasto le mie cinquanta pagine a una redattrice
che le smontò pezzo per pezzo. Quando passai per
Roma a dicembre incontrai di persona sia Pepe Laterza che
la redattrice. Mi ci vollero pochi minuti per capire che
il libro non era stato compreso. Fu una vera e propria umiliazione,
che però subii in totale silenzio. Contro le mie
cinquanta pagina si scagliò l'acribia dell'editore
e della sua collaboratrice, che si soffermò su molteplici
e dettagliati aspetti fuorché sulla sostanza del
progetto. Ovvero sulla sua scommessa intellettuale.
Facciamo un passo indietro.
Siamo nell'estate 1996: Internet in Italia è appena
agli inizi. Il boom commerciale della rete non è
ancora palese. Ci sono - ci sarebbero - gli spazi per operazioni
innovative. Magari un po' rischiose. Un libro sulla scrittura
elettronica - oggi ce ne sono una mezza dozzina anche in
italiano - non era un "azzardo" in quel momento:
si trattava di un argomento sulla bocca di tutti, c'erano
stati articoli e studi, e qualche monografia sul problema
della didattica. Se avessimo poi dovuto dare retta poi al
'trend' culturale statunitense (tornavo da un soggiorno
di un anno presso la Michigan Technological University),
era chiaro che di lì a poco il tema sarebbe esploso.
Ma nonostante la meritoria attenzione di Laterza per Internet
e la multimedialità non vi era ancora la consapevolezza
di che cosa avrebbe comportato la digitalizzazione dal punto
di vista dell'architettura della conoscenza. L'editore,
insomma, non capì.
A distanza di sette anni, grazie
a Bollati Boringhieri, vede finalmente la luce quel lontano
progetto. Ampliato, aggiornato e in gran parte riscritto
(eccetto che per le pagine che vi propongo).
Forse dovrei ringraziare Laterza per quel rifiuto, perché
il libro che esce oggi è di gran lunga meno peggio
di quello che avrei scritto nel 1996. Nondimeno credo che
il compito di un editore di cultura sia quello di rischiare
con temi innovativi e autori giovani e poco noti. Questo
gli editori italiani non lo sanno, e soprattutto non lo
vogliono fare, in ciò seguendo la tendenza
degenerativa dell'università italiana, che ha ormai
rinunciato a costruire opportunità per i giovani
ricercatori. Non riesce ad abbandonarmi l'idea che, se avesse
avuto di fronte un interlocutore accademico "di peso",
l'editore di Benedetto Croce si sarebbe comportato diversamente.
Sia come sia, il "libro
di sette anni", nato "apripista", si è
trasformato in un studio che fa il punto della situazione
e indica strade percorse e da percorrere. Ai lettori il
giudizio su ciò che è. Ai posteri su ciò
che sarebbe stato...
IL CYBORGHESE PICCOLO PICCOLO.
Riflessioni a margine del rapporto fra tecnologia e letteratura
1.1 Il negozio di Minsky
In un'intervista concessa qualche anno fa a una rivista
spagnola, Marvin Minsky, padre-pasdaran dell'intelligenza
artificiale al MIT di Boston, si abbandonava alla descrizione
di scenari fantascientifici. Fra le altre cose diceva Minsky:
"Gli uomini hanno dei limiti: un cervello che funziona
a una certa velocità, con neuroni con qualche milione
di bit di memoria. Ma ci stancheremo di ciò e vorremo
più memoria, migliori idee e dunque attaccheremo
il computer alla nostra testa nello stesso modo in cui ampliamo
la memoria del PC o gli mettiamo un microprocessore più
veloce. Credo che nel futuro la gente andrà al negozio
e comprerà più cervello." (Salomone /
Minsky 1996: 72) [1].
Ho adoperato sopra la parola "fantascientifico":
a tutti credo sarà venuto in mente leggendo questa
frase il romanzo Il terminale uomo di Micheal Crichton.
Sei mesi dopo l'intervista a Minsky, Arthur Clarke, l'autore
di 2001 Odissea nello spazio, intervistato dalla Cable
TV inglese EBN affermava che entro cento anni l'educazione
si baserà sulla trasmissione di dati e informazioni
direttamente nel cervello, tanto da rendere obsoleto l'apprendimento
e dunque scuole, università, ecc. Siamo di fronte
a uno di quei casi - sempre meno rari - in cui uno scrittore
di fantascienza, anche il più profetico e visionario,
arranca dietro le dichiarazioni dell'establishment scientifico.
Kevin Warwick (1997), professore di cibernetica all'università
del Sussex descrive nel suo ultimo libro (March of the
Machines) uno scenario che sembra preso pari pari da
un cattivo racconto di fantascienza degli anni Cinquanta.
Il sottotitolo del libro è sufficiente per farsi
un'idea: "Why the New Race of
Robots Will Rule the World."
Minsky è sempre stato uno dei sostenitori della tesi
'forte' dell'intelligenza artificiale, quella secondo la
quale il cervello umano può essere, prima o poi,
in una maniera o nell'altra, replicato, riprodotto, migliorato
e conseguentemente messo sul mercato. Ciò che lascia
sbalorditi è indubbiamente l'idea che un domani andare
per cervelli sarà un po' come andare per funghi.
Ma perché poi limitarsi al cervello, mi domando?
La lista dei pezzi di ricambio sarebbe lunga.
Gli scienziati americani non sono nuovi a queste provocazioni.
Tuttavia Minsky con quella frase scopre un nervo molto sensibile
della società occidentale: il terrore della morte.
Parola che fa capolino subito dopo: alla domanda "Non
crede sia pericoloso che esista un supercomputer capace
di analizzare il cervello umano?", Minsky risponde:
"Sì, certo che può essere un rischio.
Tutto è pericoloso, per questo motivo dobbiamo stare
molto attenti. Però è più terribile
non essere immortali - e con i cervelli artificiali si conseguirà
questo obiettivo"[2]. All'interno
della tecnologia il problema della morte consiste dunque
nell'inventare il suo 'superamento', un sorpasso che il
negozio di Minsky intende pianificato dal mercato.
(Un inciso: avrete notato che in questi discorsi raramente
si sente parlare di umanità. 'Fattori' come tempo,
fame, dolore, giustizia, coscienza, ecc. non vengono presi
in considerazione. L'immortalità di cui parlano gli
scienziati cyborghesi assomiglia a una lobotomizzazione:
nessuno si chiede se saremo felici o meno, ciò che
conta è non morire. Sorge spontanea una domanda:
essere immortali a Beverly Hills è la stessa cosa
che esserlo a Tirana?)
1.2 Nanoletterature
Alla frontiera fra fantascienza
e ricerca tecnologica vi sono oggi l'ingegneria molecolare
e le nanotecnologie (e a essa si riferisce credo Minsky
quando parla delle 'pillole' cerebrali). Esiste un gruppo
con questo nome al MIT, di cui Minsky fa parte, che ha iniziato
a trattare questi temi negli anni Ottanta. Che cosa sono
queste nanomacchine? piccoli e superpotenti nuovi
computer? Non esattamente. Sono ipotetiche strutture simil-biologiche
ricalcate su modelli molecolari in grado di 'produrre' oggetti
e fenomeni in 'disciplina controllata'. Alejandro Piscitelli,
epistemologo argentino tra i pochi ad aver scritto su questi
temi da una prospettiva non primo-mondista, così
sintetizza il progetto:
La domanda con la quale cominciò
il programma di lavoro che oggi ossessiona Drexler
[uno dei massimi teorici di questa disciplina] fu: "Che
succederebbe se si potessero manipolare le molecole che
i biologi incontrano nei sistemi organizzati?" La sua
risposta fu: "Si potrebbero costruire macchine molecolari
e utilizzarle per creare migliori macchine molecolari."
In poco tempo si avrebbe una tecnologia molto potente che
ci darebbe un controllo completo sulla struttura della materia.
[...] La pietra fondamentale di tutta questa struttura è
il supercomputer che lavorerà ordendo e disordendo
fili di un atomo di lunghezza. La memoria sarà immagazzinata
in lunghe molecole. [...] Questa macchina avrà lo
stesso potere che il più grande dei supercomputer
attuali, ma lavorerà 100 volte più rapidamente
e occuperà un millesimo del volume di una cellula
del corpo. (Piscitelli 1995: 54-56; trad. mia).
Questo in pratica vorrebbe dire, continua Piscitelli, avere
"macchine riparatrici di cellule capaci di estendere
il nostro ciclo di vita e migliorare la salute." Dovremo
abituarci ai miracoli della medicina: "pillole che
diagnosticano o curano, riparazione chirurgica cellulare
[...] e fabbricazione di nuovi organi a partire dal nulla,
con aspettative di vita di centinaia o migliaia di anni."
Una singola molecola "martellatrice" potrebbe,
geneticamente programmata, "colpire gli atomi di carbonio
nell'angolo giusto con la potenza precisa affinché
formino la struttura del diamante. [...] Le fibre di diamante
ottenibili da [questi] assemblatori saranno dieci volte
più forti che l'acciaio", e "sarà
tanto economico costruire un navicella spaziale con questo
materiale che un viaggio interstellare costerà meno
di quello che paghiamo oggi per un biglietto aereo."
Naturalmente molti sono scettici su queste previsioni: ammesso
che tali macchine diventino realtà ciò che
lascia perplessi molti scienziati è la controllabilità
di questi fenomeni (se avete presente una bomba atomica
capirete il perché). Insomma, siamo ancora alla fantascienza
- anche se a questa fantascienza si dedicano riunioni mensili
in un laboratorio del Massachusetts.
Ma finalmente, che cosa c'entrano l'angoscia di morte, il
MIT e le nanotecnologie con la scrittura e la letteratura?
C'entrano, perché il problema della comunicazione
del futuro, e dunque anche della scrittura, è né
più e né meno che il problema delle 'macchine',
di cosa saranno esse e di cosa saremo noi in grado di fargli
fare. È azzardato dire che dalle macchine dipenderà
la nostra immaginazione? L'orologio è una macchina
e non è questo che dà forma alla nostra quotidiana
concezione e rappresentazione del tempo? Ed è la
stessa narrativa del tempo (ciclico) di Omero, quello (lineare)
del romanzo poliziesco e quello (puntiforme e einsteiniano)
di Proust? (Assisteremo dunque alla nascita di una nanoletteratura?)
In realtà, dietro l'azzardata equazione tecnologia=
immaginazione, come abbiamo visto vi sono teorie insospettabilmente
consolidate:
[
] così la storiografia
dei media finisce spesso con l'attribuire a epoche passate
una consapevolezza concettuale del ruolo della comunicazione
[
]. L'applicazione retrospettiva dell'idea odierna
di comunicazione al passato può anche dar luogo a
una sorta di filosofia della storia. Nelle formulazioni
di Marshall McLuhan, volutamente estreme, l'avvicendarsi
dei diversi strumenti utilizzati per inviare e ricevere
messaggi è la chiave per interpretare l'intera vicenda
dell'umanità sulla terra [
]. (Ortoleva 19972:
11).
E tuttavia, pur diffidando delle tesi deterministe, non
si può negare che la tecnologia, creazione dell'uomo,
ma che all'uomo dà a sua volta senso, nel corso della
storia sceglie i suoi canali di comunicazione e questi
danno luogo a forme espressive. Negli ultimi tre o quattro
secoli una fra queste - non l'unica - noi abbiamo scelto
di chiamarla letteratura.
Parlando con i letterati (ma capita anche con ingegneri
e informatici) spesso si ha l'impressione che il problema
della tecnologia non conti o conti solo marginalmente. L'estate
scorsa, in seguito alla pubblicazione di un appello a sostegno
dell'Informatica Umanistica [3] sul
newsgroup free.it.lavoro.informatica,
frequentato prevalentemente da informatici, trovai nella
mia casella di posta il seguente messaggio: "L'informatica
non deve parlare di contenuti, i contenuti non devono parlare
di informatica". Come a dire: ognuno faccia il suo
mestiere. Oltre al terrore per le interferenze (e alla negazione
dello scambio), tali opinioni sottintendono la nota tesi
progressista del computer 'strumento neutro'. "Smettiamola
di pensare al Grande Fratello ogni volta che si parla di
calcolatori", dicono costoro, "all'apparire di
ogni nuova tecnologia è sempre la stessa storia:
apocalittici e nostalgici da un lato, entusiasti e integrati
dall'altro." Questa è l'opinione di maîtres
à penser come Eco, di critici di scuole anche
concorrenti, di filosofi come Fernando Savater [4],
e naturalmente di quasi tutti gli scienziati. Perché?
Il discorso sarebbe lungo, ma è probabile che la
cultura occidentale sia ancora troppo legata al Dio-Autore
[5] (e al suo Sacerdote-Interprete)
per far finta di nulla di fronte a quella sorta di "espropriazione
testuale" che la tecnologia informatica mette in atto
nei confronti dell'opera. E anche sotto le critiche di parte
progressista ogni tanto si sente puzza di bruciato. Gli
attacchi rivolti alle opere 'senza autore', interattive,
'aperte', ecc., di cui pure abbiamo discusso e indicato
i limiti, sembrano riflettere l'angoscia di perdere, più
che il diritto dell'autore a 'possedere' l'opera, il potere
che i suoi interpreti hanno costruito su di essa attraverso
i secoli.
1.3 'Connessioni profonde' e 'strumenti neutri'
Le macchine, si diceva. Certo molto ancora dipende da noi.
Ma non illudiamoci: nel senso che per ora quel 'noi' include
gli scienziati (che sfornano nuovi prodotti), l'industria
(che li paga e gestisce) e il mercato, che nessuno sa ormai
più cosa sia ma al quale lo stesso Minsky (con qualche
lamento) ammette di essere al servizio.
Sin qui ho cercato di discutere tanto la tesi degli 'strumenti
neutri' che i millenarismi/primitivismi, fra loro speculari,
di apocalittici ed entusiasti. Al fondo di tutto vi è
l'antica disputa fra chi crede l'uomo geneticamente programmato,
e quindi relativamente 'indipendente' dall'ambiente, e chi
lo ritiene invece più legato al mondo degli oggetti,
delle persone e degli eventi che lo circondano e che egli
stesso ha contribuito a forgiare. Questa dialettica, riassumendo
un po' brutalmente, è stata per lungo tempo al centro
del dibattito filosofico e linguistico [6].
Come nella Scilla e Cariddi di joyciana memoria, si sono
affrontate due scuole: quella che vedeva il linguaggio come
una capacità prevalentemente innata e quella convinta
che il suo sviluppo e la sua "costruzione" siano
determinati, in modo decisivo, da fattori ambientali e sociali.
Non si tratta di posizioni necessariamente in contrasto,
ma forse lo scarso interesse di Chomsky (1988, 1996) per
i fattori per così dire 'esterni', ha concentrato
il dibattito dei linguisti su altri temi, lasciando in ombra
la questione degli strumenti (e la stessa scrittura, riscoperta
dai linguisti negli ultimi dieci-quindici anni). Uno dei
temi negletti è che i linguaggi, intesi come insieme
di strumento e supporto, lingua/alfabeto, scrittura/mezzi,
ecc., siano di per sé portatori di senso (Goody 1989;
Cardona 1985-2001). E che i sistemi linguistici, inscindibili
dalle culture che rappresentano e di cui allo stesso
tempo si nutrono, possano dare luogo a precise configurazioni
mentali [7]. La visione
chomskyana sembra tendere verso una interpretazione molto
precisa - e forse un po' rigida - di mente, in cui c'è
poco spazio per gli eventi esterni:
I emphasized biological facts, and I didn't say anything
about historical and social facts. And I am going to say
nothing about these elements in language acquisition. The
reason is that I think they are relatively unimportant.
As far as I know, the development of human mental capacity
like language, it just happens, the way you learn to walk.
[
] Acquisition of language is something that happens
to you; it is not something that you do. (Chomsky 1988:
173-174).
E più avanti:
The question is, Are there some deeper and more subtle connections
between the level of production and the kind of thinking
that can be done? My suspicion is that the answer to that
is no. So I don't think there would be very much difficulty
in teaching modern physics or modern mathematics to a person
who knows only Stone Age technology. It would be difficult
in the sense that certain experiments and practical applications
would not be available, but I'm not convinced that anything
deeper than that would be involved. (Chomsky 1988: 193-194).
Leggendo questo passo, per contrasto, non può non
venire in mente quel famoso esperimento di Vygotskij e Lurija
(Lurija 1974: 19-20) in cui il contadino analfabeta dell'Asia
Minore, alla richiesta di 'classificare' le figure di una
scure, un ciocco, una pala e una sega, risponde mettendo
insieme scure, ciocco e sega, lasciando da parte la pala
"perché non serve" (19). L'operazione di
classificazione per categorie astratte (ciocco = materiale,
pala, scure e sega.= strumento), spiega Lurija, "agevolmente
compiuta dai nostri soggetti più progrediti nello
sviluppo culturale, risultò inaccessibile per il
gruppo di coloro che vivevano in condizioni economiche più
arretrate [
] Il posto dell'operazione
teorica - annoverare in un'unica categoria astratta - era
qui occupato da un'operazione pratica: ricondurre
a una situazione concreta comune. [
]
Nello stesso modo erano costruite anche le più complesse
operazioni del discorso e tutto ciò mostrava [
]
che la struttura fondamentale del
pensiero procedeva in queste persone secondo le leggi della
pratica comune [
]"; conclude Lurjia:
"Le ricerche compiute [
]
hanno mostrato un fatto fondamentale: le leggi psicologiche
dei processi cognitivi non sono universali e immutabili;
non solo il contenuto, ma anche le forme
dell'attività cognitiva sono un prodotto dello sviluppo
storico-sociale" (Lurija 1974: 20-21 [corsivi
dell'autore]). Se persino i processi di autocoscienza,
considerati da Descartes "il punto di partenza di ogni
attività psichica", sono un prodotto della storia,
si può comprendere come una visione del genere sia
in conflitto con tutte le tesi 'idealiste', compreso l'innatismo
chomskyano.
Come sintetizza efficacemente Leont'ev, Vygotskij
compì sul piano teorico una critica
della concezione dell'uomo in chiave biologica e naturalistica,
contrapponendo a queste la sua teoria dello sviluppo storico-culturale.
La cosa più importante in tutto questo fu che egli
introdusse l'idea della storicità della natura della
psiche umana, l'idea della trasformazione dei meccanismi
naturali dei processi psichici nel corso dello sviluppo
storico-sociale e ontogenico nella concreta sperimentazione
psicologica. Una tale trasformazione era vista da Vygotskij
come il risultato necessario dell'appropriazione dei prodotti
della cultura umana da parte dell'uomo, nel processo della
comunicazione di questo con le persone circostanti. [8]
La concezione "storica" della formazione e evoluzione
della psiche di Vygotskij (1978, 1998), da cui trarrà
ispirazione la psicologia culturale di Jerome Bruner [9],
ci riporta al paradigma della scuola di Toronto [10],
a Leroi-Gourhan, a Cardona e a tutte quelle discipline che
studiano l'influenza degli human artifacts, e dunque
anche della tecnologia, sui processi vuoi cultural-sociali,
vuoi psicologici o mentali. Questa linea di pensiero, che
trova in Vygotskij uno dei primi e più lucidi interpreti,
è un filo che unisce scienziati, filosofi e letterati
del Novecento, spesso anche molto lontani fra loro: da Wittgenstein
a Bruner, da Innis a Dewey a Stephen J. Gould, c'è
una corrente sotterranea che andrebbe portata alla luce
e esplorata in modo aperto e interdisciplinare.
Per ora, sui confini fra psicologia e genetica, fra environmentalism
e selezione naturale, i due schieramenti si danno ancora
battaglia. Il problema è, tra l'altro, che sulla
mente sappiamo ancora troppo poco. Anche se la plasticità
del cervello è un fatto dato per acquisito (Aoki
/ Siekevitz 1988, Boncinelli 1999: 75) non sappiamo in che
misura e secondo quali modalità i fenomeni che ci
circondano possano marcare, o addirittura determinare, i
nostri futuri comportamenti. Il motivo della contrapposizione
è chiaro: qualsiasi ammissione che i sistemi linguistici
insieme ad altre forme di comunicazione possano cambiare
sotto la pressione di eventi esterni si concilia male con
l'innatismo e, viceversa, posizioni come la selection
theory ("Per il 'selezionista', l'assoluta verità
è che tutto ciò che facciamo nella vita è
scoprire ciò che è già contenuto nel
nostro cervello" Gazzaniga 1992: 2) minacciano i metodi
sperimentali degli 'strumentalisti'.
Applicata al nostro caso, il confronto è fra chi
crede che le nuove tecnologie della comunicazione possano
incidere non solo sui comportamenti e le abitudini, ma sulle
attività cognitive, e chi colloca le cause di tali
cambiamenti (se esistono) altrove.
Anche nell'area dell'Intelligenza Artificiale e della psicologia
cognitiva cominciano a farsi strada teorie che tengono conto
del ruolo giocato dagli artifacts. Per Andy Clark
fino a oggi abbiamo ideato i nostri oggetti come meccanismi
"intrusivi" o "modificatori" dell'ambiente.
Lo psicologo fa l'esempio di un tonno-robot costruito nei
laboratori del MIT secondo i modelli della Vita Artificiale:
il robot cerca di imitare il modo in cui il pesce reale
sfrutta mulinelli, spire e vortici d'acqua per "sovralimentare
la propulsione e la manovrabilità" (1999: 193).
Barche e sottomarini realizzati dagli uomini non ottengono
simili risultati perché affrontano l'ambiente come
un ostacolo che deve essere contrastato: "Il caso del
tonno ci ricorda che i sistemi biologici sfruttano fortemente
la struttura dell'ambiente locale. L'ambiente non è
da concepire unicamente come un dominio problematico da
affrontare. È altrettanto, e soprattutto, una risorsa
di cui avvalersi nelle soluzioni" (193). Vygotskij
fornisce all'autore argomenti per sfumare il confine fra
sistema intelligente e mondo: e riprendendo la lezione dello
psicologo russo, Clark ricorda che l'artefatto non solo
serve per risolvere problemi, ma riconfigura le strutture
esterne e le nostre capacità di modellarle. Similmente,
il linguaggio non serve solo a comunicare, ma influenza
lo sviluppo cognitivo, adattandosi a - ma anche plasmando
- memoria e apprendimento [11].
Non può sorprendere dunque che la sponda vygotskjiana
abbia dal primo momento offerto riparo agli studi sui rapporti
fra tecnologia e literacy, l'alfabetizzazione-apprendimento
della parola scritta:
Vygotsky's views on knowledge as a social
construction offer a new model for conceptualizing how to
use computers in conferencing, problem solving, documentation,
and training contexts. His work is central to contemporary
discussions of discourse and learning and, therefore, has
relevance to any discussion of writing "with and for"
the computer. [
] his ideas should be brought into
our analysis of writing with and for the computer. (Barrett
19883: xxii, xxiv).
E una recente ricerca (Haas 1999) applica il metodo storico-genetico
dello psicologo russo nell'analisi del rapporto fra vecchie
e nuove metodologie di scrittura:
Understanding twentieth-century literacy
means understanding the multiple technologies that support
it, have supported it, and continue to support it. [
]
A Vygotskian approach to the study of technology, then,
suggests a) that multiple technologies for literacy exist,
b) that their history-of-use is complex and overlapping,
and c) that technology's uses are tied intrinsically to
other human activities. A Vygotskian view of technology
clearly makes a simple model such as the straightforward
progress model difficult to sustain, because for Vygotsky
past behaviors, practices, and tools are deeply embedded
in present ones. (Haas 1999: 4).
Questo esperimento di sintesi teorica fra storia della tecnologia
e psicologia non potrebbe annunciare meglio gli argomenti
che affronterò nelle pagine successive.
[1]
La tesi è esposta in modo articolato in un articolo
pubblicato sullo "Scientific American"
(Minsky 1997).
[2] "Everyone wants wisdom and wealth. Nevertheless,
our health often gives out before we achieve them. To lengthen
our lives, and improve our minds, in the future we will
need to change our bodies and brains." (Minsky 1997).
[3] Tutte le informazioni sono disponibili su: http://www.unitus.it/lingue/docenti/informatica/appello.
[4] Vedi l'intervista su www.selc.ed.ac.uk/italian/digitalvariants.
[5] Molto interessanti a questo proposito le osservazioni
di Guglielmo Cavallo (1997: 8) sulla trasformazione della
figura dello scriba medievale da schiavo a "autore"
avvenuta grazie all'impulso dato dalla chiesa alla copiatura
delle sacre scritture.
[6] In particolare della semiotica: "[
] il segno
come oggetto di un continuo patteggiamento fra mittente
e destinatario, come continuo processo interpretativo [
]
è il succo di una evoluzione all'interno della moderna
riflessione semiologica." (Gensini 1999: 25).
[7] Sul ruolo odierno della literacy nell'acquisizione
del linguaggio vedi per esempio la ricerca di Miller (1993).
I dati riportati in questo studio sembrano dimostrare che
gran parte della lingua parlata che si apprende dopo i 6-7
anni d'età ha una stretta dipendenza dagli standard
della lingua scritta. Dunque per l'autore la teoria secondo
la quale "children develop their entire linguistic
capacity before going to school [
] is wrong."
(Miller 1993: 128).
[8] A. N. Leont'ev, "Del metodo storico nello studio
dello psichico umano", in "La scienza psicologica
in URSS", vol. 1, pp. 9-56 (citato nell'introduzione
di M. Serena Vegetti Finzi a Vygotskij 1974: 22).
[9] Vanno ricordati soprattutto i suoi studi sulla "costruzione
narrativa" della realtà (Bruner 1991). La costruzione
dell'identità per Bruner "non può proseguire
senza la capacità di narrare". Una volta dotati
di questa capacità, possiamo produrre un'identità
che ci collega agli altri, che ci permette di riandare selettivamente
al nostro passato, mentre ci prepariamo per la possibilità
di un futuro immaginato. [
] Per quanto possiamo fare
assegnamento su un cervello funzionante per conseguire la
nostra identità, fin da principio siamo virtualmente
espressioni della cultura che ci nutre." (Bruner 2002:
99).
[10] Havelock, in uno dei suoi ultimi interventi (pubblicato
postumo), si richiama esplicitamente agli esperimenti di
Lurija (Havelock 1991: 16). Ugualmente riconosciuta l'influenza
di Vygotskij su Goody. A questo proposito, in polemica con
Chomsky, Goody scrive: "Il presupposto di una struttura
profonda comune non rende giustizia al significato delle
differenze che stanno al livello dell'uso reale, della pratica
anziché della struttura. Risulta singolare che un
gruppo di essere umani che probabilmente dedicano alla lettura
e alla scrittura molto più tempo di quanto ne passino
a parlare e ad ascoltare siano stati così negligenti
nei confronti delle implicazioni sociali e psicologiche
della loro disciplina. Forse l'inclinazione a una scienza
sociale anzitutto 'mentalista' [
] ha portato a trascurare
i fattori storici, sociali e materiali che Vygotskij [
]
aveva esplorato." (Goody 1989. 270).
[11] Lo scetticismo riguardo la posizione innatista è
implicito: "Questo adattamento rovesciato - dall'artefatto
al fruitore - suggerisce un possibile punto di vista nella
controversia riguardante i meccanismi innati di acquisizione
e comprensione del linguaggio" (Clark 1999: 170).
Opere
citate
- Aoki, C. / Siekevitz,
P. (1988): "Plasticity in Brain Develpment", in:
"Scientific American", december, pp. 34-42.
- Barrett, E. (19883): "Introduction: a new paradigm
for writing with and for the computer",
in: (Barett ed. 19883, pp. xiii-xxv).
- Barrett, E. (ed.) (19883): "Text, ConText, and HyperText.
Writing with and for the Computer". Cambridge (Mass):
MIT Press.
- Boncinelli, E. (1999): "Il cervello, la mente e l'anima".
Milano: Mondadori.
- Bruner, J. (1983 [1989]): In search of Mmind: Essays in
Autobiography. New York: Harper & Row (trad. it. Autobiografia:
alla ricerca della mente. Roma: Armando).
- Bruner, J. (1991): "The Narrative Construction of
Reality", in: "Critical Inquiry", Autumn:
1-21.
- Bruner, J. (1998): "Celebrare la divergenza: Piaget
e Vygotskij", in: Liverta Sempio, O (a cura di) Liverta
Sempio, "Vygotskij, Piaget, Bruner. Concezioni dello
sviluppo". Milano: Raffaello Cortina, pp. 21-36.
- Bruner, J. (2002): "La fabbrica delle storie. Diritto,
letteratura", vita. Roma-Bari: Laterza.
- Cardona, G. R. (1985-2001): "I sei lati del mondo.
Linguaggio ed esperienza". Roma-Bari: Laterza.
- Cavallo, G. (1997): "Pratiche di scrittura come rappresentazione.
Qualche traccia", in: Leonardi, C. / Morelli, M. /
Santi, F. (a cura di), "Modi di scrivere. Tecnologie
e pratiche della scrittura dal manoscritto al CD-ROM".
Atti dell'incontro di studio della Fondazione Ezio Franceschini
e della Fondazione IBM Italia (Certosa del Galluzzo, 11-12
ottobre 1996). Firenze-Spoleto: Fondazione Ezio Franceschini
- Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, pp. 5-15.
- Chomsky, N. (1988 [1991]): "Language and Problems
of Knowledge. The Managua Lectures". Cambridge
(Mass.): MIT Press (trad. it. "Linguaggio e
problemi della conoscenza". Bologna: Il Mulino).
- Chomsky, N. (1996): "Powers and Prospects.
Reflections on Human Nature and the Social Order".
London: Pluto Press.
- Clark, A. (1997 [1999]): "Being There".
Cambridge (Mass.): MIT Press (trad. it. "Dare corpo
alla mente". Milano: McGraw-Hill).
- Gazzaniga, M. S. (1992): "Nature's mind. The
biological roots of thinking, emotions, sexuality, language,
and intelligence". New York: Basic Books.
- Gensini, S. (1999): "Preliminari sul segno e la comunicazione",
in Gensini (a cura di), "Manuale di comunicazione".
Roma: Carocci, pp. 21-51.
- Goody, J. (1987 [1989]): "The interface between
the written and the oral". Cambridge: Cambridge University
Press (trad. it. "Il suono e i segni".
Milano: Il Saggiatore).
- Haas, C. (1999): "On the relationship between old
and new technologies", in "Computers and
Composition", 16, 2. URL:http://corax.cwrl.utexas.edu/cac/archives/v16/16_2_html/16_2_feature.html.
- Havelock, E. A. (1991): "The oral-literate equation:
a formula for the modern mind", in: Olson, D. R. /
Torrance, N. (eds.), "Literacy and orality".
Cambridge: Cambridge University Press, pp. 11-27.
- Lurija, A. R. (1974): "Neuropsicologia e neurolinguistica".
Roma: Editori Riuniti.
- Miller, J. (1993): "Spoken and Written Language:
Language Acquisition and Literacy", in: Scholes, R.
J. (ed.), "Literacy and Language Analysis". Hillsdale
(NJ): Lawrence Erlbaum, pp. 99-139.
- Minsky, M. L. (1997): "Will Robots Inherit the Earth?",
in: "Scientific American", October
1994). URL: http://www.ai.mit.edu/people/minsky/papers/sciam.inherit.html
- Ortoleva, P. (19972): "Mediastoria. Comunicazione
e cambiamento sociale nel mondo contemporaneo".
Parma: Pratiche Editrice.
- Piscitelli, A. (1995): "Cyberculturas. En
la era de las máquinas inteligentes".
Barcelona: Paidós.
- Salomone, M. / Minsky, M. L. (1996): "Marvin Minsky:
'En el futuro no habrá diferencias entre hombres
y máquinas'", in: Conocer, 12 settembre, pp.
70-72.
- Vygotskij, L. S. (1974-1990): "Storia dello
sviluppo delle funzioni psicologiche superiori e altri scritti".
Firenze: Giunti (tit. or. "Istorija razvitija
vyssih psihiceskih funktcij").
- Vygotskij, L. S. (1978 [1987-1997]): "Mind
in society. The development of higher psychological processes".
Cambridge (Mass) and London: Harvard University Press (trad.
it. "Il processo cognitivo". Torino:
Bollati Boringhieri).
- Vygotskij, L. S. (19984): Pensiero e linguaggio.
Roma-Bari: Laterza (tit. or. "Mylenie i rec'.
Psichologiceskie issledovanja". Moskva-Leningrad:
Gosudarstvennoe Social'no-Ekonomiceskoe Izdatel'stvo, 1934).
- Warwick, K. (1997): "March of the Machines.
Why the New Race of Robots Will Rule the World".
London: Century.
Domenico
Fiormonte. Professore a contratto di Informatica Applicata
al Testo Letterario presso l'Università di Roma Tor
Vergata e di Informatica Umanistica presso l'Università
di Roma La Sapienza. Ha studiato retorica e comunicazione
tecnica alla Michigan Technological University e dal 1996
al 1999 è stato titolare di una Research Scholarship
presso la School of European Languages and Cultures dell'Università
di Edimburgo, dove ha conseguito il PhD. Dirige il progetto
di archiviazione elettronica di testi di autori contemporanei
spagnoli e italiani Digital Variants (www.selc.ed.ac.uk/italian/digitalvariants).
Nel 1998 ha fondato e organizzato a Edimburgo il seminario
internazionale "Computer, letteratura e filologia",
oggi giunto alla quinta edizione (http://www.uclm.es/gcynt/clip2002/index.htm).
È membro del network europeo di eccellenza CHIME
(Computing and Humanities in a Multilingual Europe: http://www.uclm.es/gcynt/chime/).Ha
pubblicato vari articoli su libri e riviste sul ruolo delle
nuove tecnologie nella didattica e nella ricerca in campo
umanistico. Insieme a Ferdinanda Cremascoli è autore
del Manuale di scrittura (Bollati Boringhieri, Torino 1998).
Insieme a J. Usher ha curato il volume New Media and the
Humanities: Research and Applications, Oxford: Oxford University
Humanities Computing Unit, 2001. Ha infine curato Informatica
umanistica: dalla ricerca all'insegnamento, Roma, Bulzoni,
2003. |