I.
Si dice - e forse lo si crede
realmente - che l'arte possa salvare il mondo, che la bellezza
sia in grado di redimerlo e renderlo ancora piacevolmente
abitabile. Che cosa vuol dire ciò? E poi: può
veramente la bellezza salvare il mondo? Non era questa una
prerogativa del Dio della creazione?
Oggi viviamo all'interno di una condizione che Lyotard definiva
- teorizzandola per primo - "postmoderna". In
quel prefisso "post" si concentrano due sensi:
il senso di un "prima", di un antecedente per
sempre superato; il senso di un "dopo", di una
posteriorità senza tempo, che non potrà avere
mai fine. "Il postmoderno, scrive Lyotard, andrebbe
quindi compreso secondo il paradosso del futuro (post) anteriore
(modo)" [1]. Lyotard
e i teorici del postmoderno lasciano, insomma, capire che,
ora come ora (vale a dire nella condizione storico-planetaria
nella quale ci troviamo), niente sarà più
come prima. Nemmeno il mondo che la bellezza dovrebbe salvare.
Ma che dovrebbe poi trarre in salvo da quale pericolo? Da
quello che, con linguaggio teologico, si potrebbe chiamare
"perdizione", assenza di gravità, composto
deragliamento (immaginiamoci un treno in corsa che salta
i binari, segue una direzione imprevista e mantiene, in
un regime di precarietà, l'equilibrio).
Sembra una frase ad effetto questo aforisma - "la bellezza
salverà il mondo" [2]-
tanto da avere in sé una grande forza di consolazione,
perché se è vero che c'è ancora qualcosa
- la bellezza, in questo caso - in grado di salvare il mondo,
il nostro destino, per capovolgere il senso di una battuta
dello Zarathustra nietzscheano, non sarà poi così
insopportabilmente funesto [3].
Lo spazio dell'arte contemporanea può continuare
perciò ad essere questo mondo. Un mondo in piena
caduta, è vero, ma questo precipitoso vorticare può
ancora liberare sprazzi di luminosa, se non accecante, bellezza,
perché se non c'è bellezza, non c'è
via di salvezza. E - attenzione - la bellezza di cui qui
si parla non è un surrogato escatologico, un "principio
speranza" ad uso e consumo degli apocalittici del nostro
tempo.
La dimensione dell'arte contemporanea è allora questo
nostro mondo. Resto ancora in attesa di un'arte (ma questa
è chiaramente una provocazione di cui riconosco tutta
l'ingenuità) che esca fuori cornice [4]
e s'impegni nella rappresentazione di un modello che non
sia il mondo: né questo e né, se vi pare lecito,
un suo succedaneo, parallelo o alternativo che sia. Qui
si allude allora ad un'arte che, per scelta obbligatoria,
si fa visionaria? Sarebbe una soluzione auspicabile (ma
evidentemente l'ingenua provocazione non ha esaurito tutti
i suoi effetti), se non fosse che la maggiore risorsa del
mistico è la radice terrena, mondana, della sua propensione
verso il cielo. Il mistico, ho sempre creduto, è
un vero esperto del mondo, un viveur, un homme du monde,
come Giovanni della Croce e Simone Weil, ad esempio. Chi
rifiuta la cura del secolo deve essersene lasciato attraversare
profondamente. Solo chi lo ha realmente conosciuto può
bandirlo con efficacia: è la via - si ricorderà
- che va dal tutto al Nulla percorsa da Siddharta Gautama.
È da escludere perciò, o da scoraggiare, quanto
meno, un ruolo per così dire mistico dell'arte: il
mistico (e non è necessario, per i fini che si propone
il nostro discorso, considerarlo alla stregua di uno stilita
autoflagellante) è spesso tale più per il
disprezzo del mondo in cui vive e di cui, potendo, farebbe
a meno, che per la scoperta di un mondo "altro",
"alternativo", egualmente attingibile. L'arte
può essere visione (Chagall e Kandinskij, ad esempio),
ma non può essere visionaria. Lo slancio visionario
dell'artista non trasforma la rappresentazione in visione:
non c'è, pensandoci bene, soggetto meno blandibile
dell'aldilà.
II.
Esiste la bellezza? Se si vuole
avanzare qualche serio dubbio sull'identità dell'arte
contemporanea, sulla legittimità del suo "stare
al mondo" [5], sull'esito
e il senso di quel decesso dato per incontrovertibile da
Hegel (morte o metastasi dell'arte? La prognosi, impossibile
da sciogliere, non lasciava adito a molte speranze), se
tutto questo si vuole fare dando risposta ad un'unica domanda,
occorrerà chiedersi se oggi ci sia ancora spazio
per la bellezza, se quello di una bellezza salvatrice non
sia un appello miseramente caduto nel vuoto. Esiste, dunque,
la bellezza in un mondo senza aura che esercita un'attrazione
sempre più blanda? È possibile che sia esistita,
che abbia fatto il suo corso, che i complicati equilibri
in cui consisteva siano stati rotti, che non sia, pertanto,
più la stessa, che sia stata occultata, facendosi
maschera, e che attenda solo di essere dis-velata, ri-scoperta,
anche se, è bene tenere presente, la bellezza non
è la verità, non è l'alethéia
di cui, con rimpianto e languore (se erotico o conoscitivo
cambia poco), parlavano Eraclito e Heidegger. Bellezza e
verità, pensandoci bene, potrebbero condividere,
spartirsi, il carattere cieco e paralizzante della loro
vera rivelazione.
Esiste, pertanto, la bellezza? A una bellezza residua -
una convulsione che rapisce l'anima, secondo Breton - seppure
compromessa con l'insignificanza della realtà [6],
non potrà essere negato il diritto di cittadinanza.
Ma è una bellezza reietta, violata, oppressa. Con
ciò non si vuole dire che il campo d'indagine dell'estetica
sia minato dall'abbattimento delle foreste amazzoniche o
dalla moltiplicazione delle discariche o, spettacolo non
meno osceno, dall'abbrutimento dei mari che al vecchio marinaio
di Coleridge ispirerebbero oggi pensieri meno lirici. La
bellezza che è venuta meno è spirata nell'abominio
dei campi di sterminio [7],
nei gulag, nell'inaccettabile (oggi molto più di
prima) miseria di una parte incresciosamente grande del
pianeta. La bellezza che, come diceva Eraclito a proposito
della natura (natura = bellezza, una gustosa tautologia,
in fin dei conti), ama celarsi e non mostrarsi alla vista,
è l'annuncio frustrato del dio, bandito da Nietzsche
e promesso da Heidegger, che, unico, potrebbe salvare il
mondo [8]. Un dio offeso,
perito, forse, nel naufragio della bellezza. Se questa è
la bellezza residua di cui è ancora capace il mondo,
se questo è tanto, l'arte rischia di perdere la sua
più intima e originaria ragion d'essere. Se gli occhi
mancano, lo sguardo, non è solo assente, vuoto, cieco,
ma impossibile; se la bellezza è morta, che ne sarà
dell'arte? Se l'intenzionalità, il darsi del soggetto
all'oggetto relazionato, non è un costume accessorio,
una costosa abitudine di vita, un optional della ragione
estetica, come si potrà salvare l'eteroreferenzialità
dell'arte? Come incanalare la bellezza residua? Come rendere
all'arte la sua eteroreferenzialità?
III.
Disimpegnarsi dal mondo per
non cadere nella trappola del suo non-senso: potrebbe essere
questo il nuovo modus essendi dell'arte del nostro tempo.
Ne deriverà un approccio alla realtà (nel
senso di un'effettualità data ad un soggetto agente,
Wirchlichkeit) politicamente neutrale [9].
Nel nostro Occidente l'artista maledetto è un esemplare
estintosi da tempo, ed Eminem e i rappers newyorkesi non
fanno, certo, al caso di De Sade e Genet. È comunque
vero che l'arte non viene considerata in tutto il pianeta
come una inoffensiva disciplina dello spirito dalle polveri
bagnate: viene piuttosto avvertita ancora come una minaccia
al sistema [10], e questo è,
tutto sommato, un indizio della sua vecchia fragranza, del
suo pervicace attaccamento ad un modello altrove superato,
una risorsa dal vago ed equivocamente confortante aroma
di chincaglieria. Quell'altrove è, ovviamente, l'Occidente.
Penso al ruolo delle avanguardie o di quei movimenti che
le avanguardie - termine che, come ricorda Lyotard, ha in
sé qualcosa di sinistramente militaresco [11]
- attraversano, utilizzandole come una piattaforma di lancio,
per approdare (o tentare almeno) in regioni mai prima esplorate.
Proposito nobile se il risultato cui approderebbero le cosiddette
"transvanguardie" (così tali movimenti,
agganciati ad alcuni nomi notabili, vengono spesso chiamati
[12]) non fosse quello di un mondo
già abbondantemente saccheggiato, la bellezza residua
del quale può essere tuttavia ancora attinta e, nella
misura di questo suo prelievo, anche garantita e conservata
[13]. La prospettiva
di un totale esaurimento della bellezza residua del mondo
coinciderebbe con le attese di una genuina vocazione apocalittica
che attraversa anche l'arte contemporanea. Apocalittica
è l'arte che assume come paradigma, in modo spesso
non dichiarato, la desacralizzazione del mondo: un mondo
senza aura in cui anche l'opera d'arte è inevitabilmente
costretta a subire una dura sottrazione di valore e senso.
La bellezza residua ancora presente nel mondo può
essere allora oggetto di riscatto delle nuove espressioni
dell'arte contemporanea. Da Hegel a Schopenhauer, ma l'elenco
potrebbe essere molto più lungo, i filosofi hanno
costruito una gerarchia delle arti corrispondente alla realtà
materiale, il fondo paludoso che nessuna creazione avrebbe
potuto mai liquefare totalmente, che va da quelle più
compromesse con la materia a quelle che, come la musica
e la poesia, ne parlano il linguaggio silenzioso. Ebbene,
oggi, questa è la tesi del presente saggio (tesi
che merita necessariamente l'approfondimento che qui manca),
le arti plastiche hanno nelle mani la carta di un'assoluta
rivoluzione. Grazie alla digitalizzazione della realtà,
alla sua intima riduzione in cifre e mirabolanti artifici
in cui viene a compiersi una nuova (ma quanto trionfante?)
intesa tra l'uomo e la macchina, le arti plastiche dispongono
oggi del più rivoluzionario degli strumenti. Di fronte
ad un pixel l'artista dovrebbe avvertire la fascinosa attrazione
che Merleau-Ponty sentiva di provare per un algoritmo [14].
La via è stata tracciata solo di recente, e servirà
perciò ancora tempo per comprendere la direzione
della rotta e indovinare (altro non si potrà fare)
le sue possibili destinazioni. Insomma, con l'arte digitale
il tentativo di gettare una sonda alla ricerca della bellezza
perduta si appropria di uno strumento che può rivelarsi
micidiale. Quanto più saprà liberarsi dal
mondo, alleggerire la sua dipendenza materica, tanto più
l'arte del nostro tempo potrà dare riparo alla bellezza
naufraga. Dovrà rivelarne il volto e ristorarla dalle
fatiche. Provare a richiamarla in vita, per un'ultima volta
almeno, e disporsi a rinunciare anche a quell'estremo lembo
di mondo tecnologicizzato in cui aveva trovato riparo.
[1] LYOTARD Jean
François, Risposta alla domanda: che cos'è
il postmoderno?, in Il postmoderno spiegato ai bambini,
Milano, Feltrinelli, 1987, p. 24.
[2] Tesi che Dostoevskji presenta in una delle pagine più
belle dell'Idiota e che può essere variamente interpretata
se, ad esempio, il cardinale Martini vede in quella bellezza
redentrice il Cristo trasfigurato.
[3] "Io amo colui che della sua sua virtù fa
un'inclinazione e un destino funesto: così egli vuole
vivere, e insieme non più vivere, per amore della
sua virtù" (NIETZSCHE Friedrich, Così
parlò Zarathustra, Milano, Adelphi, 1992, p. 9).
[4] Da non prendere alla lettera nel senso di un'arte che
si proponga solo un'abolizione fisica dei contorni. Qui,
ovviamente, s'intende dell'altro.
[5] "Stare al mondo" e "abitare il mondo"
non sono ovviamente, nel caso presente, la stessa cosa.
[6] "Insignificanza della realtà", espressione
forse grossa e compromettente, ma che cosa si può
dire di una realtà che tende sempre più a
suscitare una piatta indifferenza gnoseologia. Il tempo
delle grandi teorie della conoscenza, fatti salvi alcuni
sviluppi nelle filosofie della scienza, sembra essere tramontato.
La realtà non sorprende più; venuta meno la
curiosità che suscitava, viene meno l'urgenza di
dare risposta a certi interrogativi.
[7] "È in generale incomprensibile che il tempo,
processo naturale senza valore normativo, possa esercitare
un'azione attenuante sull'insostenibile orrore di Auschwitz"
(JANKÉLÉVITCH Vladimir, Perdonare?, Firenze,
Giuntina, 1987, p. 19).
[8] Siamo o non siamo, d'altronde, nel punto zero della
storia? Dopo Auschwitz gli orologi hanno ripreso a funzionare?
E se è così, scandiscono il tempo esattamente
come facevano una volta? Che sia solo una questione di bravi
orologiai non lo credo affatto.
[9] La "neutralità politica" dell'arte
era, del resto, per Guy Debord, uno degli effetti degenerativi
della spettacolarizzazione della vita sociale.
[10] Come chiamare l'insieme di ordine, potere, controllo
e pianificazione che la parola "sistema", più
di tante altre, è in grado di implicare?
[11] "Come molti altri, io non amo il termine ?avanguardia',
con tutte le sue connotazioni militari." (Lyotard,
Nota sul senso di "post-", in Il postmoderno spiegato
ai bambini, cit., p. 91).
[12] Diverso, e, in sostanza, positivo è il giudizio
di Lyotard sulle avanguardie: "È un atteggiamento
convenzionale, per così dire, sorridere o ridere
delle avanguardie, considerate l'espressione di una modernità
tramontata" (ibid).
[13] Conservare la bellezza? Un paradosso, come tenere il
mondo in vitro e pensare, illudersi in questo caso, di non
farne parte.
[14] "Il nostro obiettivo non è mostrare che
il pensiero matematico poggia sul sensibile, ma che esso
è creatore, e lo si può vedere proprio e persino
da una matematica formalizzata" (MERLEAU-PONTY Maurice,
L'algoritmo e il mistero del linguaggio, in La prosa del
mondo, Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 132)
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