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Sergio Berlinguer, La forza del desiderio e la progettualità

 

Sergio Berlinguer, La forza del desiderio e la progettualità, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.2 Luglio-Ottobre 2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_2/3.htm

 

Prometeo, il cui nome significa colui che prevede, è comunemente rappresentato come simbolo del tentativo dell'uomo di ribellione verso la propria natura, in senso antropologico può essere visto come l'eroe culturale cioè colui che fonda miticamente la civiltà trasgredendo i limiti imposti dalla natura arcaica e primordiale.
L'eroe è protagonista di vari miti che gravitano intorno al tema della differenza tra gli dei e gli uomini; secondo Esiodo, Prometeo avrebbe ingannato Zeus in quanto, ucciso un bue, ne aveva diviso il corpo in due parti, da un lato aveva messo le ossa ricoperte con il pregiato grasso bianco, dall'altro le carni coperte dalle viscere e dalla pelle, e aveva invitato il Dio a scegliere. Zeus, ingannato dalle apparenze, scelse per sé la prima parte, lasciando l'altra a gli uomini. In questo modo, Prometeo sancisce la differenza tra condizione divina e condizione umana, quale emerge anche nelle modalità del sacrificio greco: da una parte gli Dei immortali, il cui cibo è costituito dal fumo odoroso delle membra della vittima, dall'altra gli uomini, che invece hanno bisogno di nutrimento reale, e che conoscono la fame e la morte.
Esiodo narra che Zeus, adirato per l'inganno, nascose il fuoco ma Prometeo lo rubò e, celandolo dalla vista degli dei, lo riportò agli uomini . . . . .
Quindi il dio ordinò a Efesto di foggiare una donna, Pandora, "colei che ha tutti i doni", come strumento di punizione degli uomini e che incarnava "il male di cui gioiranno", mentre punì l'eroe facendolo incatenare sul Caucaso dove ogni giorno un aquila gli divorava il fegato, che però ricresceva ogni notte. La punizione avrebbe dovuto essere eterna, ma Prometeo fu liberato da Eracle.
Il mito di Prometeo ci rimanda all'idea di impresa, di sforzo titanico, di lotta contro le forze che soverchiano l'uomo nel suo slancio verso l'assoluto e introduce il tema del desiderio in relazione alla condizione umana. Prometeo è quella forza eternamente ribelle e sovversiva che attenta al limite connaturato all'uomo, è però anche tensione costruttiva che mira a sfuggire al vincolo della accettazione passiva del mondo reale e dei suoi fenomeni e che permette di modificare l'ambiente adattandolo al bisogno. Il fuoco che egli dona agli uomini mi pare rappresentare quell'elemento creativo che padroneggiato consente il passaggio dell'uomo da una condizione senza iniziativa, cioè sottomessa alla realtà così come è, ad una capace di inventare, trasformare e innovare in funzione non solo della sopravvivenza ma anche dell'aspirazione a vivere meglio. Il fuoco, materia incandescente, rappresenta anche il desiderio, il segreto della sessualità e cioè della vita, la passione come energia propulsiva che sospinge l'uomo verso il conseguimento del godimento carnale e l'acquisizione di potere sul mondo, è brama di conoscenza e verità, di spingersi oltre quelle colonne d'Ercole del familiare, del noto e addentrarsi nell'ignoto. Ciò che differenzia il desiderio dal bisogno è appunto la tensione verso la conoscenza, con tutti i suoi tormenti esso contiene la percezione di una alterità che sfugge e che vorremmo raggiungere, è intriso di eccitazione, di invidia, di violenza ma anche di vitalità cioè di amore passionale per la vita e i suoi misteri, di slancio avventuroso e trasgressivo, di coraggio e di potenzialità ideali. Il limite, quello da infrangere e superare, non è mai rigido, è però conteso tra il divieto e la trasgressione, sta in un territorio ambivalente dove attrazione e repulsione ne modificano la rappresentazione che risulta perciò sempre ambigua e incerta; il campo della rappresentazione del limite è il corpo nel suo carattere ontologico segnato dalla vita e dalla morte.
Trans-gredire è camminare oltre, oltre la fascinazione e il desiderio, fino a giungere, come dice Foucault, a "Quel cuore vuoto dove si compie la decisione ontologica, dove l'essere raggiunge il suo limite e dove il limite sancisce l'essere".
Nel mito Zeus, infuriato e vendicativo, dona agli uomini Pandora ossia l'oggetto illusorio del desiderio da cui scaturiscono la gioia e il dolore, inesorabilmente legati nell' animo umano; c'è in questo sia la rappresentazione della pena e dell'agognare dell'innamoramento, che Freud definisce come "il più alto grado di patologia riscontrabile in un uomo normale", sia la morale che il desiderio è sempre fonte di guai per il suo corollario di conflitto oltreché per gli sconfinamenti verso l'avidità insaziabile, la lussuria e la frenesia del potere.
Al desiderio, moto affettivo di appetenza e disposizione della psiche umana, si affida il movimento generale dell'esistenza, la sessualità è infatti la prima modalità con cui il bambino sperimenta e rivela la sua appetenza verso il mondo e verso l'altro, il neonato non cerca il seno materno solo come fonte di nutrimento e di soddisfazione istintuale ma, come rivelano gli studi di psicologia dello sviluppo, egli cerca attivamente e inaugura la relazione e la conoscenza dell'altro e di sé, nel contatto percepisce un confine, trova un contenimento e un sollievo agli stati di eccitazione e di dolore. E' il tessuto di esperienze condivise con la madre che permette al bambino di provare, ancor prima di saperlo, che è il piacere e il desiderio di essere con qualcuno sufficientemente differenziato che da alla vita il suo dinamismo creatore. E' nella cornice conscia e inconscia dell'amore e del desiderio che prende avvio l'incontro col mondo e la costruzione del se; l'altro è però anche fonte di dolore, di frustrazione e di dispiacere, è oggetto quindi di amore e di odio, di desiderio e di paura ed è proprio nella intricata dialettica dell'ambivalenza degli affetti che si sviluppa nella teoria psicanalitica la complessità della psiche umana. Freud identifica il desiderio con il pensiero il quale nasce come processo primario che tende alla scarica immediata di energia e alla soddisfazione diretta del desiderio sotto il dominio del principio di piacere. L'ingresso del principio di realtà, capace di produrre dispiacere, conferisce una nuova importanza agli organi di senso e ai processi della sensorialità che, attraverso le funzioni dell'attenzione e della memoria, contribuiscono a creare il sistema percezione-coscienza. Egli aveva colto con precisione il sincronismo tra l'inizio del dominio del principio di realtà nel nostro apparato psichico e lo sviluppo della capacità di pensare, in grado di colmare con l'attività simbolica e rappresentativa il vuoto creato dalla frustrazione per il desiderio istintuale non soddisfatto. Freud aveva prospettato il gioco delle rappresentazioni e il ruolo essenziale del passaggio dalle rappresentazioni di cose a quelle di parole nella organizzazione del pensiero, ma aveva tuttavia precisato che una certa attività di pensiero, liberatasi dall'esame di realtà, rimane legata al principio di piacere e si manifesta come attività fantasmatica. Quindi si avrebbe ideazione e pensiero solo quando la soddisfazione istintuale è disturbata, quando l'oggetto del desiderare non è presente. E' l'oggetto assente il promotore del pensiero capace di indurre importanti mutamenti nell'apparato psichico.
Se il desiderio resta ancorato al corpo e ai suoi bisogni non può generare idee e costruzioni, queste nascono e si alimentano dall'impatto con la frustrazione ovvero la non disponibilità, o l'assenza, dell'oggetto di soddisfacimento.
Il desiderio si alimenta dal principio di piacere ma deve fare i conti con il principio di realtà. E' Platone che nel Simposio esprime per primo l'idea del desiderio come incompletezza: è possibile ricercare e perseguire solo ciò che mi fa difetto: l'amore, ricerca dell'unità perduta, testimonia del vuoto dell'essere in seno alla realtà umana e si rivela insoddisfazione e angoscia, erranza e vacuità.
E' indubbio che il desiderio sia associato alla mancanza, ma oltre al desiderio di avere dobbiamo pensare al desiderio di essere e, quindi, al senso di mancanza di qualcosa in noi che porta a tendere verso quel senso di compiutezza, di pienezza e di realizzazione che sta alla base dell'amore di se.
Sartre riprende da Hegel la definizione "l'uomo non è ciò che è ed è ciò che non è", noi esseri umani non siamo qualcosa di stabilito una volta per tutte e neppure quel qualcosa che ciascuno di noi pretende di stabilire come la sua vera identità ma siamo piuttosto ciò che non siamo ancora e che desideriamo essere, la nostra capacità di inventarci continuamente, di trasgredire i nostri limiti. Per Sartre l'uomo non è nient'altro che la continua disposizione a scegliere ciò che vuole essere e a smentire la sua scelta.
Da questa visione del desiderio come originato dalla mancanza, si discosta Spinoza che con il principio della forza affermativa designa una fonte di potenza o di azione, una facoltà attiva, dinamica, creatrice, un'affermazione della vita. Anche la "vera etica" di Nietsche e la "vera Virtù", vie verso nuovi valori, sono regolate dal principio della forza affermativa e della volontà di potenza, vista come energia conquistatrice e dominatrice, come un surplus di forza attiva e dinamica, come facoltà creatrice e pienezza dell'anima. Queste impostazioni sono antitetiche al generale pessimismo, ai progetti utopici che collocano l'ideale e i valori in un mondo inaccessibile, estranee al principio della speranza, che rimanda indefinitamente la gioia a un futuro lontano.
Con Deleuze e Guattari, il desiderio si rivela potenza creatrice di valori, produzione di realtà, invenzione autentica. Attraverso i desideri ed i flussi vitali si delineano le vie della saggezza, inseparabile dal potere di agire del nostro corpo. Quindi, diversamente da Platone, in Spinosa il desiderio, concepito non come assenza ma come pienezza, indica una produzione e una creazione e non una mancanza. Il desiderio e il corpo sono forze positive che ci permettono di accedere alla gioia. Estraneo all'assenza, il desiderio, creazione di saggezza, è irriducibile al piacere. Il desiderio, non il piacere, ci segnala la presenza dell'etica e attraverso questo, il corpo e l'attività, tendiamo alla potenza, intesa non come competizione e lotta ma come creazione e gioia. Desiderare vuol dire fare venire a galla dei flussi profondi e dei valori inediti, vuol dire creare nuovi valori, nuovi punti di riferimento che il soggetto costruisce nel proprio dinamismo creatore. Liberare la teoria del desiderio da ogni idea di assenza vuol dire ritrovare insieme gioia e saggezza, collocarsi nella forza, nell'azione e nell'energia, affermare il conatus e i suoi flussi. Se il desiderio è mancanza, è anche tristezza. Al contrario, la potenza piena del desiderio è virtù e saggezza, come in Spinosa, il quale ci ha insegnato che il conatus è pienezza e dispiego di energia. La nostra vera essenza è desiderio creatore.
Ma il desiderio e la gioia sono sempre in pericolo, la forza affermativa, la creazione, il potere del desiderio gioioso hanno il proprio antagonista nel principio di realtà. Tale principio è fondato su ciò che esiste effettivamente, sulle condizioni stesse della vita e dell'esistenza e indica la capacità di accettare il reale percepito, inteso nella sua essenza intrinsecamente dolorosa e tragica, come mondo sprovvisto di senso o di fondamento. Profeta di questo principio fu Schopenhauer, il grande disincantatore, che ci invitava ad osservare il reale così com'è, senza la minima illusione, ad essere capaci di vedere e di pensare il peggio.
Secondo Schopenhauer, gli uomini sono formati fondamentalmente di volontà, di volere. Egli sosteneva che siamo letteralmente ciò che vogliamo, ma non nel senso che siamo configurati secondo i nostri desideri, bensì che siamo intimamente costituiti da essi. Niente può impedirmi di volere ciò che voglio, come niente può vietarmi di essere ciò che sono, in quanto sono proprio ciò che voglio. Purtroppo però non posso scegliere la mia volontà.
Rosset, suo discepolo, attraverso il principio di realtà sufficiente, costituito da una visione lucida del reale, prende le distanze dalle illusioni. Non esiste un mondo dell'Essere o dell'Idea che giustifica la nostra fenomenicità. Egli propone un principio di crudeltà: il reale è spietato e non bisogna difendersi dalla crudeltà nascondendosi in principi rassicuranti. La saggezza tragica indicherà allora un atteggiamento di approvazione dell'esistenza, intesa come assurda, dal punto di vista dell'insignificanza e del nulla, della morte e dell'irrazionale, del non-senso della vita. Il saggio riconosce il reale come crudele, doloroso e tragico. Nessun senso, nessuna ricompensa finale.
Tagliagambe cita Musil che, ne "L'uomo senza qualità" (Einaudi, Torino, 1957), illustra come ci sia la necessità di ristabilire l'equilibrio tra "senso della realtà" e senso della possibilità": "se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora, ci deve essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà o deve accadere; ma immagina: qui potrebbe o dovrebbe accadere la tale o la tal'altra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com'è, egli pensa: be', probabilmente potrebbe anche essere diversa. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è".
Per Tagliagambe la condizione imprescindibile di ogni autentica ed efficace progettualità sta nella "capacità di sentire e vedere la realtà non come un qualcosa di già compiuto e definito, di cui limitarsi a prendere atto, ma come un processo in divenire, che può assumere forme e modalità differenti rispetto a quelle che attualmente esibisce e che dunque non solo autorizza, ma esige da parte dell'osservatore la capacità di percepire e pensare altrimenti. L'io e le sue modalità di percezione sono un qualcosa che si costituisce e si sviluppa nella linea di confine tra senso della realtà e senso della possibilità, questa collocazione pone il progetto nel cuore stesso dell'io, come nucleo fondamentale della sua costituzione". Le ricerche di Berthoz, ingegnere e neurofisiologo, portano al risultato che "il cervello non si accontenta di subire l'insieme degli avvenimenti sensoriali del mondo circostante, ma al contrario esso interroga il mondo in funzione dei suoi presupposti. Su questo principio si fonda una vera fisiologia dell'azione". "Il cervello filtra le informazioni date dai sensi in funzione dei suoi progetti. I meccanismi di questa selezione devono ancora essere compresi; allo stato attuale si conoscono solo alcune forme di selettività. In altre parole, bisogna capovolgere completamente il senso in cui si studiano i sensi: bisogna partire dall'obbiettivo perseguito dall'organismo e capire come il cervello interroga i recettori regolando la sensibilità, combinando i messaggi, prespecificando i valori stimati, in funzione di una simulazione interna delle conseguenze attese dell'azione"("Il senso del movimento", McGraw-Hill, Milano, 1998).
Come ci fa notare Tagliagambe "seguire questa impostazione, che fa dell'orientamento verso il progetto il cardine delle capacità percettive e cognitive dell'uomo, non significa affatto trascurare l'apporto dei segnali e degli input che il cervello riceve dalla realtà esterna e che esso provvede, appunto, a filtrare, selezionare, elaborare. Senza l'apporto di questi segnali e input, veri e propri vincoli posti dalla stessa realtà esterna al significato e al valore dei comportamenti e dei progetti dei soggetti che si vogliono porre in rapporto con essa, non potrebbero infatti svilupparsi né una conoscenza, né un'azione minimamente efficaci. Quello che qui ci interessa è ribadire che questi segnali e input condizionano si, ma non nel senso che ne scaturisca quell'identità tra la struttura dell'attività del pensare e la struttura della realtà" (Il sogno di Dostoevskij. Come la mente emerge dal cervello", Cortina, Milano, 2002). Quello che Berthoz chiama la riscoperta del "piacere del movimento" è alla base della coesistenza e del "pendolarismo" tra il senso della realtà e il senso della possibilità, in quanto ci mette in condizione non solo di descrivere e rappresentare la realtà così come ci si presenta, cioè come combinazione statica di forme, ma anche di ipotizzare il possibile e di predire il futuro, cioè di percepirla e pensarla in modi alternativi. Inoltre, Tagliagambe afferma che oltre a costituire un'interessante conferma del significato e del valore imprescindibili del progetto e della cultura basata su di esso, uno stile di pensiero che concentri l'attenzione sui confini e sulle interfacce, più che sui nuclei centrali presenta l'ulteriore pregio e vantaggio di indurre il progettista non solo a guardare in modo nuovo i suoi artefatti, ma anche a prendere in considerazione sempre maggiore l'utente, coinvolgendolo sempre di più nel suo processo creativo: "un artefatto aperto, molteplice e continuo non può che essere irriducibile a definizioni semanticamente conchiuse, in quanto ciascuno dei tre aggettivi rimanda a processi interpretativi creativi e illimitati: l'apertura non apre a qualcosa di prefissato, ma a ciò che è altro da sé; la molteplicità è sempre eccedente. Si affaccia un'altra idea di confine inteso nell'accezione di zona di comunicazione, e non linea di demarcazione e di separazione netta, come risorsa per il progettista e per la cultura della progettualità in generale: quella che può ispirare un'azione culturale tesa al superamento degli steccati tra le frontiere avanzate della ricerca e la cultura diffusa e finalizzata alla crescita e all'approfondimento di quest'ultima". Il progetto è dunque un mix di richiamo all'effettualità, alla presenza ineliminabile e condizionante di quel che c'è qui ed ora, e di capacità di pensare altrimenti rispetto a questa stessa effettualità e di concepirla e vederla in modi alternativi. La cultura della progettualità proposta da Tagliagambe, ha bisogno di entrambi questi due aspetti, il senso della realtà ed il senso della possibilità che costituiscono quella che Hegel chiamava "la natura anfibia dell'uomo", la duplicità e l'ambiguità di fondo che lo caratterizza: "L'educazione spirituale, l'intelligenza moderna, producono nell'uomo questa opposizione che lo rende anfibio in quanto egli deve vivere in due mondi che si contraddicono l'un l'altro, cosicché anche la coscienza erra in questa contraddizione e, sballottata da un lato all'altro, è incapace di trovare per sé soddisfazione nell'uno o nell'altro. Infatti da un lato noi vediamo l'uomo prigioniero della realtà comune e della temporalità terrena, oppresso dal bisogno e dalla necessità, angustiato dalla natura, impigliato nella materia, in fini sensibili e nel loro godimento, dominato e lacerato da impulsi naturali e da passioni, dall'altro egli si eleva a idee eterne, ad un regno del pensiero e della libertà, si dà come volontà leggi e determinazioni universali, spoglia il mondo dalla sua animata, fiorente realtà e la risolve in astrazioni, in quanto lo spirito fa valere il suo diritto e la sua dignità solo nell'interdire e maltrattare la natura, a cui restituisce quella necessità e violenza che ha subito da essa" ("Estetica", Einaudi, Torino, 1967). Questa sua natura anfibia pone l'uomo di fronte alla costante esigenza di raggiungere e mantenere un equilibrio attivo e dinamico con il mondo in cui si vive, evitando di cadere, da un lato, nella tentazione di restare al di sopra della realtà, con l'utopia, dall'altro, al di sotto con la rassegnazione.
"Chiunque - scrive Popper - può rendersi conto di quanto il mondo materiale cambi con il nostro intervento. Costruiamo aerei ed aeroporti e organizziamo servizi aerei. Ciò non ha niente a che vedere con una crescita naturale, conseguenza dell'interazione causale predeterminata di atomi o altri frammenti di materia. Ma è dovuto piuttosto all'interferenza tra menti umane: ai nostri pensieri e ai nostri progetti, alle nostre speranze e sacrifici, alle nostre iniziative, alla nostra volontà, alle nostre menti" ("Meccanismi contro invenzione creativa: brevi considerazioni su un problema aperto" in "L'automa spirituale" Laterza, Roma-Bari, 1991, a cura di Di Francesco e Girello).
Eigen ha ripreso l'idea secondo cui quella che chiamiamo evoluzione o semplicemente crescita, "non avviene solo su base puramente naturale, ma mediante una sorta di attivazione dello spirito dell'uomo, cioè in una dimensione tipicamente culturale". Egli ribadisce però che oggi come ieri il nostro problema essenziale resta sopravvivere ("L'origine della vita" da una conferenza organizzata nell'ambito Del Progetto Cultura, Montedison, Teoria, Roma-Napoli, 1987). Dunque se è vero che la vita si è presentata come una forma sempre più articolata di sopravvivenza, appare comunque chiara l'impressione che, almeno in quelle tradizioni culturali che presentano i fenomeni della scoperta scientifica e di una sorta di progettazione etica, la tendenza non sia solo permanere nel proprio essere ma anche procacciarsi una situazione migliore. Crediamo che l'individualismo, o almeno la nostra percezione di noi stessi come individui, sia più comprensibile in un contesto che sottolinea l'autonomia del mentale che in uno puramente materialistico riduzionistico. Quindi, sostengono Di Francesco e Giorello, non siamo individui nel senso delle sostanze pensanti care a Cartesio, ma siamo anche noi dei "processi aperti" in cui si cambiano piani di vita, si passa da un progetto ad un altro, eppure tutto ciò avviene secondo modalità stabili. Desiderio di nuove conoscenze e ricerca di migliori livelli di vita conferiscono all'individuo unità maggiore di quanto mai possa fare qualsiasi riduzione a meri stati fisici. Il nostro tentativo è non solo resistere all'ambiente ma di mutarlo in accordo con costellazioni di valori per passare dalla semplice sopravvivenza ad una vita migliore (Di Francesco M. e Girello G., "Qualche argomento per l'autonomia del mentale" in "L'automa spirituale" Laterza, Roma-Bari, 1991).
Damasio sostiene, a questo proposito, che lo sviluppo di elaborate strategie e convenzioni sociali su cui si basa la vita quotidiana devono avere avuto un'origine culturale frutto dell'interazione degli individui e delle loro particolari e uniche caratteristiche. Nel suo lavoro, egli mette radicalmente in discussione la separazione drastica fra emozione ed intelletto che per secoli era stata un criterio ispiratore della filosofia e della ricerca scientifica. Egli propone che le modalità di costruzione del "sé" si sviluppino attraverso un processo che coinvolge non solo la mente, bensì l'intero organismo, e cioè il cervello e anche il corpo, il cui contributo non si riduce agli effetti modulatori o al sostegno delle operazioni vitali, ma comprende anche un contenuto che è parte integrante del funzionamento della mente normale. Ponendo così la mente strettamente legata al corpo si rende dunque impossibile capire sia ciò che fa, sia come lo fa senza riferirsi a questa relazione indissolubile con il cervello e, attraverso esso, con l'intero organismo. Alla base della costruzione del sé neurale, ipotizza Damasio, vi sono due estremi, cioè da una parte la rappresentazione di un oggetto che entra nel campo percettivo dell'organismo, dall'altro le immagini delle risposte di quest'ultimo a questa comparsa, e un'interfaccia che li collega guardando sia all'una che alle altre da una prospettiva che è esterna a entrambi i poli, costituita da insiemi di neuroni di "terza persona", chiamati dall'autore "zone di convergenza " (IZC), queste sarebbero aree cerebrali in cui l'informazione viene assemblata e collegata in termini neurali. Secondo l'autore ciò che chiamiamo "lo stato del sé" è il risultato di un continuo lavoro di costruzione da cima a fondo e di ricostruzione che coinvolge l'attività coordinata di molteplici regioni cerebrali. Il fatto che il soggetto si manifesti come risultato di un continuo lavoro dinamico di costruzione e di ricostruzione, fa dell'azione e delle modalità di costruzione possibile del progetto la spina dorsale dell'identità.
E' verosimile che determinate strategie si siano evolute in individui capaci di rendersi conto che la loro sopravvivenza era minacciata, o che era possibile migliorare la qualità della vita, una volta sopravvissuti. Ciò può essere accaduto solo nelle poche specie animali il cui cervello era strutturato in modo da presentare un'ampia capacità di memorizzare categorie di oggetti e di eventi e quindi di stabilire rappresentazioni disposizionali di entità e di eventi al livello di categorie e al livello di casi unici in caso di eventi singoli. Inoltre occorre un'ampia capacità di manipolare i componenti di quelle rappresentazioni memorizzate e di foggiare creazioni originali, la cui varietà più immediatamente utile era costituita da scenari immaginati: anticipazioni di esiti di azioni, elaborazione di piani per il futuro, concepimento di nuovi obbiettivi capaci di rafforzare la sopravvivenza. Infine, un'ampia capacità di memorizzare le nuove creazioni, cioè gli esiti previsti, i nuovi piani, i nuovi obbiettivi, che l'autore chiama "ricordi del futuro". Se per poter affrontare la sofferenza fu necessario creare strategie sociali tali da potenziare la conoscenza del passato già vissuto e del futuro previsto, è giunto il momento di introdurre il principio del dolore e del suo opposto, il piacere. Dolore e piacere sono le leve di cui l'organismo ha bisogno perché le strategie istintive e quelle acquisite possano operare in modo efficiente.Dolore e piacere si hanno quando diveniamo consci di profili dello stato corporeo che costituiscono una chiara deviazione dalla gamma di base. La configurazione di stimoli e quella degli schemi di attività cerebrale avvertite come dolore o come piacere sono poste a priori, nella struttura del cervello. Questi si hanno perché i circuiti scaricano in un certo modo, e tali circuiti esistono perché sono stati istruiti geneticamente a formarsi in un certo modo. Le nostre reazioni al dolore e al piacere possono si essere modificate dell'educazione, ma esse sono comunque un esempio primario di fenomeni mentali che dipendono dall'attivazione di disposizioni innate. Pulsioni e istinti operano o generando in modo diretto un particolare comportamento o inducendo stati fisiologici che portano l'individuo a comportarsi, consapevolmente o no, in un certo modo. Pressoché tutti comportamenti che conseguono da pulsioni e istinti contribuiscono alla sopravvivenza: o direttamente, compiendo un'azione che salva le vita, o indirettamente, favorendo condizioni che sono vantaggiose per la sopravvivenza o riducendo l'influenza di azioni potenzialmente nocive ("L'errore di Cartesio", Adelphi, Milano, 1995).
Per noi uomini, come illustra Savater, il mondo non è semplicemente la struttura globale in cui s'incrociano tutti gli effetti e tutte le cause, bensì la palestra pregna di significato in cui agiamo. Abitare il mondo è agire nel mondo; e agire nel mondo non è solo muoversi in esso e reagire ai suoi stimoli, esattamente come fanno gli animali che rispondono al loro mondo secondo il proprio programma genetico risultato dell'evoluzione. Gli uomini non solo rispondono al mondo in cui abitano, ma lo inventano e lo trasformano in un modo che non è previsto da alcun modello genetico. La specie umana non è chiusa in un determinismo biologico, bensì resta aperta creando se stessa senza posa, come disse Pico della Mirandola ("Le domande della vita", Laterza, Roma-Bari, 1999). Creare qui è inteso dall'autore, "non come tirare fuori qualcosa dal nulla, ma come agire nel mondo e a partire dalle cose che in esso ci sono ma…, in certa misura, cambiando il mondo!".
Di rilievo sono in questo quadro, le considerazioni che Florenskij propone in un suo studio del 1919, dove definisce "magica" "qualsiasi azione della volontà che abbia effetto sugli organi del corpo". In questo senso possiamo definire la magia come "l'arte di spostare il confine del corpo rispetto alla sua posizione abituale" come scrive l'autore ("Organoproekcija", 1919, in it. "La proiezione degli organi" e "U vodorazdelov mysli", Prava, Mosca, 1990). La parola è magica proprio in questa accezione, come lo sono il simbolo, qualsiasi produzione artistica, le teorie scientifiche, e in generale il mondo della conoscenza oggettiva. Tutti questi prodotti frutto di particolari atti volitivi, come sottolinea Tagliagambe, sono infatti capaci di innescare specifici effetti su/nella realtà, e quindi di spostare il confine del corpo: per questo, appunto sono magici.
Abbiamo quindi un desiderio che è costruttivo in quanto genera rappresentazioni, scenari potenziali che anticipano e attraggono orientando il progetto-azione. Il desiderio però è ubiquitario, multiforme, percorre trasversalmente il discorso, si trova in ogni inciampo, in ogni atto mancato, interrompe la continuità, crea vortici, si insinua e rovescia il senso rompendo l'ortodossia del discorso. E' un movimento verso un punto di perdita, produce eventi, non predispone una risposta e non contiene una soluzione, non si lascia presiedere da alcuna logica. Il desiderio è girovago in ogni struttura al di fuori di ogni contesto che imprigiona il senso dell'interrogazione sul mondo, è errante e sfugge all'opposizione tra vero e falso e all'inconciliabilità degli opposti. Esso gioca senza e fuori dalle regole, non c'è un calcolo ne un esito determinato, esso si apre in un campo di dispersione e ciò rende problematico utilizzarlo come energia costruttiva. Si può paragonare il desiderio al vento che gonfiando le vele sospinge la barca ma che deve essere catturato e incanalato con maestria per tenere la rotta ed evitare il naufragio, a volte bisogna attendere che si levi, a volte è bufera di vento. Omero ci racconta che Nestore tenne un famoso discorso al figlio Antiloco che si preparava a gareggiare nella corsa dei carri durante i giochi funerari in onore di Patroclo; gli disse che non sono sufficienti la forza e la velocità dei cavalli per ottenere la vittoria, occorre la metis cioè una facoltà fatta di accorgimento, decisione e esperienza. "La metis - scrivono Detienne e Vernant - è una forma di intelligenza e di pensiero, un modo del conoscere; essa implica un insieme complesso, ma molto coerente, di atteggiamenti mentali, di comportamenti intellettuali che combinano l'intuito, la sagacia, la previsione, la spigliatezza mentale, la finzione, la vigile attenzione, il senso dell'opportunità, l'abilità in vari campi, un'esperienza acquisita dopo lunghi anni; essa si applica a realtà fugaci, mobili, sconcertanti ed ambigue, che non si prestano alla misura precisa né al calcolo esatto, né al ragionamento rigoroso" (Detienne M., Vernant J.P., "Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia", Laterza, Bari, 1978).
Il timoniere è con la metis che guida la barca, cosi si può pensare che una facoltà complessa, un misto di istinto, attitudine e razionalità, possa entrare in gioco per cogliere e sfruttare la forza del desiderio.
L'uomo non ha però solo desideri, idee e progetti rivolti al bene personale o collettivo, la passione e il piacere riguardano spesso mete negative se non anche distruttive. La percezione, come vediamo in Berthoz, può essere distorta, pervertita così che ciò che è malvagio e maligno viene rappresentato come buono, come scopo appetibile e portatore di senso.
Il lato oscuro del desiderio, l'ossessione accecante, perverte la percezione stessa asservendola e distorcendo i pensieri e le fantasie. Un esempio paradigmatico lo troviamo nel romanzo di Melville, "Moby Dick". Il fosco e ardente capitano Achab, vota la sua vita, il destino della sua nave e quello dei suoi uomini alla distruzione nella caccia alla Balena Bianca, spinto da una sfrenata ansia di vendetta. Simbolo dell'assoluta volontà indomabile di vincere l'abisso, egli affronta, a prezzo della catastrofe il mistero Moby Dick, simultanea figurazione del Bene e del Male.
Ecco come Ismaele, voce narrante, la descrive "Una gioia piena di dolcezza - un'enorme dolcezza di riposo, pur nella velocità - permeava la balena in corsa. Nemmeno il bianco toro di Giove, quando si allontanò a nuoto con Europa rapita aggrappata alle sue leggiadre corna, tutto preso a guardare di fianco con occhi amorevoli e ammaliatori la fanciulla, dirigendosi con seducente, ondeggiante agilità alla dimora nuziale di Creta; nemmeno Giove, nemmeno la sua grande maestà suprema superava la gloriosa Balena Bianca nel suo nuoto divino . . . . . su ciascun fianco lucente la balena diffondeva seduzioni . . . . . Moby Dick procedeva, continuando a sottrarre alla vista tutti i terrori del suo tronco sommerso e nascondendo l'orrore straziante della sua mascella". L'ambiguità, la commistione di seduzione e morte, si assomma nell'immagine centrale, "il gran fantasma incappucciato", la balena bianca che è il simbolo dell'inscrutabilità dell'essere e che è per ognuno ciò che ognuno la crede, il vuoto al centro dell'essere che ciascuno riempie di un fantasma, la fonte indicibile ma vera dei valori e delle retribuzioni.
"Quali estasi di tormenti sopporta l'uomo che si consuma in unico inappagato desiderio di vendetta!" scrive Melville e più avanti nello stesso passo descrive l'azione distruttiva di tale implacabile risolutezza nella personalità del capitano: "Ma dato che la mente non può esistere se non come alleata dell'anima, nel caso di Achab doveva essere successo che, asservendo completamente tutti i suoi pensieri e tutte le sue fantasie al suo unico scopo supremo, quello scopo combatteva contro dei e demoni colla sola forza della propria volontà assoluta e indomabile, trasformandosi in una sorta di essere autonomo e indipendente. Anzi poteva vivere e ardere in modo truce, mentre la comune vitalità cui era collegata fuggiva inorridita da quella creatura indesiderata e illegittima . . . . . Dio ti aiuti, vecchio. I tuoi pensieri hanno creato dentro di te una creatura; e a chi, a forza di pensare intensamente, si trasforma in un Prometeo, un avvoltoio divora il cuore per sempre; e quell'avvoltoio è la creatura stessa che lui crea".