Prometeo, il cui
nome significa colui che prevede, è comunemente rappresentato
come simbolo del tentativo dell'uomo di ribellione verso
la propria natura, in senso antropologico può essere
visto come l'eroe culturale cioè colui che fonda
miticamente la civiltà trasgredendo i limiti imposti
dalla natura arcaica e primordiale.
L'eroe è protagonista di vari miti che gravitano
intorno al tema della differenza tra gli dei e gli uomini;
secondo Esiodo, Prometeo avrebbe ingannato Zeus in quanto,
ucciso un bue, ne aveva diviso il corpo in due parti, da
un lato aveva messo le ossa ricoperte con il pregiato grasso
bianco, dall'altro le carni coperte dalle viscere e dalla
pelle, e aveva invitato il Dio a scegliere. Zeus, ingannato
dalle apparenze, scelse per sé la prima parte, lasciando
l'altra a gli uomini. In questo modo, Prometeo sancisce
la differenza tra condizione divina e condizione umana,
quale emerge anche nelle modalità del sacrificio
greco: da una parte gli Dei immortali, il cui cibo è
costituito dal fumo odoroso delle membra della vittima,
dall'altra gli uomini, che invece hanno bisogno di nutrimento
reale, e che conoscono la fame e la morte.
Esiodo narra che Zeus, adirato per l'inganno, nascose il
fuoco ma Prometeo lo rubò e, celandolo dalla vista
degli dei, lo riportò agli uomini . . . . .
Quindi il dio ordinò a Efesto di foggiare una donna,
Pandora, "colei che ha tutti i doni", come strumento
di punizione degli uomini e che incarnava "il male
di cui gioiranno", mentre punì l'eroe facendolo
incatenare sul Caucaso dove ogni giorno un aquila gli divorava
il fegato, che però ricresceva ogni notte. La punizione
avrebbe dovuto essere eterna, ma Prometeo fu liberato da
Eracle.
Il mito di Prometeo ci rimanda all'idea di impresa, di sforzo
titanico, di lotta contro le forze che soverchiano l'uomo
nel suo slancio verso l'assoluto e introduce il tema del
desiderio in relazione alla condizione umana. Prometeo è
quella forza eternamente ribelle e sovversiva che attenta
al limite connaturato all'uomo, è però anche
tensione costruttiva che mira a sfuggire al vincolo della
accettazione passiva del mondo reale e dei suoi fenomeni
e che permette di modificare l'ambiente adattandolo al bisogno.
Il fuoco che egli dona agli uomini mi pare rappresentare
quell'elemento creativo che padroneggiato consente il passaggio
dell'uomo da una condizione senza iniziativa, cioè
sottomessa alla realtà così come è,
ad una capace di inventare, trasformare e innovare in funzione
non solo della sopravvivenza ma anche dell'aspirazione a
vivere meglio. Il fuoco, materia incandescente, rappresenta
anche il desiderio, il segreto della sessualità e
cioè della vita, la passione come energia propulsiva
che sospinge l'uomo verso il conseguimento del godimento
carnale e l'acquisizione di potere sul mondo, è brama
di conoscenza e verità, di spingersi oltre quelle
colonne d'Ercole del familiare, del noto e addentrarsi nell'ignoto.
Ciò che differenzia il desiderio dal bisogno è
appunto la tensione verso la conoscenza, con tutti i suoi
tormenti esso contiene la percezione di una alterità
che sfugge e che vorremmo raggiungere, è intriso
di eccitazione, di invidia, di violenza ma anche di vitalità
cioè di amore passionale per la vita e i suoi misteri,
di slancio avventuroso e trasgressivo, di coraggio e di
potenzialità ideali. Il limite, quello da infrangere
e superare, non è mai rigido, è però
conteso tra il divieto e la trasgressione, sta in un territorio
ambivalente dove attrazione e repulsione ne modificano la
rappresentazione che risulta perciò sempre ambigua
e incerta; il campo della rappresentazione del limite è
il corpo nel suo carattere ontologico segnato dalla vita
e dalla morte.
Trans-gredire è camminare oltre, oltre la fascinazione
e il desiderio, fino a giungere, come dice Foucault, a "Quel
cuore vuoto dove si compie la decisione ontologica, dove
l'essere raggiunge il suo limite e dove il limite sancisce
l'essere".
Nel mito Zeus, infuriato e vendicativo, dona agli uomini
Pandora ossia l'oggetto illusorio del desiderio da cui scaturiscono
la gioia e il dolore, inesorabilmente legati nell' animo
umano; c'è in questo sia la rappresentazione della
pena e dell'agognare dell'innamoramento, che Freud definisce
come "il più alto grado di patologia riscontrabile
in un uomo normale", sia la morale che il desiderio
è sempre fonte di guai per il suo corollario di conflitto
oltreché per gli sconfinamenti verso l'avidità
insaziabile, la lussuria e la frenesia del potere.
Al desiderio, moto affettivo di appetenza e disposizione
della psiche umana, si affida il movimento generale dell'esistenza,
la sessualità è infatti la prima modalità
con cui il bambino sperimenta e rivela la sua appetenza
verso il mondo e verso l'altro, il neonato non cerca il
seno materno solo come fonte di nutrimento e di soddisfazione
istintuale ma, come rivelano gli studi di psicologia dello
sviluppo, egli cerca attivamente e inaugura la relazione
e la conoscenza dell'altro e di sé, nel contatto
percepisce un confine, trova un contenimento e un sollievo
agli stati di eccitazione e di dolore. E' il tessuto di
esperienze condivise con la madre che permette al bambino
di provare, ancor prima di saperlo, che è il piacere
e il desiderio di essere con qualcuno sufficientemente differenziato
che da alla vita il suo dinamismo creatore. E' nella cornice
conscia e inconscia dell'amore e del desiderio che prende
avvio l'incontro col mondo e la costruzione del se; l'altro
è però anche fonte di dolore, di frustrazione
e di dispiacere, è oggetto quindi di amore e di odio,
di desiderio e di paura ed è proprio nella intricata
dialettica dell'ambivalenza degli affetti che si sviluppa
nella teoria psicanalitica la complessità della psiche
umana. Freud identifica il desiderio con il pensiero il
quale nasce come processo primario che tende alla scarica
immediata di energia e alla soddisfazione diretta del desiderio
sotto il dominio del principio di piacere. L'ingresso del
principio di realtà, capace di produrre dispiacere,
conferisce una nuova importanza agli organi di senso e ai
processi della sensorialità che, attraverso le funzioni
dell'attenzione e della memoria, contribuiscono a creare
il sistema percezione-coscienza. Egli aveva colto con precisione
il sincronismo tra l'inizio del dominio del principio di
realtà nel nostro apparato psichico e lo sviluppo
della capacità di pensare, in grado di colmare con
l'attività simbolica e rappresentativa il vuoto creato
dalla frustrazione per il desiderio istintuale non soddisfatto.
Freud aveva prospettato il gioco delle rappresentazioni
e il ruolo essenziale del passaggio dalle rappresentazioni
di cose a quelle di parole nella organizzazione del pensiero,
ma aveva tuttavia precisato che una certa attività
di pensiero, liberatasi dall'esame di realtà, rimane
legata al principio di piacere e si manifesta come attività
fantasmatica. Quindi si avrebbe ideazione e pensiero solo
quando la soddisfazione istintuale è disturbata,
quando l'oggetto del desiderare non è presente. E'
l'oggetto assente il promotore del pensiero capace di indurre
importanti mutamenti nell'apparato psichico.
Se il desiderio resta ancorato al corpo e ai suoi bisogni
non può generare idee e costruzioni, queste nascono
e si alimentano dall'impatto con la frustrazione ovvero
la non disponibilità, o l'assenza, dell'oggetto di
soddisfacimento.
Il desiderio si alimenta dal principio di piacere ma deve
fare i conti con il principio di realtà. E' Platone
che nel Simposio esprime per primo l'idea del desiderio
come incompletezza: è possibile ricercare e perseguire
solo ciò che mi fa difetto: l'amore, ricerca dell'unità
perduta, testimonia del vuoto dell'essere in seno alla realtà
umana e si rivela insoddisfazione e angoscia, erranza e
vacuità.
E' indubbio che il desiderio sia associato alla mancanza,
ma oltre al desiderio di avere dobbiamo pensare al desiderio
di essere e, quindi, al senso di mancanza di qualcosa in
noi che porta a tendere verso quel senso di compiutezza,
di pienezza e di realizzazione che sta alla base dell'amore
di se.
Sartre riprende da Hegel la definizione "l'uomo non
è ciò che è ed è ciò
che non è", noi esseri umani non siamo qualcosa
di stabilito una volta per tutte e neppure quel qualcosa
che ciascuno di noi pretende di stabilire come la sua vera
identità ma siamo piuttosto ciò che non siamo
ancora e che desideriamo essere, la nostra capacità
di inventarci continuamente, di trasgredire i nostri limiti.
Per Sartre l'uomo non è nient'altro che la continua
disposizione a scegliere ciò che vuole essere e a
smentire la sua scelta.
Da questa visione del desiderio come originato dalla mancanza,
si discosta Spinoza che con il principio della forza affermativa
designa una fonte di potenza o di azione, una facoltà
attiva, dinamica, creatrice, un'affermazione della vita.
Anche la "vera etica" di Nietsche e la "vera
Virtù", vie verso nuovi valori, sono regolate
dal principio della forza affermativa e della volontà
di potenza, vista come energia conquistatrice e dominatrice,
come un surplus di forza attiva e dinamica, come facoltà
creatrice e pienezza dell'anima. Queste impostazioni sono
antitetiche al generale pessimismo, ai progetti utopici
che collocano l'ideale e i valori in un mondo inaccessibile,
estranee al principio della speranza, che rimanda indefinitamente
la gioia a un futuro lontano.
Con Deleuze e Guattari, il desiderio si rivela potenza creatrice
di valori, produzione di realtà, invenzione autentica.
Attraverso i desideri ed i flussi vitali si delineano le
vie della saggezza, inseparabile dal potere di agire del
nostro corpo. Quindi, diversamente da Platone, in Spinosa
il desiderio, concepito non come assenza ma come pienezza,
indica una produzione e una creazione e non una mancanza.
Il desiderio e il corpo sono forze positive che ci permettono
di accedere alla gioia. Estraneo all'assenza, il desiderio,
creazione di saggezza, è irriducibile al piacere.
Il desiderio, non il piacere, ci segnala la presenza dell'etica
e attraverso questo, il corpo e l'attività, tendiamo
alla potenza, intesa non come competizione e lotta ma come
creazione e gioia. Desiderare vuol dire fare venire a galla
dei flussi profondi e dei valori inediti, vuol dire creare
nuovi valori, nuovi punti di riferimento che il soggetto
costruisce nel proprio dinamismo creatore. Liberare la teoria
del desiderio da ogni idea di assenza vuol dire ritrovare
insieme gioia e saggezza, collocarsi nella forza, nell'azione
e nell'energia, affermare il conatus e i suoi flussi. Se
il desiderio è mancanza, è anche tristezza.
Al contrario, la potenza piena del desiderio è virtù
e saggezza, come in Spinosa, il quale ci ha insegnato che
il conatus è pienezza e dispiego di energia. La nostra
vera essenza è desiderio creatore.
Ma il desiderio e la gioia sono sempre in pericolo, la forza
affermativa, la creazione, il potere del desiderio gioioso
hanno il proprio antagonista nel principio di realtà.
Tale principio è fondato su ciò che esiste
effettivamente, sulle condizioni stesse della vita e dell'esistenza
e indica la capacità di accettare il reale percepito,
inteso nella sua essenza intrinsecamente dolorosa e tragica,
come mondo sprovvisto di senso o di fondamento. Profeta
di questo principio fu Schopenhauer, il grande disincantatore,
che ci invitava ad osservare il reale così com'è,
senza la minima illusione, ad essere capaci di vedere e
di pensare il peggio.
Secondo Schopenhauer, gli uomini sono formati fondamentalmente
di volontà, di volere. Egli sosteneva che siamo letteralmente
ciò che vogliamo, ma non nel senso che siamo configurati
secondo i nostri desideri, bensì che siamo intimamente
costituiti da essi. Niente può impedirmi di volere
ciò che voglio, come niente può vietarmi di
essere ciò che sono, in quanto sono proprio ciò
che voglio. Purtroppo però non posso scegliere la
mia volontà.
Rosset, suo discepolo, attraverso il principio di realtà
sufficiente, costituito da una visione lucida del reale,
prende le distanze dalle illusioni. Non esiste un mondo
dell'Essere o dell'Idea che giustifica la nostra fenomenicità.
Egli propone un principio di crudeltà: il reale è
spietato e non bisogna difendersi dalla crudeltà
nascondendosi in principi rassicuranti. La saggezza tragica
indicherà allora un atteggiamento di approvazione
dell'esistenza, intesa come assurda, dal punto di vista
dell'insignificanza e del nulla, della morte e dell'irrazionale,
del non-senso della vita. Il saggio riconosce il reale come
crudele, doloroso e tragico. Nessun senso, nessuna ricompensa
finale.
Tagliagambe cita Musil che, ne "L'uomo senza qualità"
(Einaudi, Torino, 1957), illustra come ci sia la necessità
di ristabilire l'equilibrio tra "senso della realtà"
e senso della possibilità": "se il senso
della realtà esiste, e nessuno può mettere
in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora,
ci deve essere anche qualcosa che chiameremo senso della
possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio:
qui è accaduto questo o quello, accadrà o
deve accadere; ma immagina: qui potrebbe o dovrebbe accadere
la tale o la tal'altra cosa; e se gli si dichiara che una
cosa è com'è, egli pensa: be', probabilmente
potrebbe anche essere diversa. Cosicché il senso
della possibilità si potrebbe anche definire come
la capacità di pensare tutto quello che potrebbe
essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è,
che a quello che non è".
Per Tagliagambe la condizione imprescindibile di ogni autentica
ed efficace progettualità sta nella "capacità
di sentire e vedere la realtà non come un qualcosa
di già compiuto e definito, di cui limitarsi a prendere
atto, ma come un processo in divenire, che può assumere
forme e modalità differenti rispetto a quelle che
attualmente esibisce e che dunque non solo autorizza, ma
esige da parte dell'osservatore la capacità di percepire
e pensare altrimenti. L'io e le sue modalità di percezione
sono un qualcosa che si costituisce e si sviluppa nella
linea di confine tra senso della realtà e senso della
possibilità, questa collocazione pone il progetto
nel cuore stesso dell'io, come nucleo fondamentale della
sua costituzione". Le ricerche di Berthoz, ingegnere
e neurofisiologo, portano al risultato che "il cervello
non si accontenta di subire l'insieme degli avvenimenti
sensoriali del mondo circostante, ma al contrario esso interroga
il mondo in funzione dei suoi presupposti. Su questo principio
si fonda una vera fisiologia dell'azione". "Il
cervello filtra le informazioni date dai sensi in funzione
dei suoi progetti. I meccanismi di questa selezione devono
ancora essere compresi; allo stato attuale si conoscono
solo alcune forme di selettività. In altre parole,
bisogna capovolgere completamente il senso in cui si studiano
i sensi: bisogna partire dall'obbiettivo perseguito dall'organismo
e capire come il cervello interroga i recettori regolando
la sensibilità, combinando i messaggi, prespecificando
i valori stimati, in funzione di una simulazione interna
delle conseguenze attese dell'azione"("Il senso
del movimento", McGraw-Hill, Milano, 1998).
Come ci fa notare Tagliagambe "seguire questa impostazione,
che fa dell'orientamento verso il progetto il cardine delle
capacità percettive e cognitive dell'uomo, non significa
affatto trascurare l'apporto dei segnali e degli input che
il cervello riceve dalla realtà esterna e che esso
provvede, appunto, a filtrare, selezionare, elaborare. Senza
l'apporto di questi segnali e input, veri e propri vincoli
posti dalla stessa realtà esterna al significato
e al valore dei comportamenti e dei progetti dei soggetti
che si vogliono porre in rapporto con essa, non potrebbero
infatti svilupparsi né una conoscenza, né
un'azione minimamente efficaci. Quello che qui ci interessa
è ribadire che questi segnali e input condizionano
si, ma non nel senso che ne scaturisca quell'identità
tra la struttura dell'attività del pensare e la struttura
della realtà" (Il sogno di Dostoevskij. Come
la mente emerge dal cervello", Cortina, Milano, 2002).
Quello che Berthoz chiama la riscoperta del "piacere
del movimento" è alla base della coesistenza
e del "pendolarismo" tra il senso della realtà
e il senso della possibilità, in quanto ci mette
in condizione non solo di descrivere e rappresentare la
realtà così come ci si presenta, cioè
come combinazione statica di forme, ma anche di ipotizzare
il possibile e di predire il futuro, cioè di percepirla
e pensarla in modi alternativi. Inoltre, Tagliagambe afferma
che oltre a costituire un'interessante conferma del significato
e del valore imprescindibili del progetto e della cultura
basata su di esso, uno stile di pensiero che concentri l'attenzione
sui confini e sulle interfacce, più che sui nuclei
centrali presenta l'ulteriore pregio e vantaggio di indurre
il progettista non solo a guardare in modo nuovo i suoi
artefatti, ma anche a prendere in considerazione sempre
maggiore l'utente, coinvolgendolo sempre di più nel
suo processo creativo: "un artefatto aperto, molteplice
e continuo non può che essere irriducibile a definizioni
semanticamente conchiuse, in quanto ciascuno dei tre aggettivi
rimanda a processi interpretativi creativi e illimitati:
l'apertura non apre a qualcosa di prefissato, ma a ciò
che è altro da sé; la molteplicità
è sempre eccedente. Si affaccia un'altra idea di
confine inteso nell'accezione di zona di comunicazione,
e non linea di demarcazione e di separazione netta, come
risorsa per il progettista e per la cultura della progettualità
in generale: quella che può ispirare un'azione culturale
tesa al superamento degli steccati tra le frontiere avanzate
della ricerca e la cultura diffusa e finalizzata alla crescita
e all'approfondimento di quest'ultima". Il progetto
è dunque un mix di richiamo all'effettualità,
alla presenza ineliminabile e condizionante di quel che
c'è qui ed ora, e di capacità di pensare altrimenti
rispetto a questa stessa effettualità e di concepirla
e vederla in modi alternativi. La cultura della progettualità
proposta da Tagliagambe, ha bisogno di entrambi questi due
aspetti, il senso della realtà ed il senso della
possibilità che costituiscono quella che Hegel chiamava
"la natura anfibia dell'uomo", la duplicità
e l'ambiguità di fondo che lo caratterizza: "L'educazione
spirituale, l'intelligenza moderna, producono nell'uomo
questa opposizione che lo rende anfibio in quanto egli deve
vivere in due mondi che si contraddicono l'un l'altro, cosicché
anche la coscienza erra in questa contraddizione e, sballottata
da un lato all'altro, è incapace di trovare per sé
soddisfazione nell'uno o nell'altro. Infatti da un lato
noi vediamo l'uomo prigioniero della realtà comune
e della temporalità terrena, oppresso dal bisogno
e dalla necessità, angustiato dalla natura, impigliato
nella materia, in fini sensibili e nel loro godimento, dominato
e lacerato da impulsi naturali e da passioni, dall'altro
egli si eleva a idee eterne, ad un regno del pensiero e
della libertà, si dà come volontà leggi
e determinazioni universali, spoglia il mondo dalla sua
animata, fiorente realtà e la risolve in astrazioni,
in quanto lo spirito fa valere il suo diritto e la sua dignità
solo nell'interdire e maltrattare la natura, a cui restituisce
quella necessità e violenza che ha subito da essa"
("Estetica", Einaudi, Torino, 1967). Questa sua
natura anfibia pone l'uomo di fronte alla costante esigenza
di raggiungere e mantenere un equilibrio attivo e dinamico
con il mondo in cui si vive, evitando di cadere, da un lato,
nella tentazione di restare al di sopra della realtà,
con l'utopia, dall'altro, al di sotto con la rassegnazione.
"Chiunque - scrive Popper - può rendersi conto
di quanto il mondo materiale cambi con il nostro intervento.
Costruiamo aerei ed aeroporti e organizziamo servizi aerei.
Ciò non ha niente a che vedere con una crescita naturale,
conseguenza dell'interazione causale predeterminata di atomi
o altri frammenti di materia. Ma è dovuto piuttosto
all'interferenza tra menti umane: ai nostri pensieri e ai
nostri progetti, alle nostre speranze e sacrifici, alle
nostre iniziative, alla nostra volontà, alle nostre
menti" ("Meccanismi contro invenzione creativa:
brevi considerazioni su un problema aperto" in "L'automa
spirituale" Laterza, Roma-Bari, 1991, a cura di Di
Francesco e Girello).
Eigen ha ripreso l'idea secondo cui quella che chiamiamo
evoluzione o semplicemente crescita, "non avviene solo
su base puramente naturale, ma mediante una sorta di attivazione
dello spirito dell'uomo, cioè in una dimensione tipicamente
culturale". Egli ribadisce però che oggi come
ieri il nostro problema essenziale resta sopravvivere ("L'origine
della vita" da una conferenza organizzata nell'ambito
Del Progetto Cultura, Montedison, Teoria, Roma-Napoli, 1987).
Dunque se è vero che la vita si è presentata
come una forma sempre più articolata di sopravvivenza,
appare comunque chiara l'impressione che, almeno in quelle
tradizioni culturali che presentano i fenomeni della scoperta
scientifica e di una sorta di progettazione etica, la tendenza
non sia solo permanere nel proprio essere ma anche procacciarsi
una situazione migliore. Crediamo che l'individualismo,
o almeno la nostra percezione di noi stessi come individui,
sia più comprensibile in un contesto che sottolinea
l'autonomia del mentale che in uno puramente materialistico
riduzionistico. Quindi, sostengono Di Francesco e Giorello,
non siamo individui nel senso delle sostanze pensanti care
a Cartesio, ma siamo anche noi dei "processi aperti"
in cui si cambiano piani di vita, si passa da un progetto
ad un altro, eppure tutto ciò avviene secondo modalità
stabili. Desiderio di nuove conoscenze e ricerca di migliori
livelli di vita conferiscono all'individuo unità
maggiore di quanto mai possa fare qualsiasi riduzione a
meri stati fisici. Il nostro tentativo è non solo
resistere all'ambiente ma di mutarlo in accordo con costellazioni
di valori per passare dalla semplice sopravvivenza ad una
vita migliore (Di Francesco M. e Girello G., "Qualche
argomento per l'autonomia del mentale" in "L'automa
spirituale" Laterza, Roma-Bari, 1991).
Damasio sostiene, a questo proposito, che lo sviluppo di
elaborate strategie e convenzioni sociali su cui si basa
la vita quotidiana devono avere avuto un'origine culturale
frutto dell'interazione degli individui e delle loro particolari
e uniche caratteristiche. Nel suo lavoro, egli mette radicalmente
in discussione la separazione drastica fra emozione ed intelletto
che per secoli era stata un criterio ispiratore della filosofia
e della ricerca scientifica. Egli propone che le modalità
di costruzione del "sé" si sviluppino attraverso
un processo che coinvolge non solo la mente, bensì
l'intero organismo, e cioè il cervello e anche il
corpo, il cui contributo non si riduce agli effetti modulatori
o al sostegno delle operazioni vitali, ma comprende anche
un contenuto che è parte integrante del funzionamento
della mente normale. Ponendo così la mente strettamente
legata al corpo si rende dunque impossibile capire sia ciò
che fa, sia come lo fa senza riferirsi a questa relazione
indissolubile con il cervello e, attraverso esso, con l'intero
organismo. Alla base della costruzione del sé neurale,
ipotizza Damasio, vi sono due estremi, cioè da una
parte la rappresentazione di un oggetto che entra nel campo
percettivo dell'organismo, dall'altro le immagini delle
risposte di quest'ultimo a questa comparsa, e un'interfaccia
che li collega guardando sia all'una che alle altre da una
prospettiva che è esterna a entrambi i poli, costituita
da insiemi di neuroni di "terza persona", chiamati
dall'autore "zone di convergenza " (IZC), queste
sarebbero aree cerebrali in cui l'informazione viene assemblata
e collegata in termini neurali. Secondo l'autore ciò
che chiamiamo "lo stato del sé" è
il risultato di un continuo lavoro di costruzione da cima
a fondo e di ricostruzione che coinvolge l'attività
coordinata di molteplici regioni cerebrali. Il fatto che
il soggetto si manifesti come risultato di un continuo lavoro
dinamico di costruzione e di ricostruzione, fa dell'azione
e delle modalità di costruzione possibile del progetto
la spina dorsale dell'identità.
E' verosimile che determinate strategie si siano evolute
in individui capaci di rendersi conto che la loro sopravvivenza
era minacciata, o che era possibile migliorare la qualità
della vita, una volta sopravvissuti. Ciò può
essere accaduto solo nelle poche specie animali il cui cervello
era strutturato in modo da presentare un'ampia capacità
di memorizzare categorie di oggetti e di eventi e quindi
di stabilire rappresentazioni disposizionali di entità
e di eventi al livello di categorie e al livello di casi
unici in caso di eventi singoli. Inoltre occorre un'ampia
capacità di manipolare i componenti di quelle rappresentazioni
memorizzate e di foggiare creazioni originali, la cui varietà
più immediatamente utile era costituita da scenari
immaginati: anticipazioni di esiti di azioni, elaborazione
di piani per il futuro, concepimento di nuovi obbiettivi
capaci di rafforzare la sopravvivenza. Infine, un'ampia
capacità di memorizzare le nuove creazioni, cioè
gli esiti previsti, i nuovi piani, i nuovi obbiettivi, che
l'autore chiama "ricordi del futuro". Se per poter
affrontare la sofferenza fu necessario creare strategie
sociali tali da potenziare la conoscenza del passato già
vissuto e del futuro previsto, è giunto il momento
di introdurre il principio del dolore e del suo opposto,
il piacere. Dolore e piacere sono le leve di cui l'organismo
ha bisogno perché le strategie istintive e quelle
acquisite possano operare in modo efficiente.Dolore e piacere
si hanno quando diveniamo consci di profili dello stato
corporeo che costituiscono una chiara deviazione dalla gamma
di base. La configurazione di stimoli e quella degli schemi
di attività cerebrale avvertite come dolore o come
piacere sono poste a priori, nella struttura del cervello.
Questi si hanno perché i circuiti scaricano in un
certo modo, e tali circuiti esistono perché sono
stati istruiti geneticamente a formarsi in un certo modo.
Le nostre reazioni al dolore e al piacere possono si essere
modificate dell'educazione, ma esse sono comunque un esempio
primario di fenomeni mentali che dipendono dall'attivazione
di disposizioni innate. Pulsioni e istinti operano o generando
in modo diretto un particolare comportamento o inducendo
stati fisiologici che portano l'individuo a comportarsi,
consapevolmente o no, in un certo modo. Pressoché
tutti comportamenti che conseguono da pulsioni e istinti
contribuiscono alla sopravvivenza: o direttamente, compiendo
un'azione che salva le vita, o indirettamente, favorendo
condizioni che sono vantaggiose per la sopravvivenza o riducendo
l'influenza di azioni potenzialmente nocive ("L'errore
di Cartesio", Adelphi, Milano, 1995).
Per noi uomini, come illustra Savater, il mondo non è
semplicemente la struttura globale in cui s'incrociano tutti
gli effetti e tutte le cause, bensì la palestra pregna
di significato in cui agiamo. Abitare il mondo è
agire nel mondo; e agire nel mondo non è solo muoversi
in esso e reagire ai suoi stimoli, esattamente come fanno
gli animali che rispondono al loro mondo secondo il proprio
programma genetico risultato dell'evoluzione. Gli uomini
non solo rispondono al mondo in cui abitano, ma lo inventano
e lo trasformano in un modo che non è previsto da
alcun modello genetico. La specie umana non è chiusa
in un determinismo biologico, bensì resta aperta
creando se stessa senza posa, come disse Pico della Mirandola
("Le domande della vita", Laterza, Roma-Bari,
1999). Creare qui è inteso dall'autore, "non
come tirare fuori qualcosa dal nulla, ma come agire nel
mondo e a partire dalle cose che in esso ci sono ma
,
in certa misura, cambiando il mondo!".
Di rilievo sono in questo quadro, le considerazioni che
Florenskij propone in un suo studio del 1919, dove definisce
"magica" "qualsiasi azione della volontà
che abbia effetto sugli organi del corpo". In questo
senso possiamo definire la magia come "l'arte di spostare
il confine del corpo rispetto alla sua posizione abituale"
come scrive l'autore ("Organoproekcija", 1919,
in it. "La proiezione degli organi" e "U
vodorazdelov mysli", Prava, Mosca, 1990). La parola
è magica proprio in questa accezione, come lo sono
il simbolo, qualsiasi produzione artistica, le teorie scientifiche,
e in generale il mondo della conoscenza oggettiva. Tutti
questi prodotti frutto di particolari atti volitivi, come
sottolinea Tagliagambe, sono infatti capaci di innescare
specifici effetti su/nella realtà, e quindi di spostare
il confine del corpo: per questo, appunto sono magici.
Abbiamo quindi un desiderio che è costruttivo in
quanto genera rappresentazioni, scenari potenziali che anticipano
e attraggono orientando il progetto-azione. Il desiderio
però è ubiquitario, multiforme, percorre trasversalmente
il discorso, si trova in ogni inciampo, in ogni atto mancato,
interrompe la continuità, crea vortici, si insinua
e rovescia il senso rompendo l'ortodossia del discorso.
E' un movimento verso un punto di perdita, produce eventi,
non predispone una risposta e non contiene una soluzione,
non si lascia presiedere da alcuna logica. Il desiderio
è girovago in ogni struttura al di fuori di ogni
contesto che imprigiona il senso dell'interrogazione sul
mondo, è errante e sfugge all'opposizione tra vero
e falso e all'inconciliabilità degli opposti. Esso
gioca senza e fuori dalle regole, non c'è un calcolo
ne un esito determinato, esso si apre in un campo di dispersione
e ciò rende problematico utilizzarlo come energia
costruttiva. Si può paragonare il desiderio al vento
che gonfiando le vele sospinge la barca ma che deve essere
catturato e incanalato con maestria per tenere la rotta
ed evitare il naufragio, a volte bisogna attendere che si
levi, a volte è bufera di vento. Omero ci racconta
che Nestore tenne un famoso discorso al figlio Antiloco
che si preparava a gareggiare nella corsa dei carri durante
i giochi funerari in onore di Patroclo; gli disse che non
sono sufficienti la forza e la velocità dei cavalli
per ottenere la vittoria, occorre la metis cioè una
facoltà fatta di accorgimento, decisione e esperienza.
"La metis - scrivono Detienne e Vernant - è
una forma di intelligenza e di pensiero, un modo del conoscere;
essa implica un insieme complesso, ma molto coerente, di
atteggiamenti mentali, di comportamenti intellettuali che
combinano l'intuito, la sagacia, la previsione, la spigliatezza
mentale, la finzione, la vigile attenzione, il senso dell'opportunità,
l'abilità in vari campi, un'esperienza acquisita
dopo lunghi anni; essa si applica a realtà fugaci,
mobili, sconcertanti ed ambigue, che non si prestano alla
misura precisa né al calcolo esatto, né al
ragionamento rigoroso" (Detienne M., Vernant J.P.,
"Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia",
Laterza, Bari, 1978).
Il timoniere è con la metis che guida la barca, cosi
si può pensare che una facoltà complessa,
un misto di istinto, attitudine e razionalità, possa
entrare in gioco per cogliere e sfruttare la forza del desiderio.
L'uomo non ha però solo desideri, idee e progetti
rivolti al bene personale o collettivo, la passione e il
piacere riguardano spesso mete negative se non anche distruttive.
La percezione, come vediamo in Berthoz, può essere
distorta, pervertita così che ciò che è
malvagio e maligno viene rappresentato come buono, come
scopo appetibile e portatore di senso.
Il lato oscuro del desiderio, l'ossessione accecante, perverte
la percezione stessa asservendola e distorcendo i pensieri
e le fantasie. Un esempio paradigmatico lo troviamo nel
romanzo di Melville, "Moby Dick". Il fosco e ardente
capitano Achab, vota la sua vita, il destino della sua nave
e quello dei suoi uomini alla distruzione nella caccia alla
Balena Bianca, spinto da una sfrenata ansia di vendetta.
Simbolo dell'assoluta volontà indomabile di vincere
l'abisso, egli affronta, a prezzo della catastrofe il mistero
Moby Dick, simultanea figurazione del Bene e del Male.
Ecco come Ismaele, voce narrante, la descrive "Una
gioia piena di dolcezza - un'enorme dolcezza di riposo,
pur nella velocità - permeava la balena in corsa.
Nemmeno il bianco toro di Giove, quando si allontanò
a nuoto con Europa rapita aggrappata alle sue leggiadre
corna, tutto preso a guardare di fianco con occhi amorevoli
e ammaliatori la fanciulla, dirigendosi con seducente, ondeggiante
agilità alla dimora nuziale di Creta; nemmeno Giove,
nemmeno la sua grande maestà suprema superava la
gloriosa Balena Bianca nel suo nuoto divino . . . . . su
ciascun fianco lucente la balena diffondeva seduzioni .
. . . . Moby Dick procedeva, continuando a sottrarre alla
vista tutti i terrori del suo tronco sommerso e nascondendo
l'orrore straziante della sua mascella". L'ambiguità,
la commistione di seduzione e morte, si assomma nell'immagine
centrale, "il gran fantasma incappucciato", la
balena bianca che è il simbolo dell'inscrutabilità
dell'essere e che è per ognuno ciò che ognuno
la crede, il vuoto al centro dell'essere che ciascuno riempie
di un fantasma, la fonte indicibile ma vera dei valori e
delle retribuzioni.
"Quali estasi di tormenti sopporta l'uomo che si consuma
in unico inappagato desiderio di vendetta!" scrive
Melville e più avanti nello stesso passo descrive
l'azione distruttiva di tale implacabile risolutezza nella
personalità del capitano: "Ma dato che la mente
non può esistere se non come alleata dell'anima,
nel caso di Achab doveva essere successo che, asservendo
completamente tutti i suoi pensieri e tutte le sue fantasie
al suo unico scopo supremo, quello scopo combatteva contro
dei e demoni colla sola forza della propria volontà
assoluta e indomabile, trasformandosi in una sorta di essere
autonomo e indipendente. Anzi poteva vivere e ardere in
modo truce, mentre la comune vitalità cui era collegata
fuggiva inorridita da quella creatura indesiderata e illegittima
. . . . . Dio ti aiuti, vecchio. I tuoi pensieri hanno creato
dentro di te una creatura; e a chi, a forza di pensare intensamente,
si trasforma in un Prometeo, un avvoltoio divora il cuore
per sempre; e quell'avvoltoio è la creatura stessa
che lui crea".
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