INTRODUZIONE
L' originario impulso alla riflessione
sul mondo che ci circonda e sulle ragioni del nostro stare
al mondo è lo stupore. Siamo nel mondo come gli alberi,
i fiori, i fiumi, le stelle e gli animali: si nasce, si
vive e si muore come loro; invecchiano e muoiono anche i
tempi e le culture che noi abbiamo creato e sviluppato fino
a quel processo inevitabile che Agostino chiamò "senectus
mundi". Ma, a differenza di tutti questi enti ed eventi
che ci fanno compagnia nella vita e nei quali viviamo immersi
come i pesci nell'acqua, noi abbiamo cognizione del bene
e del male, consapevolezza del dolore, orrore e angoscia
della morte. Alberi e animali muoiono, ma non sanno o, perlomeno,
non si interrogano sul perché o sul senso del loro
morire e di aver condotto un'esistenza destinata alla morte.
Forse non è solo lo stupore della vita e del cosmo
che ci spinge a riflettere - come sostiene Aristotele -
ma anche e soprattutto lo stupore della fine, la nostalgia
di esser già vissuti, di aver attraversato il tempo
sulla zattera della nostra ragione fallibile, senza averne
afferrato il fine ultimo, se non nei momenti in cui una
fede religiosa ci ha soccorso - per dirla con E. Gilson
- come un "supplementum rationis".
C'è ragione di pensare che all'inizio della primavera
del 1274 Tommaso sia stato come preso dall'onda dello stupore
negativo o dell'angoscia della morte, mentre a Fassanova
"iacuit infirmus quasi per mensem", come annota
scrupolosamente il suo biografo più attendibile,
Guglielmo di Tocco. Per chi ha consuetudine di lettura con
le opere di S. Tommaso non è raro imbattersi in una
proposizione, talvolta anche in un assioma di profonda portata
conoscitiva, che rivelano anche la sua percezione sentimentale
della condizione dell'uomo nel mondo.
Nelle magistrali Questiones disputatae da Malo (1266-1272)
colpiscono due principi che ricorrono spesso in passi paralleli
delle opere maggiori: "Malum in mundo est ut in pluribus".
La storia ne è la prova inconfutabile: dai cataclismi
alle malattie, dalle esistenze opache di milioni di uomini
ai crimini senza fine che hanno segnato i tempi, il male
appare di gran lunga più diffuso e dominante sul
bene. Ma proprio la presenza insolente e insopportabile
del male per l'uomo di ragione, ma anche per l'uomo di fede,
induce Tommaso a formulare l'altro assioma sul male: "Si
malum, ergo Deus".
Ripugna alla ragione e alla fede che il dolore (malum poenae)
e il delitto o il peccato (malum culpae) abbiano il diritto
o la forza dell'invincibilità finale.
L' UOMO COME DESIDERIO E IMMAGINE
DI DIO
Dio, non è evocato (e
invocato) - per dirla con Bonhoeffer - come il "Dio
tappabuchi" per risolvere l'insolubile. Per Tommaso
Dio è riscoperto come il fine ultimo e il principio
(causale) primo di tutto il dinamismo della ragione e della
volontà, intessuti nel desiderio naturale di conoscere
il principio universale dell'essere.
Questa veduta filosofico-teologica dell'uomo emerge con
chiarezza dal piano della Summa Theologiae (1271-1273).
Esso, infatti, è tracciato all'interno dello spazio
logico di due idee (neo)-platoniche, ma integrate di contenuti
biblici (Genesi e Apocalisse): l'idea dell'uscita (exitus)
di tutti gli enti da Dio e l'idea del loro ritorno (reditus)
a Dio.
L'atto creativo di Dio assume nell'uomo due figure o due
aspetti: quella dell'inclinazione e del desiderio naturale
di vedere Dio, dopo aver attraversato il tempo e lo spazio
della storia; e quella dello specchio e dell'immagine di
Dio scolpita nell'anima. La razionalità, la libertà,
la responsabilità, la sete di conoscenza e di felicità
sono gli elementi che compongono, come un tessuto, l'essenza
dell'uomo vivente: egli è "splendor Dei".
Vorrei adesso verificare con precisi riferimenti testuali
alle opere di Tommaso questa concezione dell'uomo come desiderio
e immagine di Dio. E' opportuno rilevare che il genitivo
è, in questo caso, genitivo oggettivo e, al tempo
stesso, soggettivo. L'uomo desidera Dio, perché Dio
ha immesso in lui tale desiderio, legato alla somiglianza
della natura di entrambi.
Il desiderio di vedere Dio, che di per sé è
di natura conoscitiva e contemplativa, assume anche la forma
psicologica di impulso inarrestabile verso la felicità;
ma dietro il bisogno psicologico c'è, come sua causa,
l'essenza razionale dell'uomo, la "stoffa" - per
così dire - di cui egli è fatto e che -, simile
alla forza di gravità o all'eros platonico, lo inclina
verso Dio come beatitudine ultima, infinita, totalmente
appagante.
"Per il fatto stesso che tendono alla loro perfezione,
gli esseri cercano il loro bene, poiché ogni essere
è buono nella misura della propria perfezione. Per
il fatto stesso che cercano il loro bene, essi tendono alla
divina somiglianza: ogni essere assomiglia a Dio nella misura
della propria bontà. Ma questo o quel bene particolare
è desiderabile nella misura in cui assomiglia alla
bontà prima [Dio]; perciò un essere tende
al proprio bene a causa della somiglianza con Dio, non già
viceversa. E' evidente allora che tutti gli esseri cercano
come loro fine ultimo una somiglianza con Dio" (Summa
contra Gentiles, III, 24).
Fintantoché, dunque, non approda all'unione con Dio,
l'uomo è afferrato come una preda da un desiderio
insoddisfatto, costitutivo della sua natura.
Questo testo di Tommaso, pur caratterizzato da una procedura
razionalistica, attenta a tutti i passaggi logici dell'argomentazione,
evoca tuttavia il fascino della tematica esistenziale agostiniana
dell'inquietudine dell'uomo e della sua pace in Dio; tematica
densa di sviluppi filosofici, letterari, psicologici, mistici
e perfino poetici (come nel Silesius).
L'indagine di S. Tommaso, tuttavia, si svolge anche sul
piano ontologico: il desiderio è la voce dell'essere
umano, della sua essenza più profonda, la versione
conoscitiva e psicologica di quello che un altro grande
domenicano, il Tauler, chiama il "fondo dell'anima"
(der Grund der Seele).
Ecco un altro dei testi più significativi di Tommaso:
"E' impossibile che un desiderio naturale sia vano;
il che avverrebbe qualora non fosse possibile raggiungere
l'intellezione dell'essenza divina, che per natura tutte
le menti desiderano; perciò è necessario affermare
la possibilità di vedere intellettualmente l'essenza
di Dio, sia da parte delle sostanze separate, sia da parte
delle nostre anime" (Summa contra Gentiles, III, 51).
Questi primi principi di una teologia del desiderio, legata
alla teologia dell'immagine di Dio nell'uomo, sono indicati
da Tommaso - sul versante etico della sua indagine - come
regole di guida della nostra vita. Nella seconda Parte della
Summa Theologiae, proprio nel Prologo, l'Aquinate giustifica
il nesso epistemologico che lega tutti i trattati teologici
(quelli su Dio, sull'uomo, su Cristo) ricorrendo appunto
all'idea di uomo come "immagine di Dio".
"Come insegna il Damasceno, si dice che l'uomo è
stato creato a immagine di Dio in quanto l'immagine sta
ad indicare "un essere dotato d'intelligenza, di libero
arbitrio e di dominio sui propri atti"; perciò,
dopo di aver parlato dell'esemplare, cioè di Dio
e di quanto è derivato dalla divina potenza conforme
al divino volere, rimane da trattare della sua immagine,
cioè dell'uomo, in quanto questi è principio
delle proprie azioni, in forza del libero arbitrio e del
dominio che ha su di esse".
Emerge da questo testo l'idea profonda, forse di una profondità
inconsueta, che Tommaso ha elaborato della dignità
dell'uomo. Lo ha fatto con un linguaggio limpido, sobrio,
elegante, pudicamente festoso (possono la filosofia e la
teologia non essere anche una festa di idee?): se mi è
permessa una metafora azzardata direi che l'uomo è
descritto implicitamente da Tommaso come l'ombra o il riflesso
di Dio. Dio, infatti, per il pensatore credente e per il
teologo è, al contempo, la "ratio essendi"
e la "ratio cognoscendi" dell'uomo: "Omnia,
enim, pertractantur in hac scientia sub ratione Dei";
tutto, dunque, è valutabile e pensabile solo per
rapporto a Dio
Come sul piano dell'essere Dio è il principio unificatore
delle dispersioni della nostra vita e della nostra morte,
così l'idea di Dio, all'interno della quale Tommaso
è andato indagando e illuminando le ragioni, le gioie,
le tristezze, i fallimenti e le speranze dell'uomo, è
il principio gnoseologico che riduce ad unità tutte
le piccole conoscenze e verità dell'uomo.
Ho accennato alla semplicità del lessico delle opere
di Tommaso, proprio nel momento in cui egli scandaglia i
misteri più profondi dell'esistenza. Vi si può
cogliere un riflesso - messo da lui in programma - della
semplicità di Dio. L'infinità e la varietà
delle parole umane sono piccoli riflessi o semi e segni
del Logos. Era alieno dalla verbosità, dal fare della
filosofia o della teologia un torneo di chiacchiere. Dirà
Wittgenstein: "Quel che può dirsi, può
dirsi con chiarezza; sul resto si deve tacere".
Tommaso amava il silenzio (ne è testimonianza il
soprannome "il bue muto" attribuitogli quando
era studente universitario dai suoi compagni, segno premonitore
di una gran voce teologica e filosofica nei secoli prevista
dal suo maestro Alberto Magno); amava il discorso breve
e ordinato. Nel Prologo generale alla Summa Theologiae giustifica
la composizione della sua opera delineando involontariamente
una specie di sommario e implicito autoritratto, che è
poi il ritratto-modello del professore universitario e del
ricercatore:
"Poiché il dottore della verità cattolica
deve non solo insegnare ai più progrediti, ma istruire
[gli studenti] principianti (
), la nostra intenzione
è dunque d'esporre ciò che concerne la religione
cristiana secondo il modo più adatto alla formazione
dei debuttanti.
Noi abbiamo osservato in effetti che, nell'impiego degli
scritti dei differenti autori, i novizi in questa materia
sono molto ostacolati, sia per la moltiplicazione delle
questioni inutili, degli articoli e delle prove; sia perché
ciò che conviene loro di apprendere non viene trattato
secondo l'esigenza della materia insegnata (secundum ordinem
disciplinae), ma a seconda che lo richieda la spiegazione
dei libri [adottati] o l'occasione delle dispute; sia infine
che la ripetizione frequente delle stesse cose genera negli
spiriti degli ascoltatori stanchezza e confusione".
I suoi biografi, in particolare Guglielmo di Tocco, rilevano
concordi che non solo lo stile della scrittura accademica,
ma perfino la sua conversazione era guidata dalla regola
dell'essenzialità, della brevità, della chiarezza
e trasparenza lessicale. Tutto il suo sistema linguistico
appare caratterizzato da quel tratto distintivo che egli
attribuisce alla bellezza estetica, in particolare letteraria
e poetica: lo "splendor formae".
Come professore universitario di teologia, in particolare
a Parigi, la sua fatica del concetto e del linguaggio era
ispirata a una sorta di etica della comunicazione. Nel citato
Prologo generale alla Summa Theologiae, al di là
della sua severa censura contro i metodi didattici prolissi,
confusi, ripetitivi, involuti e impropri nell'uso dei vocaboli
da parte di molti suoi colleghi, Tommaso lascia trasparire
il suo bisogno e il suo desiderio di stimolare e per così
dire di risvegliare o riaccendere nell'intelligenza dei
suoi studenti e lettori la dimensione più profonda
dell'apprendimento e della ricerca: cioè la dimensione
"sapienziale".
Anche l'informazione o la nozione più elementare
appresa da uno studente è virtualmente legata alla
rete infinita delle conoscenze umane: dalla conoscenza di
un invisibile microrganismo nasce l'impulso ad allargare
il quadro fino alle indagini più profonde della biologia;
come dall'osservazione poetica di un'esistenza fragile,
come quella d'un filo di luce, siamo rinviati a sondare
il mistero dell'universo. Il più breve motivo musicale
di Bach - diceva Popper - contiene in nuce infinite variazioni.
Come Bach è capace di rincorrere - con una sorta
di dialettica platonica trasversale -, transitando cioè
dall'una all'altra i suoni e le voci della sua musica e
del suo canto, così Tommaso intesse il ricamo, sobrio
e gioioso ad un tempo, delle sue idee, rilevandone l'implicita
dimensione intercomunicativa e aperta a idee più
ampie, aperte alla contemplazione dell'universo e del suo
Creatore. La ricerca e la didattica sono per Tommaso "vie":
sentieri ben tracciati da percorrere, "itinerari della
mente" - per dirla con S. Bonaventura - che dalla scienza
o dalla filosofia conducono - per passaggi interni, alla
"sapienza", cioè a vedere tutto sotto la
luce di Dio. "Lo studio della sapienza - cioè
delle parti più alte della teologia - è il
più perfetto, sublime, utile e gioioso fra tutti
gli studi umani".
Si coglie forse in questo passaggio della "Summa Theologiae"
il richiamo al "gaudium de Veritate" di Sant'Agostino.
La gioia e il piacere della "fatica" dell'apprendere,
dello studiare, del ricercare, dello svolgere la lezione
con una didattica della comunicazione breve, essenziale,
lineare, linguisticamente appropriata, risiedono in quel
"luogo" dell'intelligenza umana in cui Tommaso
ha creduto di scoprire la dimensione virtualmente teocentrica
di ogni desiderio di sapere e la somiglianza dell'uomo con
Dio: tale luogo è l'intelligenza interrogante ("intellectus
quaerens") che non è mai contenta della risposta
che ha ottenuto a una propria domanda.
Ogni risposta è un'autentica risposta scientifica
se è capace di suscitare altre domande, in senso
orizzontale e in senso verticale. Il vero studioso o il
vero ricercatore è colui che è ricco di domande.
La ragione ontologica di questo nostro domandare esteso
alla totalità dello scibile è per Tommaso
quella stessa scoperta da Agostino: ogni uomo, venuto alla
luce in questo mondo, proprio perché è un
ente finito e fallibile, non solo è circondato da
una realtà che reclama di essere spiegata, ma è
egli stesso, per se stesso, una grande domanda: "Ecce
coelum et terra; clamant quod facta sunt; mutantur enim
et variantur". (
) Ego magna quaestio factus sum
mihi (
)".
E' questa la domanda radicale: essa attinge la profondità
delle ragioni del nostro essere nati e del nostro desiderio
infinito ed inappagato di felicità. Nessun valore
materiale potrà mai colmare il vuoto antropologico
dell'uomo senza Dio; la dialettica del bisogno e del desiderio
sono il segno fragrante di quella che il letterato-filosofo
Steiner ha definito la "nostalgia dell'Assoluto";
e che Tommaso ha scolpito in quello che mi sembra l'assioma
più bello e più felice del suo pensiero filosofico-teologico:
"Bonum gratiae unius [di un solo uomo] melius est quam
bonum naturae totius [di tutto] Universi".
Martino Cambula è
professore di prima fascia di Storia della Filosofia (Concorso
nel 2000) nell'Università di Sassari, proveniente dal
ruolo dei professori associati (1981). Dal 2001 è presidente
del Corso di Laurea in Filosofia. Ha ricoperto per supplenza
l'insegnamento di Storia della Filosofia medievale (1984-1992)
e attualmente (dal 1998) ricopre quello di Logica e filosofia
della scienza. Collabora alla "Rivista di Ascetica e
Mistica" di Firenze; e alla pagina "Cultura"
del Settimanale "Libertà" di Sassari. I temi
della sua ricerca vertono su : Crisi della ragione moderna:
R. Guardini e L. Wittgenstein; Figure della ragione tra filosofia
e scienza; Fede e ragione, con particolare riferimento al
pensiero e l'opera di S. Tommaso d'Aquino; Esperienza e conoscenza
nel neopositivismo
I suoi lavori: Eclissi o tramonto della razionalità
moderna? Su R. Guardini e L. Wittgenstein, Edizioni La Scala,
Noci (BA)1994; Forme del vivere e forme del sapere. Figure
della ragione tra filosofia e scienza, Editrice Democratica
Sarda, Sassari 1996; Sapere e credere. Domande sull'Enciclica
"Fides et Ratio" di Giovanni Paolo II, Edizioni
La Scala, Noci (BA)1998; Moritz Schlick, Il futuro della filosofia.
Esperire, Conoscere, Metafisica, a cura di Martino Cambula,
Edizioni La Scala, Noci (BA)1999; "De docta ignorantia":
la via apofantica alla conoscenza di Dio in Tommaso d'Aquino
in "Rivista di Ascetica e Mistica", 1, Firenze 2000,
pp. 139-165; L' "ultimo" Popper, in "Il volo",
Cagliari 2000; Verità di ragione e verità di
fatto, in M. Schlick, L'essenza della verità secondo
la logica moderna (edizione italiana integrale), Rubbettino,
Soveria Monnelli 2001. |