L'interrogatorio. Domanda e
risposta
Fare domande non è facile.
Ci deve essere una tensione che dalla domanda ci conduce
alla risposta e poi, da questa, ad un'altra domanda, e così
via, fino alla fine dell'inchiesta. Sembra che chi interroga
debba sempre aver presente, come un bersaglio, ciò
che vuole dimostrare, e che questa consapevolezza lo guidi
nella formulazione di ogni quesito. "Porre una domanda",
scriveva Elias Canetti in "Massa e potere"(1960),
"significa "agire per penetrare"". La
domanda, nell'inchiesta, diventa implacabilmente, forse
inevitabilmente, un mezzo di potere che affonda, affilato
come un coltello, nel corpo dell'interrogato. Interrogare
è, allora, questione di chirurgia, è lavoro
di bisturi e di precisione. Consiste, direbbe il Socrate
del "Fedro", "nella capacità di smembrare
l'oggetto", "seguendo le nervature naturali, guardandosi
dal lacerarne alcuna parte, come potrebbe fare un cattivo
macellaio"(Fedro 265e). Così, nei racconti "gialli",
la scena crudele del delitto si sdoppia nella scena, più
sottilmente crudele, dell'interrogatorio, dove l'antico
carnefice, l'autore del delitto, si trasforma, a sua volta,
nella vittima. Il "giallo" come genere letterario,
osservava Ernst Bloch nella "Considerazione filosofica
del romanzo giallo"(1960; poi in "Volti di Giano"-
1965), nasce con la "procedura indiziaria" del
procedimento giudiziario moderno, che ha bisogno di indizi
e prove per arrestare, giudicare e punire. Tuttavia, ciò
che questa procedura va a sostituire è l'antica "regina
probationis", la confessione estorta con la tortura:
"tramite l'indizio si raggiunse un livello di civiltà
maggiore rispetto alla tortura, e tale da procurare una
ben diversa "tensione"". Ciononostante, la
tensione dell'inchiesta, il "lavoro dell'indagine",
ereditano qualcosa da quell'"inconcepibile crudeltà"
che è l'"indagine dolorosa" della tortura.
Qui, prosegue Bloch, la tensione, "lacerando, con arti
altrettanto lacerati, la rete delle menzogne", fa dire
all'imputato "cose che nessun altro poteva sapere all'infuori
del colpevole e del giudice". Nell'interrogatorio,
gli fa eco Canetti, il chirurgo, penetrato negli organi
interni, "mantiene in vita la sua vittima, per sapere
qualcosa di più preciso su di essa. Si tratta qui
di un particolare tipo di chirurgo, che opera ricorrendo
deliberatamente all'"eccitazione" dolorosa locale:
egli stimola certe parti della vittima per conoscerne con
maggior sicurezza le altre". Se fossimo trasparenti
come il cristallo, se i nostri pensieri non avessero carne
e linguaggio, non servirebbe affatto chiedere. Ma a chi
fa domande, all'inquisitore che incalza, esigendo risposte
brevi e concise, si oppone, solida e passiva, l'opacità
del corpo. La prima forma di resistenza del corpo è
la sordità di chi non sente la domanda. La sordità
non è ancora il rifiuto consapevole, il diniego del
silenzio. Chi è sordo, chi non sente le domande,
sta ancora al di qua dell'interrogatorio e della sua scena
crudele. Infatti, egli pensa di potersi sottrarre, ritiene
di avere la forza di eludere la domanda. La sordità,
il fingere incomprensione o indifferenza, sono, del resto,
il modo più frequente con cui, chi ha potere, cerca
di sfuggire al potere che è proprio dell'inchiesta.
In questo caso, il potere lascia che le domande rimbalzino
sul suo corpo come su un muro di gomma. Il silenzio, invece,
il rifiuto di rispondere, presuppone già un'asimmetria.
Chi è più forte interroga il più debole,
ma questi ha ancora la facoltà di negarsi al gioco
dell'interrogatorio, di tacere, opponendo all'inquisitore
lo scudo del segreto.
Forme del segreto
Cos'è il segreto? Forse
coglieremmo un aspetto sin troppo superficiale del segreto
se noi ce lo raffigurassimo soltanto come una frase non
detta o una testimonianza negata, analogamente a ciò
che s'intende quando si parla di "segreto professionale"
- del prete, del medico, dello psicoanalista o dell'avvocato
-, o vuoi anche di "formula segreta", di "segreto
di fabbricazione", di "segreto militare"
e di "segreto di Stato". Tutte queste "forme
pubbliche" del segreto, consapevoli o inconsapevoli,
consce o inconsce, hanno a che fare con la decisione di
dire o di non dire, più che con il contenuto di ciò
che si dice. Esse possono persino diventare materia di legge,
come avviene nelle cosiddette legislazioni sulla "privacy"
(per esempio quella che, pochi anni fa, è stata introdotta
anche in Italia,
istituendo la figura del garante della privacy). Tuttavia,
se in questo caso è l'autorità della legge
che ingiunge l'osservanza del segreto a chi non avrebbe,
altrimenti, alcun dovere del silenzio, in generale il segreto
si manifesta nelle sfere private della confidenza e della
fiducia. Il segreto, allora, è misurato dal patto
che assicura il rispetto della convenzione del silenzio.
Il giuramento assicura il segreto, secondo una garanzia
di fedeltà speculare alla formula-principe della
testimonianza: "giuro di dire tutta la verità,
nient'altro che la verità". "Giuro di non
dire niente", infatti, è la frase che espone
il segreto a quel gioco di lealtà e tradimento su
cui già ironizzava un famoso motto di spirito di
Benjamin Franklin: "tre persone possono tenere un segreto
se due di loro sono morte". Ma ciò che noi chiamiamo
segreto rinvia forse a qualcosa di più essenziale,
che sfugge alle opposizioni tra pubblico e privato, tra
memoria e dimenticanza, tra rivelazione e simulazione. Questa
irriducibilità del segreto a quanto si decide di
dire o non dire è ciò su cui si sofferma,
da qualche tempo, la riflessione di uno dei maggiori filosofi
contemporanei, il francese Jacques Derrida (cfr.: "Il
segreto del nome"(1993) e, scritto con Maurizio Ferraris,
"Il gusto del segreto"(1997)). Il segreto, scrive
Derrida, "non è un'interiorità privata
che si dovrebbe disvelare, confessare, dichiarare, cioè
di cui si dovrebbe rispondere, rendendone conto". Anche
nel caso del diritto al segreto, vale a dire nei casi sovrammenzionati
del "segreto professionale" o del "segreto
di Stato", presi in considerazione dai codici e dalle
legislazioni, siamo di fronte, in realtà, ad un "diritto
condizionale" per cui "il segreto è condivisibile
e limitato alle condizioni date". Ciò significa
che il segreto costituisce semplicemente un problema, il
cui contenuto può - o persino deve - essere dichiarato
non appena si diano altre condizioni rispetto a quelle previste
dal patto di segretezza iniziale. Eppure, accanto a questa
dimensione del segreto, ve n'è una ulteriore. In
essa,"si tace, non per conservare una parola in riserva
o in disparte, ma perché il segreto resta straniero
alla parola". Questa estraneità, quest'assoluta
alterità del segreto ha una storia che, nella cultura
occidentale, fa riferimento, da un lato, al Nome impronunciabile
di Dio della tradizione ebraica, e, dall'altro, alle conclusioni
della teologia negativa della tradizione platonica, prima,
e cristiana, poi. In questi due ambiti, infatti, viene condotta
una meditazione serrata su cosa accade quando si dà
un nome.
Nome proprio e identità
L'analisi dell'atto del nominare
rivela, in controluce, l'idea di un ordine e di una razionalità
che vuole avere ragione del singolare e dell'irriducibile.
Ciò che la tradizione occidentale pensa a proposito
del Nome impronunciabile di Dio o dell'improprietà
di ogni attributo positivo del divino è estendibile
a qualsiasi nome proprio. Essa rappresenta la resistenza
di ciò che è unico alla logica dell'equivalenza
e della traducibilità assolute. Se, infatti, noi
pensiamo a un nome, non possiamo fare a meno di immaginare
una pluralità di oggetti, ovvero una classe in cui,
in ultima analisi, l'unicità va perduta, mentre cresce
l'omonimìa. "Giovanni", "Sebastiano",
"Chiara" o "Alessandra", in quanto "nomi",
consentono la moltiplicazione dell'omonimìa (quanti
"Giovanni", "Sebastiano", "Chiara"
o "Alessandra" ciascuno di noi conosce!). In quanto
son "propri", invece, rappresentano la fine dell'interscambiabilità
del linguaggio, l'unicità dell'individuo che non
può essere ulteriormente significata e che, dunque,
rimane ostinatamente segreta, racchiusa nella comunità
degli affetti o nella concentrazione singolare del silenzio.
Chi tace è depositario di un tesoro: il tesoro è
in lui, costituisce il potere
della sua singolarità. C'è un limite strutturale
alla panotticità dell'immagine, all'esprimibilità
dei linguaggi e alla trasparenza della comunicazione. Si
tratta di una macchia d'opacità, di un fondo di resistenza
che resta sempre intraducibile, ma che, per altri versi,
funge da garanzia suprema di libertà. Infatti, solo
se non tutto può e deve essere condiviso, c'è
spazio per l'autonomia del singolo. "Ho il gusto del
segreto", suggeriva Derrida, "ho un moto di timore
o terrore davanti a uno spazio politico, per esempio, a
uno spazio pubblico, che non dia spazio al segreto. Per
me, esigere che si metta tutto in piazza e che non ci sia
foro interno è già il
farsi totalitaria della democrazia. Se non si mantiene il
diritto al segreto si entra in uno spazio totalitario".
In questo spazio totalitario, la prima domanda riguarda
l'identità. Ogni rilevamento poliziesco inizia con
la dichiarazione delle "generalità". Per
Canetti è, questa, la richiesta più arcaica,
che rivela "il dubitoso rapporto con la preda: Chi
sei? Ti si può mangiare?". Con il possesso del
nome (o la sua attribuzione mediante l'atto del nominare)
si manifesta il potere assoluto di chi ottiene la rivelazione
del nome su chi viene costretto a confessarlo. Si tratta
di un potere di vita o di morte. Nella favola, splendidamente
raccontata dalla musica di Puccini, il principe Calaf, "scioglitore
di enigmi", vince Turandot indovinandone il nome e
proponendo alla crudele principessa il controenigma del
segreto del suo stesso nome. Come recita la celeberrima
romanza, cavallo di battaglia di molti tenori: "il
mio mistero è chiuso in me,/ il nome mio nessun saprà!".
Se il segreto sta nel nucleo più interno del potere,
metafora di ogni segreto - e, quindi, di ogni potere -,
è l'interiorità del corpo. Quel corpo che
l'azione criminale del delitto ferisce, penetra e sventra,
quel corpo che l'azione inquisitoria del detective disseziona,
apre e analizza.
Medicina e "arte della
deduzione"
La parentela fra il romanzo
giallo e la medicina non è certo scoperta di oggi.
La storia della letteratura poliziesca, infatti, è
zeppa di medici, che indagano in prima persona o che affiancano
i detective professionisti come consiglieri, collaboratori
ed amici. Conan Doyle era laureato in medicina e la sua
più riuscita creatura letteraria, Sherlock Holmes,
non era certo digiuna di nozioni della scienza di Ippocrate.
Il primo incontro fra il dottor Watson, che medico lo era
stato sul serio, per la precisione chirurgo del corpo dei
fucilieri britannici in Afghanistan, e il principe degli
investigatori - siamo nelle prime pagine di "Uno studio
in rosso", del
1887 - avviene nel laboratorio di chimica dell'ospedale
di Londra. Holmes, racconterà in seguito il dottor
Watson, aveva buone cognizioni d'anatomia ed era un chimico
di prim'ordine, anche se non aveva mai seguito sistematicamente
dei corsi di medicina. Medico e laureato in legge è,
invece, il professor John Thorndyke, protagonista dei romanzi
e dei racconti di R. Austin Freeman, fra i primi - il romanzo
d'esordio della serie fu "L'impronta scarlatta"
del 1907 - a far uso dei metodi della medicina forense e
inventore del giallo a "indagine inversa", nel
quale l'identità del colpevole è nota sin
dall'inizio, sicché l'interesse del lettore si concentra
sulla catena di ragionamenti che il detective adopera per
smascherarlo. Un altro illustre medico mancato del genere
poliziesco è il grande commissario Maigret. Iscritto
a medicina all'Università di Nantes, il giovane Maigret
è infatti costretto ad abbandonare gli studi dopo
due anni, a causa della morte del padre che lo lascia senza
i mezzi economici per proseguire. Come Simenon, che aveva
frequentato sporadicamente le lezioni di medicina criminale
nella nativa Liegi, anche il buon commissario pensa, talvolta,
alla carriera interrotta di medico e, in particolare, allo
psichiatra che avrebbe voluto diventare. Ma il rapporto
fra il giallo e la medicina non si limita alle coincidenze
biografiche dei suoi autori e dei suoi personaggi, né
all'ampio bagaglio di nozioni tecniche di cui gli scrittori
del genere hanno fatto uso per escogitare scenari criminali
e delitti sempre più sofisticati. In realtà
la letteratura gialla sembra aver mutuato dall'arte della
medicina il suo stesso metodo, ossia quella "detection",
quell'investigazione analitica basata sul paradigma indiziario
che ha nella semiotica medica il suo massimo campo di sviluppo
scientifico. Come la medicina, che diagnostica malattie
inaccessibili all'osservazione diretta partendo da sintomi
superficiali che sembrano irrilevanti o confusi agli occhi
del profano, così anche l'indagine poliziesca parte
spesso da piccoli dettagli trascurati, apparentemente insignificanti,
per risalire, passo dopo passo, alla fonte nascosta del
male, all'autore del crimine. Di conseguenza, non c'è
da meravigliarsi che la nascita del genere "giallo",
intorno alla metà dell'Ottocento, nelle pagine di
Poe, Gaboriau e Conan Doyle, coincida con l'affermarsi del
prestigio epistemologico e sociale della medicina e con
il consolidamento del paradigma indiziario della semiotica.
Un paradigma che, pur fondandosi sul metodo positivista
di Comte e di Darwin, ossia sulla raccolta sistematica dei
fatti e sulla loro classificazione, abbisogna di una procedura
logica - "l'arte della deduzione" come la chiamerà
Sherlock Holmes -, che ci consente, dalla mera congerie
delle osservazioni, dalla medicale registrazione dei sintomi,
di giungere alla conclusione dell'inchiesta, ossia alla
scoperta del colpevole, alla diagnosi del male. Ma "l'arte
della deduzione" ci porta dritti dritti alla sua prima
e più autorevole trattazione scientifica, vale a
dire alle pagine degli "Analitici primi" di Aristotele.
Aristotele, uno dei padri del pensiero occidentale, che,
non a caso, prima di essere filosofo, era figlio di un medico
e medico lui stesso.
"Giallo" e filosofia
«L'essenza del "giallo"»,
scriveva Cecil Chesterton, in un saggio, concepito assieme
al più celebre fratello Gilbert, dal titolo "Il
racconto a sensazione come opera d'arte"(1906), "è
la presenza di fenomeni visibili con una spiegazione nascosta;
ed è questa, a pensarci bene, l'essenza di tutte
le filosofie". Qualcosa turba la nostra quiete e questo
è l'inizio. Tuttavia, ciò che ci inquieta
è assolutamente sconosciuto, ciò che ci inquieta
è il mistero stesso. In questo senso la letteratura
gialla e la filosofia hanno molto in comune. Sia il giallo
che la filosofia procedono dal caos dell'ignoto verso l'ordine
della conoscenza. Sia il giallo che la filosofia ricercano
regole e "prove" in grado di fondare la verità
delle loro tesi. Sia il giallo che la filosofia articolano,
passo dopo passo, un ragionamento che connette premesse
indiziarie a conclusioni di giudizio. Allora, vi è,
dapprima, la
pura tensione dell'indovinare, il desiderio, anzi, la brama,
di risolvere l'enigma. La seconda tappa è il momento
dello smascherare e dello scoprire, il meccanismo dell'inchiesta
vera e propria. La terza è la garanzia che ogni scoperta
sia una sorpresa. L'inatteso, il non previsto, il colpo
di scena, sono gli ingredienti obbligatori del romanzo "giallo".
Prima della prima parola, prima del primo capitolo, è
successo qualcosa che nessuno conosce. Tutto inizia da un
punto oscuro a partire dal quale si dipana l'intera sequenza
degli eventi. Ma questo, a ben pensarci, è anche
il destino della filosofia. "Non c'è dubbio
che ogni nostra conoscenza inizi con l'esperienza"
recita la prima riga della "Critica della ragion pura"
di Kant. "La filosofia non ha il vantaggio, del quale
godono le altre scienze,
ossia di presupporre i propri oggetti", gli fa da controcanto
la prima riga dell'"Enciclopedia delle scienze filosofiche"
di Hegel. Il problema dell'inizio è l'enigma del
buio che precede l'inizio, è l'ombra del mistero.
Il metodo dell'indagine ha lo scopo di trasformare l'estraneità
dell'investigatore - che, come suggeriva Chesterton, è
sempre fuori dall'evento -, consentendogli di "fare
esperienza", ossia di entrare nel mondo, là
dove stanno il crimine e la colpa.
Deduzione, induzione, abduzione
Sulla natura di questo metodo
molto è stato scritto, accostando, di volta in volta,
i vari protagonisti della storia della letteratura gialla
agli esponenti di scuole filosofiche diverse. C'è
chi persino è giunto a sostenere, su una nota rivista
filosofica, che Sherlock Holmes sarebbe stato un "eminente
filosofo della scienza". D'altra parte, quando lo stesso
Holmes, nel corso delle sue indagini, afferma che bisogna
sempre dare la priorità ai fatti, sembra un seguace
dell'anarchismo metodologico di Paul Feyerabend, mentre
quando suggerisce che "spesso l'immaginazione è
la madre della verità", ci sembra sentir parlare
sir Karl Popper in persona, con la sua tesi della priorità
creativa delle teorie nell'ambito del sapere
scientifico. In realtà si dovrebbe parlare, almeno
per il "giallo", della coesistenza di molti metodi
investigativi, tenuti assieme dalla scelta comune di privilegiare
il valore positivo dei fatti. Thomas Sebeok e Umberto Eco,
in un libro di qualche anno fa ("Il segno dei tre.
Holmes, Dupin Peirce"(2000)), sostenevano che il referente
filosofico più vicino, non solo cronologicamente,
alla grande epopea del racconto investigativo va cercato
nel pensiero di Charles Sanders Peirce, filosofo americano
vissuto dal 1839 al 1914 e ritenuto, a buon diritto, il
fondatore della semiotica moderna. Peirce distingueva il
metodo della semiotica sia dalla "deduzione" classica
che, com'è noto, procede dalle premesse generali
fino ai casi particolari, sia dall'"induzione"
che già Francesco Bacone, all'inizio del XVII secolo,
indicava come "il" metodo della rivoluzione scientifica.
Ma l'induzione, osservava Peirce, prende lo spunto da un'ipotesi
che sembra imporsi senza avere, all'inizio, alcun particolare
fatto in vista, mentre, spesso, per giungere a scoperte
veramente innovative e, insieme, perfettamente aderenti
ai fatti, anche quell'ipotesi può costituire vuoi
un lusso, vuoi un vero e proprio ostacolo. Ecco allora emergere
la necessità di quella che Peirce chiamava "abduzione"
e che consiste nel prendere lo spunto dai fatti, senza avere,
da principio, alcuna particolare teoria in vista. L'"abduzione"
è ciò che Sherlock Holmes chiamava "retroduzione"
o "ragionamento analitico". Essa consiste nel
rovesciare il processo mentale per cui la maggior parte
delle persone, data una sequenza di eventi, sa giungere
da sé ai risultati. Qui si tratta, invece - spiega
Holmes al dottor Watson nel primo dei romanzi della saga
dell'inquilino di Baker Street -, a partire da un risultato
già dato, di rielaborare a ritroso la successione
dei passi che hanno portato a quel risultato. L'abduzione
rinuncia ad ogni teoria preliminare, sicché solo
la considerazione dei fatti, ovvero l'immersione nella pura
atmosfera dell'evento, suggerisce infine l'ipotesi. "Io
non ho un metodo", "io non penso a nulla",
verrebbe da dire, parafrasando l'infastidito intercalare
del commissario Maigret quando è sul punto di intuire
l'elemento chiave di un'indagine. In effetti, il grande
castello razionale dell'investigazione sembra, a questo
punto, poggiare sull'arazionalità del caso, sul colpo
di fortuna che fa scattare l'unica scintilla in grado di
ricomporre il
frammentario puzzle dei fatti.
Maigret e la spugna
Maigret è come una spugna:
si lascia impregnare dall'atmosfera che circonda ogni delitto
usando al meglio il referto dei cinque sensi. Maigret, leggiamo
in "L'ispettore Cadavre"(1944), "ritto in
mezzo alla strada umida e fredda, non stava pensando, né
seguiva il filo di un'idea. Era qualcosa di simile a una
spugna... Così avrebbe detto Lucas, che lavorava
spesso con lui e lo conosceva meglio di chiunque altro.
"C'è un momento, nel corso di un'inchiesta,"
raccontava l'ispettore, "in cui il capo si gonfia
all'improvviso come una spugna. Si direbbe che faccia il
pieno". Ma il pieno di che? Al momento, faceva il pieno
di nebbia e di oscurità. Non era più un paese
qualsiasi, quello in cui si trovava. E nemmeno lui era un
signore qualsiasi, capitato lì per puro caso. Era
una sorta di Padreterno, e conosceva quel luogo come se
ci vivesse, o meglio, come se fosse stato lui a crearlo.
Conosceva la vita che si svolgeva in ognuna di quelle casette
nascoste nel buio, gli pareva di vederne gli abitanti che
si rigiravano nei loro letti umidicci, seguiva il filo dei
loro sogni, intravedeva una mamma assonnata che nella penombra
porgeva un biberon tipeido al suo bimbo, sentiva i dolori
lancinanti di un'ammalata e prevedeva i risvegli improvvisi
della droghiera sonnambula". Dotato di un'incredibile
pazienza il commissario, osserva, tocca, annusa, ascolta,
assaggia, fino ad entrare in totale simbiosi con l'ambiente
della vittima. "Saprò chi è l'assassino,
quando conoscerò bene la vittima", è
una frase consueta di Maigret, che leggiamo spesso nei 76
romanzi e 49 racconti che lo hanno come protagonista.
I "feticci" di Maigret
Una delle ragioni del successo
di Maigret risiede, indubbiamente, nella forte caratterizzazione
del personaggio. La sua pipa, innanzitutto, che disegna
gli stati d'animo del proprietario, che si dispone sulla
scrivania del suo ufficio al Quai des Orfièvres secondo
le più disparate geometrie, che si moltiplica durante
l'estenuante rito dell'interrogatorio finale, che fagocita
nervosamente tabacco mentre Maigret succhia, come un vampiro,
l'essenza di un ambiente, l'atmosfera di una casa o di un
villaggio. Del resto, i più bei "casi"
del commissario sono delle vere e proprie indagini sociologiche,
degli autentici spaccati di vita della provincia
francese. Perché Maigret, il commissario capo della
brigata criminale di Parigi, è, in realtà,
il commissario di Francia, anzi di quell'angolo d'Europa
che comprende la Bretagna e la Normandia, il Belgio, l'Olanda
e la Germania del nord, ma anche la Provenza e, nelle ultime
inchieste, la Svizzera, dove Simenon, da vecchio, aveva
fissato la sua residenza. Altro immancabile feticcio di
Maigret è il cappotto nero, che ingigantisce e accentua
la sua corporatura massiccia e imponente. D'altra parte,
Maigret è una buona forchetta - lo sa bene sua moglie,
sempre intenta a preparargli "quelque ragout odorant"
-, e non c'è ristorante o brasserie di Parigi e
della provincia, a cominciare dall'immancabile Brasserie
Dauphine, che non abbiano ricevuto una sua visita. Ma, soprattutto,
al commissario piace bere. Una delle frasi caratteristiche
dei suoi romanzi è "il s'est mis à boire",
"si mise a bere", e questo bere riguarda, ovviamente,
ogni tipo di bevanda alcolica dal pastis e dal calvados
degli aperitivi, fino alle innumerevoli birre che sottolineano
le pause di riflessione delle inchieste, ai vini di Francia
che conosce da vero intenditore. Nel piccolo armadietto
del suo ufficio, una bottiglia di cognac, assolutamente
fuori ordinanza, scioglie il dramma di un interrogatorio
o riscalda il commissario dopo l'esperienza
delle fredde brume della Senna. L'alcool fluidifica la percezione
del mondo e delle relazioni sociali, avvicina il commissario
ai suoi interlocutori, gli consente di immergersi nel luogo,
di superare l'estraneità, di fondersi
con l'evento. Non sappiamo se Maigret sia, come scriveva
alla comparsa del personaggio, nel 1932, il nostro Alberto
Savinio, il primo detective borghese, per cui, leggendo
le sue imprese, "non si resta col fiato sospeso".
Una cosa, tuttavia, è certa. Maigret non spettacolarizza
l'indagine. Non ci sono inseguimenti, né spari e
le scene dei delitti sono piuttosto castigate, anche se
l'erotismo simenoniano vi fa spesso capolino, con il fugace
abbozzo delle donnine facili e "appetitose" -
aggettivo simenoniano - della ville lumière. Tutto,
in realtà, procede lentamente, perché l'inchiesta
non si dilata nel tempo, ma nello spazio. Sarà forse
per questo che le fortune cinematografiche del personaggio
sono attualmente in ribasso, perché allo spettatore
piace giudicare e assai meno giudicarsi. Invece, la trama
di un "Maigret" è come la vita, costellata
di assurdità, più che di atti d'eroismo, sicché,
di fronte al delitto, la domanda è sempre la stessa:
"che cosa avreste fatto, voi?".
La "fermentazione"
di Maigret, le "crisi" di Wolfe
Nell'indagine Maigret si rifiuta
di formulare qualsiasi ipotesi preliminare. Quando qualcuno
dei suoi collaboratori, siano essi il fido Lucas, gli anziani
ispettori Torrence e Janvier o il giovane Lapointe, o, vuoi
anche la premurosa Signora Maigret, all'inizio del "caso",
si azzarda a chiedergli "cosa ne pensa, capo?",
Maigret risponde inevitabilmente "io non penso mai".
Come il Socrate descritto da Platone nel "Simposio",
Maigret ha dei momenti di assenza. Nel bel mezzo di un'inchiesta,
il commissario si ferma. La sua indagine sembra arrivata
ad un punto morto. "In quei momenti sembrava gonfiarsi
oltremisura, divenire ottuso e goffo, come insensibile,
come cieco e muto, un Maigret che il passante o l'interlocutore
ignaro avrebbero potuto scambiare per un mezzo scemo o per
uno sprovveduto". Spesso, nella trama dei "gialli"
simenoniani, questo "blocco" ha un'immediata ricaduta
psicosomatica. Il commissario si ammala, ha il raffreddore,
ha l'influenza.
Oppure è ferito, come nello splendido episodio de
"Il pazzo di Bergerac"(1932) - un'intera indagine
condotta rimanendo immobilizzato nel letto di un albergo.
E' un tratto che accomuna Maigret ad un altro grande investigatore
della storia della letteratura gialla, Nero Wolfe di Rex
Stout. Le "crisi" di Wolfe, come quelle di Maigret,
paiono capitare quasi per caso, nel bel mezzo dell'indagine.
"Non ho mai capito le crisi di Wolfe", dice il
fido collaboratore-narratore del detective newyorkese Archie
Goodwin ne "La traccia del serpente"(1934). "Qualche
volta sembrava chiaro che erano dovute solo a un normale
scoramento, ma altre volte non c'era alcuna spiegazione.
Tutto procedeva col vento in poppa, e mi sembrava che fossimo
pronti per fare i bagagli e metterci in marcia quando, senza
nessuna ragione, lui perdeva ogni interesse. Si tagliava
fuori e non c'era nulla che io potessi dire che lo scalfisse
minimamente. Poteva durare un pomeriggio come due
settimane, e poteva anche succedere che si tirasse davvero
fuori e che si rimettesse in moto solo se succedeva qualcosa
di nuovo". Durante le sue "crisi" Nero Wolfe
si ritira nel suo letto, nutrendosi di pane e zuppa di cipolle,
oppure si rifugia in cucina, sperimentando raffinate ricette
gastronomiche con il cuoco Fritz. Si tratta di un esercizio
di distacco dal "caso" e dalla congerie dei fatti
su cui si sta indagando. Si sospendono i pensieri e le deduzioni
affinché, nel "vuoto" così prodotto,
si manifesti l'indizio-chiave, il nodo che tiene insieme
l'evento: ciò che il pensiero stesso impediva di
scorgere. Sia Wolfe, che è più vicino alla
grande tradizione anglosassone del detective onnipotente,
maestro della logica analitico-deduttiva che lo accomuna
ai vari Holmes, Poirot, Miss Marple, ecc., che Maigret,
con il suo pensiero continentale, che mescola inconfessabili
dosi di Sartre e di Bergson, hanno bisogno di fermarsi e
di non pensare. Di assimilare il mondo: mangiare la zuppa
di cipolle, bere qualche bicchiere in più. "Maigret
sapeva", leggiamo in "Maigret e la vecchia signora"(1949),
"che, prima o poi, in ogni inchiesta arrivava un momento
come quello, e che ogni volta, come per caso - o per istinto?
-, gli capitava di esagerare un po' con il bere. Era quando
l'inchiesta, come diceva tra sé, "si metteva
a fermentare". All'inizio non aveva in mano altro
che fatti concreti, quelli scritti nei rapporti. Poi veniva
a trovarsi in presenza di persone che fino al giorno prima
non aveva mai visto né conosciuto e le osservava
come si fa con le fotografie di un album. Bisognava avvicinarle
il più in fretta possibile, rivolgere domande, credere
o non credere alle risposte, evitare di trarre conclusioni
affrettate. Persone e cose acquistavano contorni più
netti, ma restavano un po' distanti, non ben individuabili,
anonime. Poi, a un dato momento, quasi senza motivo, tutto
"si metteva a fermentare". I personaggi implicati
diventavano al tempo stesso più sfumati e più
umani, più complessi soprattutto, e si doveva fare
attenzione. Maigret cominciava cioè a vederli dal
di dentro, procedeva a tentoni, con un certo disagio, e
con la sensazione che sarebbe bastato un altro piccolo sforzo
perché tutto si chiarisse e la verità affiorasse
da sola".
Comprendere il nonsenso del
mondo
La verità non viene "prodotta"
dal pensiero, dal calcolo, dal ragionamento. La verità
"si dà". Essa affiora, cioè, solo
in seguito a una messa tra parentesi, a una "epoché"
del nesso fra il pensiero e i fatti, a un "vuoto di
sé", a un'ascesi della volontà classificatoria
e isolante della razionalità calcolatrice, che, in
questo modo, approda alla sospensione della sua indifferenza.
Così, per mezzo di una vera e propria "pratica
di immedesimazione", che ha nell'alcool, nei suoi usi
e nelle sue metafore, la rivelazione dell'antico retroterra
dionisiaco, il commissario Maigret si fa impossessare e
poi invadere dalla complessa alterità e molteplicità
del mondo. Per questo Maigret si rifiuta di giudicare i
criminali a cui deve dare la caccia. Nella maggior parte
dei casi cerca di capirli, di penetrare a fondo nella vita
dei colpevoli fino ad arrivare, in qualche modo, a giustificarli.
La sua prima domanda non è "chi ha commesso
un crimine?", bensì "perché è
stato commesso?". Un giorno, conversando con l'amico
Pardon, medico del male dei corpi così come il commissario
è medico del male della società, Maigret confessa
che non avrebbe mai potuto fare il magistrato, perché
"sono sicuro che non avrei mai preso su di me la responsabilità
di giudicare un uomo"("Maigret sotto inchiesta"
- 1964). Insomma, non è il delitto quello che conta,
ma la determinazione dell'ambiente. E' l'ambiente che condiziona
l'uomo e, quando le circostanze ambientali raggiungono il
"limite", il "punto di non ritorno",
chiunque potrebbe essere il colpevole. Fondendosi con l'atmosfera
di un crimine, il commissario ricalca i passi dell'autore
del delitto. Ma la scoperta del colpevole, il "dénouement"
finale, si accompagna, nell'indagine condotta con questo
metodo, alla scoperta dell'intrinseca necessità del
fatto compiuto. Si è detto che il fascino del romanzo
"giallo" e la sua stessa vocazione "filosofica"
hanno a che fare con il contrasto fra la luce e l'ombra,
fra la
rivelazione e il segreto, fra l'ordine e il caos. La grande
fortuna del "giallo" analitico-deduttivo ha rispecchiato,
almeno all'inizio, la fede illuministica nella capacità
della ragione di dissipare le ombre del mistero che avvolgono
il mondo. Il meccanismo catartico del "giallo"
classico, fondato sulla spiegazione che placa l'inquietudine
della sorpresa, trasmetteva al lettore una fiducia rassicurante
nella possibilità che il rischiaramento, così
efficacemente prodotto nel microcosmo circoscritto dell'inchiesta,
potesse essere esteso positivisticamente alla totalità
del mondo. "Ma la terra interamente illuminata"
- verrebbe da dire, citando la
"Dialettica dell'illuminismo"(1947) di Horkheimer
e Adorno - "splende all'insegna di trionfale sventura".
Oggi, infatti, questa volontà assoluta di sapere,
ossia il programma di una razionalità isolante, che
intende spiegare per intero il senso del mondo, sta distruggendo
per esaurimento il suo stesso oggetto. La catastrofe del
caos si riproduce negli effetti, ostinatamente definiti
collaterali, della mobilitazione totale della tecnica e
il mondo, anche qualora fosse perfettamente spiegato, non
apparirebbe per questo meno insensato. Anzi, l'accumulo
del "database" delle spiegazioni efficaci e parziali
accresce il nonsenso complessivo. Perché il senso
del
mondo non è un problema tecnico di cui si può
ricercare la soluzione così come il detective cerca
il colpevole. Allora, forse ha ragione il commissario Maigret
che, in conclusione di ognuna delle sue indagini, ci ricorda,
fumando l'ennesima pipa, che le domande più importanti
sono quelle a cui non si può dare risposta.
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