Esiti
dal Pensiero Debole. Variazioni sul tema
Derrida in un recente seminario
avvertiva come a volte i titoli che comunemente diamo ai
nostri interventi (siano essi libri, saggi, etc...) segnalino
la presenza di una certa anarchia rispetto a ciò
che si vuol porre sotto tema, come se questa fosse il segno
di una eccedenza; e questo perché il titolo nel nominare
qualcosa la annuncia in una presentazione che, lungi dall'esaurirsi
in sé stessa, rinvia sempre a possibili esiti e nuovi
approdi della 'cosa': i titoli avranno sempre possibili
e incerte stazioni
.! In questo senso credo debba
essere inteso il titolo -non meno altisonante dei precedenti-
di questo terzo e ultimo intervento, il cui scopo non è
tanto quello di condurre a estreme conseguenze le tesi sostenute
in precedenza, ma più semplicemente apportare alcune
variazioni al tema di fondo, cercando di arricchirlo con
altri ma non nuovi motivi. Fin qui si è voluto volgere
lo sguardo ad una certa tradizione continentale, indicando
il pensiero debole come quella proposta che, almeno nei
suoi intenti programmatici, sembra aver fatto propri la
frantumazione e lo smascheramento della totalità,
il cui verbo è reo del consumarsi dell'idea di essere
occultata nel dispiegarsi della metafisica. Si è
detto -è bene ricordarlo- che il pensiero debole,
protagonista del nesso tra 'Verwindung' della metafisica
e nichilismo, indica nell'indebolimento la caratteristica
strutturale dell'essere, e che scoprendo nella vocazione
nichilistica il tratto essenziale della razionalità
occidentale diventa esso stesso una filosofia della secolarizzazione:
filosofia del costitutivo declino ontologico delle strutture
forti, la quale tenta di essere un pensiero nuovo capace
di cercare tra i silenzi delle macerie della modernità,
della secolarizzazione, del disincanto. In precedenza si
è cercato di evidenziare il fatto -tutt'altro che
accidentale e secondario secondo il nostro punto di vista-
che l'impalcatura debolista debba il suo equilibrio e il
suo sostentamento teoretici a dei categoriali nei quali,
se ascoltati nella giusta armonia concettuale, risuona l'eco
della forza di quelle strutture della cui liquidazione questa
proposta filosofica pretende di esser figlia. Senza abusare
troppo dell'artificio della ripetizione ricordiamo che una
delle cellule dell'ontologia del declino è il 'Dasein'
heideggeriano, inteso proprio come il sorgere di un occhio
che accede all'essere solo all'interno di una 'Ueberlieferung';
le possibilità dell'esser-ci sono inscritte nella
corrente del tempo-storia pensato come radice e fonte di
nutrimento dell'io: qui abbiamo riconosciuto i tratti forti
del 'Grund' che mostrano la fragilità di un pensiero
che più che essere votato alla debolezza sembra
ancorato ad alcune insormontabili resistenze. In questo
impianto l'esser-ci si dà, per così dire,
come 'Geworfenheit': effettività in cui si riceve
qualcosa sempre nel senso del 'Gewesenes', dimensione in
cui il ricevente e il ricevuto si co-appartengono. Tuttavia
l'ermeneutica, se letta con le lenti di altre vicende concettuali,
rivela i rischi e i fardelli che il suo ordito tematico
mette in gioco: in questa vuota 'esistenza-gettata' -afferma
Levinas- siamo incatenati. Vi è la possibilità
di uscire da questa oscura anarchia del sottosuolo?
Ha ancora senso parlare di un soggetto? di un io che vive
nella possibilità del suo avvento? (Benjamin) A ben
guardare il debolismo sembra privilegiare l'unità
sulla separazione, il suo ordinamento interno risplende
così di un'analitica 'dell'esistenza-gettata' più
che del desiderio di evasione, facendo del tempo-storia
una stoffa che nell'annidare l'esser-ci non consente vie
d'uscita, non permette un respiro interiore; per questo
non vi è azzardo nel dire che le possibilità
del soggetto situato sono rimesse totalmente alla sua storicità:
l'alba del continuum è la notte dell'Altro. Levinas
ha riconosciuto in questa vicenda (non ci riferiamo specificamente
al pensiero debole ma alla tradizione da cui trae nutrimento)
l'avventura di Ulisse, avventura che 'nel mondo non è
stata che un ritorno alla sua isola natale, una compiacenza
del medesimo, un misconoscimento dell'Altro'; al mito di
Ulisse Levinas contrappone 'la storia di Abramo che lascia
per sempre la sua patria per una terra ancora sconosciuta'.
D'altronde è lo stesso Vattimo che non disdegna di
ricordare che la filosofia della secolarizzazione nasce
nel cuore di orizzonti decisamente forti: < l'oltrepassamento
della metafisica non può accadere che come nichilismo.
Il senso del nichilismo, però, se non deve a sua
volta risolversi in una metafisica del nulla [
] non
può che pensarsi come un indefinito processo di riduzione,
assottigliamento, indebolimento. Sarebbe possibile un tale
pensiero fuori dall'orizzonte dell'incarnazione? E' forse
questa la domanda decisiva a cui l'ermeneutica di oggi [
]
deve cercar di rispondere >. La nostra idea è
che il pensiero debole di Vattimo trattenga nel suo nucleo
elementi che, se opportunamente individuati, palesano uno
iato tra i suoi propositi teoretici e ciò che la
sua forma formante nasconde, comportando quella violenza
(figlia della metafisica) che con lessico levinasiano potremmo
definire come l'assorbimento della soggettività nell'essere
quale modalità dell'essenza. Per questo si è
posto l'accento sul concetto di tempo-storia inteso come
grembo pre-tematico che apre all'esser-ci l'orizzonte di
ogni possibile esperienza: qui l'esistenza e i suoi vissuti
hanno una falda comune che li trattiene in una fatticità
che è storicità; questa 'stoffa' è
come i vasi sanguigni, tutto ciò che circola in essi
proviene dal tempo che viviamo, dal tempo che siamo, partecipiamo
a ciò che è esistente mediante il tempo vissuto,
come se ci fosse una corrente di correnti, noi siamo alimentati
da questa sorgente. Questo tempo-fiume è ciò
che siamo, matrice di ogni esperire; l'esistenza è
'gettata' proprio perché si trova a sorgere e ad
essere sostenuta da una continuità di passato-presente-futuro
che è la sua apertura e il suo limite: guai a
chi non passa per questa macina ricordava Heidegger.
Il pensiero debole rientra perciò -a nostro avviso-
in quella grande famiglia di filosofie che nel pensare il
tempo come 'continuum', cioè come totalità
unificatrice, rischia di prosciugare la linfa vitale della
soggettività soggiogandola nelle trame del tempo-storia.
Secondo Levinas questa è la tradizione dominante
in Occidente, una tradizione che da un lato ritiene l'istante
temporale nient'altro che una interfaccia, qualcosa che
sta nel mezzo, un fra-tempo nei momenti del tempo, dall'altro
lo sacrifica a favore della continuità temporale,
di cui l'istante risulta un'astrazione: l'imprendibile.
L'obbiezione avanzata da alcune filosofie, che rispetto
all'asse hegelo-heideggeriano potremmo definire di 'trincea',
si concentra sul fatto che se l'istante appartiene incondizionatamente
alla continuità del tempo in ogni istante non possiamo
non essere che tempo; se l'istante ha la propria anima nella
trama della dialettica temporale, interfaccia di passato
e futuro, architrave del tempo, il 'Dasein' non può
non essere storia, è condannato ad esserne il fiore
più splendente; per poter non essere tempo -avverte
ancora Levinas- occorre che l'istante abbia una certa consistenza,
occorre che abbia un'avventura. Tutte le filosofie della
storia presuppongono questo sacrificio dell'istante; ora,
il debolismo non rientra propriamente in questa categoria,
tuttavia privilegia una concezione del tempo-storico come
rettilineo e progressivo, per questo nella sua ossatura
ontologica scorre potente un famoso detto di Cioran: siamo
tutti inseguiti dalle nostre origini! Il pensiero debole
nel declinare una pesante eredità quale l'intima
relazione tra essere e storicità fallisce il suo
tentativo di non stringere tra le maglie del tempo-storico
quella soggettività a cui dovrebbe invece aprire
le porte di un tempo più leggero, privo di monolitici
fondamenti, libero dall'ingannevole memoria metafisica:
il tempo post-moderno per l'appunto. La conclusione di questo
breve percorso sta pertanto nel rilevare che se si vuole
pensare l'esser-ci come un esistenza libera dall'oppressione
di certi vincoli teoretici (eredità di tradizioni
che non sono morte, ma che agiscono 'nebbiosamente' in altre)
è necessario volgersi ad altre vicende, altre linee
di pensiero, posizioni che sono -per così dire- di
reazione alla concezione della storia come 'continuum'.
Walter Benjamin rappresenta sia un apice di questa spinta
reazionaria sia l'intreccio di due tradizioni filosofico-culturali:
quella ebraica da un lato, e quella cristiana dall'altro.
Benjamin era un pensatore eccentrico, e come tale ha provato
a far convergere la tensione rivoluzionaria del materialismo
storico con la vertenza ebraica del tempo-ora: per lui essere
all'altezza di una tradizione vuol dire stare all'altezza
di alcune discontinuità, disporsi verso possibili
rotture, distruggere la continuità poiché
solo così il soggetto è più intensamente
ciò che è. In questo impianto (il termine
è un po' improprio se rivolto a Benjamin) si ha a
che fare con una concezione del tempo inteso nella sua radicale
verticalità; qui l'istante è sempre propizio
ad una frattura, è sempre a rischio: Aporia fondamentale
-afferma Benjamin- : la tradizione come il discontinuo
di ciò che è stato in contrapposizione alla
storia come continuum degli avvenimenti. Le continuità
e le tradizioni sono allora in realtà l'emergere
di tutto ciò che non ha garantito i possibili
(dell'esser-ci
) e li ha lasciati incisi in attesa
di sviluppi; la catastrofe del 'continuum' apre un tempo-ora,
un istante verticale, una luce messianica: è nella
rottura della tradizione che 'l'adesso' è una porta.
L'angelo della storia ha per tanto l'aspetto dell'angelo
del quadro di Klee: lo sguardo rivolto al passato mentre
una tempesta lo spinge verso il futuro, questa bufera
è ciò che noi chiamiamo progresso, ma egli
vede un'unica catastrofe che ammassa macerie su macerie
e le scaraventa ai suoi piedi. Ogni tradizione ha così
una freccia che ordina il tempo, ordinamento che accade
a partire da coloro che hanno vinto e che per questo costruiscono
una tradizione (Ueberlieferung
); in questa vittoria
vi è sempre il segno di una catastrofe: è
il passato irrisolto (non-continuo) che preme verso la redenzione.
Per il filosofo di Berlino è proprio nei tempi di
crisi (tempi crepuscolari, tempi della post-modernità
diremmo noi) che è possibile avvertire certe rotture,
discontinuità propizie, conversioni che annunciano
nuove possibilità non a partire da ciò che
si sta perdendo ma bensì dai suoi possibili sviluppi;
è come se Benjamin sostenesse che ci sono eventi
che accadono nel tempo-ora, nella modalità dell'adesso,
e che qui, in questo luogo del tempo verticale, dell'istante
in bilico, il soggetto corre il suo rischio più grande
perché è lontano dal grembo dialettico del
'continuum', ma allo stesso modo può cogliere l'evento
più fecondo: l'istante messianico in cui il passato
riaccade, momento in cui qualcosa che è stato si
ripresenta nell'attualità che lo compie; dove cresce
il pericolo cresce anche ciò che salva diceva Hölderlin.
La tradizione ebraica è un'altra vicenda rispetto
a quella da cui il pensiero debole prende le mosse, tuttavia
è verso queste 'sponde' che dovrebbe dirigersi se
vuole 'salvare l'esistenza dalla morsa metafisica'; approdando
così in 'lidi' che sono al limite dell'anarchia,
costellazioni concettuali in cui le stelle sono in contrasto
con il sole della rivelazione
poichè esse
non brillano nel giorno della Storia, ma operano invisibilmente
in esso.
Bibliografia essenziale
- G.Vattimo, Il soggetto e la maschera, Bompiani, Milano
1975
- AA.VV., (a cura di G.Vattimo e P.A.Rovatti), Il pensiero
debole, Feltrinelli, Milano 1983
- G.Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano
1985
- G.Vattimo, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano
1988
- G.Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano
1989
- G.Vattimo, Etica dell'interpretazione, Rosenberg &
Sellier, Torino 1989
- G.Vattimo, Filosofia al presente, Garzanti, Milano 1990
- G.Vattimo, Oltre l'interpretazione, Laterza, Bari 1994
- G.Vattimo, Credere di credere, Garzanti, Milano 1998
- G.Vattimo, Dialogo con Nietzsche, Garzanti, Milano 2000
- P.A.Rovatti, Trasformazioni del soggetto, Il Poligrafo,
Padova 1992
- G.W.F.Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in
compendio, Laterza, Bari 1983
- W.Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, La
Nuova Italia, Firenze 1974
- M.Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970
- M.Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano
1973
- M.Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze
1997
- M.Heidegger, Ontologia. Ermeneutica dell'effettività,
Guida, Napoli 1992
- E.Levinas, Dell'evasione, Elitropia, Reggio Emilia 1983
- E.Levinas, Il tempo e l'Altro, Il Melangolo, Genova 1993
- E.Levinas, La Traccia dell'Altro, Marietti, Casale Monferrato
1984
- W.Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962
- W.Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997
- G.Agamben, Infanzia e storia, Einaudi, Torino 2001
- F.D'Agostini, Analitici e continentali, Raffaello Cortina,
Milano 1997
- D.Antiseri, Le ragioni del pensiero debole, Borla, Roma
1995
- G.Bontadini, Metafisica e deellinazzazione, Vita e Pensiero,
Milano 1975
- C.Meazza, Tra passi di Heidegger e gli antichi scolastici,
ETS, Pisa 2000
- C.Meazza, Note sul visibile pittorico, Kairos, Sassari
2001
- AA.VV., (a cura di F.P.Firrao) La filosofia italiana in
discussione, Bruno Mondatori, Milano 2001
- AA.VV., Metafisica anti-metafisica post-metafisica, Augustinus,
Palermo 1990
|