È il 1891. Un treno attraversa
la campagna francese, diretto a Parigi. In uno scompartimento,
seduto accanto al finestrino, il ventenne Paul Valéry
osserva scorrere il paesaggio crepuscolare. Poi, d'improvviso,
cala l'oscurità: il vetro che fino ad ora aveva accolto
il panorama circostante, riflette il volto di chi guarda.
Al posto di alberi, case, prati, scriverà il protagonista
al suo amico André Gide, "mi apparvero un naso
e degli occhi. Riconobbi qualcosa di me: "Povero poeta",
dissi. Poi, un pezzo un po' più grande di viso. "Povero
Caporale!" E ancora: "Povero Narciso!" E
tutti i miei diversi esseri mi inteneriscono".
È un volto, quello che si materializza davanti agli
occhi del giovane scrittore, che non sa ancora di essere
un volto, di appartenere a qualcuno, di essere qualcuno:
cosa non ancora abolita dal concetto, la sua epifania mina
le certezze dell'io, ne mostra la precarietà ontologica,
ne porta in superficie l'abissale inconoscibilità.
Chissà se è cominciata con questa fulminante
autoapparizione, l'interminabile ricerca che l'autore del
"Cimitero marino" condusse sul senso, la vertiginosa
enigmaticità, il paradosso dell'autoscopia: nell'arco
di mezzo secolo l'immagine dell'io allo specchio ritorna
continuamente variata negli scritti di Valéry come
messa in scena dell'interrogazione sul sé. Una ricerca
problematica, che costeggiando in splendida autonomia le
più stimolanti correnti di pensiero dell'epoca, dalla
fenomenologia all'esistenzialismo, lascia tracce sì
nei versi del devoto discepolo di Mallarmé ma soprattutto
nella labirintica proliferazione dei suoi "Quaderni",
messe ciclopica di appunti, impressioni, osservazioni, meditazioni
accumulate dal 1894 fino alla morte, avvenuta nel 1945.
Ne dà conto, in un interessante volume pubblicato
alcuni mesi fa da Einaudi, Valerio Magrelli, poeta egli
stesso oltre che studioso di letteratura francese e filosofia:
un saggio, il suo "Vedersi vedersi", che - a metà
strada fra critica letteraria e trattazione filosofica -
tesse con pazienza un arazzo in cui trovano una sistemazione
organica i fili dispersi della riflessione del poeta e pensatore
francese. I lettori di Magrelli riconoscono in questo libro
temi, immagini, nodi metaforici già incontrati nelle
raccolte poetiche che hanno fatto di lui una delle voci
italiane più apprezzate nel panorama lirico contemporaneo:
quasi volesse saldare i suoi debiti (peraltro sempre dichiarati)
con il poeta e pensatore francese che Walter Benjamin giudicò
il solo vero continuatore di Charles Baudelaire.
Al centro dell'indagine c'è lo specchio, oggetto
simbolistico per eccellenza e superficie sperimentale in
cui Valéry sonda il senso del guardare: nel suo itinerario,
spiega Magrelli, "l'espressione "conosci te stesso"
fa tutt'uno con "ossèrvati allo specchio"",
e in alcuni passi, sulla scorta di una ricchissima tradizione
classica, l'esperienza speculare è indicata tout
court come nascita dell'atto mentale.
Prima, però, si tratta di imparare a vedere: "La
maggior parte della gente - scrive il padre di "Monsieur
Teste" - vede con l'intelletto molto più spesso
che con gli occhi. Al posto di spazi colorati, prende conoscenza
di concetti". Un'abitudine, questa, che occorre rimuovere
se si vuole fare luce sui processi della conoscenza. E,
tanto più, dell'autocoscienza. Se il concetto del
sé oscura, annulla, abolisce l'esperienza primaria
dell'incontro con il volto allo specchio, prima dell'emergere
del concetto c'è la vasta terra di nessuno esplorata
dalle tante annotazioni dedicate a questo tema nei "Quaderni".
Vi sono minuziosamente documentate le singole fasi del vedersi:
dalla percezione di forme ancora indistinte, che via via
si compongono a formare "degli occhi, un naso",
fino all'apparizione della radura della fronte, il mento,
gli zigomi. Il volto è seguito, interrogato, sezionato
nel suo prendere forma, nel suo assumere la sembianza di
una persona che mi osserva, che mi restituisce lo sguardo.
Un individuo che non bisogna affrettarsi a riconoscere come
me stesso: un altro che va mantenuto nel suo statuto ambiguo
il più a lungo possibile, osservato in questo limine.
Ed ecco che per Valéry, riassume Magrelli, "alla
base dell'autocoscienza sta un meccanismo per così
dire scissiparo": cogito distinto da sum, scriveva
il poeta francese ribaltando Cartesio.
L'uomo che si specchia ha il suo mito: Narciso. Valéry
ne fa un anti-Amleto, e modificando una sola congiunzione
(la "e" al posto della "o") cambia di
senso il famoso monologo che l'eroe shakespeariano pronuncia
specchiandosi nel cranio del povero Yorick: "Essere
e non essere, ecco la vera "question". Poiché
fra essere o non essere non c'è alcun problema".
Davanti alla propria immagine, scompare dunque ogni incompatibilità
fra l'essere e il non essere. È l'approdo di una
dolorosa destrutturazione dell'identità, di un riconoscimento
del sé come caduta: per Valéry, in sintesi,
l'io assoluto, potenziale e illimitato si guarda allo specchio
e si trova "violentemente relegato nella propria angusta
particolarità". Una piccola morte, un precipitare
dal generale al particolare, un perdere il filo di tutti
gli io che si è stati nel corso della vita.
L'io cade nella sua prigione anche davanti a un'altra sorta
di specchio: il ritratto fotografico. Al rapporto con l'immagine
di sé catturata con mezzi meccanici e fissata su
carta sensibile Valéry ha dedicato pagine acute e
penetranti, ma soprattutto, nel '24, una quartina in cui,
distillata e bruciante, incide in poche sillabe tutta la
drammaticità dell'esperienza autoscopica indagata
tanto a lungo:
E se venissi posto davanti a questa effigie
Sconosciuto a me stesso, ignorando i miei tratti,
Da tante orrende pieghe d'angoscia e d'energia
Leggerei i miei tormenti e mi riconoscerei.
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