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MARCO NOCE, "VEDERSI VEDERSI, di Valerio Magrelli"

 

M. Noce, Vedersi Vedersi, di Valerio Magrelli, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno I, n.3 2002-2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_3/art_22.htm

Valerio Magrelli, Vedersi vedersi, Einaudi, Torino 2002, pp. 323, euro 17,50.

È il 1891. Un treno attraversa la campagna francese, diretto a Parigi. In uno scompartimento, seduto accanto al finestrino, il ventenne Paul Valéry osserva scorrere il paesaggio crepuscolare. Poi, d'improvviso, cala l'oscurità: il vetro che fino ad ora aveva accolto il panorama circostante, riflette il volto di chi guarda. Al posto di alberi, case, prati, scriverà il protagonista al suo amico André Gide, "mi apparvero un naso e degli occhi. Riconobbi qualcosa di me: "Povero poeta", dissi. Poi, un pezzo un po' più grande di viso. "Povero Caporale!" E ancora: "Povero Narciso!" E tutti i miei diversi esseri mi inteneriscono".
È un volto, quello che si materializza davanti agli occhi del giovane scrittore, che non sa ancora di essere un volto, di appartenere a qualcuno, di essere qualcuno: cosa non ancora abolita dal concetto, la sua epifania mina le certezze dell'io, ne mostra la precarietà ontologica, ne porta in superficie l'abissale inconoscibilità.
Chissà se è cominciata con questa fulminante autoapparizione, l'interminabile ricerca che l'autore del "Cimitero marino" condusse sul senso, la vertiginosa enigmaticità, il paradosso dell'autoscopia: nell'arco di mezzo secolo l'immagine dell'io allo specchio ritorna continuamente variata negli scritti di Valéry come messa in scena dell'interrogazione sul sé. Una ricerca problematica, che costeggiando in splendida autonomia le più stimolanti correnti di pensiero dell'epoca, dalla fenomenologia all'esistenzialismo, lascia tracce sì nei versi del devoto discepolo di Mallarmé ma soprattutto nella labirintica proliferazione dei suoi "Quaderni", messe ciclopica di appunti, impressioni, osservazioni, meditazioni accumulate dal 1894 fino alla morte, avvenuta nel 1945.
Ne dà conto, in un interessante volume pubblicato alcuni mesi fa da Einaudi, Valerio Magrelli, poeta egli stesso oltre che studioso di letteratura francese e filosofia: un saggio, il suo "Vedersi vedersi", che - a metà strada fra critica letteraria e trattazione filosofica - tesse con pazienza un arazzo in cui trovano una sistemazione organica i fili dispersi della riflessione del poeta e pensatore francese. I lettori di Magrelli riconoscono in questo libro temi, immagini, nodi metaforici già incontrati nelle raccolte poetiche che hanno fatto di lui una delle voci italiane più apprezzate nel panorama lirico contemporaneo: quasi volesse saldare i suoi debiti (peraltro sempre dichiarati) con il poeta e pensatore francese che Walter Benjamin giudicò il solo vero continuatore di Charles Baudelaire.
Al centro dell'indagine c'è lo specchio, oggetto simbolistico per eccellenza e superficie sperimentale in cui Valéry sonda il senso del guardare: nel suo itinerario, spiega Magrelli, "l'espressione "conosci te stesso" fa tutt'uno con "ossèrvati allo specchio"", e in alcuni passi, sulla scorta di una ricchissima tradizione classica, l'esperienza speculare è indicata tout court come nascita dell'atto mentale.
Prima, però, si tratta di imparare a vedere: "La maggior parte della gente - scrive il padre di "Monsieur Teste" - vede con l'intelletto molto più spesso che con gli occhi. Al posto di spazi colorati, prende conoscenza di concetti". Un'abitudine, questa, che occorre rimuovere se si vuole fare luce sui processi della conoscenza. E, tanto più, dell'autocoscienza. Se il concetto del sé oscura, annulla, abolisce l'esperienza primaria dell'incontro con il volto allo specchio, prima dell'emergere del concetto c'è la vasta terra di nessuno esplorata dalle tante annotazioni dedicate a questo tema nei "Quaderni". Vi sono minuziosamente documentate le singole fasi del vedersi: dalla percezione di forme ancora indistinte, che via via si compongono a formare "degli occhi, un naso", fino all'apparizione della radura della fronte, il mento, gli zigomi. Il volto è seguito, interrogato, sezionato nel suo prendere forma, nel suo assumere la sembianza di una persona che mi osserva, che mi restituisce lo sguardo. Un individuo che non bisogna affrettarsi a riconoscere come me stesso: un altro che va mantenuto nel suo statuto ambiguo il più a lungo possibile, osservato in questo limine. Ed ecco che per Valéry, riassume Magrelli, "alla base dell'autocoscienza sta un meccanismo per così dire scissiparo": cogito distinto da sum, scriveva il poeta francese ribaltando Cartesio.
L'uomo che si specchia ha il suo mito: Narciso. Valéry ne fa un anti-Amleto, e modificando una sola congiunzione (la "e" al posto della "o") cambia di senso il famoso monologo che l'eroe shakespeariano pronuncia specchiandosi nel cranio del povero Yorick: "Essere e non essere, ecco la vera "question". Poiché fra essere o non essere non c'è alcun problema". Davanti alla propria immagine, scompare dunque ogni incompatibilità fra l'essere e il non essere. È l'approdo di una dolorosa destrutturazione dell'identità, di un riconoscimento del sé come caduta: per Valéry, in sintesi, l'io assoluto, potenziale e illimitato si guarda allo specchio e si trova "violentemente relegato nella propria angusta particolarità". Una piccola morte, un precipitare dal generale al particolare, un perdere il filo di tutti gli io che si è stati nel corso della vita.
L'io cade nella sua prigione anche davanti a un'altra sorta di specchio: il ritratto fotografico. Al rapporto con l'immagine di sé catturata con mezzi meccanici e fissata su carta sensibile Valéry ha dedicato pagine acute e penetranti, ma soprattutto, nel '24, una quartina in cui, distillata e bruciante, incide in poche sillabe tutta la drammaticità dell'esperienza autoscopica indagata tanto a lungo:

E se venissi posto davanti a questa effigie
Sconosciuto a me stesso, ignorando i miei tratti,
Da tante orrende pieghe d'angoscia e d'energia
Leggerei i miei tormenti e mi riconoscerei.