Il primo aspetto che colpisce
nella lettura di Heidegger è l'estrema tensione e
complicazione linguistica che pervade ogni suo scritto,
particolarmente quelli successivi alla "svolta"
filosofica degli anni '30 del secolo scorso. E' anche il
caso del libro Conferenze di Brema e Friburgo che raccoglie
alcuni interventi pubblici del filosofo tedesco negli anni
1949 e 1957 (M. Heidegger, Conferenze di Brema e Friburgo,
Adelphi, 2002, collana Biblioteca Filosofica. I numeri che
seguono le citazioni si riferiscono a questa edizione).
Il disagio e lo spaesamento sono sensazioni diffuse tra
i lettori e gli studiosi di Heidegger. Disagio di fronte
a una prosa filosofica rigorosamente connessa ma, apparentemente,
sospesa a mezz'aria e legata a forzature etimologiche evidenti;
spaesamento di fronte a un vocabolario bizzarro e originalissimo,
quasi oracolare, fatto di termini composti e neologismi.
Conseguenza di ciò è il comune tentativo del
lettore di interpretare Heidegger in quei punti in cui il
suo "delirio" filosofico sembra allentarsi e lo
scritto concede spazio a un linguaggio più consueto
e familiare.
Qual è la motivazione essenziale di questa operazione
portata avanti dal pensatore? A cosa è legata tale
caparbietà nell'uso di un simile apparato linguistico?
Alcuni critici hanno risposto che ciò è dovuto
al tentativo di mascherare con un linguaggio incomprensibile
ai più la pochezza e la fumosità delle sue
tesi filosofiche. E' una tesi discutibile e superficiale.
Cercherò invece di rispondere attraverso il ricorso
alle stesse parole di Heidegger, laddove si apre una "radura"
semantica, una fessura, una luce, nell'ambito della giungla
verbale e nel buio dei suoi concetti.
"Essere un'eco è più difficile e quindi
più raro che avere pareri e sostenere punti di vista
[
]. Essere un'eco dell'appello dell'essere richiede
un'accuratezza del linguaggio di cui certo lo stile linguistico
tecnico-terminologico delle scienze non può sapere
assolutamente nulla" (pg. 94).
Cosa significa tutto ciò? Cosa risponderebbe Heidegger
a chi lo accusa di "giocare" con le parole per
confondere il lettore? Direbbe che il suo stile e linguaggio
non dipendono da un vezzo o da un arbitrio ma sono l'unica
risposta possibile all' "appello dell'essere",
cioè dipendendo da qualcosa che non è (totalmente)
umano, ma ha a che fare con l'orizzonte - non visibile -
che rende possibile le cose - il visibile stesso, il mondo.
L'essere chiama con un appello. Occorre ascoltare, cioè
restare aperti in una "silenziosa sobrietà"
(pg. 94). Solo se ascoltiamo tale "chiamata" possiamo
rispondere autenticamente, cioè pensare. Pensare
filosoficamente significa "essere un'eco", cioè
aderire alla parola dell'essere. Siccome la parola dell'essere
non è quella "tecnico-terminologica" delle
scienze, illusa nella pretesa di cogliere l'oggettività
della natura, e nemmeno quella della quotidianità
intramondana, persa nella considerazione esclusivamente
"commerciale" degli enti (cioè attenta
solo agli aspetti utilizzabili e sfruttabili delle cose),
tanto meno essa è identificabile col linguaggio della
metafisica europea, linguaggio che ha obliato l'essere in
favore dell'ente, cioè che ha dimenticato di pensare
l'essere come un orizzonte e ne ha fatto un ente. Ciò
che si rende indispensabile è ripensare l'essere
con parole diverse da quelle fin qui usate, che ne occultano
l'essenza e ne impediscono lo svelarsi. In altri termini,
aderire al linguaggio stesso dell'essere.
Heidegger sostiene che il "suo" stile non è
suo, ma appartiene all'essere stesso che chiama, al suo
modo di darsi e nascondersi. E' uno stile prossimo alla
parola poetica (frequentissimi i riferimenti a Hölderlin
e ad altri poeti tedeschi), l'unica capace di aprire all'autentica
comprensione della "differenza ontologica" (tra
ente ed essere, tra fenomeno e orizzonte di manifestazione
di esso).
Non è solo una questione "filosofica",
cioè legata a un ipotetico dibattito sul destino
e sul senso dell'essere, cioè alla domanda fondamentale
che la filosofia occidentale, dai Greci in poi, si è
posta, ossia "cos'è l'essere?". E' una
questione "etica", cioè coinvolge il destino
stesso dell'umanità, riguarda l'agire dell'uomo.
Infatti, in un'epoca di miseria e decadenza, quale la nostra
e quella in cui scrive Heidegger, e di cui egli stesso era
consapevole, alla "domanda 'che fare?', apparentemente
sempre prossima e unica urgente" rispondiamo "come
dobbiamo pensare?". "Infatti il pensiero è
l'autentico agire, se agire significa dare una mano all'essenza
dell'essere per preparare a quest'ultimo il posto in cui
esso e la sua essenza si fanno parola" (pg. 100). Agire
significa pensare. Pensare è aprirsi al linguaggio
dell'essere ed adeguarsi ad esso, creare uno spazio per
la sua espressione linguistica.
Pensare significa oltrepassare le tradizionali categorie
concettuali con cui siamo abituati a rappresentare e interpretare
la realtà. Significa aprirsi a una possibilità
conoscitiva "ultra logica" - se con logica si
intende aristotelicamente la scienza della proposizione,
con cui si accoppiano soggetti, predicati, complementi ecc.
- per un'adeguazione incondizionata al Logos autenticamente
esperito - come "radura" o apertura in cui le
cose si manifestano. E' in effetti "l'esperienza del
pensiero" a determinare la forma e il linguaggio oracolari,
ermetici, quasi inaccessibili di questo libro. E' come se
Heidegger, attraverso la sua prosa, tentasse di mandare
il nostro modo consueto di pensare in un posizione illogica
e straniente di scacco, e da questo "black-out"
tentasse l'accesso a una dimensione "altra" del
pensiero, che non è più fondamento, ma abisso.
Questa strategia può ricordare gli esercizi mentali
(Koan) [1]praticati
dai monaci di alcune sette Zen giapponesi nel tentativo
di raggiungere il satori, la percezione vera e immediata
della realtà. Si tratta di esercizi oziosi per una
mente occidentale, diretta dai principi di contraddizione
e di identità, ma che hanno una funzione di "azzeramento
categoriale", di creazione di una tabula rasa concettuale,
di un "silenzio sobrio" - dice Heidegger - capace
di aprire all'esperienza dell'essere.
Ma si tratta allora di ridurre la filosofia heideggeriana
a una mistica alogica, a un'esperienza intuitiva di matrice
"religiosa"? Per nulla. Heidegger si muove pur
sempre in un campo di significato filosofico, cioè
in un logos, in un pensiero che attinge alla fonte della
storia dell'occidente. Ciò può essere fatto
ripensando etimologicamente il termine Logos, termine fondamentale
della filosofia greca, per vederne il suo senso più
profondo. Ed è questo l'oggetto delle conferenze
di Friburgo del 1957, intitolate appunto "Principi
del pensiero".
Egli, pur affermando la necessità di superare la
rappresentazione categoriale, o cosale, dell'essere, intende
muoversi autenticamente nella stessa tradizione - quella
occidentale, greca - di cui occorre chiarire i fondamenti
e il senso. Muoversi autenticamente significa "stare
dentro" il destino dell'essere, come si è configurato
nella storia della metafisica dai Greci in poi, ri-pensare
storicamente la tradizione dell'occidente - e non rifiutarla,
come propongono genericamente alcune tendenze pseudo-filosofiche
della contemporaneità, come p.e. il movimento new
age.
Nella seconda conferenza svoltasi a Friburgo si dice: "Ciò
che sembra stare a fondamento del principio A=A [
]
non è nulla di stante dinanzi, nulla di stante a
fondamento e, in questo senso, non è più fondamento.
Dal momento che non è più Grund, 'fondamento',
parliamo in senso rigoroso e sobrio di Ab-Grund, 'fondo
abissale' " (pg. 146). Cosa significa? Il principio
di identità (semplificato nella proposizione A=A),
deve essere "posto" da qualcos'altro, che non
si identifica con esso. Cos'è questo qualcos'altro?
"L'io", afferma l'idealismo, in particolare Fichte.
Il pensiero, inteso autenticamente come logos, dice Heidegger.
Infatti il logos si scopre come spazio in cui è possibile
"presentare qualcosa dinanzi" e in ultima analisi
come assenza di fondamento, "abisso" (Rimando,
per le fini interpretazioni etimologiche del termine greco
logos e di quello tedesco legen, alle pg. 140-2). "Il
pensiero giunge al suo fondamento solo se si scosta da ogni
fondamento [
]. Grund-Sätze [2]sono
salti che si distaccano da ogni fondamento e saltano nel
fondo abissale del pensiero" (pg. 146). Pensare significa
"saltare" in questo abisso, "mollare gli
ormeggi", intraprendere un' "impresa rischiosa"
(pg. 136), abbandonare l'ambito della logica (o "logistica",
ossia logica al servizio della tecnica), e tentare quello
del logos, come assenza di fondamento.
Ma chi potrebbe compiere quest'impresa? Il filosofo, su
questo punto è chiaro: "Se e in che misura un
simile salto del pensiero riesca all'uomo, non dipende da
lui. Viceversa, a noi spetta la preparazione del salto,
che consiste nel portare il nostro pensiero al saltare via.
E' una cosa assolutamente sobria" (pg. 147). All'uomo
non si può imputare lo stato attuale delle cose e
del pensiero, visto che questo si inserisce in una "costellazione"
dell'essere, in una sua configurazione all'interno del destino
epocale della sua storia. Ma il suo dovere, ciò che
"gli spetta" (ritorna un riferimento all'etica)
è accogliere e custodire la possibilità della
"svolta" [3].
Pensare autenticamente significa perciò pensare l'essere
come abisso da cui scaturiscono tutti i principi del pensiero
stesso. Pensare il logos come abisso. Significa anche comprendere
la particolare "costellazione dell'essere" - il
predominio della tecnica - in cui noi ci troviamo (così
come Heidegger negli anni 40-50). Cioè comprendere
il problema dell'origine e del senso della tecnica.
A questo problema sono dedicate le conferenze di Brema del
1949. Esse sono intitolate, così come appare nell'indice,
"La cosa; l'impianto; il pericolo; la svolta".
Come si vede, i due cicli di conferenze sono strettamente
legati tra loro. Il chiarimento sui principi del pensiero
porta a riflettere sull'essenza della tecnica, intesa come
paradigma fondamentale dell'epoca contemporanea, e viceversa,
come vedremo.
La tecnica si estrinseca attraverso l'impianto, ossia quella
struttura che imprigiona l'essere e lo predispone allo sfruttamento
e alla utilizzazione tecnica. Questa configurazione impedisce
alla cosa di "coseggiare".
Leggiamo direttamente le parole di Heidegger: "Coseggiando,
la cosa fa permanere i Quattro uniti - la terra e il cielo,
i divini e i mortali - nella semplicità del loro
insieme dei Quattro, da sé unito" (pg. 35).
Come possiamo interpretare questo rebus filosofico? Come
districare un simile agglomerato semantico? Il mio consiglio
è non perdere la pazienza e non avere fretta; occorre
lasciar emergere il significato attraverso "l'ascolto"
delle parole dell'autore.
La cosa è per Heidegger l'oggetto con cui noi abbiamo
a che fare. Egli fa l'esempio della brocca. La brocca non
è però un oggetto nel senso di ens latino
- participio del verbo essere, cioè ente -pura presenza.
Esso è in primis una cosa, e come tale coseggia,
cioè rende manifesta la sua qualità di cosa.
Nella sua cosalità la brocca manifesta la "semplicità"
dei Quattro - terra, cielo, mortali, divini - ossia del
mondo naturale, di quello umano e quello sacro-spirituale.
La brocca ha un senso e un significato che rimanda al materiale
con cui è fatta (la terra), al liquido che contiene
(acqua o vino, frutto dell'azione del cielo inteso "atmosfericamente"),
al suo corrispondere all'uomo [i mortali dei quali "ristora
la loro sete, conforta il loro ozio, allieta la loro compagnia"
(pg. 29)], al suo possibile uso sacro (il richiamo al divino
attraverso il gesto del versare inteso come consacrare).
Nella cosa emerge la coappartenenza di queste dimensioni
dell'essere, la loro radice comune, la "loro unità",
il fatto che essi appaiono in un orizzonte comune, l'essere.
In questo "gioco di specchi" (pg. 38)- ossia di
rimandi continui tra cosmo, uomo, dio, in quanto nessuno
di essi è pensabile a prescindere dagli altri (pg.
35) - provocato dalla cosa, si manifesta il senso stesso
dell'essere inteso come orizzonte che fa apparire, nella
sua sottrazione visibile, gli oggetti e il mondo, nel suo
"mondeggiare".
La tecnica, in quanto "impianto", cioè
struttura che "ordina", "pianifica"
- cioè colloca gli enti naturali in un contesto di
utilizzabilità e di sfruttamento - nasconde l'emergere
di tale coappartenza in quanto "l'essere presente di
tutto ciò che è presente si trasforma in risorsa"
(pg. 55). Questo processo non è certo frutto della
volontà dell'uomo o di una sua scelta; egli stesso
è inserito in questa "ordinabilità"
dell'ente - il che è dimostrato dal fatto che, così
come ogni ente è pensato come risorsa. L'uomo stesso
è "pezzo di riserva", cioè "rimpiazzabile
all'interno dell'ordinare la sussistenza" (pg. 60)
- in una miniera la morte di uno o più minatori,
in quanto "pezzi" sostituibili, non minaccia la
possibilità di estrazione della risorsa.
L'essenza dell'essere, nella sua attuale configurazione,
è la tecnica. "L'essenza della tecnica è
l'impianto. L'essenza dell'impianto è il pericolo"
(pg. 81). "Nella misura in cui l'essere in quanto impianto,
dà la caccia a se stesso con la dimenticanza della
sua essenza, l'essere in quanto essere è il pericolo"
(pg. 80). La pericolosità dell'essere consiste in
questo oblio dell'essere, in questo suo auto occultamento,
nel dimenticare addirittura se stesso, nel "darsi la
caccia".
Ma è a questo punto che è possibile la "svolta",
la possibilità che l'essere ritrovi se stesso, svoltando
e abbandonando la configurazione dell'impianto tecnico,
ed esca dal tunnel della dimenticanza, che fa dell'ente
un semplice "pezzo di ricambio". A questa possibile
svolta l'uomo può e deve corrispondere con la sua
apertura all'ascolto dell'essere. Ossia, e qua si chiude
il cerchio che unisce strettamente le due conferenze, pensare,
diventare un'eco. Finché, però, l'uomo non
capirà l'essenza della tecnica come destino dell'essere,
e la penserà solo in termini umani (come strumento
di dominio sull'ente operato da una volontà) tale
apertura rimane velata.
Abbiamo cercato di fornire delle
chiavi di lettura al lettore, tentando di allentare qua
e là la pressione linguistica e di chiarire alcuni
snodi essenziali del testo, che rimane però restio
a interpretazioni troppo univoche. Ci rendiamo conto che
una tale "semplificazione" è un'operazione
non del tutto lecita, se rimaniamo fedeli alla disposizione
heideggeriana di rimanere in attesa del linguaggio dell'essere
e di aderire compiutamente ad esso. Disposizione che sottolinea
il grave senso "etico" (nel senso greco di ethos
come apertura) che il filosofo deve avere nei riguardi del
suo compito di custodia dell'essere. Senso etico-epocale
che merita di essere meditato senza mediatori, attraverso
la lettura diretta, in quanto coinvolge l'attuale disposizione
tecnica del mondo ed esprime la possibile occasione dell'
"esperienza del pensiero".
[1]
Un esempio significativo, di contro al comprensibile fenomeno
di due mani che applaudono è: "qual è il
suono di una sola mano?"
[2]
In lingua tedesca Grundsätze, senza il trattino di congiunzione,
sono i principi. Grundsätze des Denkens, appunto, Principi
del pensiero, titolo delle conferenze.
[3]
Una particolare assonanza con questa affermazione la possiamo
cogliere nelle pagine di Essere e tempo dedicate al concetto
di "chiamata", nelle quali è evidente la
sostanziale continuità filosofica tra l'epoca precedente
la svolta degli anni '30 e quella successiva. |