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ANDREA PIRAS, "CONFERENZE DI BREMA E FRIBURGO, di Martin Heidegger "

 

A. Piras, Conferenze di Brema e Friburgo, di Martin Heidegger, in "XÁOS. Giornale di confine", n.3 2002-2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_3/art_23.htm

 

Il primo aspetto che colpisce nella lettura di Heidegger è l'estrema tensione e complicazione linguistica che pervade ogni suo scritto, particolarmente quelli successivi alla "svolta" filosofica degli anni '30 del secolo scorso. E' anche il caso del libro Conferenze di Brema e Friburgo che raccoglie alcuni interventi pubblici del filosofo tedesco negli anni 1949 e 1957 (M. Heidegger, Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, 2002, collana Biblioteca Filosofica. I numeri che seguono le citazioni si riferiscono a questa edizione).
Il disagio e lo spaesamento sono sensazioni diffuse tra i lettori e gli studiosi di Heidegger. Disagio di fronte a una prosa filosofica rigorosamente connessa ma, apparentemente, sospesa a mezz'aria e legata a forzature etimologiche evidenti; spaesamento di fronte a un vocabolario bizzarro e originalissimo, quasi oracolare, fatto di termini composti e neologismi. Conseguenza di ciò è il comune tentativo del lettore di interpretare Heidegger in quei punti in cui il suo "delirio" filosofico sembra allentarsi e lo scritto concede spazio a un linguaggio più consueto e familiare.
Qual è la motivazione essenziale di questa operazione portata avanti dal pensatore? A cosa è legata tale caparbietà nell'uso di un simile apparato linguistico? Alcuni critici hanno risposto che ciò è dovuto al tentativo di mascherare con un linguaggio incomprensibile ai più la pochezza e la fumosità delle sue tesi filosofiche. E' una tesi discutibile e superficiale. Cercherò invece di rispondere attraverso il ricorso alle stesse parole di Heidegger, laddove si apre una "radura" semantica, una fessura, una luce, nell'ambito della giungla verbale e nel buio dei suoi concetti.
"Essere un'eco è più difficile e quindi più raro che avere pareri e sostenere punti di vista […]. Essere un'eco dell'appello dell'essere richiede un'accuratezza del linguaggio di cui certo lo stile linguistico tecnico-terminologico delle scienze non può sapere assolutamente nulla" (pg. 94).
Cosa significa tutto ciò? Cosa risponderebbe Heidegger a chi lo accusa di "giocare" con le parole per confondere il lettore? Direbbe che il suo stile e linguaggio non dipendono da un vezzo o da un arbitrio ma sono l'unica risposta possibile all' "appello dell'essere", cioè dipendendo da qualcosa che non è (totalmente) umano, ma ha a che fare con l'orizzonte - non visibile - che rende possibile le cose - il visibile stesso, il mondo.
L'essere chiama con un appello. Occorre ascoltare, cioè restare aperti in una "silenziosa sobrietà" (pg. 94). Solo se ascoltiamo tale "chiamata" possiamo rispondere autenticamente, cioè pensare. Pensare filosoficamente significa "essere un'eco", cioè aderire alla parola dell'essere. Siccome la parola dell'essere non è quella "tecnico-terminologica" delle scienze, illusa nella pretesa di cogliere l'oggettività della natura, e nemmeno quella della quotidianità intramondana, persa nella considerazione esclusivamente "commerciale" degli enti (cioè attenta solo agli aspetti utilizzabili e sfruttabili delle cose), tanto meno essa è identificabile col linguaggio della metafisica europea, linguaggio che ha obliato l'essere in favore dell'ente, cioè che ha dimenticato di pensare l'essere come un orizzonte e ne ha fatto un ente. Ciò che si rende indispensabile è ripensare l'essere con parole diverse da quelle fin qui usate, che ne occultano l'essenza e ne impediscono lo svelarsi. In altri termini, aderire al linguaggio stesso dell'essere.
Heidegger sostiene che il "suo" stile non è suo, ma appartiene all'essere stesso che chiama, al suo modo di darsi e nascondersi. E' uno stile prossimo alla parola poetica (frequentissimi i riferimenti a Hölderlin e ad altri poeti tedeschi), l'unica capace di aprire all'autentica comprensione della "differenza ontologica" (tra ente ed essere, tra fenomeno e orizzonte di manifestazione di esso).
Non è solo una questione "filosofica", cioè legata a un ipotetico dibattito sul destino e sul senso dell'essere, cioè alla domanda fondamentale che la filosofia occidentale, dai Greci in poi, si è posta, ossia "cos'è l'essere?". E' una questione "etica", cioè coinvolge il destino stesso dell'umanità, riguarda l'agire dell'uomo. Infatti, in un'epoca di miseria e decadenza, quale la nostra e quella in cui scrive Heidegger, e di cui egli stesso era consapevole, alla "domanda 'che fare?', apparentemente sempre prossima e unica urgente" rispondiamo "come dobbiamo pensare?". "Infatti il pensiero è l'autentico agire, se agire significa dare una mano all'essenza dell'essere per preparare a quest'ultimo il posto in cui esso e la sua essenza si fanno parola" (pg. 100). Agire significa pensare. Pensare è aprirsi al linguaggio dell'essere ed adeguarsi ad esso, creare uno spazio per la sua espressione linguistica.
Pensare significa oltrepassare le tradizionali categorie concettuali con cui siamo abituati a rappresentare e interpretare la realtà. Significa aprirsi a una possibilità conoscitiva "ultra logica" - se con logica si intende aristotelicamente la scienza della proposizione, con cui si accoppiano soggetti, predicati, complementi ecc. - per un'adeguazione incondizionata al Logos autenticamente esperito - come "radura" o apertura in cui le cose si manifestano. E' in effetti "l'esperienza del pensiero" a determinare la forma e il linguaggio oracolari, ermetici, quasi inaccessibili di questo libro. E' come se Heidegger, attraverso la sua prosa, tentasse di mandare il nostro modo consueto di pensare in un posizione illogica e straniente di scacco, e da questo "black-out" tentasse l'accesso a una dimensione "altra" del pensiero, che non è più fondamento, ma abisso. Questa strategia può ricordare gli esercizi mentali (Koan) [1]praticati dai monaci di alcune sette Zen giapponesi nel tentativo di raggiungere il satori, la percezione vera e immediata della realtà. Si tratta di esercizi oziosi per una mente occidentale, diretta dai principi di contraddizione e di identità, ma che hanno una funzione di "azzeramento categoriale", di creazione di una tabula rasa concettuale, di un "silenzio sobrio" - dice Heidegger - capace di aprire all'esperienza dell'essere.
Ma si tratta allora di ridurre la filosofia heideggeriana a una mistica alogica, a un'esperienza intuitiva di matrice "religiosa"? Per nulla. Heidegger si muove pur sempre in un campo di significato filosofico, cioè in un logos, in un pensiero che attinge alla fonte della storia dell'occidente. Ciò può essere fatto ripensando etimologicamente il termine Logos, termine fondamentale della filosofia greca, per vederne il suo senso più profondo. Ed è questo l'oggetto delle conferenze di Friburgo del 1957, intitolate appunto "Principi del pensiero".
Egli, pur affermando la necessità di superare la rappresentazione categoriale, o cosale, dell'essere, intende muoversi autenticamente nella stessa tradizione - quella occidentale, greca - di cui occorre chiarire i fondamenti e il senso. Muoversi autenticamente significa "stare dentro" il destino dell'essere, come si è configurato nella storia della metafisica dai Greci in poi, ri-pensare storicamente la tradizione dell'occidente - e non rifiutarla, come propongono genericamente alcune tendenze pseudo-filosofiche della contemporaneità, come p.e. il movimento new age.
Nella seconda conferenza svoltasi a Friburgo si dice: "Ciò che sembra stare a fondamento del principio A=A […] non è nulla di stante dinanzi, nulla di stante a fondamento e, in questo senso, non è più fondamento. Dal momento che non è più Grund, 'fondamento', parliamo in senso rigoroso e sobrio di Ab-Grund, 'fondo abissale' " (pg. 146). Cosa significa? Il principio di identità (semplificato nella proposizione A=A), deve essere "posto" da qualcos'altro, che non si identifica con esso. Cos'è questo qualcos'altro? "L'io", afferma l'idealismo, in particolare Fichte. Il pensiero, inteso autenticamente come logos, dice Heidegger. Infatti il logos si scopre come spazio in cui è possibile "presentare qualcosa dinanzi" e in ultima analisi come assenza di fondamento, "abisso" (Rimando, per le fini interpretazioni etimologiche del termine greco logos e di quello tedesco legen, alle pg. 140-2). "Il pensiero giunge al suo fondamento solo se si scosta da ogni fondamento […]. Grund-Sätze [2]sono salti che si distaccano da ogni fondamento e saltano nel fondo abissale del pensiero" (pg. 146). Pensare significa "saltare" in questo abisso, "mollare gli ormeggi", intraprendere un' "impresa rischiosa" (pg. 136), abbandonare l'ambito della logica (o "logistica", ossia logica al servizio della tecnica), e tentare quello del logos, come assenza di fondamento.
Ma chi potrebbe compiere quest'impresa? Il filosofo, su questo punto è chiaro: "Se e in che misura un simile salto del pensiero riesca all'uomo, non dipende da lui. Viceversa, a noi spetta la preparazione del salto, che consiste nel portare il nostro pensiero al saltare via. E' una cosa assolutamente sobria" (pg. 147). All'uomo non si può imputare lo stato attuale delle cose e del pensiero, visto che questo si inserisce in una "costellazione" dell'essere, in una sua configurazione all'interno del destino epocale della sua storia. Ma il suo dovere, ciò che "gli spetta" (ritorna un riferimento all'etica) è accogliere e custodire la possibilità della "svolta" [3].
Pensare autenticamente significa perciò pensare l'essere come abisso da cui scaturiscono tutti i principi del pensiero stesso. Pensare il logos come abisso. Significa anche comprendere la particolare "costellazione dell'essere" - il predominio della tecnica - in cui noi ci troviamo (così come Heidegger negli anni 40-50). Cioè comprendere il problema dell'origine e del senso della tecnica.
A questo problema sono dedicate le conferenze di Brema del 1949. Esse sono intitolate, così come appare nell'indice, "La cosa; l'impianto; il pericolo; la svolta".
Come si vede, i due cicli di conferenze sono strettamente legati tra loro. Il chiarimento sui principi del pensiero porta a riflettere sull'essenza della tecnica, intesa come paradigma fondamentale dell'epoca contemporanea, e viceversa, come vedremo.
La tecnica si estrinseca attraverso l'impianto, ossia quella struttura che imprigiona l'essere e lo predispone allo sfruttamento e alla utilizzazione tecnica. Questa configurazione impedisce alla cosa di "coseggiare".
Leggiamo direttamente le parole di Heidegger: "Coseggiando, la cosa fa permanere i Quattro uniti - la terra e il cielo, i divini e i mortali - nella semplicità del loro insieme dei Quattro, da sé unito" (pg. 35). Come possiamo interpretare questo rebus filosofico? Come districare un simile agglomerato semantico? Il mio consiglio è non perdere la pazienza e non avere fretta; occorre lasciar emergere il significato attraverso "l'ascolto" delle parole dell'autore.
La cosa è per Heidegger l'oggetto con cui noi abbiamo a che fare. Egli fa l'esempio della brocca. La brocca non è però un oggetto nel senso di ens latino - participio del verbo essere, cioè ente -pura presenza. Esso è in primis una cosa, e come tale coseggia, cioè rende manifesta la sua qualità di cosa. Nella sua cosalità la brocca manifesta la "semplicità" dei Quattro - terra, cielo, mortali, divini - ossia del mondo naturale, di quello umano e quello sacro-spirituale. La brocca ha un senso e un significato che rimanda al materiale con cui è fatta (la terra), al liquido che contiene (acqua o vino, frutto dell'azione del cielo inteso "atmosfericamente"), al suo corrispondere all'uomo [i mortali dei quali "ristora la loro sete, conforta il loro ozio, allieta la loro compagnia" (pg. 29)], al suo possibile uso sacro (il richiamo al divino attraverso il gesto del versare inteso come consacrare). Nella cosa emerge la coappartenenza di queste dimensioni dell'essere, la loro radice comune, la "loro unità", il fatto che essi appaiono in un orizzonte comune, l'essere. In questo "gioco di specchi" (pg. 38)- ossia di rimandi continui tra cosmo, uomo, dio, in quanto nessuno di essi è pensabile a prescindere dagli altri (pg. 35) - provocato dalla cosa, si manifesta il senso stesso dell'essere inteso come orizzonte che fa apparire, nella sua sottrazione visibile, gli oggetti e il mondo, nel suo "mondeggiare".
La tecnica, in quanto "impianto", cioè struttura che "ordina", "pianifica" - cioè colloca gli enti naturali in un contesto di utilizzabilità e di sfruttamento - nasconde l'emergere di tale coappartenza in quanto "l'essere presente di tutto ciò che è presente si trasforma in risorsa" (pg. 55). Questo processo non è certo frutto della volontà dell'uomo o di una sua scelta; egli stesso è inserito in questa "ordinabilità" dell'ente - il che è dimostrato dal fatto che, così come ogni ente è pensato come risorsa. L'uomo stesso è "pezzo di riserva", cioè "rimpiazzabile all'interno dell'ordinare la sussistenza" (pg. 60) - in una miniera la morte di uno o più minatori, in quanto "pezzi" sostituibili, non minaccia la possibilità di estrazione della risorsa.
L'essenza dell'essere, nella sua attuale configurazione, è la tecnica. "L'essenza della tecnica è l'impianto. L'essenza dell'impianto è il pericolo" (pg. 81). "Nella misura in cui l'essere in quanto impianto, dà la caccia a se stesso con la dimenticanza della sua essenza, l'essere in quanto essere è il pericolo" (pg. 80). La pericolosità dell'essere consiste in questo oblio dell'essere, in questo suo auto occultamento, nel dimenticare addirittura se stesso, nel "darsi la caccia".
Ma è a questo punto che è possibile la "svolta", la possibilità che l'essere ritrovi se stesso, svoltando e abbandonando la configurazione dell'impianto tecnico, ed esca dal tunnel della dimenticanza, che fa dell'ente un semplice "pezzo di ricambio". A questa possibile svolta l'uomo può e deve corrispondere con la sua apertura all'ascolto dell'essere. Ossia, e qua si chiude il cerchio che unisce strettamente le due conferenze, pensare, diventare un'eco. Finché, però, l'uomo non capirà l'essenza della tecnica come destino dell'essere, e la penserà solo in termini umani (come strumento di dominio sull'ente operato da una volontà) tale apertura rimane velata.

Abbiamo cercato di fornire delle chiavi di lettura al lettore, tentando di allentare qua e là la pressione linguistica e di chiarire alcuni snodi essenziali del testo, che rimane però restio a interpretazioni troppo univoche. Ci rendiamo conto che una tale "semplificazione" è un'operazione non del tutto lecita, se rimaniamo fedeli alla disposizione heideggeriana di rimanere in attesa del linguaggio dell'essere e di aderire compiutamente ad esso. Disposizione che sottolinea il grave senso "etico" (nel senso greco di ethos come apertura) che il filosofo deve avere nei riguardi del suo compito di custodia dell'essere. Senso etico-epocale che merita di essere meditato senza mediatori, attraverso la lettura diretta, in quanto coinvolge l'attuale disposizione tecnica del mondo ed esprime la possibile occasione dell' "esperienza del pensiero".



[1] Un esempio significativo, di contro al comprensibile fenomeno di due mani che applaudono è: "qual è il suono di una sola mano?"
[2] In lingua tedesca Grundsätze, senza il trattino di congiunzione, sono i principi. Grundsätze des Denkens, appunto, Principi del pensiero, titolo delle conferenze.
[3] Una particolare assonanza con questa affermazione la possiamo cogliere nelle pagine di Essere e tempo dedicate al concetto di "chiamata", nelle quali è evidente la sostanziale continuità filosofica tra l'epoca precedente la svolta degli anni '30 e quella successiva.