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FRANCESCO PALA, "LINGUA MINORE E SCHIZOFRENIA"

 

F. Pala, Lingua minore e schizofrenia, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno I, n.3 2002-2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_3/art_8.htm

 

La società contemporanea, nell'epoca della democraticità diffusa e pervasiva, ribolle di comunicazione, di dialogo.
Le democrazie, almeno secondo le più consuete indicazioni di principio, avrebbero un bisogno spasmodico di favorire la comunicazione, perché solo una dialogicità diffusa può arginare la tendenza naturale al conflitto, garantire la diffusione e lo scambio dei valori e la verificabilità e controllabilità dell'agire ad ogni livello, istituzionale ed interindividuale, da parte dell'uomo democratico, protagonista di un'esistenza in cui il vivere secondo un criterio etico o almeno estetico lascia sempre più il posto alle ragioni del sistema economico.
Tuttavia tale ottimistica elencazione di principi, avrebbe un valore se la prassi comunicativa non fosse svuotata di senso per più ragioni. Da un punto di vista strettamente politico-sociale, la comunicazione ha una parvenza di autenticità solo nei vari organi preposti ad un ruolo legislativo, tuttavia anche in quelle sedi il dialogo appare finalizzato a nascondere meri rapporti di forza e d'interesse, nell'oblio totale di ogni valore.
Le stesse organizzazioni intermedie, quali sindacati, partiti, associazioni, deputate alla mediazione tra cittadini e apparato statale ed economico, subiscono la progressiva sfiducia dei più, che intravedono la longa manus degli interessi economici coordinare le azioni anche dei naturali vessilliferi dei valori democratici. Perciò la comunicazione, da strumento di formazione del consenso e del controllo democratico è divenuta mezzo d'occultamento e veicolo delle ragioni dell'interesse economico-politico.
Tale inautenticità del sistema comunicativo compromette fortemente le possibilità di controllo che, secondo la regola democratica i cittadini dovrebbero esercitare sulle dinamiche di esercizio del potere da parte di organismi assolutamente trascendenti il singolo. Ne deriva che il mancato impegno dell'uomo occidentale nella sfera pubblica, autentico dramma con cui i più avveduti governanti delle società complesse cercano di fare i conti attraverso politiche sempre più inclusive, venga precluso, come abbiamo osservato, da deficenze e alterazioni del sistema comunicativo, e abbia come diretta conseguenza, un riflusso d'attenzioni verso la vita privata.
Il singolo individuo, esautorato di ogni funzione attiva nelle sfera pubblica, vive l'ipertrofia di una sfera privata che tuttavia solo in parte contribuisce ad orientare. Infatti, se è certamente vero che l'apparato statale e quello economico, possono fare tranquillamente a meno del contributo dei singoli, organizzati o meno, è altrettanto vero che i singoli senza la forza modellante dell'economia e dello stato sarebbero contenitori vuoti.
L'economia modella gusti, inclinazioni, bisogni, passioni, crea imperativi estetici, alligna nelle opzioni morali e specula sulle dinamiche affettive. Lo Stato formula identità, offre etichette, esprime gerarchie, e media i rapporti con il tempo, infatti conserva ed insegna il passato a beneficio del presente e per il controllo del futuro.
A tutto ciò deve aggiungersi che l'uomo, progressivamente tagliato fuori da ogni prassi pubblica, non solo si dedica alla sfera privata, ma tende a rendere pubblica quest'ultima. Per cui assistiamo ad un vero mutamento nel costume, laddove il riserbo, il segreto, il pudore, hanno lasciato il posto al degrado dell'esibizione narcisistica di ogni vicenda che lambisca l'intimità degli individui, nell'ansia, ben supportata dai mass-media, di offrire alla curiosità morbosa del prossimo le proprie nudità interiori. Con tale ultima tappa, sono chiari i tratti di un circuito che partendo dal controllo statale, passando per l'assoggettamento economico e per la pubblicizzazione mediatica, giunge a spossessare l'uomo della propria natura, rendendolo perfetta incarnazione del nulla.
Abbiamo notato che la comunicazione svolge un ruolo fondamentale nel garantire la funzionalità del sistema sopra descritto, infatti senza procedure comunicative adeguate a mimare una situazione democratica, il potere politico-economico dovrebbe far leva interamente sulla forza e non anche, come accade attualmente, sul consenso estorto surrettiziamente. Inoltre senza il circuito mediatico-comunicativo non sarebbe possibile assecondare il rifluire dell'energie individuali dalla sfera pubblica a quella privata. Quali caratteri mostra la lingua di cui i vari percorsi comunicativi si servono?
Si tratta di una lingua maggiore, in grado di plasmare universalmente il senso comune, proponendo una profonda sintesi di valori, interessi e potere, adatta alla facile omologazione dell'individuo maggioritario, prigioniero della propria irrilevanza, narcisisticamente fiero di un "io" brandito come glorioso simbolo di consapevolezza e libera determinazione.
Si tratta di una lingua che in nome della normalità legalizza quotidianamente il diritto al razzismo, al sopruso, alla violenza, alla banalità.
Esiste un'alternativa alla lingua maggiore? Sono forti le resistenze che a tale lingua oppongono i vari localismi che parlano il linguaggio delle appartenenze, e cercano di ancorare la vicenda umana alle sue radici tradizionali e al rapporto con il mondo naturale, offrendo però spesso panorami asfittici, con coloriture regressiste tali da far rimpiangere le prigionie della modernità.
Bisognerebbe allora partire dalla consapevolezza che una vera alternativa complessiva non esiste, assumendo un'ottica che miri a ripristinare e rivitalizzare gli spazi vitali esterni alle sfere di influenza economica e politica, cercando di modellare un tipo d'uomo diverso, capace di resistere al potere omologante della lingua maggiore. Se si accetta una prospettiva simile, allora ci si trova di fronte ad un'altra scelta: riformare l'uomo moderno o superarlo? La prima opzione trova forza negli scritti di Jurgen Habermas, convinto assertore della possibilità di declinare la soggettività moderna nella direzione della comunicazione razionale orientata da valori e veicolata da procedure adeguate. Il filosofo tedesco pensa dunque che la modernità non sia destinata necessariamente a condurre all'alienazione i suoi protagonisti, ma abbia nella ragione orientata al valore una risorsa inutilizzata per via del dominio della ragione orientata allo scopo. Tale impostazione, pur avendo il grande pregio di porre al centro dell'attenzione la comunicazione, trascura il fatto che l'elaborazione discorsiva di una moralità condivisa ha senso solo per individui che conservino una logica aspettativa di incidere materialmente sulle sorti del mondo in cui vivono, e non certo per uomini dominati da realtà trascendenti ogni loro agire, e in prospettiva sempre più lontani da ogni influenza sul reale globalizzato.
L'altra via percorribile, opera un netto rifiuto del modello di soggettività proposto dalla modernità, infrangendo i confini della razionalità e andando a trarre spunto dai territori che la ragione ha abbandonato, per verificare se possa esistere un altro modo di condursi nel vivere. In tale direzione l'esperienza della follia da sempre attrae e affascina filosofi, artisti, letterati, accomunati dal rifiuto dell'asfittica prigione della normalità.
Gilles Deleuze da sempre interessato ad una filosofia aperta a tutti gli ambiti del sapere, in opere fondamentali, quali L'Antiedipo e Millepiani, scritte con Felix Guattari, tiene in forte considerazione gli apporti che l'esperienza della follia può dare alla prospettazione di un nuova antropologia, a cui gran parte della sua opera è dedicata. Tale percorso esclude in partenza ogni attenzione per le nevrosi, infatti il nevrotico appare a Deleuze completamente irretito nelle dinamiche edipico-familiari, nella triangolazione padre-madre-figlio, nel disperato bisogno di un contatto con una realtà di cui mai smarrisce il senso, prigioniero delle proprie angoscie e della mediocrità infinita dei rituali fobici con i quali cerca una presa su un mondo interiore ed esterno che gli sfugge. Il centro dell'analisi deleuziana è rappresentato da un modo nuovo di concepire il desiderio, infatti egli ritiene che l'immagine più diffusa del desiderio inteso come "presenza di un'assenza", quindi mancanza, abbia radici nel platonismo e mostri una spiccata tendenza dialettica e idealistica di tipo negativo e reattivo, volta cioè a saturare la forza creativa del desiderio, attraverso l'introduzione, ad opera della psicanalisi, della nozione di fantasma, tesa a sostituire sul piano della psiche l'oggetto reale mancante nella realtà.
In realtà il desiderio secondo Deleuze andrebbe concepito come energia impersonale, un flusso energetico che non riguarda le individualità, ma si dispega a livello preindividuale, presoggettivo e attraversa gli individui operando concatenamenti, combinando i singoli organi, con altre singolarità quali oggetti, immagini, forze, generando aree di intensità e attrazione tra elementi eterogenei. Deleuze si colloca nella dimensione che precede gli individui ben formati, dotati di un io e delle sue facoltà, uomini avvinti ai territori, alla storia, alle radici che li hanno generati. Il campo preindividuale è percorso da singolarità che si combinano in maniera libera, un'ora del giorno può combinarsi con l'intensità di un colore, uno stato d'animo può concatenarsi con la forza di un vento, senza un io che esplichi categorie, identità, appartenenze, ma in virtù della forza trascinante e produttiva del desiderio. La prospettiva che Deleuze vorrebbe indicare è destinata a passare per la schizofrenia, infatti solo quest'ultima incarna la nomadica distribuzione del desiderio, il delirante dispiegarsi della forza produttiva inconscia. A tale proposito Deleuze evidenzia la salutare fuga dall'io che lo schizofrenico compie, contro tutti coloro, Biswanger, Kraepelin, Bleuler, che vorrebbero attribuire i problemi del soggetto schizofrenico a disturbi dell'io. Tale fuga si accompagna alla perdita della capacità di stabilire dei confini certi tra se ed il mondo, da parte del soggetto schizoide. Il corpo schizo è percorso da un'energia distruttiva interna che mina gli organi, fino a dar vita ad un corpo senz'organi, percorso da energia, flussi, passaggi, nel quale circolano solo le intensità, tra gradienti, soglie, migrazioni. Appare chiaro come la dissoluzione di ogni confine possa consentire il concatenamento libero, desiderante, delle intensità del corpo senz'organi schizo, con altri corpi, ma anche con singolarità oggettuali e animali.
Nel porre la follia schizofrenica al centro dell'analisi, Deleuze non intende prefigurare una liberazione universale attraverso la sofferenza che tale condizione comunque rappresenta, ma cerca di introdurre ad un modo alternativo di concepire la soggettività, che ha dei forti tratti in comune con la schizofrenia, senza però contenere la carica reattiva e negativa in essa presente. La prospettiva che il filosofo francese traccia, ha come obiettivo primario il disfacimento dell'organismo e la fuoriuscita dall'io, il che significa aprire il corpo a connessioni con l'eterogeneo, creando aree di intensità tra la pluralità di singolarità, momenti, molteplicità, di cui ciascuno è composto e le energie che compongono il reale, umane e non, strappare la coscienza al soggetto, per farne un mezzo di esplorazione. Tale via, che ha forti punti di contatto con le dottrine sciamaniche, ha di certo un forte potere liberante, tuttavia se intrapresa troppo radicalmente porrebbe a rischio di dissoluzione corporea e psichica l'interprete. Per scongiurare tale rischio, Deleuze chiarisce che dall'organismo e dall'io si esce gradualmente. Si deve cioè escludere che il filosofo francese ipotizzi una palingenesi all'insegna della follia di massa, e dell'abisso mentale. L'uomo occidentale deve vivere mimeticamente, sviluppando l'arte della fuga, ma conservando un rapporto con la realtà organica e con la soggettivazione, perché la realtà ha caratteri di violenza tali da richiedere capacità di difesa, attivabili esclusivamente attraverso l'io e l'organismo dai quali si cerca di fuggire. Si tratta di una condizione ambigua dunque, che va vissuta all'insegna della prudenza, perché tra la prigionia e l'abisso, si deve percorrere la traccia di un divenire che fluidifichi la giunture dell'individuo e lo avvicini alla sfera libera in cui tutto si attrae, ma senza rotture radicali che rischierebbero di annullare il potenziale affermativo e creativo di tale pratica.
Deleuze individua nella lingua una delle forme primarie di partecipazione al mondo codificato da organismi e soggettivazioni e come abbiamo notato nella prima parte di tale scritto, la lingua e la comunicazione hanno un forte capacità di creare identità e appartenenze e per esse passano le linee dei dispositivi di potere. Appare allora naturale che proprio la dimensione linguistica sembri al filosofo francese uno dei terreni più adatti su cui sviluppare il potenziale liberatorio della propria teoria.
Lungo la sottile linea della lingua possono incontrarsi tutti coloro che siano dotati della capacità di balbettare nella propria lingua, come gli schizofrenici, di far cigolare la lingua maggiore, farla incespicare, tracciando in essa linee di fuga, non rinunciando alla lingua maggiore né tanto meno accettandola, ma agendo per contagio instillando in essa il virus di una lingua minore. Gli scrittori, soprattutto anglo-americani, praticano già tale lingua minore, hanno provato l'essere drogati senza droga, l'essere folli senza follia, facendo vibrare la lingua, usandola come un vento che trascina via le forme statiche che la vita si da, per favorire gli accoppiamenti contro natura, i concatenamenti dell'eterogeneo. Nella scrittura di Miller, Fitzgerald, Kerouac, c'è la delicata arte dell'impercettibile al lavoro, la lingua dell'io narciso, piegata ad un balbettio violento e minore che conduce all'impersonale, al fluido. La lingua minore dunque, come luogo in cui chiamare a raccolta tutti coloro che, scrittori, folli, artisti, nomadi, hanno scelto l'impercettibilità, per uscire gradualmente dal mondo delle forme e disseminarsi nel reale donandosi una nuova nascita.
Deleuze insegna che la fuoriuscita dai tragitti della razionalità non deve coincidere necessariamente con l'irrazionalismo nichilistico, ma esiste una terza via in grado di organizzare il reale senza ordinarlo, di lasciare che la vita nelle sue dinamiche più creative assuma configurazioni armoniche, frutto di attrazioni intensive, a partire dalla rinuncia a sé, non attraverso l'ascesi ma in virtù della forza propulsiva del desiderio creativo, lungo territori in cui balbettare serva a riconoscersi fratelli.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

M. Hardt, Antonio Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2001.
G. Deleuze, Felix Guattari, L'anti-Edipo, Einaudi, Torino 1975.
G. Deleuze, Critica e clinica, Cortina, Milano 1996.
J. Habermas, Teoria dell'agire comunicativo, vol.I, il Mulino, Bologna 1997.