La società contemporanea,
nell'epoca della democraticità diffusa e pervasiva,
ribolle di comunicazione, di dialogo.
Le democrazie, almeno secondo le più consuete indicazioni
di principio, avrebbero un bisogno spasmodico di favorire
la comunicazione, perché solo una dialogicità
diffusa può arginare la tendenza naturale al conflitto,
garantire la diffusione e lo scambio dei valori e la verificabilità
e controllabilità dell'agire ad ogni livello, istituzionale
ed interindividuale, da parte dell'uomo democratico, protagonista
di un'esistenza in cui il vivere secondo un criterio etico
o almeno estetico lascia sempre più il posto alle
ragioni del sistema economico.
Tuttavia tale ottimistica elencazione di principi, avrebbe
un valore se la prassi comunicativa non fosse svuotata di
senso per più ragioni. Da un punto di vista strettamente
politico-sociale, la comunicazione ha una parvenza di autenticità
solo nei vari organi preposti ad un ruolo legislativo, tuttavia
anche in quelle sedi il dialogo appare finalizzato a nascondere
meri rapporti di forza e d'interesse, nell'oblio totale
di ogni valore.
Le stesse organizzazioni intermedie, quali sindacati, partiti,
associazioni, deputate alla mediazione tra cittadini e apparato
statale ed economico, subiscono la progressiva sfiducia
dei più, che intravedono la longa manus degli interessi
economici coordinare le azioni anche dei naturali vessilliferi
dei valori democratici. Perciò la comunicazione,
da strumento di formazione del consenso e del controllo
democratico è divenuta mezzo d'occultamento e veicolo
delle ragioni dell'interesse economico-politico.
Tale inautenticità del sistema comunicativo compromette
fortemente le possibilità di controllo che, secondo
la regola democratica i cittadini dovrebbero esercitare
sulle dinamiche di esercizio del potere da parte di organismi
assolutamente trascendenti il singolo. Ne deriva che il
mancato impegno dell'uomo occidentale nella sfera pubblica,
autentico dramma con cui i più avveduti governanti
delle società complesse cercano di fare i conti attraverso
politiche sempre più inclusive, venga precluso, come
abbiamo osservato, da deficenze e alterazioni del sistema
comunicativo, e abbia come diretta conseguenza, un riflusso
d'attenzioni verso la vita privata.
Il singolo individuo, esautorato di ogni funzione attiva
nelle sfera pubblica, vive l'ipertrofia di una sfera privata
che tuttavia solo in parte contribuisce ad orientare. Infatti,
se è certamente vero che l'apparato statale e quello
economico, possono fare tranquillamente a meno del contributo
dei singoli, organizzati o meno, è altrettanto vero
che i singoli senza la forza modellante dell'economia e
dello stato sarebbero contenitori vuoti.
L'economia modella gusti, inclinazioni, bisogni, passioni,
crea imperativi estetici, alligna nelle opzioni morali e
specula sulle dinamiche affettive. Lo Stato formula identità,
offre etichette, esprime gerarchie, e media i rapporti con
il tempo, infatti conserva ed insegna il passato a beneficio
del presente e per il controllo del futuro.
A tutto ciò deve aggiungersi che l'uomo, progressivamente
tagliato fuori da ogni prassi pubblica, non solo si dedica
alla sfera privata, ma tende a rendere pubblica quest'ultima.
Per cui assistiamo ad un vero mutamento nel costume, laddove
il riserbo, il segreto, il pudore, hanno lasciato il posto
al degrado dell'esibizione narcisistica di ogni vicenda
che lambisca l'intimità degli individui, nell'ansia,
ben supportata dai mass-media, di offrire alla curiosità
morbosa del prossimo le proprie nudità interiori.
Con tale ultima tappa, sono chiari i tratti di un circuito
che partendo dal controllo statale, passando per l'assoggettamento
economico e per la pubblicizzazione mediatica, giunge a
spossessare l'uomo della propria natura, rendendolo perfetta
incarnazione del nulla.
Abbiamo notato che la comunicazione svolge un ruolo fondamentale
nel garantire la funzionalità del sistema sopra descritto,
infatti senza procedure comunicative adeguate a mimare una
situazione democratica, il potere politico-economico dovrebbe
far leva interamente sulla forza e non anche, come accade
attualmente, sul consenso estorto surrettiziamente. Inoltre
senza il circuito mediatico-comunicativo non sarebbe possibile
assecondare il rifluire dell'energie individuali dalla sfera
pubblica a quella privata. Quali caratteri mostra la lingua
di cui i vari percorsi comunicativi si servono?
Si tratta di una lingua maggiore, in grado di plasmare universalmente
il senso comune, proponendo una profonda sintesi di valori,
interessi e potere, adatta alla facile omologazione dell'individuo
maggioritario, prigioniero della propria irrilevanza, narcisisticamente
fiero di un "io" brandito come glorioso simbolo
di consapevolezza e libera determinazione.
Si tratta di una lingua che in nome della normalità
legalizza quotidianamente il diritto al razzismo, al sopruso,
alla violenza, alla banalità.
Esiste un'alternativa alla lingua maggiore? Sono forti le
resistenze che a tale lingua oppongono i vari localismi
che parlano il linguaggio delle appartenenze, e cercano
di ancorare la vicenda umana alle sue radici tradizionali
e al rapporto con il mondo naturale, offrendo però
spesso panorami asfittici, con coloriture regressiste tali
da far rimpiangere le prigionie della modernità.
Bisognerebbe allora partire dalla consapevolezza che una
vera alternativa complessiva non esiste, assumendo un'ottica
che miri a ripristinare e rivitalizzare gli spazi vitali
esterni alle sfere di influenza economica e politica, cercando
di modellare un tipo d'uomo diverso, capace di resistere
al potere omologante della lingua maggiore. Se si accetta
una prospettiva simile, allora ci si trova di fronte ad
un'altra scelta: riformare l'uomo moderno o superarlo? La
prima opzione trova forza negli scritti di Jurgen Habermas,
convinto assertore della possibilità di declinare
la soggettività moderna nella direzione della comunicazione
razionale orientata da valori e veicolata da procedure adeguate.
Il filosofo tedesco pensa dunque che la modernità
non sia destinata necessariamente a condurre all'alienazione
i suoi protagonisti, ma abbia nella ragione orientata al
valore una risorsa inutilizzata per via del dominio della
ragione orientata allo scopo. Tale impostazione, pur avendo
il grande pregio di porre al centro dell'attenzione la comunicazione,
trascura il fatto che l'elaborazione discorsiva di una moralità
condivisa ha senso solo per individui che conservino una
logica aspettativa di incidere materialmente sulle sorti
del mondo in cui vivono, e non certo per uomini dominati
da realtà trascendenti ogni loro agire, e in prospettiva
sempre più lontani da ogni influenza sul reale globalizzato.
L'altra via percorribile, opera un netto rifiuto del modello
di soggettività proposto dalla modernità,
infrangendo i confini della razionalità e andando
a trarre spunto dai territori che la ragione ha abbandonato,
per verificare se possa esistere un altro modo di condursi
nel vivere. In tale direzione l'esperienza della follia
da sempre attrae e affascina filosofi, artisti, letterati,
accomunati dal rifiuto dell'asfittica prigione della normalità.
Gilles Deleuze da sempre interessato ad una filosofia aperta
a tutti gli ambiti del sapere, in opere fondamentali, quali
L'Antiedipo e Millepiani, scritte con Felix Guattari, tiene
in forte considerazione gli apporti che l'esperienza della
follia può dare alla prospettazione di un nuova antropologia,
a cui gran parte della sua opera è dedicata. Tale
percorso esclude in partenza ogni attenzione per le nevrosi,
infatti il nevrotico appare a Deleuze completamente irretito
nelle dinamiche edipico-familiari, nella triangolazione
padre-madre-figlio, nel disperato bisogno di un contatto
con una realtà di cui mai smarrisce il senso, prigioniero
delle proprie angoscie e della mediocrità infinita
dei rituali fobici con i quali cerca una presa su un mondo
interiore ed esterno che gli sfugge. Il centro dell'analisi
deleuziana è rappresentato da un modo nuovo di concepire
il desiderio, infatti egli ritiene che l'immagine più
diffusa del desiderio inteso come "presenza di un'assenza",
quindi mancanza, abbia radici nel platonismo e mostri una
spiccata tendenza dialettica e idealistica di tipo negativo
e reattivo, volta cioè a saturare la forza creativa
del desiderio, attraverso l'introduzione, ad opera della
psicanalisi, della nozione di fantasma, tesa a sostituire
sul piano della psiche l'oggetto reale mancante nella realtà.
In realtà il desiderio secondo Deleuze andrebbe concepito
come energia impersonale, un flusso energetico che non riguarda
le individualità, ma si dispega a livello preindividuale,
presoggettivo e attraversa gli individui operando concatenamenti,
combinando i singoli organi, con altre singolarità
quali oggetti, immagini, forze, generando aree di intensità
e attrazione tra elementi eterogenei. Deleuze si colloca
nella dimensione che precede gli individui ben formati,
dotati di un io e delle sue facoltà, uomini avvinti
ai territori, alla storia, alle radici che li hanno generati.
Il campo preindividuale è percorso da singolarità
che si combinano in maniera libera, un'ora del giorno può
combinarsi con l'intensità di un colore, uno stato
d'animo può concatenarsi con la forza di un vento,
senza un io che esplichi categorie, identità, appartenenze,
ma in virtù della forza trascinante e produttiva
del desiderio. La prospettiva che Deleuze vorrebbe indicare
è destinata a passare per la schizofrenia, infatti
solo quest'ultima incarna la nomadica distribuzione del
desiderio, il delirante dispiegarsi della forza produttiva
inconscia. A tale proposito Deleuze evidenzia la salutare
fuga dall'io che lo schizofrenico compie, contro tutti coloro,
Biswanger, Kraepelin, Bleuler, che vorrebbero attribuire
i problemi del soggetto schizofrenico a disturbi dell'io.
Tale fuga si accompagna alla perdita della capacità
di stabilire dei confini certi tra se ed il mondo, da parte
del soggetto schizoide. Il corpo schizo è percorso
da un'energia distruttiva interna che mina gli organi, fino
a dar vita ad un corpo senz'organi, percorso da energia,
flussi, passaggi, nel quale circolano solo le intensità,
tra gradienti, soglie, migrazioni. Appare chiaro come la
dissoluzione di ogni confine possa consentire il concatenamento
libero, desiderante, delle intensità del corpo senz'organi
schizo, con altri corpi, ma anche con singolarità
oggettuali e animali.
Nel porre la follia schizofrenica al centro dell'analisi,
Deleuze non intende prefigurare una liberazione universale
attraverso la sofferenza che tale condizione comunque rappresenta,
ma cerca di introdurre ad un modo alternativo di concepire
la soggettività, che ha dei forti tratti in comune
con la schizofrenia, senza però contenere la carica
reattiva e negativa in essa presente. La prospettiva che
il filosofo francese traccia, ha come obiettivo primario
il disfacimento dell'organismo e la fuoriuscita dall'io,
il che significa aprire il corpo a connessioni con l'eterogeneo,
creando aree di intensità tra la pluralità
di singolarità, momenti, molteplicità, di
cui ciascuno è composto e le energie che compongono
il reale, umane e non, strappare la coscienza al soggetto,
per farne un mezzo di esplorazione. Tale via, che ha forti
punti di contatto con le dottrine sciamaniche, ha di certo
un forte potere liberante, tuttavia se intrapresa troppo
radicalmente porrebbe a rischio di dissoluzione corporea
e psichica l'interprete. Per scongiurare tale rischio, Deleuze
chiarisce che dall'organismo e dall'io si esce gradualmente.
Si deve cioè escludere che il filosofo francese ipotizzi
una palingenesi all'insegna della follia di massa, e dell'abisso
mentale. L'uomo occidentale deve vivere mimeticamente, sviluppando
l'arte della fuga, ma conservando un rapporto con la realtà
organica e con la soggettivazione, perché la realtà
ha caratteri di violenza tali da richiedere capacità
di difesa, attivabili esclusivamente attraverso l'io e l'organismo
dai quali si cerca di fuggire. Si tratta di una condizione
ambigua dunque, che va vissuta all'insegna della prudenza,
perché tra la prigionia e l'abisso, si deve percorrere
la traccia di un divenire che fluidifichi la giunture dell'individuo
e lo avvicini alla sfera libera in cui tutto si attrae,
ma senza rotture radicali che rischierebbero di annullare
il potenziale affermativo e creativo di tale pratica.
Deleuze individua nella lingua una delle forme primarie
di partecipazione al mondo codificato da organismi e soggettivazioni
e come abbiamo notato nella prima parte di tale scritto,
la lingua e la comunicazione hanno un forte capacità
di creare identità e appartenenze e per esse passano
le linee dei dispositivi di potere. Appare allora naturale
che proprio la dimensione linguistica sembri al filosofo
francese uno dei terreni più adatti su cui sviluppare
il potenziale liberatorio della propria teoria.
Lungo la sottile linea della lingua possono incontrarsi
tutti coloro che siano dotati della capacità di balbettare
nella propria lingua, come gli schizofrenici, di far cigolare
la lingua maggiore, farla incespicare, tracciando in essa
linee di fuga, non rinunciando alla lingua maggiore né
tanto meno accettandola, ma agendo per contagio instillando
in essa il virus di una lingua minore. Gli scrittori, soprattutto
anglo-americani, praticano già tale lingua minore,
hanno provato l'essere drogati senza droga, l'essere folli
senza follia, facendo vibrare la lingua, usandola come un
vento che trascina via le forme statiche che la vita si
da, per favorire gli accoppiamenti contro natura, i concatenamenti
dell'eterogeneo. Nella scrittura di Miller, Fitzgerald,
Kerouac, c'è la delicata arte dell'impercettibile
al lavoro, la lingua dell'io narciso, piegata ad un balbettio
violento e minore che conduce all'impersonale, al fluido.
La lingua minore dunque, come luogo in cui chiamare a raccolta
tutti coloro che, scrittori, folli, artisti, nomadi, hanno
scelto l'impercettibilità, per uscire gradualmente
dal mondo delle forme e disseminarsi nel reale donandosi
una nuova nascita.
Deleuze insegna che la fuoriuscita dai tragitti della razionalità
non deve coincidere necessariamente con l'irrazionalismo
nichilistico, ma esiste una terza via in grado di organizzare
il reale senza ordinarlo, di lasciare che la vita nelle
sue dinamiche più creative assuma configurazioni
armoniche, frutto di attrazioni intensive, a partire dalla
rinuncia a sé, non attraverso l'ascesi ma in virtù
della forza propulsiva del desiderio creativo, lungo territori
in cui balbettare serva a riconoscersi fratelli.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
M. Hardt, Antonio Negri, Impero,
Rizzoli, Milano 2001.
G. Deleuze, Felix Guattari, L'anti-Edipo, Einaudi, Torino
1975.
G. Deleuze, Critica e clinica, Cortina, Milano 1996.
J. Habermas, Teoria dell'agire comunicativo, vol.I, il Mulino,
Bologna 1997.
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