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LUISELLA PISCIOTTU, "STORIA DELLA FOLLIA E RAGIONEVOLEZZA DEL DELIRIO"

 

L. Pisciottu, Storia della follia e ragionevolezza del delirio, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno I, n.3 2002-2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_3/art_9.htm

 

Delirio, follia, pazzia, insensatezza, alienazione, psicosi, malattia mentale.
Tanti termini che servono ad indicare per il senso comune un'unica condizione in cui lo stato della ragione non sembra avere alcuna autorità; il regno dell'irrazionalità, dell'assurdo, dell'oscillazione pericolosa.
E' il presunto altro dalla ragione, altro della ragione, da essa costituito, come altro, nel tentativo di respingere al di là di se stessa ciò che può comprometterne l'apodissi, la chiarezza, l'evidenza assoluta che possiede di se stessa.
Divisione netta, invalicabile; opposizione intollerante a qualsiasi comunicabilità : come può, infatti, sussistere una, seppur lieve, implicazione tra il regno della parola intrisa di senso e il regno del silenzio, del mormorio incomprensibile?
E' questo un punto prospettico che intende sbarazzarsi, con una riduttiva definizione, dell'insostenibile complessità della follia; ma è anche l'epilogo riflesso di una storia da cui la Ragione ne è uscita trionfante, conservando il suo primato fino a quando non è emerso che all'interno dei suoi stessi domini una congiura veniva organizzata a suo danno per opera dell'inconscio. Freud e la psicoanalisi, infatti, compiono l'ultimo grande atto di "mortificazione" dell'orgoglio della ragione: la rivoluzione copernicana ha strappato all'uomo la posizione centrale del suo mondo nell'universo, l'evoluzionismo di Darwin ha determinato la perdita del privilegio dell'uomo nel mondo della creazione; dopo tali stravolgimenti, all'uomo restava soltanto la certezza del valore della ragione, ma la psicoanalisi lo ha privato anche di quest'ulti mo avamposto rilevando che "l'io non è padrone in casa propria" [1].
Cercheremo ora di ripercorrere molto sommariamente alcune delle tappe fondamentali della storia della follia, dietro la quale si cela in verità la storia della ragione nella sua irriducibile volontà di erigersi al di sopra di tutto.

Calandoci nella mistica atmosfera medioevale scopriamo una follia investita dalla presenza di trascendenze immaginarie, ancora legata all'antica antitesi Bene/Male, come incarnazione ed, intrinsecamente, rivelazione massima della tragicità umana.
Sebbene si prepari già la via dell'esclusione, il folle viene collocato ai margini della comunità ma non al di fuori di essa; il suo luogo è quello del Passaggio, della soglia; rinchiuso alle porte della città, all'interno dell'esterno, o imbarcato sulla Nave dei folli poiché "egli è prigioniero in mezzo alla più libera, alla più aperta delle strade: solidamente incatenato all'infinito crocevia. E' il Passeggero per eccellenza, cioè il prigioniero del Passaggio. E non si conosce il paese al quale approderà, come, quando mette piede a terra, non si sa da quale paese venga. Egli non ha né verità né patria se non in questa distesa infeconda fra due terre che non possono appartenergli" [2].
La sua messa al bando non impedisce che egli abbia un ruolo sociale e simbolico, ampiamente documentato dall'arte e, in generale, dalla cultura dell'epoca, esercitando un forte potere di seduzione anche sulla filosofia e sulla religione di quel periodo.
Tuttavia il Medioevo non guarda in faccia l'uomo folle ma costruisce piuttosto il personaggio del folle come effigie dell'insensatezza e della dissolutezza umana, e approfitta di questa figura per riversarvi tutta l'inquietudine che caratterizza l'uomo medioevale.
Ma, paradossalmente, questo personaggio è anche detentore di un sapere oscuro e impenetrabile, può accedere alla visione di realtà trascendenti intrise di segreti misteriosi la cui conoscenza è preclusa all'uomo comune [3].
Agli albori della Renaissance l'esperienza tragica e cosmica della follia viene ad intrecciarsi con la coscienza critica che la tradizione umanistica ha della stessa, per cadere poi nell'oblio necessario alla politica imperialistica della Ragione. Traccia della complementarità di ragione e follia è ancora il riconoscimento, compiuto a partire da Erasmo, di due generi di follia: la "folle follia" di chi misconosce la follia tipica della ragione e così facendo la amplifica in quanto cede alla più ottusa delle follie, e la "saggia follia" di chi, al contrario, apre la propria ragione alla follia, tendendo, forse, in questo modo solo una trappola al fine di difendersene.
Ma la follia rompe progressivamente il suo legame con le forme sotterranee della verità e del mondo, per stabilirne uno più comprensibile con l'uomo e con la verità che egli intravede di se stesso. La follia viene così sottratta abilmente ai pericolosi fumi del mistero e accolta nell'universo del discorso e della morale.
Per comprendere a pieno l'esperienza che della follia si è fatta a partire dal XVII secolo fino ad oggi, quando il pensiero razionale ha ridotto la follia a malattia mentale, è importante ricordare come sia stato decisivo, ai fini dello sviluppo di una ragione analitica e scientifica, l'occultamento dell'esperienza tragica della follia che tuttavia, forse, non si è realizzato in maniera completa.
E se, come abbiamo visto, nel XVI secolo i limiti della barricata erano in via di edificazione ma non si escludeva ancora la possibilità di una "Ragione sragionevole e di una ragionevole Sragione" [4], sarà con il secolo successivo e con il contributo determinante della filosofia di Cartesio [5] che il regime assoluto della Ragione si imporrà in tutto il suo splendore, e in tutto il suo terrore, perdendo il suo forza, ma solo in parte, agli inizi del XIX.
Come verrà allora esorcizzato il potere della follia? Riconoscendolo come un male insidioso che può riguardare l'uomo, ma che tuttavia non può intaccare in nessun modo il pensiero il quale nella ricerca del vero non può essere insensato [6].
Il folle non avrà più intorno a sé quell'alone di suggestione che il Medioevo gli riconosceva e che gli consentiva di rimanere all'interno della comunità, ma verrà arruolato in quella folta schiera di personaggi, che ai nostri occhi non hanno alcuna parentela con il folle, ma che costituiscono il mondo variegato ma uniforme della Sragione [7], minaccia intollerabile per la società nascente: una società razionale, razionalizzata, borghese, che aspira all'integrità morale e che pone il lavoro all'apice dei suoi valori, sulla cui evoluzione ha inciso in modo determinante la Riforma protestante e la Controriforma cattolica.
E' così che lo ritroviamo internato, in compagnia di un'ampia varietà di sciagurati (poveri, libertini, dissoluti, criminali, maghi, bestemmiatori, sifilitici, omosessuali ecc.) , in speciali strutture, in luogo degli ormai liberi lebbrosari, che si diffonderanno in maniera massiccia in tutta Europa a partire dal XVII secolo. Si tratta non di istituzioni mediche, ma di entità semi-giuridiche amministrate da particolari direttori nominati a vita dal re il quale conferiva loro ogni potere di autorità, di giudizio senza appello, di correzione, di punizione sui forzati ospiti.
Queste istituzioni, quindi, non miravano specificatamente al folle, ma al contrario lo inserivano, disperdendone i tratti distintivi, nell'orizzonte generale dell'internamento, e, tuttavia, al di là dei suoi aspetti negativi, sarà proprio tale inclusione a consentire alla follia, privata della sua singolarità, di entrare nel campo della cura medica.
E' incontestabile, pertanto, che lo scopo primo della reclusione del folle fosse non la cura medica ma la punizione etica: la follia è offesa alla morale in quanto complice del male.
Ma la follia veniva interpretata anche come esaltazione della natura animale dell'uomo contro quei valori che lo costituiscono da sempre in quanto uomo conferendogli dignità.
Ed è con l'internamento che nasce l'alienazione, in quanto è attraverso questa vasta operazione che "qualcosa di umano è stato messo fuori della portata dell'uomo, e retrocesso indefinitamente dal nostro orizzonte" [8].
Secondo Foucault, la psichiatria positiva del XIX secolo ed anche la nostra conservano, involontariamente, questo retaggio [9].
In epoca classica, quindi, la follia andava ancora ad arricchire il vasto quadro della sragione, ma nella seconda metà del XVIII secolo essa si libera da questa appartenenza conquistando la sua autonomia rispetto alla società del tempo.
Le conquiste però avolte comportano degli aspetti non proprio positivi, perché se è vero che la follia và acquisendo un più esatto riconoscimento degli aspetti che la caratterizzano, ciò accade al prezzo di un permanente allontanamento del folle dalla realtà quotidiana: "così, mentre tutte le altre figure imprigionate tendono a sfuggire all'internamento, la sola follia vi resta…" [10].
Questo essenziale mutamento di prospettiva è il primo passo di quel grande movimento di riforma che vedrà cento anni dopo la nascita del primo manicomio e che ha avuto come protagonisti Tuke e Pinel.

Questo breve viaggio nella storia della follia ci ha consentito di capire come tale realtà sia riuscita a ritagliarsi uno spazio appropriato di considerazione e sia stata alla fine riconosciuta la sua vera natura di malattia mentale. Ma da questa analisi è emerso anche che tutto ciò è stato possibile grazie ad un crescente rafforzamento dell'alternativa follia-ragione, delirio-logica.
Che cosa significa, infatti, propriamente il termine delirio? Indica alla lettera l'atto del de-lirare, ossia l'uscire fuori dalla lira, dal seminato. Il seminato in questione è quello della ragione; al di fuori di esso solo sterilità.
Delirare significa, quindi, eccedere i fertili terreni della ragione, collocandosi in tal modo nello spazio incolto dell'irrazionale. Il delirio si configurerebbe in tal modo come assenza totale di ragione.
Ma se il deliro è davvero l'opposto assoluto della ragione, che cosa intende Remo Bodei quando parla di Logiche del delirio [11]? Significa forse che la ragione esercita un potere anche su questi lidi che si sono sempre riconosciuti per il loro essere per l'appunto al di là della ragione?
Non si tratta di un semplice paradosso, di un'affermazione contraddittoria; Bodei, infatti, non fa altro che riprendere il termine leghein nella sua accezione più propria, riferendosi cioè all'atto del raccogliere, dell'ordinare.
Anche nel delirio verrebbero riscontrate così specifiche modalità di organizzazione del materiale psichico, modalità che però rispondono a regole diverse da quelle normalmente assodate.
Se quindi nel delirio c'è una ragione non è quella universalmente condivisa.
Per poter formulare un'ipotesi di questo tipo bisogna tuttavia abbandonare la cecità di una razionalità autoreferenziale ed abbracciare una posizione più aperta che sia in grado di riconoscere che anche i deliri, nonostante la loro apparente natura caotica, contengano dei veri e propri nuclei di verità. E' opportuno precisare, tuttavia, che Bodei ha concentrato la sua opera sull'analisi del delirio schizofrenico lucido in fase acuta, tralasciando il delirio schizofrenico confuso o cronico e l'esperienza psicotica di tipo maniacale e depressivo, nonché le psicosi prodotte da lesioni organiche, droghe, alcol ecc.
La sua teoria è basata su uno dei principi fondamentali della psicopatologia fenomenologica, secondo il quale l'uomo sarebbe sempre, sia nella salute sia nella malattia, tendente alla progettazione di un mondo, sempre donatore di senso.
Ricorrendo ad un'immagine ad effetto, Bodei afferma infatti che "il delirante non è "un'orchestra senza direttore", (…), ma un direttore che cerca di far funzionare la sua- per noi cacofonica- orchestra secondo nuovi, improvvisati programmi" [12].
Ma che cosa determina lo stato psicotico delirante? All'origine di tutto vi è una mancata traduzione di se stessi nel presente che causa la persistenza latente nella coscienza di elementi che, non essendo stati rielaborati, potrebbero improvvisamente disturbare il regolare funzionamento del pensiero.
Il conflitto tra logiche differenti provoca nell'individuo uno scompiglio tale da indurre inconsapevolmente il soggetto ad elaborare una nuova logica che gli consenta di fondare ciò che per la logica comune è assolutamente infondabile, al fine di sottrarsi ad un disperante caos.
Il delirio perciò non si presenta più come una condizione passiva in cui il soggetto sarebbe vittima di un meccanismo che lo trascende, ma al contrario si configura come un movimento nel quale l'uomo si trova più che mai impegnato nella ricerca attiva di una nuova patria che lo salvi da un errare destabilizzante.
Il delirante abbandonando i percorsi abituali della logica e sottoponendo ogni tassello della sua esperienza ad una rinnovata interpretazione, non si sottrae all'ovvietà tipica del soggetto sano che si affida acriticamente agli schemi acquisiti ed intersoggettivamente riconosciuti?
Il delirio non è il regno delle tenebre, del vuoto, dell'intorpidimento mentale, ma sembra invece caratterizzato da un'attenzione maggiore che gli consente di mettere in discussione anche ciò che solitamente viene presupposto da tutti. Forse l'uomo ritenuto sano di mente non fa altro che affidarsi ciecamente alla falsa sicurezza dell'ovvietà che, se interrogata attentamente, risulta più incomprensibile dello stesso delirio.
Per concludere si potrebbe affermare che la follia è senza dubbio diversità, ma è anche, come suggerisce Pier Aldo Rovatti, "paura della diversità" [13]che abita ciascuno di noi, o forse possiamo meglio dire paura di ciò che c'è di incomprensibile nella vita dell'uomo.


[1] S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, trad. It. di M. Tonin Dogana e E. Sagittario, Boringhieri, Torino 1978,
p. 258/259.
[2] M. Foucault, Storia della follia nell'età classica, trad. It. di F. Ferrucci, Rizzoli, Milano, IV edizione: 2001, p. 19.
[3] "Il folle, nella sua innocente grullaggine, possiede questo sapere così inaccessibile e così temibile.Mentre l'uomo di ragione non ne percepisce che degli aspetti frammentari, e perciò tanto più inquietanti, il folle lo porta tutto intero in una sfera intatta: questa palla di cristallo che per tutti è vuota, è piena ai suoi occhi di un sapere invisibile", M. Foucault, Storia della follia nell'età classica, op. cit. p. 27.
[4] Ivi, p.53.
[5] A questo proposito risulta interessante la critica che J. Derrida, nel saggio dal titolo Cogito e storia della follia , ora inserito in La scrittura e la differenza (Einaudi, Torino 2002, p. 39/79) rivolge a Foucault riguardo alla sua interpretazione del dubbio cartesiano.
[6] R. Descartes, Meditazioni metafisiche, trad. It. di A. Tilgher, in Opere, Laterza, Bari 1967, vol. I.
[7] "Si può riassumere queste esperienze dicendo che si riferiscono tutte o alla sessualità nei suoi rapporti con l'organizzazione della famiglia borghese, o alla profanazione nei suoi rapporti con la nuova concezione del sacro e dei riti religiosi, o al "libertinaggio", cioè ai nuovi rapporti che si stanno instaurando tra il libero pensiero e il sistema delle passioni. Nello spazio dell'internamento questi tre campi di esperienza formano con la follia un mondo omogeneo, che è quello in cui l'alienazione mentale assumerà il significato che noi le conosciamo", M. Foucault, Storia della follia nell'età classica, op. cit. p.87.
[8] Ivi, p. 85.
[9] "… hanno creduto di parlare della sola follia nella sua oggettività patologica; loro malgrado avevano a che fare con una follia ancor tutta abitata dall'etica della sragione e dello scandalo dell'animalità", M. Foucault, Storia della follia nell'età classica, op. cit. p. 163.
[10] Ivi, p. 352.
[11] Si tratta del titolo di un'opera del suddetto autore, pubblicata nel 2000 presso la casa editrice Laterza, Roma-Bari.
[12] R. Bodei, Logiche del delirio, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 23.
[13] P. Aldo Rovatti, La follia ,in poche parole, Bompiani, Milano 2000.