Delirio, follia, pazzia, insensatezza,
alienazione, psicosi, malattia mentale.
Tanti termini che servono ad indicare per il senso comune
un'unica condizione in cui lo stato della ragione non sembra
avere alcuna autorità; il regno dell'irrazionalità,
dell'assurdo, dell'oscillazione pericolosa.
E' il presunto altro dalla ragione, altro della ragione,
da essa costituito, come altro, nel tentativo di respingere
al di là di se stessa ciò che può comprometterne
l'apodissi, la chiarezza, l'evidenza assoluta che possiede
di se stessa.
Divisione netta, invalicabile; opposizione intollerante
a qualsiasi comunicabilità : come può, infatti,
sussistere una, seppur lieve, implicazione tra il regno
della parola intrisa di senso e il regno del silenzio, del
mormorio incomprensibile?
E' questo un punto prospettico che intende sbarazzarsi,
con una riduttiva definizione, dell'insostenibile complessità
della follia; ma è anche l'epilogo riflesso di una
storia da cui la Ragione ne è uscita trionfante,
conservando il suo primato fino a quando non è emerso
che all'interno dei suoi stessi domini una congiura veniva
organizzata a suo danno per opera dell'inconscio. Freud
e la psicoanalisi, infatti, compiono l'ultimo grande atto
di "mortificazione" dell'orgoglio della ragione:
la rivoluzione copernicana ha strappato all'uomo la posizione
centrale del suo mondo nell'universo, l'evoluzionismo di
Darwin ha determinato la perdita del privilegio dell'uomo
nel mondo della creazione; dopo tali stravolgimenti, all'uomo
restava soltanto la certezza del valore della ragione, ma
la psicoanalisi lo ha privato anche di quest'ulti mo avamposto
rilevando che "l'io non è padrone in casa
propria" [1].
Cercheremo ora di ripercorrere molto sommariamente alcune
delle tappe fondamentali della storia della follia, dietro
la quale si cela in verità la storia della ragione
nella sua irriducibile volontà di erigersi al di
sopra di tutto.
Calandoci nella mistica atmosfera medioevale scopriamo una
follia investita dalla presenza di trascendenze immaginarie,
ancora legata all'antica antitesi Bene/Male, come incarnazione
ed, intrinsecamente, rivelazione massima della tragicità
umana.
Sebbene si prepari già la via dell'esclusione, il
folle viene collocato ai margini della comunità ma
non al di fuori di essa; il suo luogo è quello del
Passaggio, della soglia; rinchiuso alle porte della città,
all'interno dell'esterno, o imbarcato sulla Nave dei
folli poiché "egli è prigioniero
in mezzo alla più libera, alla più aperta
delle strade: solidamente incatenato all'infinito crocevia.
E' il Passeggero per eccellenza, cioè il prigioniero
del Passaggio. E non si conosce il paese al quale approderà,
come, quando mette piede a terra, non si sa da quale paese
venga. Egli non ha né verità né patria
se non in questa distesa infeconda fra due terre che non
possono appartenergli" [2].
La sua messa al bando non impedisce che egli abbia un ruolo
sociale e simbolico, ampiamente documentato dall'arte e,
in generale, dalla cultura dell'epoca, esercitando un forte
potere di seduzione anche sulla filosofia e sulla religione
di quel periodo.
Tuttavia il Medioevo non guarda in faccia l'uomo folle ma
costruisce piuttosto il personaggio del folle come effigie
dell'insensatezza e della dissolutezza umana, e approfitta
di questa figura per riversarvi tutta l'inquietudine che
caratterizza l'uomo medioevale.
Ma, paradossalmente, questo personaggio è anche detentore
di un sapere oscuro e impenetrabile, può accedere
alla visione di realtà trascendenti intrise di segreti
misteriosi la cui conoscenza è preclusa all'uomo
comune [3].
Agli albori della Renaissance l'esperienza tragica
e cosmica della follia viene ad intrecciarsi con la coscienza
critica che la tradizione umanistica ha della stessa, per
cadere poi nell'oblio necessario alla politica imperialistica
della Ragione. Traccia della complementarità di ragione
e follia è ancora il riconoscimento, compiuto a partire
da Erasmo, di due generi di follia: la "folle follia"
di chi misconosce la follia tipica della ragione e così
facendo la amplifica in quanto cede alla più ottusa
delle follie, e la "saggia follia" di chi, al
contrario, apre la propria ragione alla follia, tendendo,
forse, in questo modo solo una trappola al fine di difendersene.
Ma la follia rompe progressivamente il suo legame con le
forme sotterranee della verità e del mondo, per stabilirne
uno più comprensibile con l'uomo e con la verità
che egli intravede di se stesso. La follia viene così
sottratta abilmente ai pericolosi fumi del mistero e accolta
nell'universo del discorso e della morale.
Per comprendere a pieno l'esperienza che della follia si
è fatta a partire dal XVII secolo fino ad oggi, quando
il pensiero razionale ha ridotto la follia a malattia mentale,
è importante ricordare come sia stato decisivo, ai
fini dello sviluppo di una ragione analitica e scientifica,
l'occultamento dell'esperienza tragica della follia che
tuttavia, forse, non si è realizzato in maniera completa.
E se, come abbiamo visto, nel XVI secolo i limiti della
barricata erano in via di edificazione ma non si escludeva
ancora la possibilità di una "Ragione sragionevole
e di una ragionevole Sragione" [4],
sarà con il secolo successivo e con il contributo
determinante della filosofia di Cartesio [5]
che il regime assoluto della Ragione si imporrà in
tutto il suo splendore, e in tutto il suo terrore, perdendo
il suo forza, ma solo in parte, agli inizi del XIX.
Come verrà allora esorcizzato il potere della follia?
Riconoscendolo come un male insidioso che può riguardare
l'uomo, ma che tuttavia non può intaccare in nessun
modo il pensiero il quale nella ricerca del vero non può
essere insensato [6].
Il folle non avrà più intorno a sé
quell'alone di suggestione che il Medioevo gli riconosceva
e che gli consentiva di rimanere all'interno della comunità,
ma verrà arruolato in quella folta schiera di personaggi,
che ai nostri occhi non hanno alcuna parentela con il folle,
ma che costituiscono il mondo variegato ma uniforme della
Sragione [7],
minaccia intollerabile per la società nascente: una
società razionale, razionalizzata, borghese, che
aspira all'integrità morale e che pone il lavoro
all'apice dei suoi valori, sulla cui evoluzione ha inciso
in modo determinante la Riforma protestante e la Controriforma
cattolica.
E' così che lo ritroviamo internato, in compagnia
di un'ampia varietà di sciagurati (poveri, libertini,
dissoluti, criminali, maghi, bestemmiatori, sifilitici,
omosessuali ecc.) , in speciali strutture, in luogo degli
ormai liberi lebbrosari, che si diffonderanno in maniera
massiccia in tutta Europa a partire dal XVII secolo. Si
tratta non di istituzioni mediche, ma di entità semi-giuridiche
amministrate da particolari direttori nominati a vita dal
re il quale conferiva loro ogni potere di autorità,
di giudizio senza appello, di correzione, di punizione sui
forzati ospiti.
Queste istituzioni, quindi, non miravano specificatamente
al folle, ma al contrario lo inserivano, disperdendone i
tratti distintivi, nell'orizzonte generale dell'internamento,
e, tuttavia, al di là dei suoi aspetti negativi,
sarà proprio tale inclusione a consentire alla follia,
privata della sua singolarità, di entrare nel campo
della cura medica.
E' incontestabile, pertanto, che lo scopo primo della reclusione
del folle fosse non la cura medica ma la punizione etica:
la follia è offesa alla morale in quanto complice
del male.
Ma la follia veniva interpretata anche come esaltazione
della natura animale dell'uomo contro quei valori che lo
costituiscono da sempre in quanto uomo conferendogli dignità.
Ed è con l'internamento che nasce l'alienazione,
in quanto è attraverso questa vasta operazione che
"qualcosa di umano è stato messo fuori della
portata dell'uomo, e retrocesso indefinitamente dal nostro
orizzonte" [8].
Secondo Foucault, la psichiatria positiva del XIX secolo
ed anche la nostra conservano, involontariamente, questo
retaggio [9].
In epoca classica, quindi, la follia andava ancora ad arricchire
il vasto quadro della sragione, ma nella seconda metà
del XVIII secolo essa si libera da questa appartenenza conquistando
la sua autonomia rispetto alla società del tempo.
Le conquiste però avolte comportano degli aspetti
non proprio positivi, perché se è vero che
la follia và acquisendo un più esatto riconoscimento
degli aspetti che la caratterizzano, ciò accade al
prezzo di un permanente allontanamento del folle dalla realtà
quotidiana: "così, mentre tutte le altre figure
imprigionate tendono a sfuggire all'internamento, la sola
follia vi resta
" [10].
Questo essenziale mutamento di prospettiva è il primo
passo di quel grande movimento di riforma che vedrà
cento anni dopo la nascita del primo manicomio e che ha
avuto come protagonisti Tuke e Pinel.
Questo breve viaggio nella storia
della follia ci ha consentito di capire come tale realtà
sia riuscita a ritagliarsi uno spazio appropriato di considerazione
e sia stata alla fine riconosciuta la sua vera natura di
malattia mentale. Ma da questa analisi è emerso anche
che tutto ciò è stato possibile grazie ad
un crescente rafforzamento dell'alternativa follia-ragione,
delirio-logica.
Che cosa significa, infatti, propriamente il termine delirio?
Indica alla lettera l'atto del de-lirare, ossia l'uscire
fuori dalla lira, dal seminato. Il seminato in questione
è quello della ragione; al di fuori di esso solo
sterilità.
Delirare significa, quindi, eccedere i fertili terreni della
ragione, collocandosi in tal modo nello spazio incolto dell'irrazionale.
Il delirio si configurerebbe in tal modo come assenza totale
di ragione.
Ma se il deliro è davvero l'opposto assoluto della
ragione, che cosa intende Remo Bodei quando parla di Logiche
del delirio [11]?
Significa forse che la ragione esercita un potere anche
su questi lidi che si sono sempre riconosciuti per il loro
essere per l'appunto al di là della ragione?
Non si tratta di un semplice paradosso, di un'affermazione
contraddittoria; Bodei, infatti, non fa altro che riprendere
il termine leghein nella sua accezione più propria,
riferendosi cioè all'atto del raccogliere, dell'ordinare.
Anche nel delirio verrebbero riscontrate così specifiche
modalità di organizzazione del materiale psichico,
modalità che però rispondono a regole diverse
da quelle normalmente assodate.
Se quindi nel delirio c'è una ragione non è
quella universalmente condivisa.
Per poter formulare un'ipotesi di questo tipo bisogna tuttavia
abbandonare la cecità di una razionalità autoreferenziale
ed abbracciare una posizione più aperta che sia in
grado di riconoscere che anche i deliri, nonostante la loro
apparente natura caotica, contengano dei veri e propri nuclei
di verità. E' opportuno precisare, tuttavia, che
Bodei ha concentrato la sua opera sull'analisi del delirio
schizofrenico lucido in fase acuta, tralasciando il delirio
schizofrenico confuso o cronico e l'esperienza psicotica
di tipo maniacale e depressivo, nonché le psicosi
prodotte da lesioni organiche, droghe, alcol ecc.
La sua teoria è basata su uno dei principi fondamentali
della psicopatologia fenomenologica, secondo il quale l'uomo
sarebbe sempre, sia nella salute sia nella malattia, tendente
alla progettazione di un mondo, sempre donatore di senso.
Ricorrendo ad un'immagine ad effetto, Bodei afferma infatti
che "il delirante non è "un'orchestra senza
direttore", (
), ma un direttore che cerca di
far funzionare la sua- per noi cacofonica- orchestra secondo
nuovi, improvvisati programmi" [12].
Ma che cosa determina lo stato psicotico delirante? All'origine
di tutto vi è una mancata traduzione di se stessi
nel presente che causa la persistenza latente nella coscienza
di elementi che, non essendo stati rielaborati, potrebbero
improvvisamente disturbare il regolare funzionamento del
pensiero.
Il conflitto tra logiche differenti provoca nell'individuo
uno scompiglio tale da indurre inconsapevolmente il soggetto
ad elaborare una nuova logica che gli consenta di fondare
ciò che per la logica comune è assolutamente
infondabile, al fine di sottrarsi ad un disperante caos.
Il delirio perciò non si presenta più come
una condizione passiva in cui il soggetto sarebbe vittima
di un meccanismo che lo trascende, ma al contrario si configura
come un movimento nel quale l'uomo si trova più che
mai impegnato nella ricerca attiva di una nuova patria che
lo salvi da un errare destabilizzante.
Il delirante abbandonando i percorsi abituali della logica
e sottoponendo ogni tassello della sua esperienza ad una
rinnovata interpretazione, non si sottrae all'ovvietà
tipica del soggetto sano che si affida acriticamente agli
schemi acquisiti ed intersoggettivamente riconosciuti?
Il delirio non è il regno delle tenebre, del vuoto,
dell'intorpidimento mentale, ma sembra invece caratterizzato
da un'attenzione maggiore che gli consente di mettere in
discussione anche ciò che solitamente viene presupposto
da tutti. Forse l'uomo ritenuto sano di mente non fa altro
che affidarsi ciecamente alla falsa sicurezza dell'ovvietà
che, se interrogata attentamente, risulta più incomprensibile
dello stesso delirio.
Per concludere si potrebbe affermare che la follia è
senza dubbio diversità, ma è anche, come suggerisce
Pier Aldo Rovatti, "paura della diversità"
[13]che
abita ciascuno di noi, o forse possiamo meglio dire paura
di ciò che c'è di incomprensibile nella vita
dell'uomo.
[1]
S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, trad. It. di M.
Tonin Dogana e E. Sagittario, Boringhieri, Torino 1978,
p. 258/259.
[2]
M. Foucault, Storia della follia nell'età classica,
trad. It. di F. Ferrucci, Rizzoli, Milano, IV edizione:
2001, p. 19.
[3]
"Il folle, nella sua innocente grullaggine, possiede
questo sapere così inaccessibile e così temibile.Mentre
l'uomo di ragione non ne percepisce che degli aspetti frammentari,
e perciò tanto più inquietanti, il folle lo
porta tutto intero in una sfera intatta: questa palla di
cristallo che per tutti è vuota, è piena ai
suoi occhi di un sapere invisibile", M. Foucault, Storia
della follia nell'età classica, op. cit. p. 27.
[4]
Ivi, p.53.
[5]
A questo proposito risulta interessante la critica che J.
Derrida, nel saggio dal titolo Cogito e storia della follia
, ora inserito in La scrittura e la differenza (Einaudi,
Torino 2002, p. 39/79) rivolge a Foucault riguardo alla
sua interpretazione del dubbio cartesiano.
[6]
R. Descartes, Meditazioni metafisiche, trad. It. di A. Tilgher,
in Opere, Laterza, Bari 1967, vol. I.
[7]
"Si può riassumere queste esperienze dicendo
che si riferiscono tutte o alla sessualità nei suoi
rapporti con l'organizzazione della famiglia borghese, o
alla profanazione nei suoi rapporti con la nuova concezione
del sacro e dei riti religiosi, o al "libertinaggio",
cioè ai nuovi rapporti che si stanno instaurando
tra il libero pensiero e il sistema delle passioni. Nello
spazio dell'internamento questi tre campi di esperienza
formano con la follia un mondo omogeneo, che è quello
in cui l'alienazione mentale assumerà il significato
che noi le conosciamo", M. Foucault, Storia della follia
nell'età classica, op. cit. p.87.
[8]
Ivi, p. 85.
[9]
"
hanno creduto di parlare della sola follia
nella sua oggettività patologica; loro malgrado avevano
a che fare con una follia ancor tutta abitata dall'etica
della sragione e dello scandalo dell'animalità",
M. Foucault, Storia della follia nell'età classica,
op. cit. p. 163.
[10]
Ivi, p. 352.
[11]
Si tratta del titolo di un'opera del suddetto autore, pubblicata
nel 2000 presso la casa editrice Laterza, Roma-Bari.
[12]
R. Bodei, Logiche del delirio, Laterza, Roma-Bari 2000,
p. 23.
[13]
P. Aldo Rovatti, La follia ,in poche parole, Bompiani, Milano
2000.
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