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Andrea Oppo
«Qualcosa era successo ... ». Per una lettura filosofica del giornalismo di Buzzati

 

A. Oppo, «Qualcosa era successo ... ». Per una lettura filosofica del giornalismo di Buzzati, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno IV, N.1 Marzo -Giugno 2005/2006 URL:
http://www.giornalediconfine.net/n_4/11.htm

"L'unico che riuscì a raccontare delle battaglie navali fu Buzzati. Ma perché? Perché Buzzati sfuggiva alla censura in quanto dai suoi racconti il povero censore - e in genere il censore era un cretino, perché solo un cretino si può mettere a fare il censore - non riusciva a capire in quale secolo, in quale mare si era svolta la battaglia che Buzzati raccontava. Buzzati infatti ne faceva una favola…"
INDRO MONTANELLI
Le cinque "W" inglesi sono i cinque fondamentali interrogativi della cronaca giornalistica (chi?/dove?/quando?/che cosa?/perché?): espediente, sprone, definiamolo come vogliamo, a richiamare tutta l'attenzione del cronista sulla realtà dei fatti e solo su quella - evitando pericolose, e inopportune, escursioni nella fantasia. Fantasia e realtà sono due livelli distinti: della letteratura in genere è dominio la prima; al giornalismo, alla cronaca in particolare, appartiene la seconda.
A queste riflessioni, che potranno apparire scontate, aggiungiamo che l'incipit giornalistico classico, così come viene insegnato, nelle redazioni prima ancora che nelle scuole di giornalismo, dovrebbe contenere almeno i primi quattro dei cinque interrogativi: in modo che chi legge un fatto di cronaca abbia da subito gli elementi essenziali per capire di chi e di che cosa si sta parlando. Questo è l'ABC del giornalismo.
Sono stati pubblicati nel 2000, in un unico volume [1], gli atti del congresso internazionale, tenutosi a Feltre e Belluno nel 1995 [2], dedicato all'attività giornalistica di uno dei più grandi narratori italiani contemporanei: Dino Buzzati.
Ma Buzzati, a voler essere pignoli, e se si fa riferimento all'ipotesi classica di giornalismo sopra esposta, in quel senso è stato un cattivo maestro. Non solo perché i suoi articoli somigliavano più a delle favole che a dei resoconti; o perché nell'incipit non c'era quasi mai nulla che richiamasse il fatto (e spesso erano i suoi colleghi a dover rimediare ed apporre date, nomi e avvenimenti di cui si stava parlando); o ancora, perché la fantasia era sempre e comunque l'elemento portante di tutto; ma soprattutto perché questo stile non era applicato soltanto agli elzeviri o ad articoli di costume. Buzzati scriveva anche la cronaca nera come fosse una "favola"; e spesso si trattava di eventi che lo toccavano personalmente, come la tragedia del Vajont, cronache di guerra, quando la voce del giornalista era, a volte, l'unica che potesse raccontare fatti essenziali per la vita di tutti. Era precisamente "lo stile di una vita", come Montanelli lo definì intitolando il proprio articolo per la scomparsa di Buzzati [3]. Qualcosa di più che una stravaganza: qualcosa in cui egli, con straordinaria coerenza, in tutta la sua vita e la sua opera, non venne mai meno.
Posta così la questione, abbiamo due strade davanti a noi - non necessariamente in contraddizione tra loro:
1) Considerare Buzzati un'eccezione alla regola. In tal senso non sarebbe necessario alcuno studio.
2) Immaginare che le cose stiano diversamente. Prendere in esame la possibilità che l'equazione "cronaca uguale realtà" non sia assoluta e che, forse, giornalismo e narrativa, letteratura e realtà abbiano molti più aspetti in comune di quanto si creda.

1) Cronache della meraviglia
La discussione degli atti del convegno di Feltre e Belluno ha fatto rilevare come non vi siano differenze significative di stile tra il Buzzati giornalista e il narratore. In entrambi i casi vi è un'abbondanza di figure retoriche e di effetti stilistici volti a stupire: ironie, paradossi, inversioni semantiche ed "effetti sorpresa" di ogni genere. Curiosamente, capita spesso che Buzzati inverta le parti e adoperi uno stile giornalistico per la narrativa e, viceversa, un tono narrativo per la cronaca. Ma anche questo, in fondo, è un effetto stilistico per spiazzare il lettore.
Perché - ci si potrebbe domandare - questa continua volontà di deformare la realtà? Perché non riferirla semplicemente per ciò che è? E, ancora, perché uno come Buzzati è potuto sopravvivere e continuare a essere esattamente ciò che era nella redazione del quotidiano più diffuso e, per molti versi, più "ortodosso" che esistesse in Italia?
La risposta all'ultima domanda, banalmente, è che Buzzati cronista del Corriere della Sera è esistito perché c'erano dei direttori che gli permettevano di esistere. Da Borelli a Missiroli, egli trovò sempre figure che difesero (contro le proteste, talvolta feroci, dei capiredattori di turno) il suo modo di fare cronaca. Fu così che dagli inizi nelle questure, come reporter, arrivò a seguire alcuni tra i più famosi casi di cronaca nera dell'Italia dell'anteguerra, fino a diventare inviato in Marina, durante la Seconda Guerra Mondiale, assistere alla tragedia del convoglio Duisburg, colato a picco, e scampare miracolosamente alla trappola di Matapan. Raccontando tutto questo alla sua maniera, con pagine ancora oggi memorabili.
Una risposta alle precedenti questioni può venire invece dall'idea che, a detta di Maria Luisa Altieri Biagi, il modo stesso di scrivere di Buzzati suggerisce: ossia che "i fatti significano a volte esattamente il contrario della loro più ovvia spiegazione" [4]. Detto in altre parole: per molti eventi, per molti casi di cronaca, il semplice resoconto puntuale dei fatti non solo non dice quasi nulla di questi, ma può addirittura travisarli. Viene da credere, da un lato, che quando la realtà è complicata di per sé, occorre un interprete più che un semplice cronista. Lo sapevano bene i direttori che scelsero Buzzati per seguire il celebre caso di Rina Fort, la donna che nel 1946, a Milano, uccise la moglie e i tre figlioletti del suo amante, suscitando grande impressione in una vicenda che l'opinione pubblica non sapeva come inquadrare. Per non parlare della tragedia di Albenga nel 1947 (43 bambini affogati in mare durante una gita con le maestre), per la quale il direttore del Corriere Emanuel volle assolutamente Buzzati. Fino alle indimenticabili cronache dello sbarco sulla Luna.
Ma un'ultima ragione della scelta di Buzzati di fare una cronaca al confine con la fantasia viene dall'analisi della "Domenica del Corriere": unico esperimento giornalistico, ricorda Alberto Cavallari, che si possa definire completamente "buzzatiano".
Buzzati diresse, di fatto, il settimanale illustrato del quotidiano di via Solferino dal 1950 al 1963, risollevandolo da una crisi di vendite e portandolo alla sua massima tiratura nell'agosto del 1962, con un milione e 280 mila copie. Nella "Domenica del Corriere" i fatti popolari, le cronache di ogni giorno erano raccontate con un gusto tutto particolare, fatto di curiosità, meraviglia, con un misto di surreale, gotico e fantastico, che poi ritornava improvvisamente all'attualità. La scelta di Buzzati corrispondeva dunque a un gusto preciso: un modo di fare cronaca, cronaca popolare, per raccontare cose che altrimenti non si sarebbero potute dire. Una cronaca dove il senso del narrare rientra a pieno diritto in quella che tutti chiamiamo realtà.

2) Il "mondo vero" e la favola
Filosofia e giornalismo non sono due campi confinanti, non lo sono mai stati a dire il vero. Ma quando si considerano i due punti estremi di cose che appaiono lontane fra di loro può anche capitare che almeno questi siano più vicini di quanto si creda.
Buzzati e Nietzsche. Potrà sembrare quantomeno improbabile un accostamento di questo tipo, ma il richiamo della dicotomia realtà-finzione e, più in generale, il richiamo di certe antitesi comuni ai due (mondo vero/favola, verità/menzogna, terra/cielo…) era troppo forte per potervi resistere.
Del resto, si sarà già capito, qui è tutta una questione di inversione di ruoli. Il Buzzati giocoso da tutti conosciuto, quello in cui la parola sembra trovare da sé, al suo interno, relazioni, situazioni surreali o comiche, è in realtà uno scrittore tragico, come bene dimostra lo splendido articolo, molto noto, "Meraviglioso mestiere" [5]; e come si "respira", forse, in tutta la sua prosa. Nietzsche, al contrario, dalla tragedia passa, per vie naturali, alla commedia, all'esaltazione del dionisiaco; giunge alla consapevolezza, cioè, che tutto ormai è gioco, che - per dirla con lui - "il mondo è diventato favola" [6], e dunque la realtà non si dà se non attraverso la finzione.
È questo il penultimo passaggio del suo pensiero, almeno secondo la celebre interpretazione di Heidegger [7], passaggio che conduce a una radicale estetizzazione della realtà e del linguaggio, e in definitiva al ribaltamento della tragedia in favola. Per dirla più chiaramente: la tragedia muore per necessità interna; uscire dal tragico, per Nietzsche, non vuol dire altro che averlo guardato in faccia fin troppo bene. Non si tratta né di un alleggerimento né di una fuga: la realtà, quando è veramente reale, è anche emancipata dal logos come linguaggio che fonda e giustifica, e restituisce la parola a se stessa. Così Nietzsche, dalla scoperta dell'enigmaticità dell'essere, della sua mancanza di fondamento, deduce anche la natura liberamente inventiva, "poietica", del reale stesso, e arriva infine a far coincidere tragico ed estetico, realtà e favola. L'unica cosa davvero irreale, si potrebbe aggiungere a questo punto, è quella barriera che le tiene separate.
La tappa finale, per Nietzsche, sarà quella di identificare, nelle ultime opere, il tragico con la volontà di potenza e la volontà d'arte. Ma questo è un punto di arrivo soltanto suo.
Il passo precedente è quello condiviso anche da Buzzati. La realtà è fantasia, la fantasia è realtà: non c'è un muro invalicabile fra le due. Gli opposti, che nella visione normale delle cose vanno in cortocircuito, in questi due autori coincidono. Ad andare in cortocircuito, per loro, è soltanto la pretesa linearità delle cose. È quella "visione normale" a far problema, frutto di un muro eretto a bella posta, un muro chiamato logica dell'identità.
Se non si guarda in faccia la realtà, il mondo vero resta… vero, cioè menzognero. Ecco un "cortocircuito" che piacerebbe a entrambi.

3) La narrativa "giornalistica"
Torniamo per un attimo su un punto già sollevato e rilevato dalla Altieri Biagi nel suo articolo L'incipit cronistico nei testi narrativi di Buzzati. Ossia la narrativa scritta come se fosse cronaca.
Su questo stesso argomento si è soffermato Lawrence Venuti in uno studio ormai di alcuni anni fa [8]. Venuti, analizzando soltanto la narrativa dello scrittore, paragona Buzzati a Kafka per la capacità di far apparire il fantastico naturale e realistico. E aggiunge che Buzzati riesce a fare questo attraverso la singolare tecnica di dare un taglio giornalistico (sfruttando le sue competenze e il lavoro che già svolgeva) alle sue storie fantastiche.

Buzzati appears to lead us into strange universes far removed from our own reality, but through his distinctive handling of adaption, his fantasy is really quite familiar [9].

Ed in tal senso, secondo Venuti, egli si inserisce in una linea ideale, iniziata da Massimo Bontempelli (il cui "realismo magico" si opponeva al futurismo di Marinetti "troppo lirico e ultrasoggettivo") e proseguita successivamente da Italo Calvino. Ma rispetto a questi due Buzzati si distingue proprio per una maggiore aderenza alla realtà: per un uso della fantasia non banale. E la non banalità è data proprio dal paradigma giornalistico che molte delle sue storie fantastiche assumono come sfondo.

Like newspaper articles, his stories occasionally begin with a statement of the main character's full name and age as well as the event on which the plot will center, even though it will eventually take a fantastic turn [10].

Fin qui niente di nuovo, si dirà. Tutt'al più un'ulteriore, importante conferma di quanto è emerso a proposito dell'inconsueta frequenza dell'incipit cronistico nei suoi testi narrativi. Ma in realtà, a guardar bene, non si tratta soltanto di uno stile, di una tecnica che serve a rendere la materia narrativa, come dice Venuti, "truly fantastic", e perciò - se possibile - ancora più bizzarra e disorientante.
Come ha rilevato, nella sua relazione al convegno, Delphine Bahuet-Gachet [11], il giornalismo è stato il tema centrale di moltissimi racconti di Buzzati. Giornalismo inteso come "problema del comunicare". Sarebbero stati troppi gli esempi in questione e perciò la Bahuet-Gachet ne ha selezionati alcuni, forse i più significativi [12], che andiamo qui a riportare.
Nel racconto I sette messaggeri il protagonista, un principe, volendo partire per esplorare il regno di suo padre, ha il problema di organizzare una rete di comunicazione fra lui e il mondo che lascia. Pertanto sceglie i sette migliori cavalieri di cui dispone e gli assegna la funzione di messaggeri: dovranno tenerlo informato su ciò che accade nella terra che sta per lasciare. Man mano che il tempo passa e il principe si allontana sempre più da dove era partito, i cavalieri si disperdono e i messaggi si diradano, fino a diventare sempre più frammentari, più inutili. I due mondi si allontanano, alla fine anche la lingua del principe diviene lingua morta nel suo vecchio mondo, che intanto si è evoluto; ormai ogni messaggio è inutile: non hanno più la possibilità di comunicare fra loro, di capirsi.
Il linguaggio del comunicare è, quindi, il nucleo problematico di questo tipo di racconti in Buzzati.
Sette piani, ad esempio, parla di un uomo, Giuseppe Corte, che ha un principio leggero di malattia e si reca in un ospedale specializzato nella cura di questo male. Tale ospedale ha la particolarità di avere sette piani e i malati sono distribuiti uno per piano, secondo la gravità del loro stato. Tutto il racconto consiste nel far scendere al protagonista questi "sette piani", fino all'ultimo - quello dei moribondi - senza mai dirgli la verità. Corte non si stanca mai di interrogare i medici, ma questi ultimi non gli parlano mai con franchezza: il loro discorso ha un tono "leggero e amichevole" che alla fine equivale a una menzogna sistematica. Più i medici mentono, più si fanno cordiali e ottimisti, tanto che alla fine questo ottimismo si deve tradurre in un annuncio di morte. E proprio il termine "tradurre" sembra essere una parola chiave in tutto questo racconto: per intendere il messaggio dei medici occorre sapere come funziona il linguaggio nella relazione medico-malato e "tradurre, parola per parola, le tranquillizzanti parole nella irrimediabile verità" [13].
Questo aspetto è ancora più evidente nel racconto Il critico d'arte, dove un giornalista scrive e riscrive il testo di un suo articolo a proposito di una mostra d'arte, rendendolo via via sempre più incomprensibile. Da una prima stesura spontanea e lineare si arriva a creare un testo del tutto inintelligibile, scritto in una lingua che non è più quella italiana, per un pubblico di iniziati, che non si sa bene se capiscano neanche loro ciò che leggono.
Ma, probabilmente, il racconto che meglio di tutti richiama il tema dell'incomunicabilità è Qualcosa era successo, dove il protagonista, stavolta, è un treno. Il narratore sale su un rapido per un lungo viaggio, che non prevede fermate intermedie, dal Sud al Nord dell'Italia. Man mano che il treno avanza, ad altissima velocità, i passeggeri si accorgono che fuori la popolazione è in preda a un panico sempre più violento, sempre più disperato. Sembra sia accaduta una misteriosa catastrofe in tutto il Paese, ma nessuno riesce assolutamente a capire di che cosa si tratti. Il convoglio ha l'ordine di non fermarsi per nessuna ragione al mondo e, anzi, di non rallentare neppure per un attimo. Intanto, nelle stazioni attraversate si percepisce l'ombra di orribili presagi: urla, disperazione, morte. "Tutto il fantastico del testo - fa notare la Bahuet-Gachet - è raccolto nell'indefinito qualcosa che è messo sinteticamente in rilievo nel titolo. Ed è proprio perché non si sa, non si riesce a sapere ciò che potrebbe essere questo qualcosa, perché non si può dare un nome alla catastrofe che sembra minacciare il Paese, che la situazione diventa tragicamente assurda" [14].
È il nome della catastrofe il grande problema di tutta questa situazione. Basterebbe conoscerlo per tranquillizzarsi, fosse anche la cosa più orribile al mondo. Ma questa possibilità nel racconto viene negata, generando così la situazione surreale descritta.
A un certo punto, però, sembra esserci una svolta in tutta questa situazione, e ai passeggeri del treno si prospetta una via d'uscita. Attraversando una stazione, il treno rallenta. Un ragazzino tenta di rincorrerlo con un pacco di giornali e ne sventola uno con un grande titolo nero in prima pagina. Una signora, sporgendosi fuori del finestrino, riesce a catturare il foglio, ma il vento della corsa glielo strappa via. Tra le dita resta solo un brandello. In quel brandello si gioca la sorte dei passeggeri.

Era un pezzetto triangolare. Si leggeva la testata e del titolo solo quattro lettere; IONE si leggeva. Nient'altro. Sul verso, indifferenti notizie di cronaca [15].

Questa parola giornalistica avrebbe permesso di sbloccare la situazione, di rispondere a tutti i dubbi. Invece, i passeggeri, come il lettore, rimarranno nel dubbio che passa dal "qualcosa" del titolo del racconto, a "una cosa che finisce in IONE". Un dubbio che, fatalmente, aumenterà l'angoscia preesistente.

Verso una cosa che finisce in IONE, noi correvamo come pazzi e doveva essere spaventosa se, alla notizia, popolazioni intere si erano date alla fuga [16].

Il dramma di Qualcosa era successo nasce dall'impossibilità di comunicare tra i due mondi che si erano creati, dentro e fuori dal treno in corsa. Mondi separati dal vetro del finestrino: allo stesso tempo unica fonte di informazione, visiva, sulla realtà. Il giornale portato dal ragazzino, che doveva rendere completa l'informazione, si rivela invece, incidentalmente, o simbolicamente, incapace di assolvere questo compito. Non gli dà alcuna traccia per una soluzione, anzi, li getta in un dubbio ancora più profondo di prima.

4) Il giornalismo fantastico
Abbiamo visto fin qui come quella di Buzzati fosse, a detta di molti, una "letteratura giornalistica": impostata in modo giornalistico. E abbiamo anche notato come, inversamente, il suo giornalismo fosse concepito come una favola fantastica. È questo secondo aspetto che vogliamo analizzare ora [17].
Per Buzzati, la realtà, i fatti di cronaca - è stato detto da molti, a più riprese - sono un pretesto da cui partire, per poi farli derogare verso una personalissima inventiva. Questa inventiva non è una fredda tecnica stilistica per "addolcire la pillola" o renderla perfino appetibile. È tutta la sua vita che è coinvolta in questa operazione: dai disegni a margine degli articoli, ai quadri, alla musica, alla letteratura. È l'idea che i fatti in sé non siano per nulla autosufficienti: non spieghino, non dicano, non significhino. E che forse la realtà, per essere capita, ha bisogno in primo luogo di essere sognata [18]. Un resoconto delle cose, ancorché puntuale e preciso, non dice quasi nulla di queste. Quel "quasi" per il nostro autore è la scheggia da cui partire: evento necessario, ma non sufficiente.
Così Buzzati arrivava sul luogo dell'accaduto, sentiva le persone, raccoglieva le testimonianze, con grande coscienza e imparzialità - come tutti confermano -, poi si ritirava in un angolo e scriveva. Scriveva una favola. Si badi bene: non una finzione di ciò che aveva udito e visto con i suoi occhi; semmai, un'"interpretazione". Poiché la realtà stessa era, nella sua idea, interpretazione; e i fatti, i dati, che si pretende parlino da soli, in verità non dicono nulla, se non in un paradigma preesistente, frutto di una interpretazione già fornita da altri.
Questo non faceva cadere affatto Buzzati nel relativismo, per cui un fatto vale l'altro e la verità delle cose è sempre indeterminata e irraggiungibile - o almeno così non l'hanno pensata i suoi fedeli lettori in più di quaranta anni di attività da cronista. Inesauribile, misteriosa, talora ambigua, la verità - quella che il giornalista ricerca e trascrive, e di cui la sua interpretazione è lo strumento e la voce - resta pur sempre la verità, riconoscibile in quanto tale.
Illuminante a questo proposito è il confronto proposto da Luigi Pareyson, probabilmente il più grande filosofo italiano del dopoguerra, tra la verità e l'opera musicale, la cui esistenza "non è quella inerte e muta dello spartito, ma quella viva e sonora dell'esecuzione" [19]; il che significa che l'opera vive delle sue interpretazioni: molteplici, nuove e diverse tra loro, ma che ugualmente non pregiudicano l'unicità della stessa. "Anzi - scrive Pareyson - l'esecuzione mira appunto a mantenere l'opera nella sua individualità e unicità, senza aggiungerle nulla di estraneo e senza dissolverla in atti sempre diversi" [20].
L'interpretazione dei fatti, da parte del cronista, nel suo articolo, non è niente di diverso. Non lo è per Buzzati, almeno. I dati oggettivi sono lo spartito musicale; l'interpretazione del cronista è l'esecuzione dell'opera. Nulla è fuori dello spartito, eppure, come si vede, lo spartito in sé è un nulla.
Un resoconto piano, lineare dei fatti doveva sembrare a Buzzati come un direttore d'orchestra che, al pubblico presente per ascoltare l'opera, si limitasse a leggere lo spartito, rifiutandosi di far suonare i musicisti. I suoi scritti mirano a capire la realtà, non semplicemente a riprodurla nei suoi ingredienti più comuni e grossolani: gli unici che restano nel setaccio, a maglie molto larghe, che si usa normalmente, e che passano sotto il nome di "notizie".
Chissà che quel brandello di giornale con su scritto "IONE" non significasse proprio questo: l'impotenza del giornalismo (del giornalismo "normale", verrebbe da dire) di fronte alla verità di cui davvero si ha bisogno. La parola giornalistica sta soltanto in quel suffisso, così comune da non servire a niente. Il lettore è su quel treno, non ha orecchi per ascoltare, non è in contatto diretto con la realtà, i giornali sono l'unico strumento di comunicazione che possa arrivargli. Eppure non sono in grado di dirgli la sola cosa che gli sia utile e di cui abbia bisogno. Ecco ciò di cui è capace il giornalismo inteso come resoconto oggettivo dei fatti: suffissi comuni di nessuna utilità.
Allo stesso modo, negli altri racconti, i discorsi demistificanti dei medici, la critica d'arte che diventa incomprensibile, i messaggeri che parlano ormai un'altra lingua, sono tutti esempi di una comunicazione divenuta fuorviante o addirittura impossibile.
Certo, si dirà, ci potrebbe essere, su questi stessi elementi, un'interpretazione di primo livello, più immediata, che riconduce tutti quei casi alla non chiarezza del linguaggio giornalistico. Per cui, sarebbe sufficiente una parola "adeguata" alle cose, una che le chiami col proprio nome, un filo diretto sulla realtà, per evitare qualsiasi problema di comunicazione. Sarebbe, è vero, un'interpretazione più semplice. Ma proprio per questo non sarebbe quella di Buzzati. Così come quel tipo di giornalismo, che riporta i nomi della realtà così come sono, non è stato il suo.
C'è da credere che le cose stessero proprio così: come i suoi migliori racconti fantastici prendevano vita in un'ambientazione realistica, le sue cronache di fatti reali trovavano la propria verità (quella più profonda, quella che avrebbe detto le cose come stavano, in un linguaggio chiaro, ai passeggeri del treno o al principe in viaggio, o al malato Giacomo Corte), nell'interpretazione soggettiva e personalissima, nel sogno, nella fantasia. Le sue cronache, insomma, diventavano favole. E, come nella narrativa era per lui il miglior modo per essere originale e avvincente, così nel giornalismo doveva sembrargli l'unico per poter essere… "credibile". In tal senso era realmente "lo stile di una vita". Se nella concezione di giornalismo classico, la formula ideale è "X è accaduto nel luogo Y, il giorno... ecc.", per Buzzati è invece l'enigmatica (e del tutto opposta) espressione "Qualcosa era successo..." a rappresentare una sorta di incipit ideale, dove sogno e immaginario sono attivati prima di qualunque principio d'identità.
Certo, oggi una prospettiva del genere sembrerebbe fuori luogo; e Buzzati in modo particolare appare un personaggio di un'altra epoca. Il giornalismo ha camminato precisamente nella direzione opposta a tutto questo e nell'era di Internet la sta portando all'estremo. Da una parte vi sono notizie, notizie di ogni tipo, cinque-dieci righe, fatti nudi e crudi: nessuna interpretazione, nessun adattamento, nessuna firma: il cronista scompare dietro ai fatti, anche perché non ci sarebbe spazio per lui. Dall'altra, vi è il giornalismo di commento, la cronaca che è in se stessa un articolo di fondo - laddove l'opinione, perché sia letta, deve essere però incanalata su binari ben riconoscibili (lo stile così idiosincratico di Buzzati, viene da domandarsi, avrebbe anche oggi i lettori che aveva allora?). In tal senso, l'"ideologico" è funzionale e bene accetto, mentre ciò che è "sui generis" appare invece inutile. Sempre più rare sono le storie, le narrazioni; addirittura indegne possono apparire delle narrazioni giornalistiche che abbiano, come proprio centro la meraviglia, o il particolare che non ci si attende, o l'elemento fuori del comune. Tutti aspetti che hanno contraddistinto, ad esempio, il giornalismo d'inchiesta di un altro celebre cronista degli anni '50 quale era Tommaso Besozzi.
L'immediata fruibilità, insomma, è il criterio base dei nostri tempi: il fatto che il prodotto "cronaca" arrivi anzitutto a destinazione; che sia letto velocemente e senza intoppi, durante una pausa caffè o collegandosi a Internet.
In tutto questo il giornalismo popolare è morto da tempo; forse proprio dal tempo di Buzzati e della sua "Domenica del Corriere", esempio insuperato di quel tipo. Questo perché, si dice, i lettori vogliono notizie, brevi, anche curiose, ma pur sempre "notizie". Non ne vogliono sapere di racconti, di favole: non c'è più il tempo di leggerli, e forse si è perso anche il gusto. Il gusto di assaporare la cronaca, di rifletterci e capirla a fondo, attraverso le contraddizioni e i paradossi; perché la realtà è un gioco di specchi, talvolta ironico, fuorviante - in cui l'interprete non è più solo un chiarificatore o "deformatore" (nel migliore o peggiore dei casi) dei fatti, ma, in un certo senso (e questo era il senso di Buzzati), ne è l'origine stessa. Nell'espressione linguistica è l'origine più autentica del "fatto", e a maggior ragione della "notizia": non vi è realtà che parli da sé, semmai la parola è la realtà, come ci insegna quasi tutto il pensiero del '900. Se fosse la verità dei fatti ad importare per davvero, nell'ottica di Buzzati, la cosiddetta "notiziabilità" di un evento dovrebbe risiedere anzitutto nell'invenzione poietico-linguistica del cronista: nella sua capacità di trovare il logos laddove vi era il caos degli elementi fattuali. Un logos che è narrativo-letterario, e dunque"estetico", nella misura in cui parte dalla consapevolezza della non completa identità della complessa rete degli elementi in gioco (eventi, fatti, comunicazione, informazione, fruibilità, interesse, linguaggio e destinatari), ma della continua oscillazione di questi - in una prospettiva quasi adorniana - tra il loro essere storicamente determinati e autonomi al contempo. In tal senso l'Estetica, dopo Heidegger, è esperienza di verità nel suo significato più pieno.
Posto che, com'è ovvio che sia, in ogni struttura teoretica esiste un livello di superficie e di identità dei dati che va rispettato - così come è forse sufficientemente chiaro che non è di una prospettiva relativistica che si discute qui -, il caso Buzzati ci propone, nel paradossale (e quasi provocatorio) contesto della cronaca giornalistica, il più ampio e dibattuto tema del rapporto tra narrativa e realtà, ovvero verità e finzione della narrazione. Un argomento complesso, a tal punto da esser stato capace, in altri ambiti linguistici e teoretici, di far saltare in aria griglie di decidibilità ormai quasi collaudate. Buzzati aveva colto con largo anticipo - addirittura in un'epoca in cui, tra guerre e rivoluzioni, il principio di realtà sembrava imporsi più che mai - l'insufficienza di una semplice "comunicazione degli elementi identici" al fine di dire la verità, ossia di "riferire" ciò che identico non è. Pertanto, l'"oscillazione" propria della narrativa meglio si adattava a restituire l'enigma del reale. Ma Buzzati con la sua opera di giornalista è arrivato in anticipo anche su quelle filosofie ermeneutiche post-heideggeriane (si pensi a Ricoeur, a Derrida, a Gadamer) che di questi temi hanno fatto una colonna portante della loro ricerca. L'idea di meraviglia come porta d'ingresso del reale, in questo preciso senso, sarebbe il miglior punto di partenza per un'indagine sul più autentico pensiero filosofico di Buzzati: perché proprio la "meraviglia" (e non le cinque "W"), oltre a essere l'incipit della filosofia in senso classico, è anche e sempre l'incipit del non-identico. Ma è questo un sentiero ancora non intrapreso, che passa necessariamente attraverso gli interessi musicali, archeologici, artistico-pittorici ed esoterici di questo autore.
Cosa hanno a che fare la meraviglia e il "fantastico", il presentimento oscuro e "ciò che si nasconde dietro l'angolo", col reale - con quella cosa che tutti siamo ormai abituati a considerare e chiamare "realtà quotidiana"? Ecco la domanda d'origine dell'universo così particolare di Buzzati.

Note
[1] AA.VV., Buzzati giornalista. Atti del convegno internazionale, a cura di Nella Giannetto, Milano, Mondadori, 2000.
[2] "Buzzati giornalista" (Feltre e Belluno, 18-21 maggio 1995), organizzato dal "Centro Studi Buzzati" di Feltre, dedicato a quasi mezzo secolo di attività giornalistica di Dino Buzzati. Lo scrittore bellunese lavorò come redattore del Corriere della Sera, ininterrottamente dal 1928 fino al 1971, anno precedente la morte, avvenuta nel 1972.
[3] I. Montanelli, "Lo stile di una vita", in "Corriere della Sera", 29 gennaio 1972.
[4] M. L. Altieri Biagi, "L'incipit cronistico nei testi narrativi di Buzzati", in Buzzati giornalista, cit., p. 381.
[5] Si veda D. Buzzati, Cronache terrestri, Milano, Mondadori, 1995, pp. 5-8.
[6] La frase compare più volte nell'opera del filosofo tedesco, ma è celebre nel Crepuscolo degli idoli.
[7] Così Heidegger: "Il titolo Come il "mondo vero" finì per diventare favola dice che qui deve essere esposta la teoria nel corso della quale il soprasensibile, posto da Platone come il vero ente, non soltanto fu trasferito dal rango superiore a quello inferiore, ma sprofondò nell'irrealtà e nel nulla" (M. Heidegger, Nietzsche, tr. it. a cura di Franco Volpi, Milano, Adelphi, 1994, p. 199).
[8] L. Venuti, "Dino Buzzati's Fantastic Journalism", in "Modern Fiction Studies", n° XXVIII, 1982, pp. 79-91.
[9] Ivi, p. 80.
[10] Ivi, p. 84.
[11] D. Bahuet-Gachet, "Problemi di comunicazione e potere della parola in alcuni racconti di Buzzati", in Buzzati giornalista, cit.
[12] I racconti che seguiranno sono tratti da: D. Buzzati, Sessanta racconti, Milano, Mondadori, 1958.
[13] Ivi, p. 49.
[14] D. Bahuet-Gachet, "Problemi di comunicazione e potere della parola in alcuni racconti di Buzzati", cit., p. 457.
[15] D. Buzzati, Qualcosa era successo, in Sessanta racconti, cit., p. 259.
[16] Ibidem.
[17] Si veda anche A. Oppo, "Buzzati e il 'giornalismo fantastico'. La storia di un giornalista fuori dal comune", in "Problemi dell'informazione", n. 1 marzo 2002, Bologna, Il Mulino, pp. 115-124.
[18] Si veda a questo proposito il saggio di Felix Siddell, Buzzati e la Luna, in Buzzati giornalista, cit., resoconto delle cronache sui viaggi lunari degli astronauti americani nelle varie missioni "Apollo". I titoli di questi articoli, come spesso capita in Buzzati, parlano da soli. Basta citarne alcuni: "L'eterno slancio"; "Se si scoprisse che la Luna è molto più lontana del previsto"; "Non deluderci, Luna"; "Aspettano dai dischi volanti la pace perpetua sulla Terra"; "Soli soletti".
[19] L. Pareyson, Verità e interpretazione, Milano, Mursia, 1971, p. 69.
[20] Ibidem.