Le
cinque "W" inglesi sono i cinque fondamentali interrogativi
della cronaca giornalistica (chi?/dove?/quando?/che cosa?/perché?):
espediente, sprone, definiamolo come vogliamo, a richiamare
tutta l'attenzione del cronista sulla realtà dei fatti
e solo su quella - evitando pericolose, e inopportune, escursioni
nella fantasia. Fantasia e realtà sono due livelli
distinti: della letteratura in genere è dominio la
prima; al giornalismo, alla cronaca in particolare, appartiene
la seconda.
A queste riflessioni, che potranno apparire scontate, aggiungiamo
che l'incipit giornalistico classico, così come viene
insegnato, nelle redazioni prima ancora che nelle scuole di
giornalismo, dovrebbe contenere almeno i primi quattro dei
cinque interrogativi: in modo che chi legge un fatto di cronaca
abbia da subito gli elementi essenziali per capire di chi
e di che cosa si sta parlando. Questo è l'ABC del giornalismo.
Sono stati pubblicati nel 2000, in un unico volume [1], gli
atti del congresso internazionale, tenutosi a Feltre e Belluno
nel 1995 [2], dedicato all'attività giornalistica di
uno dei più grandi narratori italiani contemporanei:
Dino Buzzati.
Ma Buzzati, a voler essere pignoli, e se si fa riferimento
all'ipotesi classica di giornalismo sopra esposta, in quel
senso è stato un cattivo maestro. Non solo perché
i suoi articoli somigliavano più a delle favole che
a dei resoconti; o perché nell'incipit non c'era quasi
mai nulla che richiamasse il fatto (e spesso erano i suoi
colleghi a dover rimediare ed apporre date, nomi e avvenimenti
di cui si stava parlando); o ancora, perché la fantasia
era sempre e comunque l'elemento portante di tutto; ma soprattutto
perché questo stile non era applicato soltanto agli
elzeviri o ad articoli di costume. Buzzati scriveva anche
la cronaca nera come fosse una "favola"; e spesso
si trattava di eventi che lo toccavano personalmente, come
la tragedia del Vajont, cronache di guerra, quando la voce
del giornalista era, a volte, l'unica che potesse raccontare
fatti essenziali per la vita di tutti. Era precisamente "lo
stile di una vita", come Montanelli lo definì
intitolando il proprio articolo per la scomparsa di Buzzati
[3]. Qualcosa di più che una stravaganza: qualcosa
in cui egli, con straordinaria coerenza, in tutta la sua vita
e la sua opera, non venne mai meno.
Posta così la questione, abbiamo due strade davanti
a noi - non necessariamente in contraddizione tra loro:
1) Considerare Buzzati un'eccezione alla regola. In tal senso
non sarebbe necessario alcuno studio.
2) Immaginare che le cose stiano diversamente. Prendere in
esame la possibilità che l'equazione "cronaca
uguale realtà" non sia assoluta e che, forse,
giornalismo e narrativa, letteratura e realtà abbiano
molti più aspetti in comune di quanto si creda.
1) Cronache della meraviglia
La discussione degli atti del convegno di Feltre e Belluno
ha fatto rilevare come non vi siano differenze significative
di stile tra il Buzzati giornalista e il narratore. In entrambi
i casi vi è un'abbondanza di figure retoriche e di
effetti stilistici volti a stupire: ironie, paradossi, inversioni
semantiche ed "effetti sorpresa" di ogni genere.
Curiosamente, capita spesso che Buzzati inverta le parti
e adoperi uno stile giornalistico per la narrativa e, viceversa,
un tono narrativo per la cronaca. Ma anche questo, in fondo,
è un effetto stilistico per spiazzare il lettore.
Perché - ci si potrebbe domandare - questa continua
volontà di deformare la realtà? Perché
non riferirla semplicemente per ciò che è?
E, ancora, perché uno come Buzzati è potuto
sopravvivere e continuare a essere esattamente ciò
che era nella redazione del quotidiano più diffuso
e, per molti versi, più "ortodosso" che
esistesse in Italia?
La risposta all'ultima domanda, banalmente, è che
Buzzati cronista del Corriere della Sera è esistito
perché c'erano dei direttori che gli permettevano
di esistere. Da Borelli a Missiroli, egli trovò sempre
figure che difesero (contro le proteste, talvolta feroci,
dei capiredattori di turno) il suo modo di fare cronaca.
Fu così che dagli inizi nelle questure, come reporter,
arrivò a seguire alcuni tra i più famosi casi
di cronaca nera dell'Italia dell'anteguerra, fino a diventare
inviato in Marina, durante la Seconda Guerra Mondiale, assistere
alla tragedia del convoglio Duisburg, colato a picco, e
scampare miracolosamente alla trappola di Matapan. Raccontando
tutto questo alla sua maniera, con pagine ancora oggi memorabili.
Una risposta alle precedenti questioni può venire
invece dall'idea che, a detta di Maria Luisa Altieri Biagi,
il modo stesso di scrivere di Buzzati suggerisce: ossia
che "i fatti significano a volte esattamente il contrario
della loro più ovvia spiegazione" [4]. Detto
in altre parole: per molti eventi, per molti casi di cronaca,
il semplice resoconto puntuale dei fatti non solo non dice
quasi nulla di questi, ma può addirittura travisarli.
Viene da credere, da un lato, che quando la realtà
è complicata di per sé, occorre un interprete
più che un semplice cronista. Lo sapevano bene i
direttori che scelsero Buzzati per seguire il celebre caso
di Rina Fort, la donna che nel 1946, a Milano, uccise la
moglie e i tre figlioletti del suo amante, suscitando grande
impressione in una vicenda che l'opinione pubblica non sapeva
come inquadrare. Per non parlare della tragedia di Albenga
nel 1947 (43 bambini affogati in mare durante una gita con
le maestre), per la quale il direttore del Corriere Emanuel
volle assolutamente Buzzati. Fino alle indimenticabili cronache
dello sbarco sulla Luna.
Ma un'ultima ragione della scelta di Buzzati di fare una
cronaca al confine con la fantasia viene dall'analisi della
"Domenica del Corriere": unico esperimento giornalistico,
ricorda Alberto Cavallari, che si possa definire completamente
"buzzatiano".
Buzzati diresse, di fatto, il settimanale illustrato del
quotidiano di via Solferino dal 1950 al 1963, risollevandolo
da una crisi di vendite e portandolo alla sua massima tiratura
nell'agosto del 1962, con un milione e 280 mila copie. Nella
"Domenica del Corriere" i fatti popolari, le cronache
di ogni giorno erano raccontate con un gusto tutto particolare,
fatto di curiosità, meraviglia, con un misto di surreale,
gotico e fantastico, che poi ritornava improvvisamente all'attualità.
La scelta di Buzzati corrispondeva dunque a un gusto preciso:
un modo di fare cronaca, cronaca popolare, per raccontare
cose che altrimenti non si sarebbero potute dire. Una cronaca
dove il senso del narrare rientra a pieno diritto in quella
che tutti chiamiamo realtà.
2) Il "mondo vero" e la favola
Filosofia e giornalismo non sono due campi confinanti, non
lo sono mai stati a dire il vero. Ma quando si considerano
i due punti estremi di cose che appaiono lontane fra di
loro può anche capitare che almeno questi siano più
vicini di quanto si creda.
Buzzati e Nietzsche. Potrà sembrare quantomeno improbabile
un accostamento di questo tipo, ma il richiamo della dicotomia
realtà-finzione e, più in generale, il richiamo
di certe antitesi comuni ai due (mondo vero/favola, verità/menzogna,
terra/cielo
) era troppo forte per potervi resistere.
Del resto, si sarà già capito, qui è
tutta una questione di inversione di ruoli. Il Buzzati giocoso
da tutti conosciuto, quello in cui la parola sembra trovare
da sé, al suo interno, relazioni, situazioni surreali
o comiche, è in realtà uno scrittore tragico,
come bene dimostra lo splendido articolo, molto noto, "Meraviglioso
mestiere" [5]; e come si "respira", forse,
in tutta la sua prosa. Nietzsche, al contrario, dalla tragedia
passa, per vie naturali, alla commedia, all'esaltazione
del dionisiaco; giunge alla consapevolezza, cioè,
che tutto ormai è gioco, che - per dirla con lui
- "il mondo è diventato favola" [6], e
dunque la realtà non si dà se non attraverso
la finzione.
È questo il penultimo passaggio del suo pensiero,
almeno secondo la celebre interpretazione di Heidegger [7],
passaggio che conduce a una radicale estetizzazione della
realtà e del linguaggio, e in definitiva al ribaltamento
della tragedia in favola. Per dirla più chiaramente:
la tragedia muore per necessità interna; uscire dal
tragico, per Nietzsche, non vuol dire altro che averlo guardato
in faccia fin troppo bene. Non si tratta né di un
alleggerimento né di una fuga: la realtà,
quando è veramente reale, è anche emancipata
dal logos come linguaggio che fonda e giustifica, e restituisce
la parola a se stessa. Così Nietzsche, dalla scoperta
dell'enigmaticità dell'essere, della sua mancanza
di fondamento, deduce anche la natura liberamente inventiva,
"poietica", del reale stesso, e arriva infine
a far coincidere tragico ed estetico, realtà e favola.
L'unica cosa davvero irreale, si potrebbe aggiungere a questo
punto, è quella barriera che le tiene separate.
La tappa finale, per Nietzsche, sarà quella di identificare,
nelle ultime opere, il tragico con la volontà di
potenza e la volontà d'arte. Ma questo è un
punto di arrivo soltanto suo.
Il passo precedente è quello condiviso anche da Buzzati.
La realtà è fantasia, la fantasia è
realtà: non c'è un muro invalicabile fra le
due. Gli opposti, che nella visione normale delle cose vanno
in cortocircuito, in questi due autori coincidono. Ad andare
in cortocircuito, per loro, è soltanto la pretesa
linearità delle cose. È quella "visione
normale" a far problema, frutto di un muro eretto a
bella posta, un muro chiamato logica dell'identità.
Se non si guarda in faccia la realtà, il mondo vero
resta
vero, cioè menzognero. Ecco un "cortocircuito"
che piacerebbe a entrambi.
3) La narrativa "giornalistica"
Torniamo per un attimo su un punto già sollevato
e rilevato dalla Altieri Biagi nel suo articolo L'incipit
cronistico nei testi narrativi di Buzzati. Ossia la narrativa
scritta come se fosse cronaca.
Su questo stesso argomento si è soffermato Lawrence
Venuti in uno studio ormai di alcuni anni fa [8]. Venuti,
analizzando soltanto la narrativa dello scrittore, paragona
Buzzati a Kafka per la capacità di far apparire il
fantastico naturale e realistico. E aggiunge che Buzzati
riesce a fare questo attraverso la singolare tecnica di
dare un taglio giornalistico (sfruttando le sue competenze
e il lavoro che già svolgeva) alle sue storie fantastiche.
Buzzati appears to lead us into strange universes far removed
from our own reality, but through his distinctive handling
of adaption, his fantasy is really quite familiar [9].
Ed in tal senso, secondo Venuti, egli si inserisce in una
linea ideale, iniziata da Massimo Bontempelli (il cui "realismo
magico" si opponeva al futurismo di Marinetti "troppo
lirico e ultrasoggettivo") e proseguita successivamente
da Italo Calvino. Ma rispetto a questi due Buzzati si distingue
proprio per una maggiore aderenza alla realtà: per
un uso della fantasia non banale. E la non banalità
è data proprio dal paradigma giornalistico che molte
delle sue storie fantastiche assumono come sfondo.
Like newspaper articles, his stories occasionally begin
with a statement of the main character's full name and age
as well as the event on which the plot will center, even
though it will eventually take a fantastic turn [10].
Fin qui niente di nuovo, si dirà. Tutt'al più
un'ulteriore, importante conferma di quanto è emerso
a proposito dell'inconsueta frequenza dell'incipit cronistico
nei suoi testi narrativi. Ma in realtà, a guardar
bene, non si tratta soltanto di uno stile, di una tecnica
che serve a rendere la materia narrativa, come dice Venuti,
"truly fantastic", e perciò - se possibile
- ancora più bizzarra e disorientante.
Come ha rilevato, nella sua relazione al convegno, Delphine
Bahuet-Gachet [11], il giornalismo è stato il tema
centrale di moltissimi racconti di Buzzati. Giornalismo
inteso come "problema del comunicare". Sarebbero
stati troppi gli esempi in questione e perciò la
Bahuet-Gachet ne ha selezionati alcuni, forse i più
significativi [12], che andiamo qui a riportare.
Nel racconto I sette messaggeri il protagonista, un principe,
volendo partire per esplorare il regno di suo padre, ha
il problema di organizzare una rete di comunicazione fra
lui e il mondo che lascia. Pertanto sceglie i sette migliori
cavalieri di cui dispone e gli assegna la funzione di messaggeri:
dovranno tenerlo informato su ciò che accade nella
terra che sta per lasciare. Man mano che il tempo passa
e il principe si allontana sempre più da dove era
partito, i cavalieri si disperdono e i messaggi si diradano,
fino a diventare sempre più frammentari, più
inutili. I due mondi si allontanano, alla fine anche la
lingua del principe diviene lingua morta nel suo vecchio
mondo, che intanto si è evoluto; ormai ogni messaggio
è inutile: non hanno più la possibilità
di comunicare fra loro, di capirsi.
Il linguaggio del comunicare è, quindi, il nucleo
problematico di questo tipo di racconti in Buzzati.
Sette piani, ad esempio, parla di un uomo, Giuseppe Corte,
che ha un principio leggero di malattia e si reca in un
ospedale specializzato nella cura di questo male. Tale ospedale
ha la particolarità di avere sette piani e i malati
sono distribuiti uno per piano, secondo la gravità
del loro stato. Tutto il racconto consiste nel far scendere
al protagonista questi "sette piani", fino all'ultimo
- quello dei moribondi - senza mai dirgli la verità.
Corte non si stanca mai di interrogare i medici, ma questi
ultimi non gli parlano mai con franchezza: il loro discorso
ha un tono "leggero e amichevole" che alla fine
equivale a una menzogna sistematica. Più i medici
mentono, più si fanno cordiali e ottimisti, tanto
che alla fine questo ottimismo si deve tradurre in un annuncio
di morte. E proprio il termine "tradurre" sembra
essere una parola chiave in tutto questo racconto: per intendere
il messaggio dei medici occorre sapere come funziona il
linguaggio nella relazione medico-malato e "tradurre,
parola per parola, le tranquillizzanti parole nella irrimediabile
verità" [13].
Questo aspetto è ancora più evidente nel racconto
Il critico d'arte, dove un giornalista scrive e riscrive
il testo di un suo articolo a proposito di una mostra d'arte,
rendendolo via via sempre più incomprensibile. Da
una prima stesura spontanea e lineare si arriva a creare
un testo del tutto inintelligibile, scritto in una lingua
che non è più quella italiana, per un pubblico
di iniziati, che non si sa bene se capiscano neanche loro
ciò che leggono.
Ma, probabilmente, il racconto che meglio di tutti richiama
il tema dell'incomunicabilità è Qualcosa era
successo, dove il protagonista, stavolta, è un treno.
Il narratore sale su un rapido per un lungo viaggio, che
non prevede fermate intermedie, dal Sud al Nord dell'Italia.
Man mano che il treno avanza, ad altissima velocità,
i passeggeri si accorgono che fuori la popolazione è
in preda a un panico sempre più violento, sempre
più disperato. Sembra sia accaduta una misteriosa
catastrofe in tutto il Paese, ma nessuno riesce assolutamente
a capire di che cosa si tratti. Il convoglio ha l'ordine
di non fermarsi per nessuna ragione al mondo e, anzi, di
non rallentare neppure per un attimo. Intanto, nelle stazioni
attraversate si percepisce l'ombra di orribili presagi:
urla, disperazione, morte. "Tutto il fantastico del
testo - fa notare la Bahuet-Gachet - è raccolto nell'indefinito
qualcosa che è messo sinteticamente in rilievo nel
titolo. Ed è proprio perché non si sa, non
si riesce a sapere ciò che potrebbe essere questo
qualcosa, perché non si può dare un nome alla
catastrofe che sembra minacciare il Paese, che la situazione
diventa tragicamente assurda" [14].
È il nome della catastrofe il grande problema di
tutta questa situazione. Basterebbe conoscerlo per tranquillizzarsi,
fosse anche la cosa più orribile al mondo. Ma questa
possibilità nel racconto viene negata, generando
così la situazione surreale descritta.
A un certo punto, però, sembra esserci una svolta
in tutta questa situazione, e ai passeggeri del treno si
prospetta una via d'uscita. Attraversando una stazione,
il treno rallenta. Un ragazzino tenta di rincorrerlo con
un pacco di giornali e ne sventola uno con un grande titolo
nero in prima pagina. Una signora, sporgendosi fuori del
finestrino, riesce a catturare il foglio, ma il vento della
corsa glielo strappa via. Tra le dita resta solo un brandello.
In quel brandello si gioca la sorte dei passeggeri.
Era un pezzetto triangolare. Si leggeva la testata e del
titolo solo quattro lettere; IONE si leggeva. Nient'altro.
Sul verso, indifferenti notizie di cronaca [15].
Questa parola giornalistica avrebbe permesso di sbloccare
la situazione, di rispondere a tutti i dubbi. Invece, i
passeggeri, come il lettore, rimarranno nel dubbio che passa
dal "qualcosa" del titolo del racconto, a "una
cosa che finisce in IONE". Un dubbio che, fatalmente,
aumenterà l'angoscia preesistente.
Verso una cosa che finisce in IONE, noi correvamo come
pazzi e doveva essere spaventosa se, alla notizia, popolazioni
intere si erano date alla fuga [16].
Il dramma di Qualcosa era successo nasce dall'impossibilità
di comunicare tra i due mondi che si erano creati, dentro
e fuori dal treno in corsa. Mondi separati dal vetro del
finestrino: allo stesso tempo unica fonte di informazione,
visiva, sulla realtà. Il giornale portato dal ragazzino,
che doveva rendere completa l'informazione, si rivela invece,
incidentalmente, o simbolicamente, incapace di assolvere
questo compito. Non gli dà alcuna traccia per una
soluzione, anzi, li getta in un dubbio ancora più
profondo di prima.
4) Il giornalismo fantastico
Abbiamo visto fin qui come quella di Buzzati fosse, a detta
di molti, una "letteratura giornalistica": impostata
in modo giornalistico. E abbiamo anche notato come, inversamente,
il suo giornalismo fosse concepito come una favola fantastica.
È questo secondo aspetto che vogliamo analizzare
ora [17].
Per Buzzati, la realtà, i fatti di cronaca - è
stato detto da molti, a più riprese - sono un pretesto
da cui partire, per poi farli derogare verso una personalissima
inventiva. Questa inventiva non è una fredda tecnica
stilistica per "addolcire la pillola" o renderla
perfino appetibile. È tutta la sua vita che è
coinvolta in questa operazione: dai disegni a margine degli
articoli, ai quadri, alla musica, alla letteratura. È
l'idea che i fatti in sé non siano per nulla autosufficienti:
non spieghino, non dicano, non significhino. E che forse
la realtà, per essere capita, ha bisogno in primo
luogo di essere sognata [18]. Un resoconto delle cose, ancorché
puntuale e preciso, non dice quasi nulla di queste. Quel
"quasi" per il nostro autore è la scheggia
da cui partire: evento necessario, ma non sufficiente.
Così Buzzati arrivava sul luogo dell'accaduto, sentiva
le persone, raccoglieva le testimonianze, con grande coscienza
e imparzialità - come tutti confermano -, poi si
ritirava in un angolo e scriveva. Scriveva una favola. Si
badi bene: non una finzione di ciò che aveva udito
e visto con i suoi occhi; semmai, un'"interpretazione".
Poiché la realtà stessa era, nella sua idea,
interpretazione; e i fatti, i dati, che si pretende parlino
da soli, in verità non dicono nulla, se non in un
paradigma preesistente, frutto di una interpretazione già
fornita da altri.
Questo non faceva cadere affatto Buzzati nel relativismo,
per cui un fatto vale l'altro e la verità delle cose
è sempre indeterminata e irraggiungibile - o almeno
così non l'hanno pensata i suoi fedeli lettori in
più di quaranta anni di attività da cronista.
Inesauribile, misteriosa, talora ambigua, la verità
- quella che il giornalista ricerca e trascrive, e di cui
la sua interpretazione è lo strumento e la voce -
resta pur sempre la verità, riconoscibile in quanto
tale.
Illuminante a questo proposito è il confronto proposto
da Luigi Pareyson, probabilmente il più grande filosofo
italiano del dopoguerra, tra la verità e l'opera
musicale, la cui esistenza "non è quella inerte
e muta dello spartito, ma quella viva e sonora dell'esecuzione"
[19]; il che significa che l'opera vive delle sue interpretazioni:
molteplici, nuove e diverse tra loro, ma che ugualmente
non pregiudicano l'unicità della stessa. "Anzi
- scrive Pareyson - l'esecuzione mira appunto a mantenere
l'opera nella sua individualità e unicità,
senza aggiungerle nulla di estraneo e senza dissolverla
in atti sempre diversi" [20].
L'interpretazione dei fatti, da parte del cronista, nel
suo articolo, non è niente di diverso. Non lo è
per Buzzati, almeno. I dati oggettivi sono lo spartito musicale;
l'interpretazione del cronista è l'esecuzione dell'opera.
Nulla è fuori dello spartito, eppure, come si vede,
lo spartito in sé è un nulla.
Un resoconto piano, lineare dei fatti doveva sembrare a
Buzzati come un direttore d'orchestra che, al pubblico presente
per ascoltare l'opera, si limitasse a leggere lo spartito,
rifiutandosi di far suonare i musicisti. I suoi scritti
mirano a capire la realtà, non semplicemente a riprodurla
nei suoi ingredienti più comuni e grossolani: gli
unici che restano nel setaccio, a maglie molto larghe, che
si usa normalmente, e che passano sotto il nome di "notizie".
Chissà che quel brandello di giornale con su scritto
"IONE" non significasse proprio questo: l'impotenza
del giornalismo (del giornalismo "normale", verrebbe
da dire) di fronte alla verità di cui davvero si
ha bisogno. La parola giornalistica sta soltanto in quel
suffisso, così comune da non servire a niente. Il
lettore è su quel treno, non ha orecchi per ascoltare,
non è in contatto diretto con la realtà, i
giornali sono l'unico strumento di comunicazione che possa
arrivargli. Eppure non sono in grado di dirgli la sola cosa
che gli sia utile e di cui abbia bisogno. Ecco ciò
di cui è capace il giornalismo inteso come resoconto
oggettivo dei fatti: suffissi comuni di nessuna utilità.
Allo stesso modo, negli altri racconti, i discorsi demistificanti
dei medici, la critica d'arte che diventa incomprensibile,
i messaggeri che parlano ormai un'altra lingua, sono tutti
esempi di una comunicazione divenuta fuorviante o addirittura
impossibile.
Certo, si dirà, ci potrebbe essere, su questi stessi
elementi, un'interpretazione di primo livello, più
immediata, che riconduce tutti quei casi alla non chiarezza
del linguaggio giornalistico. Per cui, sarebbe sufficiente
una parola "adeguata" alle cose, una che le chiami
col proprio nome, un filo diretto sulla realtà, per
evitare qualsiasi problema di comunicazione. Sarebbe, è
vero, un'interpretazione più semplice. Ma proprio
per questo non sarebbe quella di Buzzati. Così come
quel tipo di giornalismo, che riporta i nomi della realtà
così come sono, non è stato il suo.
C'è da credere che le cose stessero proprio così:
come i suoi migliori racconti fantastici prendevano vita
in un'ambientazione realistica, le sue cronache di fatti
reali trovavano la propria verità (quella più
profonda, quella che avrebbe detto le cose come stavano,
in un linguaggio chiaro, ai passeggeri del treno o al principe
in viaggio, o al malato Giacomo Corte), nell'interpretazione
soggettiva e personalissima, nel sogno, nella fantasia.
Le sue cronache, insomma, diventavano favole. E, come nella
narrativa era per lui il miglior modo per essere originale
e avvincente, così nel giornalismo doveva sembrargli
l'unico per poter essere
"credibile". In
tal senso era realmente "lo stile di una vita".
Se nella concezione di giornalismo classico, la formula
ideale è "X è accaduto nel luogo Y, il
giorno... ecc.", per Buzzati è invece l'enigmatica
(e del tutto opposta) espressione "Qualcosa era successo..."
a rappresentare una sorta di incipit ideale, dove sogno
e immaginario sono attivati prima di qualunque principio
d'identità.
Certo, oggi una prospettiva del genere sembrerebbe fuori
luogo; e Buzzati in modo particolare appare un personaggio
di un'altra epoca. Il giornalismo ha camminato precisamente
nella direzione opposta a tutto questo e nell'era di Internet
la sta portando all'estremo. Da una parte vi sono notizie,
notizie di ogni tipo, cinque-dieci righe, fatti nudi e crudi:
nessuna interpretazione, nessun adattamento, nessuna firma:
il cronista scompare dietro ai fatti, anche perché
non ci sarebbe spazio per lui. Dall'altra, vi è il
giornalismo di commento, la cronaca che è in se stessa
un articolo di fondo - laddove l'opinione, perché
sia letta, deve essere però incanalata su binari
ben riconoscibili (lo stile così idiosincratico di
Buzzati, viene da domandarsi, avrebbe anche oggi i lettori
che aveva allora?). In tal senso, l'"ideologico"
è funzionale e bene accetto, mentre ciò che
è "sui generis" appare invece inutile.
Sempre più rare sono le storie, le narrazioni; addirittura
indegne possono apparire delle narrazioni giornalistiche
che abbiano, come proprio centro la meraviglia, o il particolare
che non ci si attende, o l'elemento fuori del comune. Tutti
aspetti che hanno contraddistinto, ad esempio, il giornalismo
d'inchiesta di un altro celebre cronista degli anni '50
quale era Tommaso Besozzi.
L'immediata fruibilità, insomma, è il criterio
base dei nostri tempi: il fatto che il prodotto "cronaca"
arrivi anzitutto a destinazione; che sia letto velocemente
e senza intoppi, durante una pausa caffè o collegandosi
a Internet.
In tutto questo il giornalismo popolare è morto da
tempo; forse proprio dal tempo di Buzzati e della sua "Domenica
del Corriere", esempio insuperato di quel tipo. Questo
perché, si dice, i lettori vogliono notizie, brevi,
anche curiose, ma pur sempre "notizie". Non ne
vogliono sapere di racconti, di favole: non c'è più
il tempo di leggerli, e forse si è perso anche il
gusto. Il gusto di assaporare la cronaca, di rifletterci
e capirla a fondo, attraverso le contraddizioni e i paradossi;
perché la realtà è un gioco di specchi,
talvolta ironico, fuorviante - in cui l'interprete non è
più solo un chiarificatore o "deformatore"
(nel migliore o peggiore dei casi) dei fatti, ma, in un
certo senso (e questo era il senso di Buzzati), ne è
l'origine stessa. Nell'espressione linguistica è
l'origine più autentica del "fatto", e
a maggior ragione della "notizia": non vi è
realtà che parli da sé, semmai la parola è
la realtà, come ci insegna quasi tutto il pensiero
del '900. Se fosse la verità dei fatti ad importare
per davvero, nell'ottica di Buzzati, la cosiddetta "notiziabilità"
di un evento dovrebbe risiedere anzitutto nell'invenzione
poietico-linguistica del cronista: nella sua capacità
di trovare il logos laddove vi era il caos degli elementi
fattuali. Un logos che è narrativo-letterario, e
dunque"estetico", nella misura in cui parte dalla
consapevolezza della non completa identità della
complessa rete degli elementi in gioco (eventi, fatti, comunicazione,
informazione, fruibilità, interesse, linguaggio e
destinatari), ma della continua oscillazione di questi -
in una prospettiva quasi adorniana - tra il loro essere
storicamente determinati e autonomi al contempo. In tal
senso l'Estetica, dopo Heidegger, è esperienza di
verità nel suo significato più pieno.
Posto che, com'è ovvio che sia, in ogni struttura
teoretica esiste un livello di superficie e di identità
dei dati che va rispettato - così come è forse
sufficientemente chiaro che non è di una prospettiva
relativistica che si discute qui -, il caso Buzzati ci propone,
nel paradossale (e quasi provocatorio) contesto della cronaca
giornalistica, il più ampio e dibattuto tema del
rapporto tra narrativa e realtà, ovvero verità
e finzione della narrazione. Un argomento complesso, a tal
punto da esser stato capace, in altri ambiti linguistici
e teoretici, di far saltare in aria griglie di decidibilità
ormai quasi collaudate. Buzzati aveva colto con largo anticipo
- addirittura in un'epoca in cui, tra guerre e rivoluzioni,
il principio di realtà sembrava imporsi più
che mai - l'insufficienza di una semplice "comunicazione
degli elementi identici" al fine di dire la verità,
ossia di "riferire" ciò che identico non
è. Pertanto, l'"oscillazione" propria della
narrativa meglio si adattava a restituire l'enigma del reale.
Ma Buzzati con la sua opera di giornalista è arrivato
in anticipo anche su quelle filosofie ermeneutiche post-heideggeriane
(si pensi a Ricoeur, a Derrida, a Gadamer) che di questi
temi hanno fatto una colonna portante della loro ricerca.
L'idea di meraviglia come porta d'ingresso del reale, in
questo preciso senso, sarebbe il miglior punto di partenza
per un'indagine sul più autentico pensiero filosofico
di Buzzati: perché proprio la "meraviglia"
(e non le cinque "W"), oltre a essere l'incipit
della filosofia in senso classico, è anche e sempre
l'incipit del non-identico. Ma è questo un sentiero
ancora non intrapreso, che passa necessariamente attraverso
gli interessi musicali, archeologici, artistico-pittorici
ed esoterici di questo autore.
Cosa hanno a che fare la meraviglia e il "fantastico",
il presentimento oscuro e "ciò che si nasconde
dietro l'angolo", col reale - con quella cosa che tutti
siamo ormai abituati a considerare e chiamare "realtà
quotidiana"? Ecco la domanda d'origine dell'universo
così particolare di Buzzati.
Note
[1] AA.VV., Buzzati giornalista. Atti del convegno internazionale,
a cura di Nella Giannetto, Milano, Mondadori, 2000.
[2] "Buzzati giornalista" (Feltre e Belluno, 18-21
maggio 1995), organizzato dal "Centro Studi Buzzati"
di Feltre, dedicato a quasi mezzo secolo di attività
giornalistica di Dino Buzzati. Lo scrittore bellunese lavorò
come redattore del Corriere della Sera, ininterrottamente
dal 1928 fino al 1971, anno precedente la morte, avvenuta
nel 1972.
[3] I. Montanelli, "Lo stile di una vita", in
"Corriere della Sera", 29 gennaio 1972.
[4] M. L. Altieri Biagi, "L'incipit cronistico nei
testi narrativi di Buzzati", in Buzzati giornalista,
cit., p. 381.
[5] Si veda D. Buzzati, Cronache terrestri, Milano, Mondadori,
1995, pp. 5-8.
[6] La frase compare più volte nell'opera del filosofo
tedesco, ma è celebre nel Crepuscolo degli idoli.
[7] Così Heidegger: "Il titolo Come il "mondo
vero" finì per diventare favola dice che qui
deve essere esposta la teoria nel corso della quale il soprasensibile,
posto da Platone come il vero ente, non soltanto fu trasferito
dal rango superiore a quello inferiore, ma sprofondò
nell'irrealtà e nel nulla" (M. Heidegger, Nietzsche,
tr. it. a cura di Franco Volpi, Milano, Adelphi, 1994, p.
199).
[8] L. Venuti, "Dino Buzzati's Fantastic Journalism",
in "Modern Fiction Studies", n° XXVIII, 1982,
pp. 79-91.
[9] Ivi, p. 80.
[10] Ivi, p. 84.
[11] D. Bahuet-Gachet, "Problemi di comunicazione e
potere della parola in alcuni racconti di Buzzati",
in Buzzati giornalista, cit.
[12] I racconti che seguiranno sono tratti da: D. Buzzati,
Sessanta racconti, Milano, Mondadori, 1958.
[13] Ivi, p. 49.
[14] D. Bahuet-Gachet, "Problemi di comunicazione e
potere della parola in alcuni racconti di Buzzati",
cit., p. 457.
[15] D. Buzzati, Qualcosa era successo, in Sessanta racconti,
cit., p. 259.
[16] Ibidem.
[17] Si veda anche A. Oppo, "Buzzati e il 'giornalismo
fantastico'. La storia di un giornalista fuori dal comune",
in "Problemi dell'informazione", n. 1 marzo 2002,
Bologna, Il Mulino, pp. 115-124.
[18] Si veda a questo proposito il saggio di Felix Siddell,
Buzzati e la Luna, in Buzzati giornalista, cit., resoconto
delle cronache sui viaggi lunari degli astronauti americani
nelle varie missioni "Apollo". I titoli di questi
articoli, come spesso capita in Buzzati, parlano da soli.
Basta citarne alcuni: "L'eterno slancio"; "Se
si scoprisse che la Luna è molto più lontana
del previsto"; "Non deluderci, Luna"; "Aspettano
dai dischi volanti la pace perpetua sulla Terra"; "Soli
soletti".
[19] L. Pareyson, Verità e interpretazione, Milano,
Mursia, 1971, p. 69.
[20] Ibidem.
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