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Saverio Zuppani
La metafora musicale nella filosofia del '900

 

S. Zuppani, La metafora musicale nella filosofia del '900 , in "XÁOS. Giornale di confine", Anno IV, N.1 Marzo -Giugno 2005/2006 URL:
http://www.giornalediconfine.net/n_4/4.htm

 

Con il presente lavoro s'intende mostrare le riflessioni sulla musica di importanti autori del novecento come tentativo non solo di fornire spiegazioni più o meno calzanti su determinati compositori, ma anche e soprattutto, come sforzo di cogliere le sfaccettature e i meandri di un essere che non è più svelabile nella sua totalità dal linguaggio delle parole. Ciò non vuol dire che ogni discorso sia inutile e privo di senso. Al contrario, proprio perché il reale non è del tutto esaurito, un discorso può avere senso. Allora la metafora assume quel ruolo importante che non è semplice sostituzione di qualcosa che poteva essere espressa diversamente, e cioè con il senso letterale, ma capacità di creare nuove comparazioni che aiutano a non ridurre definitivamente lo scarto. A maggior ragione la musica per questi autori si mantiene su un ambito che non è adeguamento né espressione della volontà assoluta: la sonata può rappresentare i conflitti dell'esistenza, ma non sono questi stessi conflitti. Parlare e scrivere di musica assumono, allora, un ruolo caratteristico per scavare più in profondità, cogliere delle sfumature che, magari, al linguaggio pensato come univoco sfuggono perché si chiude in se stesso. Saranno evidenziate le prospettive di Jankelevitch e Adorno. Nel primo, la musica può considerarsi metafora di ciò che non si può dire a meno di usare violenza; nel secondo, "l'arte dei suoni" diventa non solo momento critico della società, ma anche metafora di ciò che non può più avere una forma irrigidita, perché le fratture non sono ormai ricomponibili senza finzione.

JANKÉLÉVITCH

1. Musica ed espressione

Il pensiero di Vladimir Jankélévitch si muove continuamente su due regimi che spesso s'intersecano e si scambiano i ruoli: quello musicale e quello prettamente filosofico. L'autore ha sempre amato la musica e nei suoi scritti traspare, oltre alla sapiente conoscenza delle opere musicali che cita, la capacità di muoversi all'interno e tra i concetti come se stesse effettivamente suonando qualche strumento. Quello che più colpisce, infatti, è la capacità di non irrigidirsi mai su una posizione definitiva, ma oscillare danzando da un punto all'altro nella ricerca di un equilibrio che nel suo movimento perenne trova la giustificazione. Non esiste un'interpretazione definitiva ed esaustiva del reale perché, così facendo, si cerca di afferrare una cosa che, essendo sottoposto alla dura legge della temporalità, è già più in là nel momento in cui cerchiamo di coglierla.
Se questo discorso vale in linea generale, a maggior ragione vale per un ambito ambiguo come quello musicale. Per Jankélévitch la musica non vuol dire nulla e allo stesso tempo vuol dire tutto; c'è un certo rifiuto a considerare il materiale sonoro come la vita stessa e i dolori dell'esistenza alle stregue della filosofia di Schopenhauer: la sonata è un riassunto della vita umana, compresa tra nascita e morte, ma non è questa stessa avventura. Non è, in altre parole, la vita stessa che si rispecchia nella musica o che discende dalle alte sfere del volere assoluto. Ogni pretesa, quindi, di una "metafisica della musica" perde di vista il senso simbolico del simbolo, la metaforicità di un discorso che non potrà mai essere concluso se non al prezzo di una violenza che fa dire ciò che in realtà non si può dire perché è ineffabile. E' necessario proteggere il senso dall'ostentazione continua di esso, del dire "a tutti i costi sempre e comunque", attraverso il pudore, che non è una semplice sottrazione, ma la capacità di dire e non dire allo stesso tempo: "Parimenti la musica non sottrae il senso per rivelarlo, ma rivela il senso del senso stesso: lo rivela proprio sottraendolo, e per converso lo rende volatile e fugace nell'atto stesso di rivelarlo". [1]
Esistono, per l'autore, vari modi per effettuare tutto ciò, uno di questi è il cosiddetto "espressivo inespressivo", cioè il rifiuto non di esprimere in senso assoluto (ogni composizione musicale sarebbe quindi preclusa) ma di esternare direttamente i propri sentimenti; si preferisce parlare di altro, come la musica di Rimskij Korsakov che è troppo presa a raccontare le avventure di Scheherazade che i propri conflitti interiori, allontanandosi, quindi, da un ideale romantico di confessione personale. Tuttavia, anche nelle sinfonie, nelle sonate patetiche, Jankélévitch riconosce l'instabilità dei sentimenti e delle emozioni, solo che nell'orizzonte del sentimentalismo gli affetti si credono eterni e duraturi, mentre nell'umorismo sanno di essere provvisori.
Il rifiuto di un'ideale romantico di espressività non è privo di conseguenze in quanto è necessario un forte controllo sulla forma, controllo che sfocia in vera e propria violenza. Tuttavia in compositori come Strawinskij,Prokofieff, Bartok il gesto a volte rude viene interprato al contrario come esperienza "fondatrice": essi con la rudezza del discorso vogliono esprimere il disprezzo per il "bel-dire", per la frase elegante nel senso di accademicamente stantia e raggiungere così, una nuova forma, una nuova bellezza. La tortura della forma, lungi dall'essere meramente distruttrice, in questi artisti serve per ritornare ad un certo materiale informe, alla sorgente di tutte le forme, alla possibilità di determinare nuove determinazioni esplorando sentieri differenti.
La volontà di non esprimere niente è, in realtà, solo una finzione, una tattica per riuscire a dire di più, dicendo paradossalmente meno. La musica non esprime parola per parola, dettagliatamente, piuttosto suggerisce, evoca a grandi linee. Infatti, come l'anima non è rintracciabile in una parte precisa del corpo e i ricordi non sono associati uno per uno a ciascun neurone, così la musica non è in nessun posto ma è comunque da qualche parte. Per Jankélévitch il registro più proprio della musica è, quindi, quello dell'equivoco infinito: " da una parte e dall'altra si stende davanti a noi l'infinito, il possibile, l'indeterminato, e lo spirito si smarrisce in un groviglio inestricabile di biforcazioni biforcate, in una rete labirintica di incroci ramificati e di incroci di incroci. Non c'è più un dato che sia semplice: c'è solo una complicazione complicata all'infinito. Non è l'equivoco infinito il regime naturale della musica?"[2] Da qui segue l'affermazione per cui la musica consiste nell'esprimere l'inesprimibile all'infinito: non nel senso di indicibile, in quanto per l'autore quest'orizzonte è quello della morte, del non essere, assolutamente imperscrutabile e insondabile, quanto nel senso di ineffabile, cioè non si può cogliere perché c'è infinitamente da dire. Il senso, quindi, non viene esaurito e fissato eternamente, perché la musica a differenza del discorso, non conosce il principio di non contraddizione. Jankélévitch riconosce validità ad essa senza una mediazione che ne giustifichi, in qualche modo, il valore. Il momento negativo non è più un momento che fa parte di un cammino dialettico che risolve le antitesi in una sintesi ultima, non c'è più una conciliazione conciliante, ma un continuo rinvio l'uno all'altro, oscillando perennemente. Il suono, infatti, compare e scompare, c'è e non c'è, in altre parole il suono è possibile perché c'è il silenzio.
Ci sono due tradizioni: quella tedesco-austriaca (da Bach a Wagner, passando per Haydn, Mozart e Beethoven) in cui esiste una prevalenza per lo sviluppo dialettico, tematico tra primo e secondo tema, tonica e dominante; e un'altra, quella che predilige l'autore, in cui il regime è quello della "serenata interrotta": un certo rifiuto per lo sviluppo tematico, dando importanza al solo fatto che essi, i temi, esistono senza doversi "scontrare" o avere necessariamente una priorità. La scala esatonale, per esempio, è un tentativo di conferire uguaglianza a tutti e sei i gradi della scala in quanto tutti e sei sono equidistanti l'uno dall'altro. Ci si sottrae, quindi, a preoccupazioni metafisiche nel senso di dare un fondamento unico alla realtà, in quanto tutto ciò irrigidisce e non permette l'oscillazione tra un termine e l'altro. Questo può portare ad un'esistenza fragile, ma solo così facendo ci si può mettere nella prospettiva dello stupore: gratuità e misteriosità dell'esistenza. Il linguaggio dell'autore è la musica perché in essa, appunto, i contrari non alimentano sterili aporie ma costituiscono un'energia feconda che rinnova continuamente, che rimane sempre viva. La musica non esiste in se stessa, ma esiste solo nel momento in cui si fa, nell'agire nell'azione che si sviluppa nel tempo. Per Jankélévitch non bisogna cercare l'originale, il nuovo a tutti i costi: molto spesso, chi vuole a tutti costi dire non dice niente, cioè non esprime nulla di significativo e non convince l'orecchio attento.

2. Ironia e litote

L'umorismo permette di dire le cose più atroci in una maniera delicata, quasi piacevole, ma che, in realtà, fa passare le verità più importanti. Quello che Jankélévitch chiama "lo spirito di litote" è un mezzo espressivo tale da permettere non solo di dire il contrario di quello che si afferma, ma anche di dire meno o di dire altro. Tale spirito è caratteristica di un uomo discreto, che reprime da sé la foga dell'appassionato e dell'animo infuocato, cioè di un uomo capace di porre un limite che sa "quando interrompere il racconto ad arte". Assomiglia, quindi, molto alla copertura di una maschera e tutto ciò che ne consegue sul piano della teatralità.
Infatti, i compositori scelti da Jankélévitch si sottraggono al giudizio estetico della cultura dominante: invece di glorificare il soggetto sono esaltati soldatini di piombo, gnomi, paesaggi ecc… ; la musica non viene caricata di concetti metafisici, ma c'è una naturale riverenza nei confronti del mistero, dell'essere e della morte. Lo spirito di litote, quindi, permette di sottrarsi alla violenza di un linguaggio che, dichiarandosi e ostentandosi puro, in realtà nasconde la cattiva intenzione dell'impuro. D'altro canto, però, non significa rinunciare totalmente alle armi dei nemici, in quanto in qualche modo è necessario combattere: ecco che ritorna la maschera come elemento di un senso che non deve essere urlato, ma protetto, sia da tutti coloro che se ne vogliono impadronire violentemente, sia dalle contaminazioni del linguaggio stesso. Se si vuole preservare la verità nella sua incontaminata purezza è necessario mascherarla e visto che il linguaggio verbale per Jankélévitch è un po' troppo rigido, la musica è l'unica che possa garantire un certa flessibilità, così come l'ironia permette di dire altro da ciò che si sta effettivamente dicendo. Il movimento della coscienza ironica, infatti, si snoda nell'ironia sulle cose, cioè un atto che, prima di tutto è un allontanarsi, cessare di aderire alle cose e respingerle lontano. Viene negato il discorso compatto, un po' come l'ironia socratica, perché l'alternarsi di domande e risposte produce la possibilità di slegarsi dalla necessità e di rendere il pensiero più libero. Si snoda, inoltre, anche e soprattutto, nell'ironia su se stessi, che apre il campo alla liberazione della coscienza " dal suo presente, meditando anche sulle assenze, assenza che non è più e assenza di ciò che non è ancora; vuole poter guardare a destra e a sinistra, come guarda in avanti e indietro…"[3].
Musicalmente l'ironia si avvicina molto, anzi forse è proprio così, alla tecnica dello staccato e del pizzicato, che, come suggeriscono le parole stesse, danno un senso di "sfiorare" "volare leggiadramente". Chi troppo vuole nulla stringe, ma la coscienza ironica non vuole assolutamente stringere, anzi semmai il contrario: poco di tutto e non tutto di una cosa sola, in quanto è solo proprio dell'istinto quello di volere una cosa sola e possederla sempre; invece, l'intelligenza sa anche porre dei limiti, dei freni capaci di differire magari il piacere immediato perché è più attenta ai rapporti tra le cose, che al possesso delle cose stesse. Attraverso, quindi, questi due momenti, quello dell'ironia sulle cose e su se stessi, si aprono le porte per capire l'essenziale fragilità del serio. Per Jankélévitch troppi fatti storici importanti, magari anche gloriosi, se analizzati fino in fondo nascondono magari intenzioni non troppo "grandiose", tale scoperta può portare tristezza, ma solo per chi si pone nell'ambito del serio a tutti i costi, che vede contraddette le sue teorie. L'ironia, invece, è sì malinconica, ma dischiude il mondo della pluralità: le idee non sono più sole e devono abbandonare la loro altezzosità signorile perché sono circondate da altre idee. Non si può sostanzialmente amare in maniera assoluta tutto e tutti, è una violenza per il mistero e un ulteriore inganno che facciamo a noi stessi credendoci assoluti.
L'ironia, tuttavia, solo apparentemente demolisce senza costruire nulla, in realtà è un saper lucido, anzi lucidissimo, in quanto si muove proprio come il funambolo che necessita di una grande abilità e di una concentrazione massima per non cadere. È disinteressata, o meglio non è indirizzata al volere egoistico cui, invece, la menzogna è esposta e ha la sua caratteristica peculiare: l'ironia non vuole convincere ma essere compresa. La bugia, infatti, è elaborata per ingannare e necessita, per la possibilità di vincere, l'adesione e la credenza del soggetto al quale si riferisce. Non è contemplato un momento interrogativo di riflessione, perché in quel frangente il mentitore potrebbe essere scoperto, rendendo vani ed inutili i suoi sforzi. L'ironia, tutt'altro, vuole essere capita dal suo interlocutore in quanto lascia delle tracce, dei segni che fanno risalire al senso vero, anche se detto in maniera contraddittoria. C'è amicizia nelle parole dell'ironista (a patto che, precisa Jankélévitch, non sia mero scherno e canzonatura fine a se stessa) , il quale scende su un terreno comune all'interlocutore e si nasconde quel tanto che basta per non essere troppo brutali, lasciando spazio ad una sempre feconda discussione. Viene generato, così, un movimento, un atto potenzialmente creativo che la menzogna, invece, blocca in quanto la sua azione preferita è quella di immobilizzare e neutralizzare il "nemico".
Musicalmente per Jankélévitch, l'ironia trova spazio, per esempio, in Satie: compositore che pone in frasi musicali interrogazioni, domande continue come se volesse aiutare l'ascoltare a disintossicarsi della pesantezza di un soggetto troppo preoccupato a prendersi sul serio. Frequenti sono i richiami ad altri compositori ,come Chopin o Beethoven, di cui si imita per alcuni tratti lo stile, ma senza mai aderirvi pienamente; e lo stesso fa il pensiero ironico che dice una cosa ma che, in realtà, ne intende un'altra. Le composizioni sono spesso brevi, concise in quanto, secondo Jankélévitch, c'è un certo pudore, una volontà di alludere senza mai affermare pienamente; l'ironia, allora, procede nello stesso modo è laconica, "è una brachilogia"[4], procede per ellissi, avvicinandosi e discostandosi repentinamente e rifiuta, quindi, il sapere di tipo enciclopedico. Solo apparentemente il movimento creato dalla coscienza ironica è errante e senza meta, a ben vedere l'ironia e la sua funzione è di smascherare l'ingiusto facendolo rimanere tale, cioè lasciare che da solo tocchi il fondo e si accorga della sua malvagità. Come ogni tecnica confutatoria che si rispetti è meglio che la contraddizione venga dall'interno, piuttosto che esternamente, solo così, infatti, sarà garantita pienamente la validità della confutazione. L'ironia, infatti, procede in modo che il malvagio si metta pienamente in luce per far uscire appieno la sua natura e, in certo senso, costringerlo a "suicidarsi": "L'ironia mimando le false verità, le obbliga a manifestarsi, ad approfondirsi, ad esporre minutamente il loro bagaglio culturale, a rivelare delle tare che, senza di lei, passerebbero inosservate; palesa il loro non senso, induce l'assurdità all'autoconfutazione, cioè impone all'assurdo di produrre esso stesso la prova della sua impossibilità".[5]
La litote, il pudore, allora, indicano il carattere assolutamente ironico dell'esistenza: non c'è proporzione tra il "peso ontologico e il volume fenomenologico" [6], cioè non è direttamente proporzionale l'apparente grandezza di qualche cosa con la sua importanza. Analogamente il rumore occupa molto spazio, è ingombrante, ma la sua sarà un'esistenza priva di densità. Le cose veramente importanti fanno poco rumore, ma hanno molto più "peso". Il silenzio, dunque, favorisce la concentrazione, il raccoglimento per sentire quelle voci, o meglio, quella voce altra, che parla un'altra lingua, che viene da altrove. L'uomo scava prima all'interno del frastuono, del rumore, poi, successivamente, all'interno del silenzio stesso. In questo caso sembra ritornare, così, "l'armonia delle sfere" dei pitagorici; in realtà Jankélévitch precisa che il "messaggio" musicale non è un messaggio metafisico. La voce tutt'altra non viene da un altro mondo, ma dal tempo interiore dell'uomo e dalla natura che c'è fuori. La musica ha quindi la capacità di provocare ricordi [7], attraverso una regressione che solletica la memoria a mostrare nuovamente ciò che resta del passato viene comunque percepita. Jankélévitch,inoltre, invita a diffidare delle metafore ottiche del silenzio, perché sono ingannevoli, tentano di fissare la durata e non colgono l'aspetto fondamentale. Il silenzio non è spegnimento del rumore, né un carattere positivo o negativo dell'evento sonoro, ma è veicolo di qualcos'altro. Dunque, non il non-essere ma altro dall'essere e, ricorrendo ancora una volta ad una metafora, Jankélévitch afferma: " il silenzio è il deserto in cui fiorisce la musica; e la musica, questo fiore del deserto, è una sorta di misterioso silenzio".[8] La voce tutt'altra che sentiamo non ci svela alcun segreto sull'aldilà, ma può comunque ricordare all'uomo il mistero che porta al suo interno.
Dire che la musica è un fiore e il deserto è il silenzio in cui nasce significa porre in correlazione due ambiti, quello musicale e quello reale, per riuscire a ricevere quell'istante che permette di intravedere il tutt'altro. L'importante della operazione metaforica è l'interattività dei termini: nella frase "la musica è un fiore", il contenuto di qualità che si riferisce, comunemente o no, al fiore si trasferisce alla musica; tuttavia, è vero anche il contrario: non solo la musica diventa più "fiore", ma anche il fiore diventa più "musica". Questo scambio reciproco mantiene bene l'oscillazione, la reciprocità e un carattere anche cognitivo di quest'espressione, nel senso che, l'uso del secondo termine (il fiore) per capire il primo (la musica) richiede una percezione simultanea di entrambi, irriducibili ad un confronto totalmente esaustivo. Una metafora efficace ha il potere di mettere due domini separati in relazione cognitiva ed emotiva, usando il linguaggio direttamente appropriato all'uno come una lente per vedere l'altro; le implicazioni, le associazioni, i valori costitutivi intrecciati all'uso letterale dell'espressione metaforica ci permettono di vedere in un nuovo modo. L'estensione dei significati che ne risulta, le relazioni che si vengono a creare fra campi inizialmente disparati, non possono essere né anticipatamente previste, né successivamente parafrasate in prosa. "Possiamo fare commenti sulla metafora, ma la metafora di per sé non richiede, né sollecita spiegazione o parafrasi. Il pensiero metaforico rappresenta un particolare modo di ottenere una maggiore comprensione e non è costruito come un sostituto ornamentale del pensiero semplice" [9]La musica dice e non dice, è più allusiva che esplicativa e proprio tutto ciò consente a Jankélévitch di mantenere un'oscillazione che non si annulli in uno dei due termini.

3. La dignità del reale

Per Jankélévitch, uno dei problemi fondamentali è il rapporto tra realtà ed ordine tutt'altro[10], al quale deve rinviare. Il nodo è proprio in quel deve, in quanto per l'autore l'analogia tra copia e modello non è così immediata. Supporre questa analogia, come del resto Platone e tutti quelli che hanno seguito questa impostazione, significa rendere possibile un avvicinamento alla verità in maniera graduale, dialettica, progressiva. La copia diventa la breccia, anzi la buona apparenza, che concede l'opportunità di andare oltre, ma, allo stesso tempo, rimane un'illusione, un fatto negativo perché noi, tutto sommato, dovremmo vivere in un mondo di false apparenze svalutate. A ben vedere, tuttavia, è anche il modello a perdere, a sminuirsi, in quanto cede il suo valore di pura trascendenza per accostarsi alla vita e, in qualche modo si "contamina". Jankélévitch propone, invece, un collegamento che salvaguardi da un lato, la purezza della trascendenza e dall'altro, la rispettabilità dell'esistenza. Tutto ciò è dato dall'empiria, che non conduce alla verità, ma offre tutto sommato l'impulso, fa da testimone per aprire un pertugio che si attua solo nel momento di un istante particolare. Quest'ultimo consente, dunque, di toccare per tangenza il tutt'altro, in un attimo che diventa quasi imponderabile.
Appare chiaro, allora, un certo rifiuto per la dialettica, intesa come processo graduale per la scoperta della verità. Tale progressività si fonda sulla capacità del soggetto di "fagocitare" l'oggetto, confermando ad ogni tappa la sua potenza, mai ridimensionata sempre presente a se stessa. Ciò che propone l'autore, invece, è un'apertura all'oggetto, che non preveda la sua totale assimilazione, ma la capacità di avere una relazione senza sfociare nell'invadenza. Il contatto avviene tramite l'intuizione, che, per definizione, non ha uno sviluppo sequenziale e permette l'incontro tra zona spirituale e materiale: il punto di contatto è instabile, intermittente, perché non è fondato su una successione che consente di fermarsi e ripartire con ciò che si è acquisito in precedenza, ma non per questo, non consente di intravedere qualcosa. L'impressionismo di Debussy è per l'autore il punto più eloquente di questa intermittenza, di questa vocazione a registrare la precarietà delle sensazioni contro l'eternità passionale. L'istante della sua musica assume, allora, un ruolo determinante per l'interruzione proprio del prolungamento di quella eternità: accettarla e effettuare il salto in ciò che la trascende. Tuttavia, c'è un istante che riassume ancora meglio non solo la cesura di quel sentimentalismo romantico ma anche la tendenza alla ricerca della "stagnanza" [11], di ciò che sembra muoversi, ma in realtà sta fermo: è l'istante del mezzogiorno. In esso si raggiunge il punto culminante della giornata e, nello stesso tempo, l'inizio della sua caduta; il tempo pare arrestarsi e aprirsi al possibile.

4. Creare suonando

Debussy è, quindi, il musicista del mistero, che è sempre inesprimibile, ma ha dei significati differenti, per esempio rispetto al segreto. Quest'ultimo, infatti, è riservato agli iniziati, agli adepti di qualche circolo esoterico e non può essere comunicato ai profani; il mistero, invece, è di tutti ed è universalmente riconoscibile; " non è una cifra, né un "mistero verbale",[12] bensì un "mistero essenziale", e più che una cosa, una "res", esso è un'atmosfera.
Un'atmosfera, però, che è nel reale, nel presente, nel momento in cui la musica viene eseguita e, quindi, nella nostra vita. Per cogliere la profondità della musica non è necessario andare oltre la superficie, in un'altra realtà,poiché il fenomeno sonoro è già fenomeno spirituale. A proposito della musica in generale afferma: " la musica non esiste in se stessa, ma solo in quella pericolosa mezz'ora in cui, suonandola, la facciamo essere. La verità eterna diventa allora operazione temporale e comincia ad accadere effettivamente, secondo coordinate di orario e calendario".[13] Noi possiamo permeare "questa mezz'ora" proprio grazie al movimento, perché solo mediante esso la coscienza si libera delle sue protezioni rappresentative e la rende attenta, pronta alla ricezione. Facendo qualcosa, infatti, si abbandona la prospettiva contemplatrice, di chi osserva, "dell'anima contemplante, del testimone, la quale in fondo restituisce, come in uno specchio l'immagine della coscienza di sé"[14]. Questa tendenza all'agire fa contrappeso il prediligere l'atmosfera del notturno, musicale e non. In esso i contorni sono sì più indefiniti ma il buio favorisce ai lacci della coscienza di sciogliersi e condurre la stessa magari all'inaspettato. Viene persa l'abitudine al rispecchiamento immediato, aprendo le porte a dei dati originari.
L'artista crea, o meglio, ricrea nel caso dell'esecutore, ponendosi allo stesso tempo in una dimensione di attesa attraverso cui il dato musicale, tutto sommato, può essere accolto. "Non si tratta di definirlo o di palparlo con le dita, bensì di rifarlo insieme a chi l'ha fatto e, cooperando alla sua operazione, di ricreare ciò che questi ha creato".[15] Da qui si può, forse, spiegare per quale motivo Jankélévitch suggerisca, a chi ascolta, di non dirigersi troppo frettolosamente verso rimandi metafisici conclusivi, nel senso che annullano lo scarto che è presente in ogni metafora, annullando la distanza e chiudendo il soggetto ad altre possibilità.
A questo riguardo ci sono fondamentalmente due modi per eludere il mistero: dando più importanza all'accidente o fare del non conoscibile una semplice estensione del conoscibile. L'apparenza non è nulla. Può apparire negativa ma solo perché appare senza essere. In realtà è comunque presente e ci mostra qualche cosa, certo, non nel grado pieno e autentico di un essere assoluto. La sua caratteristica è quella "di fare luce", mostrare proprio come noi conosciamo, per esempio, prima l'esterno della corteccia e poi, successivamente, l'interno. L'apparenza, dunque, è in primo tempo ciò che è in rapporto con noi ed è inevitabilmente legata all'essere stesso.
Tutto ciò non è necessariamente negativo: l'apparenza non rende falso il vero o vero il falso. C'è una posizione intermedia che permette, magari, di rendere meno dura e "nuda" la verità stessa poiché anche questa nudità è, comunque, problematica. Rosseau credeva, infatti, che l'uomo "vero e naturale" sarebbe comparso solo quando fossero stati eliminati tutti i vestiti, compresi quelli di carattere sociale. Marx individua con questa spoliazione solo la merce e l'interesse e, quindi, è necessario strappare ulteriormente altri veli, che riportano ad altri veli. Anche nell'illuminismo,[16] che voleva toglierli tutti per arrivare alla "nuda verità"[17], anche quelli utilizzati per travestirla e renderla così accessibile solo agli iniziati e non al volgo, ritorna la metafora del rivestimento: " ciò che sembrava nudità si rivela una "veste ideale", che noi adattiamo, combinandola su misura, nella matematizzazione geometrica e scientifico-naturale del "vivente mondo".[18] Il valore dell'uomo viene dato non tanto dal possesso della verità stessa ma dal modo in cui essa viene raggiunta. Il possesso può rendere inerti e superbi, non solo; una volta raggiunta la verità bisogna avere la forza necessaria per sopportarla. Per kierkegaard, infatti, si può anche stare davanti alla verità, alla nuda verità , ma se essa non ha alcun significato profondo per noi è difficile poterci vivere dentro. Ciò che Platone, nel Gorgia, nella repubblica, aveva cercato di allontanare e rinnegare, in Jankélévitch diventa parimenti importante: la periferia dell'essere, così'come la penombra della luce, sono ugualmente significativi come l'essere al centro o la sorgente luminosa.
Tuttavia non bisogna considerare questa equivalenza come un privilegio dell'apparenza sull'essere e concludere che solo in quella si manifesterebbe l'indicibile. Jankélévitch preferisce pensare ad una assoluta inviolabilità della sostanza ultima, in quanto se "non si può dire più nulla sul mistero stesso, si può ancora dissertare o chiacchierare al suo riguardo, raccontare fatti di cronaca ed aneddoti, le circostanze propriamente dette, determinazione categoriali del quanto, del come, del tempo e del luogo, si offrono a tutte le figure polimorfiche e politropiche dell'enunciazione e, di un'enunciazione che, rispetto al centro dell'ipseità, è piuttosto circonlocuzione".[19]
Il non-so-che diventa uguale all'essere che è conoscibile all'infinito. Esso non risponde alla domanda "quid", ma fa intravedere appunto un non-so-che che è il fatto di essere. Non c'è mai una conoscenza di questo "qualcosa" in maniera duratura, ma solo nell'attimo dell'istante, nel lampo. Sostanzialmente bisogna stupirsi non di cosa le cose siano, ma del fatto che esse sono e di come esse lo siano. "il divenire è l'inafferrabile maniera di essere dell'essere, e si può dire in senso proprio: il tempo è l'intuizione dell'essere"[20]. Il non so che non è puramente niente, né totalmente tutto. Tuttavia questa mancanza di sapere è infinitamente più conoscente della conoscenza assoluta, in quanto, premettendo quel quasi al niente, si fa in modo di essere almeno al corrente di una vaga verità.
Se il tempo è l'intuizione dell'essere, allora la morte o il nulla può cancellare l'essere stesso, ma non si può trovare un potere assoluto sull'essere-stato di una vita vissuta: c'è stata comunque, solo che non è più adesso. Il passato non è niente, è un "quasi" niente. Per Jankélévitch l'istante assume un importanza decisiva, in quanto solo in esso il soggetto può restare se stesso. Tuttavia si diventa coscienza solo nella durata e nel dispiegamento del tempo quando, appunto, si ha tempo per dirigere lo sguardo sulle proprie azioni e si attua la riflessione. Paradossalmente la stabilità si trova nella temporalità, ma non in quella cristallizzata e somma di tutti gli istanti tipica della scienza del positivismo, ma quella che rifiuta la spazializzazione e procede sull'unica dimensione temporale. Non si tratta di ricostruire una nuova teoria del tempo che si basi ancora una volta su concetti e categorie a-priori, bensì sull'attività del tempo, sul suo svolgersi ineluttabile. Il ritorno delle cose, degli avvenimenti naturali e così via, non è sempre identico a se stesso, è uguale ma diverso insieme. Tutto questo garantisce alla speranza di esistere e di poter avere un effetto sulla realtà, almeno, di provarci. L'intenzione, in questo caso, è fondamentale, in quanto apre una distanza forte tra il niente e il quasi-niente: proprio quest'ultimo, proprio l'impossibilità di stabilire eternamente che cosa il tempo sia, permette di tracciare un pertugio all'interno della necessità assoluta.
La musica, dunque, non rinvia ad un significato predeterminato, la musica va presa alla lettera in quanto solo nella ripetizione, solo scrivendo e riscrivendo sulla musica, suonando e risuonando, si può far emergere quell'abbondanza di senso che l'evento sonoro suggerisce. La metafora del fiore indica la nostra dimensione, quella della realtà in cui noi siamo inevitabilmente immersi. È la dimensione temporale a sostenerci, perché è solo nel tempo che la vita può vivere, è solo lì che il vivente può trovare una chance per il futuro finché lo slancio non viene fermato dalla morte. Jankélévitch pensa ad un modo di stare al mondo che vale la pena di essere vissuto, nonostante tutto il chiasso, tutto il frastuono che può fraintenderlo. Il suo silenzio non è tanto quello del nichilismo che pensa alla propria cultura come a quella di un malato allo sbando: non è, cioè, il condannato al patibolo, quanto piuttosto colui che guarda un'altra persona morire e, in quell'attimo, fare esperienza la più possibile vicino, in vita, alla morte. C'è uno scommessa nei confronti della vita, una speranza che è più movimento che fine, più difficile della disperazione poiché implica un dispendio di energie, un tentativo di aprirsi all'esistenza. Certo, il paradiso perduto dell'innocenza, ammesso che sia esistito, non tornerà mai più. Tale è l'aspetto tragico della nostra condizione e della nostra temporalità. Tuttavia, se tutto è perduto, non è detto che il rimpianto possa impedire alla speranza di avere una qualche possibilità, anche se solo per un brevissimo istante.
È per questo che la metafora deve rimanere sempre viva, aperta , in quanto solo la sovrabbondanza del senso in rapporto all'espressione letterale mette in moto l'ermeneutica. Jankélévitch decide di mantenere la tensione attraverso una concezione instabile, contraddittoria del senso musicale: da una parte l'assenso alla indubbia presenza fenomenica, dall'altro la trascendenza alla quale rinvia nel momento stesso in cui è presente. È possibile, infatti, che venga privilegiata solo la dimensione di una presunta solidità metafisica, ponendo fine alla tensione e alle oggettive derive di un senso allo sbando. Così ciò che si ascolta non diventa nient'altro che la mera apparenza di una melodia più o meno celeste, di un mondo fatto e costituito di armonie eterne. L'unico proposito è quello di scavalcare il più in fretta possibile questo mondo per arrivare nell'altro, perché solo in quello c'è la vera musica. Schopenauer, per esempio, cerca di abbandonare in fretta il regno del sensibile. La musica è isolata dalle altre arti poiché, mentre quest'ultime sono rappresentazioni delle idee, la prima è, invece, in diretto contatto con il principio metafisico della volontà. Da qui il corollario che la musica potrebbe esistere benissimo in se stessa con la paradossale conclusione che il nostro orecchio sarebbe di ostacolo ad una vera e ultima comprensione del fenomeno sonoro, una barriera da scavalcare.
Dall'altra parte, la possibilità di privilegiare solo l'aspetto empirico e di imprigionare la musica nella nostra realtà. Il tentativo è, invece, quello di concepire un'instabilità che sia basata sulla durata, ma che non esaurisca mai la tensione né verso il reale né verso il tutt'altro, scorgibile non nell'arco di tutta la durata stessa, perché altrimenti sarebbe eternità, ma nel tempo del lampo. "Il valore-limite della dicibilità e dell'ineffabilità hanno un'apertura maggiore di quelli della determinatezza definitoria e del tracciato immaginativo".[21]

THEODOR W. ADORNO

1. L'emancipazione della dissonanza (o organizzazione dell'espressivo)

Adorno non considera il materiale sonoro, che l'artista ha a disposizione, come fisso ed immutabile nel corso della storia. Non è opportuno considerare ciò che nell'attuale epoca storica è considerato "orecchiabile", come naturale in sé e quindi necessario, cioè spostare tale considerazione sull'asse del tempo e farla valere per il passato, per il presente e per il futuro. Non si può far derivare il carattere d'immutabilità dalla mutabilità della percezione sonora, che, appunto, dipende dal corso del tempo. Per esempio, la settima diminuita era considerata dissonante ai tempi di Beethoven, già qualche decina d'anni più avanti diventerà un cliché banale. L'autore considera, piuttosto, il materiale sonoro come qualcosa che si sedimenta e si mette in relazione con il compositore. Non nella misura di disporre totalmente di esso: se l'accordo di settima diminuita è logoro e abusato, è evidente che esso non potrà venir usato; la sua prescrizione, ma il discorso vale per tutto il sistema tonale, non è dettata dal semplice invecchiamento, bensì dalla sua falsità, poiché non adempie più alla sua funzione. In Beethoven, tale accordo è, tuttavia, ancora pieno e ricco di espressione: ha una funzione precisa all'interno del brano, dell'opera complessiva, della cultura, della società. Nessun accordo, per Adorno, è "sbagliato" in quanto tale, perché ha dentro di sé una storia, un processo e ad esso deve collegarsi. Nasce l'impossibilità del musicista che compone di essere totalmente libero, nel senso romantico di disporre a proprio piacimento di tutto il materiale.
Adorno introduce dei vincoli alla presunta libertà assoluta e lo portano a concludere che Schönberg non fu, a ben vedere, totalmente rivoluzionario: trasse delle conseguenze dalla storia, dal modo di comporre che erano in qualche modo necessarie. L'unico elemento veramente sovvertitore, per Adorno, è il mutamento di funzione dell'espressione musicale. Non sono più delle passioni mascherate, ma i subbugli dell'inconscio, i traumi, le cesure, che vengono registrati dalla musica. La dissonanza, dunque, assume un ruolo decisivo, poiché non è il semplice passaggio di note estranee ad un impianto predefinito, che di conseguenza deve subito rientrare in tale schema, ma acquisisce legittimità. La musica di Schönberg, infatti, non riconcilia il particolare con l'universale, non è in nessuna parte una totalità; si oppone alle apparenze e al gioco dell'opera borghese e, quindi, ad una concezione ornamentale dell'arte dei suoni. Solo in questo modo, la musica può "conoscere" il dolore, la conflittualità della società, la cui conciliazione pacificante in un opera "serena" non è più sopportabile, perché è vistosamente apparenza. Allora, la mediazione, la sintesi non sono appropriate, e, infatti il concetto di tema, sviluppo, armonia, melodia, è progressivamente abolito.
L'indurimento della forma viene percepito da Adorno come negazione della durezza della vita, un rifugio dalle difficoltà del mondo. Tuttavia, se l'angoscia dell'uomo solitario diventa il canone per la produzione estetica, allora c'è una possibilità che trapeli il senso di solitudine, di spaesamento, di lacerazione che attanaglia l'uomo moderno e non fare in modo che la forma si irrigidisca. Questo pericolo è sempre in agguato: anche il periodo espressionista di Schönberg non è esentato dalle critiche che esso poneva all'opera precedente. Se la composizione era basata totalmente sulla mera opposizione a canoni passati, questa ostilità non cancella definitivamente il concetto di autonomia contestato; a sua volta l'opera espressionista diventa orgogliosa della propria autonomia, perché fonda dei modi di comporre, e quello che era nato come "liberazione dell'espressione", diventa di nuovo censura di tale espressione. L'"opera" in quanto tale ha sempre un carattere bifronte: da un lato si manifesta al soggetto, alienato e scisso, come riconciliazione (apparente) dei propri dissidi interiori e con gli altri, dall'altro rappresenta tutto quanto c'è di vero nella società contro l'individuo. L'espressionismo aveva tentato di denunciare la violenza e la lacerazione, ma, secondo Adorno, non ha spinto il rifiuto al massimo e l'idea di opera si è cristallizzata ancora una volta.
Questo suo indurimento è stato precedentemente testimoniato più precisamente dall'attività compositiva di Wagner. Le saldature interne dell'"opera totale" devono essere, infatti, celate per far vedere che è un unicum. Tuttavia quest'ultimo è artificiale e del naturale ha solo l'apparenza o, meglio, l'intenzione che, secondo Wagner, dovrebbe rimanere celata. Solo così si possono aprire le porte del fenomeno assoluto, di cui l'orchestra è il medium rivelatore. Esiste una certa propensione all'espressione piuttosto che alla semantica del linguaggio; la musica, in altre parole, deve "riscaldare e far risuonare le relazioni alienate e reificate degli uomini, come fossero ancora umane".[22] I mezzi alienati, fra loro non più legati vengono riuniti solamente dall'imperativo dell'artista. La convergenza di musica-voce-teatro è, per Adorno, una violenza che sfigura la totalità e, oltretutto, si pone essa stessa come vera. Il tentativo di far combaciare tutte le tessere del mosaico è non solo una violenza alla struttura compositiva, ma anche una tautologia, poiché la musica, allora, dice le stesse cose che dicono le parole e, tanto più si procede tanto più diventa superfluo. L'ebbrezza allora diventa il carattere fondamentale, quello che permette di perdersi misticamente, di non riflettere, perché un solo istante di riflessione porterebbe lo sfacelo dell'unità. Anche la tecnica dodecafonica, per Adorno, potrebbe essere un mezzo per riunire sotto un unico procedimento astratto il materiale sonoro.
Questo tipo di elaborazione, cioè quello della organizzazione musicale soggettiva autonoma, si realizzava tramite il procedimento tecnico dello sviluppo. Ai tempi di Haydn lo sviluppo occupava poco spazio all'interno della sonata. Progressivamente, però, con Beethoven esso diventa centrale, fino ad occupare uno spazio anche superiore all'esposizione dei temi. Lo svolgimento delle forze espressive comincia a farsi minaccioso e a distruggere i residui convenzionali. Tali momenti saltano fuori dalla durata temporale razionalizzata della forma-sonata. Si ha, dunque, un continuo mutamento del linguaggio a spese dell'oggettività e della forza vincolante della musica. In Beethoven, in Brahms, wagner è al limite, tale processo era chiuso all'interno di un'unità melodico-tematica che poggiava ancora sul sistema tonale. In questo caso esiste ancora un'opposizione tra armonia e polifonia, nel senso che la prima deve obbedire a delle leggi verticali dettate dalla tonalità, la seconda, invece, può procedere più liberamente in quanto ogni suono ha un senso non nell'eventuale accordo generato, ma in rapporto all'andamento delle parti. Una volta caduta la tonalità questa opposizione è valida fino ad un certo punto: in Schönberg, secondo Adorno, la polifonia non si concilia solo in qualche momento con l'armonia, ma diventa principio proprio dell'armonia emancipata. Tramite la dissonanza l'accordo singolo può diventare esso stesso "polifonico", poiché i rapporti orizzontali con le altre note o gruppi di accordi sono negati dalla dissonanza stessa. Un accordo è tanto più polifonico più contiene suoni dissonanti. Il movimento della composizione viene spostato dal piano orizzontale, cioè dello sviluppo di elementi musicali nello svolgersi del tempo, a quello verticale dell'accordo, riunito interamente in esso. A questo punto il concetto di dinamica temporale del brano diventa discontinuo: il tempo considerato come dimensione che sostiene l'andamento musicale e consente la variazione, il cambiamento dei temi svanisce. Più precisamente non c'è più l'evoluzione, l'arte della variazione all'interno della composizione in quanto tutto il cambiamento è già deciso a monte.
Tutto ciò, secondo Adorno, è visibile nella tecnica dodecafonica che non è una "tecnica compositiva", ma è, piuttosto, una sorta di disposizione dei colori da utilizzare che l'atto di dipingere vero e proprio. Essa richiede che ogni pezzo venga derivato da una serie fondamentale, costituita da dodici note diverse tra loro. La serie, inoltre, può variare in quattro modi rispetto all'originale ed essere applicati ad ogni grado della scala cromatica. Le note, dunque, assumono valore solo in corrispondenza di questo principio formale, garantendo l'indifferenza tra armonia e melodia. Tuttavia, rileva Adorno, quello che apparentemente sembra essere la liberazione del soggetto, perché è lui che decide come strutturare la serie, quali rapporti prediligere ecc…, diventa principio soffocante. "Il soggetto impera sulla musica mediante il sistema razionale, ma a questo soccombe. Se nella dodecafonia l'atto compositivo propriamente detto, cioè la feconda elaborazione della variazione, viene sospinto nel materiale, la stessa fine tocca a tutta la libertà del compositore"[23]. Quest'ultima, che si è realizzata nel dominio, diventa, però, troppo potente nei confronti del soggetto e lo costringe alla propria stessa costrizione. Sostanzialmente, nessuna regola diventa tanto più costrittiva di quella che ci si pone. C'è un tentativo, secondo Adorno, di ripristinare una razionalità simile a quella che aveva sostenuto la tonalità, nel senso di ricostituire l'unità perduta, per esempio, di un Beethoven. Ma, mentre in questi la tonalità è riprodotta come libertà soggettiva, la dodecafonia estingue il soggetto, imponendogli un assetto troppo rigido.
La musica, dunque, deve emanciparsi anche dalla dodecafonia per rimanere libera e non irrigidirsi in forme che negano la possibilità dello sviluppo.[24] Il problema, per Adorno, non è tanto l'eccessivo grado di asocialità, individualità della musica, che dalle composizioni di Webern[25] e Berg si potrebbe dedurre, semmai il contrario: il conformismo alla tendenza storica nella quale si è inseriti, l'accettazione passiva allo spirito del tempo porta ad una concezione non salutare dell'opera d'arte. La sua verità, invece, risiede nella negazione della concordanza senza fratture. Nella denuncia della produzione di massa e del suo carattere oppressivo. Solo, tuttavia, nella dodecafonia il compositore può sperimentare non tanto la libertà che essa concede, quanto piuttosto quello che proibisce. C'è una ragione didattica ed anche polemica in tutto ciò: la severità delle regole per poter esprimere la libertà e l'allontanamento dalle regole stesse per poter continuare ad esprimersi. Questo tipo di tecnica, infatti, degrada il materiale sonoro, prima che venga costituito in una serie, ad un strato informe, cui il compositore poi fornisce le sue leggi. Il soggetto, però, nel momento che sottomette totalmente tale materiale attraverso il dominio razionale, si degrada a suo schiavo. La totalità estetica, che aveva distrutto nel periodo espressionista, ritorna sotto la specie della serie.
Tuttavia, proprio nel momento in cui viene percepito l'orrore per il linguaggio divenuto alienato, che non è più il suo, il compositore riconquista la sua autodeterminazione: il materiale proprio perché è divenuto indifferente può essere disposto a piacimento. Adorno, in questo caso, parla di "desensibilizzazione del materiale", cioè di una capacità del compositore di non chiudersi, ma di prendere coscienza anche della coercizione delle regole che ci si impone. Il dominio sulle note non deve rimanere pura formalità, poiché altrimenti si perpetuano gli stessi schemi, dato che è facile cadere nell'opposto: la schiavitù alla forma preposta. A suo avviso Schönberg, soprattutto nelle ultime composizioni, ha creato anche un'arte del saper dimenticare come principio immanente per la creazione. "Egli rinnega la fedeltà, da lui stesso fondata, all'onnipotenza del materiale, rompe con l'evidenza direttamente presente e conclusa dell'immagine, che l'estetica classica aveva denominato simbolica e a cui la realtà non corrispose mai una sola battuta. Come artista Schönberg riconquista gli uomini, attraverso l'arte, la libertà".[26]

2. Il ritorno dell'identico

Adorno, prendendo spunto da un critica di Thomas Mann [27], ritrova un certo dilettantismo nella musica di Wagner, nel senso di una certa tendenza ad assecondare il pubblico, a ridurre lo scarto fra l'alienazione del direttore-compositore Wagner e gli ascoltatori. Il leit-motiv, per esempio, viene considerato come strumento pubblicitario per una massa di persone che dimenticano facilmente. L'unico modo è allenare il ricordo in continuazione, poiché alla base c'è una debolezza dell'io che preferisce lasciarsi travolgere dalla corrente. In questa prospettiva la gestualità diventa implicita nel rapporti col pubblico, nella sua efficacia. "il direttore compositore rappresenta e reprime la richiesta dell'individuo borghese ad essere ascoltato. È il portavoce di tutti e tutti costringe ad obbedienza muta. Perciò egli deve sforzarsi di dare un anima ai gesti e di obbiettivare nei gesti lo psichico".[28] La gestualità può diventare, a questo punto, fine a se stessa, ma, in realtà, Wagner tenta la conciliazione dell'irripetibilità dell'espressione con l'impossibilità allo sviluppo del gesto. Le figlie del Reno all'inizio giocano con l'oro e, alla fine, ritornano a giocarci: nulla muta. Il divenire degli eventi è funzionale solo al ritorno nel punto dal quale si è partiti. Le accuse di scarsa capacità formale, in realtà rivelano qualcosa di più oscuro. La forma non deriva dal caos, ma da un falso processo d'identità: l'identico si ripresenta come se fosse nuovo, ma in verità è un processo che si basa sul vuoto.
Esiste un elemento, secondo Adorno, inevitabilmente regressivo che rende la musica di Wagner enigmatica. Tutto ciò che ha a che fare con una certa ambiguità di fondo, sia nella musica, sia dei personaggi stessi. Tale ambiguità viene, però, pietrificata in quello che, paradossalmente, doveva funzionare da collante della diversità nell'unità: il leit-motiv. Già al tempo di Wagner questi motivi non facevano un tutt'uno con l'opera, ma identificavano e aiutavano a riconoscere quello specifico personaggio. Il motivo come portatore di espressione si solidifica. L'arte compositiva di Wagner non è inconsistente perché è statica o perché mira all'immobilità dell'essere. Piuttosto c'è un tentativo di fare del regressivo un elemento di progresso dinamico, una rinuncia del soggetto alla sovranità e un dolce abbandono alle forze arcaiche. Gli espedienti tecnici per realizzare tutto ciò sono il colore e l'armonia, riuniti entrambi nella produzione del suono. In ciò, nell'ambiguità, esiste affinità con l'impressionismo.
Adorno rileva come la dissonanza non è semplice comparsa di "altri" suoni sgraditi all'impianto armonico di appartenenza. Se in Beethoven e fino a pieno romanticismo i valori espressivo armonico erano fissati: dissonanza per il dolore, consonanza per la gioia, in Wagner la situazione muta. La sofferenza può diventare dolce e i contrasti tra piacere e dolore sono mediati dal compositore. Tuttavia, per Adorno, la dissonanza in Wagner non è ancora del tutto autonoma, ha sempre bisogno del contrasto con la triade; la concezione di fondo è sempre tonale. Se l'armonia è in bilico tra passato e futuro, il colore della strumentazione assume decisamente un ruolo più definito. Attraverso di esso, infatti, si limano le asperità le divergenze tra le varie sezioni: archi, legni ed ottoni. Tutto ciò nella concezione dell'opera d'arte si traduce, per Adorno, con la volontà di unificazione di quello che, invece, è separato. Solo in questo modo, nell'identità, l'opera può diventare "naturale". Ma è una natura apparente, perché dimentica sistematicamente, e vuole dimenticare, il lavoro necessario per produrla. Allo spettatore, ridotto a mero oggetto del processo, viene negata anche la coscienza del lavoro che nell'opera d'arte è pur sempre contenuta.
Questo è evidente anche nella nostra società dei consumi, dove buona parte della musica costituisce una forte azione consolatrice alla solitudine e distilla porzioni di serenità. Per Adorno questa concezione poteva avere un senso sotto l'ombrello di una musica che tendeva a Dio, un linguaggio sonoro che consolava, mostrava una direzione che, però, era pur sempre verso l'assoluto. Nella odierna dimensione del consumo questa prospettiva si è secolarizzata: la stessa vita terrena viene equiparata, così com'è, ad una vita priva di dolore, il che è sconfortante, in quanto è una ripetizione circolare, non in grado di dare un ultimo sguardo verso qualcosa di diverso. Quella che era una volta la trascendenza diventa la maschera diabolica di una realtà che si finge come il paradiso in terra e adempie all'obbiettivo di una società che, per eternarsi, non sa rimandare a nulla di meglio della tautologia di essere "a posto". La propagazione del suono della musica leggera diventa strumento di controllo di una società che vuole legare e stritolare a sé l'individuo. Questi non deve riflettere su stesso, la possibilità non gli deve essere data, poiché "quanto meno i soggetti stessi avvertono di vivere tanto più sono felici di illudersi di essere anche loro là dove sono persuasi che vivano gli altri".[29] La musica come funzione sociale, per Adorno, è molto simile al raggiro: promette la gioia, ma in realtà pone solo se stessa al posto della gioia.


[1] V. Jankélévitch, La musique et l'ineffable, A. Colin, Paris, 1961, trad. it. La musica e l'ineffabile,(a cura di) Enrica Lisciani-petrini, Bompiani, Milano 2001. Pag. 40
[2] V. Jankelevitch, La musica e l'ineffabile, op. cit. pag. 55.
[3] V. Jankélévitch, L'ironie, Flammarion,,Paris, 1964, trad. italiana, L'ironia, (a cura di) Fernando Canepa, il nuovo melangolo, Genova, 2003, pag. 39.
[4] V. Jankélévitch, L'ironia, op. cit. pag. 96.
[5] V. Jankélévitch, L'ironia, op. cit. pag.104
[6] V. Jankélévitch, La musica e l'ineffabile, op. cit. pag. 126
[7] Cfr. Marcel Proust, Du cotè de chez Swamm,trad. it, La strada di Swannn,,(a cura di) Natalie Ginzburg, La Biblioteca di Repubblica, Roma, 2002.
[8] V. Jankélévitch, La musica e l'ineffabile,op. cit. pag.130
[9] Max Black, Models and Metaphors: studies in language and philosophy, Ithaca, New York, 1972, trad. it., Modelli archetipi e metafore, Pratiche, Parma, 1983, pag 82.
[10] Cfr. Elena Vizzardelli, Battere il tempo, estetica e metafisica in V. Jankelevitch, Quod Libet, Macerata, 2003
[11] Migliaccio Carlo, L'odissea musicale nella filosofia di Vladimir Jankélévitch, Cuem, Milano, 2000, pag. 110.
[12] Jankélévitch Vladimir, Debussy et le Mystere, La Baconnière, Neuchatel, 1949, trad. it Debussy e il Mistero,(a cura di) Carlo Migliaccio, Il Mulino, Bologna, 1991.
[13] V. Jankélévitch, La musica e l'ineffabile, op. cit. pag.68
[14]Elena Vizzardelli, Battere il tempo,op cit. pag.155.
[15]Vladimir Jankélévitch, La musica e l'ineffabile, op. cit. pag.101.
[16]Cfr. su questo argomento, Andrea Tagliapietra, Che cos'è l'illuminismo?, i testi e la genealogia del concetto, Mondadori, Milano, 1997
[17]Cfr. Andrea Tagliapietra, Filosofia della bugia, Mondadori., Milano, 2001
[18]Hans Blumenberg, Paradigmen zu einer metaphorologie, Bonn, 1960, trad. it Paradigmi per una metaforologia,(a cura di) M. V.Serra Hansberg, Mulino, Bologna, pag. 67.
[19]V. Jankélévitch, Le Je-ne-se-quoi et le Presque-rien, Editions du Seuil, Paris, 1980, trad.it Il non so che e il quasi niente,(a cura di) C. Bonadies, Marietti, Genova, 1989, pag.8.
[20]V. Jankélévitch, ivi, pag. 17
[21]Hans Blumenberg, Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher,
Frankfurt am Main, 1979, trad. it., Naufragio con spettatore, (a cura di) Francesca Rigotti, il Mulino, Bologna, 1985, pag. 124.
[22]T.W. Adorno, Die musikalischen Monographien, Frankfurt am Main, 1985 (terza ed.), trad. it. Wagner, Mahler: due studi Einaudi, Torino, 1966, pag. 95.
[23]T.W. Adorno, Philosophie der neunen Musik,J. C. B. Mohr, Tubingen, 1949, trad. it. Filosofia della musica moderna, Giacomo Manzoni, Einaudi,Torino, 1959, pag. 69.
[24]Cfr. Matassi A., Abbri F., Segala M., Filosofia e musica nell'età contemporanea, studi e ricerche a cura di Abbri F., Dip. St., soc. e fil, Università studi di Siena, Siena, 1995.
[25]Cfr. Jonke Gert, Geblendeter Augenbkick. Anton Weberns Tod, Residenz Verlag, Salzburg ubd Wien, 1996, trad. it La morte di Anton Webern, (a cura di) Cristina Grazioli, Meridiano zero, Padova, 2002.
[26]T.W. Adorno, Filosofia della musica moderna, op. cit. pag. 121.
[27]Per conoscere il giudizio di T.Mann sul "Wagner"di Adorno, cfr. T.W. Adorno, T. Mann Briefwechsel, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, trad. it. "Il metodo del montaggio, lettere 1943-1955" (a cura di) Carlo Mainoldi, Archinto, Milano 2003 pag. 83.
[28]T.W. Adorno, Wagner Mahler due studi,op. cit. pag. 46
[29]T.W. Adorno, Einleitung in die Musiksoziologie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1962, trad. it. Introduzione alla sociologia della musica,(a cura di) Giacomo
Manzoni, Einaudi, Torino, 2001, pag. 55.