Con il presente
lavoro s'intende mostrare le riflessioni sulla musica di
importanti autori del novecento come tentativo non solo
di fornire spiegazioni più o meno calzanti su determinati
compositori, ma anche e soprattutto, come sforzo di cogliere
le sfaccettature e i meandri di un essere che non è
più svelabile nella sua totalità dal linguaggio
delle parole. Ciò non vuol dire che ogni discorso
sia inutile e privo di senso. Al contrario, proprio perché
il reale non è del tutto esaurito, un discorso può
avere senso. Allora la metafora assume quel ruolo importante
che non è semplice sostituzione di qualcosa che poteva
essere espressa diversamente, e cioè con il senso
letterale, ma capacità di creare nuove comparazioni
che aiutano a non ridurre definitivamente lo scarto. A maggior
ragione la musica per questi autori si mantiene su un ambito
che non è adeguamento né espressione della
volontà assoluta: la sonata può rappresentare
i conflitti dell'esistenza, ma non sono questi stessi conflitti.
Parlare e scrivere di musica assumono, allora, un ruolo
caratteristico per scavare più in profondità,
cogliere delle sfumature che, magari, al linguaggio pensato
come univoco sfuggono perché si chiude in se stesso.
Saranno evidenziate le prospettive di Jankelevitch e Adorno.
Nel primo, la musica può considerarsi metafora di
ciò che non si può dire a meno di usare violenza;
nel secondo, "l'arte dei suoni" diventa non solo
momento critico della società, ma anche metafora
di ciò che non può più avere una forma
irrigidita, perché le fratture non sono ormai ricomponibili
senza finzione.
JANKÉLÉVITCH
1. Musica ed
espressione
Il
pensiero di Vladimir Jankélévitch si muove
continuamente su due regimi che spesso s'intersecano e si
scambiano i ruoli: quello musicale e quello prettamente
filosofico. L'autore ha sempre amato la musica e nei suoi
scritti traspare, oltre alla sapiente conoscenza delle opere
musicali che cita, la capacità di muoversi all'interno
e tra i concetti come se stesse effettivamente suonando
qualche strumento. Quello che più colpisce, infatti,
è la capacità di non irrigidirsi mai su una
posizione definitiva, ma oscillare danzando da un punto
all'altro nella ricerca di un equilibrio che nel suo movimento
perenne trova la giustificazione. Non esiste un'interpretazione
definitiva ed esaustiva del reale perché, così
facendo, si cerca di afferrare una cosa che, essendo sottoposto
alla dura legge della temporalità, è già
più in là nel momento in cui cerchiamo di
coglierla.
Se questo discorso vale in linea generale, a maggior ragione
vale per un ambito ambiguo come quello musicale. Per Jankélévitch
la musica non vuol dire nulla e allo stesso tempo vuol dire
tutto; c'è un certo rifiuto a considerare il materiale
sonoro come la vita stessa e i dolori dell'esistenza alle
stregue della filosofia di Schopenhauer: la sonata è
un riassunto della vita umana, compresa tra nascita e morte,
ma non è questa stessa avventura. Non è, in
altre parole, la vita stessa che si rispecchia nella musica
o che discende dalle alte sfere del volere assoluto. Ogni
pretesa, quindi, di una "metafisica della musica"
perde di vista il senso simbolico del simbolo, la metaforicità
di un discorso che non potrà mai essere concluso
se non al prezzo di una violenza che fa dire ciò
che in realtà non si può dire perché
è ineffabile. E' necessario proteggere il senso dall'ostentazione
continua di esso, del dire "a tutti i costi sempre
e comunque", attraverso il pudore, che non è
una semplice sottrazione, ma la capacità di dire
e non dire allo stesso tempo: "Parimenti la musica
non sottrae il senso per rivelarlo, ma rivela il senso del
senso stesso: lo rivela proprio sottraendolo, e per converso
lo rende volatile e fugace nell'atto stesso di rivelarlo".
[1]
Esistono, per l'autore, vari modi per effettuare tutto ciò,
uno di questi è il cosiddetto "espressivo inespressivo",
cioè il rifiuto non di esprimere in senso assoluto
(ogni composizione musicale sarebbe quindi preclusa) ma
di esternare direttamente i propri sentimenti; si preferisce
parlare di altro, come la musica di Rimskij Korsakov che
è troppo presa a raccontare le avventure di Scheherazade
che i propri conflitti interiori, allontanandosi, quindi,
da un ideale romantico di confessione personale. Tuttavia,
anche nelle sinfonie, nelle sonate patetiche, Jankélévitch
riconosce l'instabilità dei sentimenti e delle emozioni,
solo che nell'orizzonte del sentimentalismo gli affetti
si credono eterni e duraturi, mentre nell'umorismo sanno
di essere provvisori.
Il rifiuto di un'ideale romantico di espressività
non è privo di conseguenze in quanto è necessario
un forte controllo sulla forma, controllo che sfocia in
vera e propria violenza. Tuttavia in compositori come Strawinskij,Prokofieff,
Bartok il gesto a volte rude viene interprato al contrario
come esperienza "fondatrice": essi con la rudezza
del discorso vogliono esprimere il disprezzo per il "bel-dire",
per la frase elegante nel senso di accademicamente stantia
e raggiungere così, una nuova forma, una nuova bellezza.
La tortura della forma, lungi dall'essere meramente distruttrice,
in questi artisti serve per ritornare ad un certo materiale
informe, alla sorgente di tutte le forme, alla possibilità
di determinare nuove determinazioni esplorando sentieri
differenti.
La volontà di non esprimere niente è, in realtà,
solo una finzione, una tattica per riuscire a dire di più,
dicendo paradossalmente meno. La musica non esprime parola
per parola, dettagliatamente, piuttosto suggerisce, evoca
a grandi linee. Infatti, come l'anima non è rintracciabile
in una parte precisa del corpo e i ricordi non sono associati
uno per uno a ciascun neurone, così la musica non
è in nessun posto ma è comunque da qualche
parte. Per Jankélévitch il registro più
proprio della musica è, quindi, quello dell'equivoco
infinito: " da una parte e dall'altra si stende davanti
a noi l'infinito, il possibile, l'indeterminato, e lo spirito
si smarrisce in un groviglio inestricabile di biforcazioni
biforcate, in una rete labirintica di incroci ramificati
e di incroci di incroci. Non c'è più un dato
che sia semplice: c'è solo una complicazione complicata
all'infinito. Non è l'equivoco infinito il regime
naturale della musica?"[2] Da qui segue l'affermazione
per cui la musica consiste nell'esprimere l'inesprimibile
all'infinito: non nel senso di indicibile, in quanto per
l'autore quest'orizzonte è quello della morte, del
non essere, assolutamente imperscrutabile e insondabile,
quanto nel senso di ineffabile, cioè non si può
cogliere perché c'è infinitamente da dire.
Il senso, quindi, non viene esaurito e fissato eternamente,
perché la musica a differenza del discorso, non conosce
il principio di non contraddizione. Jankélévitch
riconosce validità ad essa senza una mediazione che
ne giustifichi, in qualche modo, il valore. Il momento negativo
non è più un momento che fa parte di un cammino
dialettico che risolve le antitesi in una sintesi ultima,
non c'è più una conciliazione conciliante,
ma un continuo rinvio l'uno all'altro, oscillando perennemente.
Il suono, infatti, compare e scompare, c'è e non
c'è, in altre parole il suono è possibile
perché c'è il silenzio.
Ci sono due tradizioni: quella tedesco-austriaca (da Bach
a Wagner, passando per Haydn, Mozart e Beethoven) in cui
esiste una prevalenza per lo sviluppo dialettico, tematico
tra primo e secondo tema, tonica e dominante; e un'altra,
quella che predilige l'autore, in cui il regime è
quello della "serenata interrotta": un certo rifiuto
per lo sviluppo tematico, dando importanza al solo fatto
che essi, i temi, esistono senza doversi "scontrare"
o avere necessariamente una priorità. La scala esatonale,
per esempio, è un tentativo di conferire uguaglianza
a tutti e sei i gradi della scala in quanto tutti e sei
sono equidistanti l'uno dall'altro. Ci si sottrae, quindi,
a preoccupazioni metafisiche nel senso di dare un fondamento
unico alla realtà, in quanto tutto ciò irrigidisce
e non permette l'oscillazione tra un termine e l'altro.
Questo può portare ad un'esistenza fragile, ma solo
così facendo ci si può mettere nella prospettiva
dello stupore: gratuità e misteriosità dell'esistenza.
Il linguaggio dell'autore è la musica perché
in essa, appunto, i contrari non alimentano sterili aporie
ma costituiscono un'energia feconda che rinnova continuamente,
che rimane sempre viva. La musica non esiste in se stessa,
ma esiste solo nel momento in cui si fa, nell'agire nell'azione
che si sviluppa nel tempo. Per Jankélévitch
non bisogna cercare l'originale, il nuovo a tutti i costi:
molto spesso, chi vuole a tutti costi dire non dice niente,
cioè non esprime nulla di significativo e non convince
l'orecchio attento.
2. Ironia e
litote
L'umorismo
permette di dire le cose più atroci in una maniera
delicata, quasi piacevole, ma che, in realtà, fa
passare le verità più importanti. Quello che
Jankélévitch chiama "lo spirito di litote"
è un mezzo espressivo tale da permettere non solo
di dire il contrario di quello che si afferma, ma anche
di dire meno o di dire altro. Tale spirito è caratteristica
di un uomo discreto, che reprime da sé la foga dell'appassionato
e dell'animo infuocato, cioè di un uomo capace di
porre un limite che sa "quando interrompere il racconto
ad arte". Assomiglia, quindi, molto alla copertura
di una maschera e tutto ciò che ne consegue sul piano
della teatralità.
Infatti, i compositori scelti da Jankélévitch
si sottraggono al giudizio estetico della cultura dominante:
invece di glorificare il soggetto sono esaltati soldatini
di piombo, gnomi, paesaggi ecc
; la musica non viene
caricata di concetti metafisici, ma c'è una naturale
riverenza nei confronti del mistero, dell'essere e della
morte. Lo spirito di litote, quindi, permette di sottrarsi
alla violenza di un linguaggio che, dichiarandosi e ostentandosi
puro, in realtà nasconde la cattiva intenzione dell'impuro.
D'altro canto, però, non significa rinunciare totalmente
alle armi dei nemici, in quanto in qualche modo è
necessario combattere: ecco che ritorna la maschera come
elemento di un senso che non deve essere urlato, ma protetto,
sia da tutti coloro che se ne vogliono impadronire violentemente,
sia dalle contaminazioni del linguaggio stesso. Se si vuole
preservare la verità nella sua incontaminata purezza
è necessario mascherarla e visto che il linguaggio
verbale per Jankélévitch è un po' troppo
rigido, la musica è l'unica che possa garantire un
certa flessibilità, così come l'ironia permette
di dire altro da ciò che si sta effettivamente dicendo.
Il movimento della coscienza ironica, infatti, si snoda
nell'ironia sulle cose, cioè un atto che, prima di
tutto è un allontanarsi, cessare di aderire alle
cose e respingerle lontano. Viene negato il discorso compatto,
un po' come l'ironia socratica, perché l'alternarsi
di domande e risposte produce la possibilità di slegarsi
dalla necessità e di rendere il pensiero più
libero. Si snoda, inoltre, anche e soprattutto, nell'ironia
su se stessi, che apre il campo alla liberazione della coscienza
" dal suo presente, meditando anche sulle assenze,
assenza che non è più e assenza di ciò
che non è ancora; vuole poter guardare a destra e
a sinistra, come guarda in avanti e indietro
"[3].
Musicalmente l'ironia si avvicina molto, anzi forse è
proprio così, alla tecnica dello staccato e del pizzicato,
che, come suggeriscono le parole stesse, danno un senso
di "sfiorare" "volare leggiadramente".
Chi troppo vuole nulla stringe, ma la coscienza ironica
non vuole assolutamente stringere, anzi semmai il contrario:
poco di tutto e non tutto di una cosa sola, in quanto è
solo proprio dell'istinto quello di volere una cosa sola
e possederla sempre; invece, l'intelligenza sa anche porre
dei limiti, dei freni capaci di differire magari il piacere
immediato perché è più attenta ai rapporti
tra le cose, che al possesso delle cose stesse. Attraverso,
quindi, questi due momenti, quello dell'ironia sulle cose
e su se stessi, si aprono le porte per capire l'essenziale
fragilità del serio. Per Jankélévitch
troppi fatti storici importanti, magari anche gloriosi,
se analizzati fino in fondo nascondono magari intenzioni
non troppo "grandiose", tale scoperta può
portare tristezza, ma solo per chi si pone nell'ambito del
serio a tutti i costi, che vede contraddette le sue teorie.
L'ironia, invece, è sì malinconica, ma dischiude
il mondo della pluralità: le idee non sono più
sole e devono abbandonare la loro altezzosità signorile
perché sono circondate da altre idee. Non si può
sostanzialmente amare in maniera assoluta tutto e tutti,
è una violenza per il mistero e un ulteriore inganno
che facciamo a noi stessi credendoci assoluti.
L'ironia, tuttavia, solo apparentemente demolisce senza
costruire nulla, in realtà è un saper lucido,
anzi lucidissimo, in quanto si muove proprio come il funambolo
che necessita di una grande abilità e di una concentrazione
massima per non cadere. È disinteressata, o meglio
non è indirizzata al volere egoistico cui, invece,
la menzogna è esposta e ha la sua caratteristica
peculiare: l'ironia non vuole convincere ma essere compresa.
La bugia, infatti, è elaborata per ingannare e necessita,
per la possibilità di vincere, l'adesione e la credenza
del soggetto al quale si riferisce. Non è contemplato
un momento interrogativo di riflessione, perché in
quel frangente il mentitore potrebbe essere scoperto, rendendo
vani ed inutili i suoi sforzi. L'ironia, tutt'altro, vuole
essere capita dal suo interlocutore in quanto lascia delle
tracce, dei segni che fanno risalire al senso vero, anche
se detto in maniera contraddittoria. C'è amicizia
nelle parole dell'ironista (a patto che, precisa Jankélévitch,
non sia mero scherno e canzonatura fine a se stessa) , il
quale scende su un terreno comune all'interlocutore e si
nasconde quel tanto che basta per non essere troppo brutali,
lasciando spazio ad una sempre feconda discussione. Viene
generato, così, un movimento, un atto potenzialmente
creativo che la menzogna, invece, blocca in quanto la sua
azione preferita è quella di immobilizzare e neutralizzare
il "nemico".
Musicalmente per Jankélévitch, l'ironia trova
spazio, per esempio, in Satie: compositore che pone in frasi
musicali interrogazioni, domande continue come se volesse
aiutare l'ascoltare a disintossicarsi della pesantezza di
un soggetto troppo preoccupato a prendersi sul serio. Frequenti
sono i richiami ad altri compositori ,come Chopin o Beethoven,
di cui si imita per alcuni tratti lo stile, ma senza mai
aderirvi pienamente; e lo stesso fa il pensiero ironico
che dice una cosa ma che, in realtà, ne intende un'altra.
Le composizioni sono spesso brevi, concise in quanto, secondo
Jankélévitch, c'è un certo pudore,
una volontà di alludere senza mai affermare pienamente;
l'ironia, allora, procede nello stesso modo è laconica,
"è una brachilogia"[4], procede per ellissi,
avvicinandosi e discostandosi repentinamente e rifiuta,
quindi, il sapere di tipo enciclopedico. Solo apparentemente
il movimento creato dalla coscienza ironica è errante
e senza meta, a ben vedere l'ironia e la sua funzione è
di smascherare l'ingiusto facendolo rimanere tale, cioè
lasciare che da solo tocchi il fondo e si accorga della
sua malvagità. Come ogni tecnica confutatoria che
si rispetti è meglio che la contraddizione venga
dall'interno, piuttosto che esternamente, solo così,
infatti, sarà garantita pienamente la validità
della confutazione. L'ironia, infatti, procede in modo che
il malvagio si metta pienamente in luce per far uscire appieno
la sua natura e, in certo senso, costringerlo a "suicidarsi":
"L'ironia mimando le false verità, le obbliga
a manifestarsi, ad approfondirsi, ad esporre minutamente
il loro bagaglio culturale, a rivelare delle tare che, senza
di lei, passerebbero inosservate; palesa il loro non senso,
induce l'assurdità all'autoconfutazione, cioè
impone all'assurdo di produrre esso stesso la prova della
sua impossibilità".[5]
La litote, il pudore, allora, indicano il carattere assolutamente
ironico dell'esistenza: non c'è proporzione tra il
"peso ontologico e il volume fenomenologico" [6],
cioè non è direttamente proporzionale l'apparente
grandezza di qualche cosa con la sua importanza. Analogamente
il rumore occupa molto spazio, è ingombrante, ma
la sua sarà un'esistenza priva di densità.
Le cose veramente importanti fanno poco rumore, ma hanno
molto più "peso". Il silenzio, dunque,
favorisce la concentrazione, il raccoglimento per sentire
quelle voci, o meglio, quella voce altra, che parla un'altra
lingua, che viene da altrove. L'uomo scava prima all'interno
del frastuono, del rumore, poi, successivamente, all'interno
del silenzio stesso. In questo caso sembra ritornare, così,
"l'armonia delle sfere" dei pitagorici; in realtà
Jankélévitch precisa che il "messaggio"
musicale non è un messaggio metafisico. La voce tutt'altra
non viene da un altro mondo, ma dal tempo interiore dell'uomo
e dalla natura che c'è fuori. La musica ha quindi
la capacità di provocare ricordi [7], attraverso
una regressione che solletica la memoria a mostrare nuovamente
ciò che resta del passato viene comunque percepita.
Jankélévitch,inoltre, invita a diffidare delle
metafore ottiche del silenzio, perché sono ingannevoli,
tentano di fissare la durata e non colgono l'aspetto fondamentale.
Il silenzio non è spegnimento del rumore, né
un carattere positivo o negativo dell'evento sonoro, ma
è veicolo di qualcos'altro. Dunque, non il non-essere
ma altro dall'essere e, ricorrendo ancora una volta ad una
metafora, Jankélévitch afferma: " il
silenzio è il deserto in cui fiorisce la musica;
e la musica, questo fiore del deserto, è una sorta
di misterioso silenzio".[8] La voce tutt'altra che
sentiamo non ci svela alcun segreto sull'aldilà,
ma può comunque ricordare all'uomo il mistero che
porta al suo interno.
Dire che la musica è un fiore e il deserto è
il silenzio in cui nasce significa porre in correlazione
due ambiti, quello musicale e quello reale, per riuscire
a ricevere quell'istante che permette di intravedere il
tutt'altro. L'importante della operazione metaforica è
l'interattività dei termini: nella frase "la
musica è un fiore", il contenuto di qualità
che si riferisce, comunemente o no, al fiore si trasferisce
alla musica; tuttavia, è vero anche il contrario:
non solo la musica diventa più "fiore",
ma anche il fiore diventa più "musica".
Questo scambio reciproco mantiene bene l'oscillazione, la
reciprocità e un carattere anche cognitivo di quest'espressione,
nel senso che, l'uso del secondo termine (il fiore) per
capire il primo (la musica) richiede una percezione simultanea
di entrambi, irriducibili ad un confronto totalmente esaustivo.
Una metafora efficace ha il potere di mettere due domini
separati in relazione cognitiva ed emotiva, usando il linguaggio
direttamente appropriato all'uno come una lente per vedere
l'altro; le implicazioni, le associazioni, i valori costitutivi
intrecciati all'uso letterale dell'espressione metaforica
ci permettono di vedere in un nuovo modo. L'estensione dei
significati che ne risulta, le relazioni che si vengono
a creare fra campi inizialmente disparati, non possono essere
né anticipatamente previste, né successivamente
parafrasate in prosa. "Possiamo fare commenti sulla
metafora, ma la metafora di per sé non richiede,
né sollecita spiegazione o parafrasi. Il pensiero
metaforico rappresenta un particolare modo di ottenere una
maggiore comprensione e non è costruito come un sostituto
ornamentale del pensiero semplice" [9]La musica dice
e non dice, è più allusiva che esplicativa
e proprio tutto ciò consente a Jankélévitch
di mantenere un'oscillazione che non si annulli in uno dei
due termini.
3.
La dignità del reale
Per
Jankélévitch, uno dei problemi fondamentali
è il rapporto tra realtà ed ordine tutt'altro[10],
al quale deve rinviare. Il nodo è proprio in quel
deve, in quanto per l'autore l'analogia tra copia e modello
non è così immediata. Supporre questa analogia,
come del resto Platone e tutti quelli che hanno seguito
questa impostazione, significa rendere possibile un avvicinamento
alla verità in maniera graduale, dialettica, progressiva.
La copia diventa la breccia, anzi la buona apparenza, che
concede l'opportunità di andare oltre, ma, allo stesso
tempo, rimane un'illusione, un fatto negativo perché
noi, tutto sommato, dovremmo vivere in un mondo di false
apparenze svalutate. A ben vedere, tuttavia, è anche
il modello a perdere, a sminuirsi, in quanto cede il suo
valore di pura trascendenza per accostarsi alla vita e,
in qualche modo si "contamina". Jankélévitch
propone, invece, un collegamento che salvaguardi da un lato,
la purezza della trascendenza e dall'altro, la rispettabilità
dell'esistenza. Tutto ciò è dato dall'empiria,
che non conduce alla verità, ma offre tutto sommato
l'impulso, fa da testimone per aprire un pertugio che si
attua solo nel momento di un istante particolare. Quest'ultimo
consente, dunque, di toccare per tangenza il tutt'altro,
in un attimo che diventa quasi imponderabile.
Appare chiaro, allora, un certo rifiuto per la dialettica,
intesa come processo graduale per la scoperta della verità.
Tale progressività si fonda sulla capacità
del soggetto di "fagocitare" l'oggetto, confermando
ad ogni tappa la sua potenza, mai ridimensionata sempre
presente a se stessa. Ciò che propone l'autore, invece,
è un'apertura all'oggetto, che non preveda la sua
totale assimilazione, ma la capacità di avere una
relazione senza sfociare nell'invadenza. Il contatto avviene
tramite l'intuizione, che, per definizione, non ha uno sviluppo
sequenziale e permette l'incontro tra zona spirituale e
materiale: il punto di contatto è instabile, intermittente,
perché non è fondato su una successione che
consente di fermarsi e ripartire con ciò che si è
acquisito in precedenza, ma non per questo, non consente
di intravedere qualcosa. L'impressionismo di Debussy è
per l'autore il punto più eloquente di questa intermittenza,
di questa vocazione a registrare la precarietà delle
sensazioni contro l'eternità passionale. L'istante
della sua musica assume, allora, un ruolo determinante per
l'interruzione proprio del prolungamento di quella eternità:
accettarla e effettuare il salto in ciò che la trascende.
Tuttavia, c'è un istante che riassume ancora meglio
non solo la cesura di quel sentimentalismo romantico ma
anche la tendenza alla ricerca della "stagnanza"
[11], di ciò che sembra muoversi, ma in realtà
sta fermo: è l'istante del mezzogiorno. In esso si
raggiunge il punto culminante della giornata e, nello stesso
tempo, l'inizio della sua caduta; il tempo pare arrestarsi
e aprirsi al possibile.
4.
Creare suonando
Debussy
è, quindi, il musicista del mistero, che è
sempre inesprimibile, ma ha dei significati differenti,
per esempio rispetto al segreto. Quest'ultimo, infatti,
è riservato agli iniziati, agli adepti di qualche
circolo esoterico e non può essere comunicato ai
profani; il mistero, invece, è di tutti ed è
universalmente riconoscibile; " non è una cifra,
né un "mistero verbale",[12] bensì
un "mistero essenziale", e più che una
cosa, una "res", esso è un'atmosfera.
Un'atmosfera, però, che è nel reale, nel presente,
nel momento in cui la musica viene eseguita e, quindi, nella
nostra vita. Per cogliere la profondità della musica
non è necessario andare oltre la superficie, in un'altra
realtà,poiché il fenomeno sonoro è
già fenomeno spirituale. A proposito della musica
in generale afferma: " la musica non esiste in se stessa,
ma solo in quella pericolosa mezz'ora in cui, suonandola,
la facciamo essere. La verità eterna diventa allora
operazione temporale e comincia ad accadere effettivamente,
secondo coordinate di orario e calendario".[13] Noi
possiamo permeare "questa mezz'ora" proprio grazie
al movimento, perché solo mediante esso la coscienza
si libera delle sue protezioni rappresentative e la rende
attenta, pronta alla ricezione. Facendo qualcosa, infatti,
si abbandona la prospettiva contemplatrice, di chi osserva,
"dell'anima contemplante, del testimone, la quale in
fondo restituisce, come in uno specchio l'immagine della
coscienza di sé"[14]. Questa tendenza all'agire
fa contrappeso il prediligere l'atmosfera del notturno,
musicale e non. In esso i contorni sono sì più
indefiniti ma il buio favorisce ai lacci della coscienza
di sciogliersi e condurre la stessa magari all'inaspettato.
Viene persa l'abitudine al rispecchiamento immediato, aprendo
le porte a dei dati originari.
L'artista crea, o meglio, ricrea nel caso dell'esecutore,
ponendosi allo stesso tempo in una dimensione di attesa
attraverso cui il dato musicale, tutto sommato, può
essere accolto. "Non si tratta di definirlo o di palparlo
con le dita, bensì di rifarlo insieme a chi l'ha
fatto e, cooperando alla sua operazione, di ricreare ciò
che questi ha creato".[15] Da qui si può, forse,
spiegare per quale motivo Jankélévitch suggerisca,
a chi ascolta, di non dirigersi troppo frettolosamente verso
rimandi metafisici conclusivi, nel senso che annullano lo
scarto che è presente in ogni metafora, annullando
la distanza e chiudendo il soggetto ad altre possibilità.
A questo riguardo ci sono fondamentalmente due modi per
eludere il mistero: dando più importanza all'accidente
o fare del non conoscibile una semplice estensione del conoscibile.
L'apparenza non è nulla. Può apparire negativa
ma solo perché appare senza essere. In realtà
è comunque presente e ci mostra qualche cosa, certo,
non nel grado pieno e autentico di un essere assoluto. La
sua caratteristica è quella "di fare luce",
mostrare proprio come noi conosciamo, per esempio, prima
l'esterno della corteccia e poi, successivamente, l'interno.
L'apparenza, dunque, è in primo tempo ciò
che è in rapporto con noi ed è inevitabilmente
legata all'essere stesso.
Tutto ciò non è necessariamente negativo:
l'apparenza non rende falso il vero o vero il falso. C'è
una posizione intermedia che permette, magari, di rendere
meno dura e "nuda" la verità stessa poiché
anche questa nudità è, comunque, problematica.
Rosseau credeva, infatti, che l'uomo "vero e naturale"
sarebbe comparso solo quando fossero stati eliminati tutti
i vestiti, compresi quelli di carattere sociale. Marx individua
con questa spoliazione solo la merce e l'interesse e, quindi,
è necessario strappare ulteriormente altri veli,
che riportano ad altri veli. Anche nell'illuminismo,[16]
che voleva toglierli tutti per arrivare alla "nuda
verità"[17], anche quelli utilizzati per travestirla
e renderla così accessibile solo agli iniziati e
non al volgo, ritorna la metafora del rivestimento: "
ciò che sembrava nudità si rivela una "veste
ideale", che noi adattiamo, combinandola su misura,
nella matematizzazione geometrica e scientifico-naturale
del "vivente mondo".[18] Il valore dell'uomo viene
dato non tanto dal possesso della verità stessa ma
dal modo in cui essa viene raggiunta. Il possesso può
rendere inerti e superbi, non solo; una volta raggiunta
la verità bisogna avere la forza necessaria per sopportarla.
Per kierkegaard, infatti, si può anche stare davanti
alla verità, alla nuda verità , ma se essa
non ha alcun significato profondo per noi è difficile
poterci vivere dentro. Ciò che Platone, nel Gorgia,
nella repubblica, aveva cercato di allontanare e rinnegare,
in Jankélévitch diventa parimenti importante:
la periferia dell'essere, così'come la penombra della
luce, sono ugualmente significativi come l'essere al centro
o la sorgente luminosa.
Tuttavia non bisogna considerare questa equivalenza come
un privilegio dell'apparenza sull'essere e concludere che
solo in quella si manifesterebbe l'indicibile. Jankélévitch
preferisce pensare ad una assoluta inviolabilità
della sostanza ultima, in quanto se "non si può
dire più nulla sul mistero stesso, si può
ancora dissertare o chiacchierare al suo riguardo, raccontare
fatti di cronaca ed aneddoti, le circostanze propriamente
dette, determinazione categoriali del quanto, del come,
del tempo e del luogo, si offrono a tutte le figure polimorfiche
e politropiche dell'enunciazione e, di un'enunciazione che,
rispetto al centro dell'ipseità, è piuttosto
circonlocuzione".[19]
Il non-so-che diventa uguale all'essere che è conoscibile
all'infinito. Esso non risponde alla domanda "quid",
ma fa intravedere appunto un non-so-che che è il
fatto di essere. Non c'è mai una conoscenza di questo
"qualcosa" in maniera duratura, ma solo nell'attimo
dell'istante, nel lampo. Sostanzialmente bisogna stupirsi
non di cosa le cose siano, ma del fatto che esse sono e
di come esse lo siano. "il divenire è l'inafferrabile
maniera di essere dell'essere, e si può dire in senso
proprio: il tempo è l'intuizione dell'essere"[20].
Il non so che non è puramente niente, né totalmente
tutto. Tuttavia questa mancanza di sapere è infinitamente
più conoscente della conoscenza assoluta, in quanto,
premettendo quel quasi al niente, si fa in modo di essere
almeno al corrente di una vaga verità.
Se il tempo è l'intuizione dell'essere, allora la
morte o il nulla può cancellare l'essere stesso,
ma non si può trovare un potere assoluto sull'essere-stato
di una vita vissuta: c'è stata comunque, solo che
non è più adesso. Il passato non è
niente, è un "quasi" niente. Per Jankélévitch
l'istante assume un importanza decisiva, in quanto solo
in esso il soggetto può restare se stesso. Tuttavia
si diventa coscienza solo nella durata e nel dispiegamento
del tempo quando, appunto, si ha tempo per dirigere lo sguardo
sulle proprie azioni e si attua la riflessione. Paradossalmente
la stabilità si trova nella temporalità, ma
non in quella cristallizzata e somma di tutti gli istanti
tipica della scienza del positivismo, ma quella che rifiuta
la spazializzazione e procede sull'unica dimensione temporale.
Non si tratta di ricostruire una nuova teoria del tempo
che si basi ancora una volta su concetti e categorie a-priori,
bensì sull'attività del tempo, sul suo svolgersi
ineluttabile. Il ritorno delle cose, degli avvenimenti naturali
e così via, non è sempre identico a se stesso,
è uguale ma diverso insieme. Tutto questo garantisce
alla speranza di esistere e di poter avere un effetto sulla
realtà, almeno, di provarci. L'intenzione, in questo
caso, è fondamentale, in quanto apre una distanza
forte tra il niente e il quasi-niente: proprio quest'ultimo,
proprio l'impossibilità di stabilire eternamente
che cosa il tempo sia, permette di tracciare un pertugio
all'interno della necessità assoluta.
La musica, dunque, non rinvia ad un significato predeterminato,
la musica va presa alla lettera in quanto solo nella ripetizione,
solo scrivendo e riscrivendo sulla musica, suonando e risuonando,
si può far emergere quell'abbondanza di senso che
l'evento sonoro suggerisce. La metafora del fiore indica
la nostra dimensione, quella della realtà in cui
noi siamo inevitabilmente immersi. È la dimensione
temporale a sostenerci, perché è solo nel
tempo che la vita può vivere, è solo lì
che il vivente può trovare una chance per il futuro
finché lo slancio non viene fermato dalla morte.
Jankélévitch pensa ad un modo di stare al
mondo che vale la pena di essere vissuto, nonostante tutto
il chiasso, tutto il frastuono che può fraintenderlo.
Il suo silenzio non è tanto quello del nichilismo
che pensa alla propria cultura come a quella di un malato
allo sbando: non è, cioè, il condannato al
patibolo, quanto piuttosto colui che guarda un'altra persona
morire e, in quell'attimo, fare esperienza la più
possibile vicino, in vita, alla morte. C'è uno scommessa
nei confronti della vita, una speranza che è più
movimento che fine, più difficile della disperazione
poiché implica un dispendio di energie, un tentativo
di aprirsi all'esistenza. Certo, il paradiso perduto dell'innocenza,
ammesso che sia esistito, non tornerà mai più.
Tale è l'aspetto tragico della nostra condizione
e della nostra temporalità. Tuttavia, se tutto è
perduto, non è detto che il rimpianto possa impedire
alla speranza di avere una qualche possibilità, anche
se solo per un brevissimo istante.
È per questo che la metafora deve rimanere sempre
viva, aperta , in quanto solo la sovrabbondanza del senso
in rapporto all'espressione letterale mette in moto l'ermeneutica.
Jankélévitch decide di mantenere la tensione
attraverso una concezione instabile, contraddittoria del
senso musicale: da una parte l'assenso alla indubbia presenza
fenomenica, dall'altro la trascendenza alla quale rinvia
nel momento stesso in cui è presente. È possibile,
infatti, che venga privilegiata solo la dimensione di una
presunta solidità metafisica, ponendo fine alla tensione
e alle oggettive derive di un senso allo sbando. Così
ciò che si ascolta non diventa nient'altro che la
mera apparenza di una melodia più o meno celeste,
di un mondo fatto e costituito di armonie eterne. L'unico
proposito è quello di scavalcare il più in
fretta possibile questo mondo per arrivare nell'altro, perché
solo in quello c'è la vera musica. Schopenauer, per
esempio, cerca di abbandonare in fretta il regno del sensibile.
La musica è isolata dalle altre arti poiché,
mentre quest'ultime sono rappresentazioni delle idee, la
prima è, invece, in diretto contatto con il principio
metafisico della volontà. Da qui il corollario che
la musica potrebbe esistere benissimo in se stessa con la
paradossale conclusione che il nostro orecchio sarebbe di
ostacolo ad una vera e ultima comprensione del fenomeno
sonoro, una barriera da scavalcare.
Dall'altra parte, la possibilità di privilegiare
solo l'aspetto empirico e di imprigionare la musica nella
nostra realtà. Il tentativo è, invece, quello
di concepire un'instabilità che sia basata sulla
durata, ma che non esaurisca mai la tensione né verso
il reale né verso il tutt'altro, scorgibile non nell'arco
di tutta la durata stessa, perché altrimenti sarebbe
eternità, ma nel tempo del lampo. "Il valore-limite
della dicibilità e dell'ineffabilità hanno
un'apertura maggiore di quelli della determinatezza definitoria
e del tracciato immaginativo".[21]
THEODOR
W. ADORNO
1.
L'emancipazione della dissonanza (o organizzazione dell'espressivo)
Adorno
non considera il materiale sonoro, che l'artista ha a disposizione,
come fisso ed immutabile nel corso della storia. Non è
opportuno considerare ciò che nell'attuale epoca
storica è considerato "orecchiabile", come
naturale in sé e quindi necessario, cioè spostare
tale considerazione sull'asse del tempo e farla valere per
il passato, per il presente e per il futuro. Non si può
far derivare il carattere d'immutabilità dalla mutabilità
della percezione sonora, che, appunto, dipende dal corso
del tempo. Per esempio, la settima diminuita era considerata
dissonante ai tempi di Beethoven, già qualche decina
d'anni più avanti diventerà un cliché
banale. L'autore considera, piuttosto, il materiale sonoro
come qualcosa che si sedimenta e si mette in relazione con
il compositore. Non nella misura di disporre totalmente
di esso: se l'accordo di settima diminuita è logoro
e abusato, è evidente che esso non potrà venir
usato; la sua prescrizione, ma il discorso vale per tutto
il sistema tonale, non è dettata dal semplice invecchiamento,
bensì dalla sua falsità, poiché non
adempie più alla sua funzione. In Beethoven, tale
accordo è, tuttavia, ancora pieno e ricco di espressione:
ha una funzione precisa all'interno del brano, dell'opera
complessiva, della cultura, della società. Nessun
accordo, per Adorno, è "sbagliato" in quanto
tale, perché ha dentro di sé una storia, un
processo e ad esso deve collegarsi. Nasce l'impossibilità
del musicista che compone di essere totalmente libero, nel
senso romantico di disporre a proprio piacimento di tutto
il materiale.
Adorno introduce dei vincoli alla presunta libertà
assoluta e lo portano a concludere che Schönberg non
fu, a ben vedere, totalmente rivoluzionario: trasse delle
conseguenze dalla storia, dal modo di comporre che erano
in qualche modo necessarie. L'unico elemento veramente sovvertitore,
per Adorno, è il mutamento di funzione dell'espressione
musicale. Non sono più delle passioni mascherate,
ma i subbugli dell'inconscio, i traumi, le cesure, che vengono
registrati dalla musica. La dissonanza, dunque, assume un
ruolo decisivo, poiché non è il semplice passaggio
di note estranee ad un impianto predefinito, che di conseguenza
deve subito rientrare in tale schema, ma acquisisce legittimità.
La musica di Schönberg, infatti, non riconcilia il
particolare con l'universale, non è in nessuna parte
una totalità; si oppone alle apparenze e al gioco
dell'opera borghese e, quindi, ad una concezione ornamentale
dell'arte dei suoni. Solo in questo modo, la musica può
"conoscere" il dolore, la conflittualità
della società, la cui conciliazione pacificante in
un opera "serena" non è più sopportabile,
perché è vistosamente apparenza. Allora, la
mediazione, la sintesi non sono appropriate, e, infatti
il concetto di tema, sviluppo, armonia, melodia, è
progressivamente abolito.
L'indurimento della forma viene percepito da Adorno come
negazione della durezza della vita, un rifugio dalle difficoltà
del mondo. Tuttavia, se l'angoscia dell'uomo solitario diventa
il canone per la produzione estetica, allora c'è
una possibilità che trapeli il senso di solitudine,
di spaesamento, di lacerazione che attanaglia l'uomo moderno
e non fare in modo che la forma si irrigidisca. Questo pericolo
è sempre in agguato: anche il periodo espressionista
di Schönberg non è esentato dalle critiche che
esso poneva all'opera precedente. Se la composizione era
basata totalmente sulla mera opposizione a canoni passati,
questa ostilità non cancella definitivamente il concetto
di autonomia contestato; a sua volta l'opera espressionista
diventa orgogliosa della propria autonomia, perché
fonda dei modi di comporre, e quello che era nato come "liberazione
dell'espressione", diventa di nuovo censura di tale
espressione. L'"opera" in quanto tale ha sempre
un carattere bifronte: da un lato si manifesta al soggetto,
alienato e scisso, come riconciliazione (apparente) dei
propri dissidi interiori e con gli altri, dall'altro rappresenta
tutto quanto c'è di vero nella società contro
l'individuo. L'espressionismo aveva tentato di denunciare
la violenza e la lacerazione, ma, secondo Adorno, non ha
spinto il rifiuto al massimo e l'idea di opera si è
cristallizzata ancora una volta.
Questo suo indurimento è stato precedentemente testimoniato
più precisamente dall'attività compositiva
di Wagner. Le saldature interne dell'"opera totale"
devono essere, infatti, celate per far vedere che è
un unicum. Tuttavia quest'ultimo è artificiale e
del naturale ha solo l'apparenza o, meglio, l'intenzione
che, secondo Wagner, dovrebbe rimanere celata. Solo così
si possono aprire le porte del fenomeno assoluto, di cui
l'orchestra è il medium rivelatore. Esiste una certa
propensione all'espressione piuttosto che alla semantica
del linguaggio; la musica, in altre parole, deve "riscaldare
e far risuonare le relazioni alienate e reificate degli
uomini, come fossero ancora umane".[22] I mezzi alienati,
fra loro non più legati vengono riuniti solamente
dall'imperativo dell'artista. La convergenza di musica-voce-teatro
è, per Adorno, una violenza che sfigura la totalità
e, oltretutto, si pone essa stessa come vera. Il tentativo
di far combaciare tutte le tessere del mosaico è
non solo una violenza alla struttura compositiva, ma anche
una tautologia, poiché la musica, allora, dice le
stesse cose che dicono le parole e, tanto più si
procede tanto più diventa superfluo. L'ebbrezza allora
diventa il carattere fondamentale, quello che permette di
perdersi misticamente, di non riflettere, perché
un solo istante di riflessione porterebbe lo sfacelo dell'unità.
Anche la tecnica dodecafonica, per Adorno, potrebbe essere
un mezzo per riunire sotto un unico procedimento astratto
il materiale sonoro.
Questo tipo di elaborazione, cioè quello della organizzazione
musicale soggettiva autonoma, si realizzava tramite il procedimento
tecnico dello sviluppo. Ai tempi di Haydn lo sviluppo occupava
poco spazio all'interno della sonata. Progressivamente,
però, con Beethoven esso diventa centrale, fino ad
occupare uno spazio anche superiore all'esposizione dei
temi. Lo svolgimento delle forze espressive comincia a farsi
minaccioso e a distruggere i residui convenzionali. Tali
momenti saltano fuori dalla durata temporale razionalizzata
della forma-sonata. Si ha, dunque, un continuo mutamento
del linguaggio a spese dell'oggettività e della forza
vincolante della musica. In Beethoven, in Brahms, wagner
è al limite, tale processo era chiuso all'interno
di un'unità melodico-tematica che poggiava ancora
sul sistema tonale. In questo caso esiste ancora un'opposizione
tra armonia e polifonia, nel senso che la prima deve obbedire
a delle leggi verticali dettate dalla tonalità, la
seconda, invece, può procedere più liberamente
in quanto ogni suono ha un senso non nell'eventuale accordo
generato, ma in rapporto all'andamento delle parti. Una
volta caduta la tonalità questa opposizione è
valida fino ad un certo punto: in Schönberg, secondo
Adorno, la polifonia non si concilia solo in qualche momento
con l'armonia, ma diventa principio proprio dell'armonia
emancipata. Tramite la dissonanza l'accordo singolo può
diventare esso stesso "polifonico", poiché
i rapporti orizzontali con le altre note o gruppi di accordi
sono negati dalla dissonanza stessa. Un accordo è
tanto più polifonico più contiene suoni dissonanti.
Il movimento della composizione viene spostato dal piano
orizzontale, cioè dello sviluppo di elementi musicali
nello svolgersi del tempo, a quello verticale dell'accordo,
riunito interamente in esso. A questo punto il concetto
di dinamica temporale del brano diventa discontinuo: il
tempo considerato come dimensione che sostiene l'andamento
musicale e consente la variazione, il cambiamento dei temi
svanisce. Più precisamente non c'è più
l'evoluzione, l'arte della variazione all'interno della
composizione in quanto tutto il cambiamento è già
deciso a monte.
Tutto ciò, secondo Adorno, è visibile nella
tecnica dodecafonica che non è una "tecnica
compositiva", ma è, piuttosto, una sorta di
disposizione dei colori da utilizzare che l'atto di dipingere
vero e proprio. Essa richiede che ogni pezzo venga derivato
da una serie fondamentale, costituita da dodici note diverse
tra loro. La serie, inoltre, può variare in quattro
modi rispetto all'originale ed essere applicati ad ogni
grado della scala cromatica. Le note, dunque, assumono valore
solo in corrispondenza di questo principio formale, garantendo
l'indifferenza tra armonia e melodia. Tuttavia, rileva Adorno,
quello che apparentemente sembra essere la liberazione del
soggetto, perché è lui che decide come strutturare
la serie, quali rapporti prediligere ecc
, diventa
principio soffocante. "Il soggetto impera sulla musica
mediante il sistema razionale, ma a questo soccombe. Se
nella dodecafonia l'atto compositivo propriamente detto,
cioè la feconda elaborazione della variazione, viene
sospinto nel materiale, la stessa fine tocca a tutta la
libertà del compositore"[23]. Quest'ultima,
che si è realizzata nel dominio, diventa, però,
troppo potente nei confronti del soggetto e lo costringe
alla propria stessa costrizione. Sostanzialmente, nessuna
regola diventa tanto più costrittiva di quella che
ci si pone. C'è un tentativo, secondo Adorno, di
ripristinare una razionalità simile a quella che
aveva sostenuto la tonalità, nel senso di ricostituire
l'unità perduta, per esempio, di un Beethoven. Ma,
mentre in questi la tonalità è riprodotta
come libertà soggettiva, la dodecafonia estingue
il soggetto, imponendogli un assetto troppo rigido.
La musica, dunque, deve emanciparsi anche dalla dodecafonia
per rimanere libera e non irrigidirsi in forme che negano
la possibilità dello sviluppo.[24] Il problema, per
Adorno, non è tanto l'eccessivo grado di asocialità,
individualità della musica, che dalle composizioni
di Webern[25] e Berg si potrebbe dedurre, semmai il contrario:
il conformismo alla tendenza storica nella quale si è
inseriti, l'accettazione passiva allo spirito del tempo
porta ad una concezione non salutare dell'opera d'arte.
La sua verità, invece, risiede nella negazione della
concordanza senza fratture. Nella denuncia della produzione
di massa e del suo carattere oppressivo. Solo, tuttavia,
nella dodecafonia il compositore può sperimentare
non tanto la libertà che essa concede, quanto piuttosto
quello che proibisce. C'è una ragione didattica ed
anche polemica in tutto ciò: la severità delle
regole per poter esprimere la libertà e l'allontanamento
dalle regole stesse per poter continuare ad esprimersi.
Questo tipo di tecnica, infatti, degrada il materiale sonoro,
prima che venga costituito in una serie, ad un strato informe,
cui il compositore poi fornisce le sue leggi. Il soggetto,
però, nel momento che sottomette totalmente tale
materiale attraverso il dominio razionale, si degrada a
suo schiavo. La totalità estetica, che aveva distrutto
nel periodo espressionista, ritorna sotto la specie della
serie.
Tuttavia, proprio nel momento in cui viene percepito l'orrore
per il linguaggio divenuto alienato, che non è più
il suo, il compositore riconquista la sua autodeterminazione:
il materiale proprio perché è divenuto indifferente
può essere disposto a piacimento. Adorno, in questo
caso, parla di "desensibilizzazione del materiale",
cioè di una capacità del compositore di non
chiudersi, ma di prendere coscienza anche della coercizione
delle regole che ci si impone. Il dominio sulle note non
deve rimanere pura formalità, poiché altrimenti
si perpetuano gli stessi schemi, dato che è facile
cadere nell'opposto: la schiavitù alla forma preposta.
A suo avviso Schönberg, soprattutto nelle ultime composizioni,
ha creato anche un'arte del saper dimenticare come principio
immanente per la creazione. "Egli rinnega la fedeltà,
da lui stesso fondata, all'onnipotenza del materiale, rompe
con l'evidenza direttamente presente e conclusa dell'immagine,
che l'estetica classica aveva denominato simbolica e a cui
la realtà non corrispose mai una sola battuta. Come
artista Schönberg riconquista gli uomini, attraverso
l'arte, la libertà".[26]
2.
Il ritorno dell'identico
Adorno,
prendendo spunto da un critica di Thomas Mann [27], ritrova
un certo dilettantismo nella musica di Wagner, nel senso
di una certa tendenza ad assecondare il pubblico, a ridurre
lo scarto fra l'alienazione del direttore-compositore Wagner
e gli ascoltatori. Il leit-motiv, per esempio, viene considerato
come strumento pubblicitario per una massa di persone che
dimenticano facilmente. L'unico modo è allenare il
ricordo in continuazione, poiché alla base c'è
una debolezza dell'io che preferisce lasciarsi travolgere
dalla corrente. In questa prospettiva la gestualità
diventa implicita nel rapporti col pubblico, nella sua efficacia.
"il direttore compositore rappresenta e reprime la
richiesta dell'individuo borghese ad essere ascoltato. È
il portavoce di tutti e tutti costringe ad obbedienza muta.
Perciò egli deve sforzarsi di dare un anima ai gesti
e di obbiettivare nei gesti lo psichico".[28] La gestualità
può diventare, a questo punto, fine a se stessa,
ma, in realtà, Wagner tenta la conciliazione dell'irripetibilità
dell'espressione con l'impossibilità allo sviluppo
del gesto. Le figlie del Reno all'inizio giocano con l'oro
e, alla fine, ritornano a giocarci: nulla muta. Il divenire
degli eventi è funzionale solo al ritorno nel punto
dal quale si è partiti. Le accuse di scarsa capacità
formale, in realtà rivelano qualcosa di più
oscuro. La forma non deriva dal caos, ma da un falso processo
d'identità: l'identico si ripresenta come se fosse
nuovo, ma in verità è un processo che si basa
sul vuoto.
Esiste un elemento, secondo Adorno, inevitabilmente regressivo
che rende la musica di Wagner enigmatica. Tutto ciò
che ha a che fare con una certa ambiguità di fondo,
sia nella musica, sia dei personaggi stessi. Tale ambiguità
viene, però, pietrificata in quello che, paradossalmente,
doveva funzionare da collante della diversità nell'unità:
il leit-motiv. Già al tempo di Wagner questi motivi
non facevano un tutt'uno con l'opera, ma identificavano
e aiutavano a riconoscere quello specifico personaggio.
Il motivo come portatore di espressione si solidifica. L'arte
compositiva di Wagner non è inconsistente perché
è statica o perché mira all'immobilità
dell'essere. Piuttosto c'è un tentativo di fare del
regressivo un elemento di progresso dinamico, una rinuncia
del soggetto alla sovranità e un dolce abbandono
alle forze arcaiche. Gli espedienti tecnici per realizzare
tutto ciò sono il colore e l'armonia, riuniti entrambi
nella produzione del suono. In ciò, nell'ambiguità,
esiste affinità con l'impressionismo.
Adorno rileva come la dissonanza non è semplice comparsa
di "altri" suoni sgraditi all'impianto armonico
di appartenenza. Se in Beethoven e fino a pieno romanticismo
i valori espressivo armonico erano fissati: dissonanza per
il dolore, consonanza per la gioia, in Wagner la situazione
muta. La sofferenza può diventare dolce e i contrasti
tra piacere e dolore sono mediati dal compositore. Tuttavia,
per Adorno, la dissonanza in Wagner non è ancora
del tutto autonoma, ha sempre bisogno del contrasto con
la triade; la concezione di fondo è sempre tonale.
Se l'armonia è in bilico tra passato e futuro, il
colore della strumentazione assume decisamente un ruolo
più definito. Attraverso di esso, infatti, si limano
le asperità le divergenze tra le varie sezioni: archi,
legni ed ottoni. Tutto ciò nella concezione dell'opera
d'arte si traduce, per Adorno, con la volontà di
unificazione di quello che, invece, è separato. Solo
in questo modo, nell'identità, l'opera può
diventare "naturale". Ma è una natura apparente,
perché dimentica sistematicamente, e vuole dimenticare,
il lavoro necessario per produrla. Allo spettatore, ridotto
a mero oggetto del processo, viene negata anche la coscienza
del lavoro che nell'opera d'arte è pur sempre contenuta.
Questo è evidente anche nella nostra società
dei consumi, dove buona parte della musica costituisce una
forte azione consolatrice alla solitudine e distilla porzioni
di serenità. Per Adorno questa concezione poteva
avere un senso sotto l'ombrello di una musica che tendeva
a Dio, un linguaggio sonoro che consolava, mostrava una
direzione che, però, era pur sempre verso l'assoluto.
Nella odierna dimensione del consumo questa prospettiva
si è secolarizzata: la stessa vita terrena viene
equiparata, così com'è, ad una vita priva
di dolore, il che è sconfortante, in quanto è
una ripetizione circolare, non in grado di dare un ultimo
sguardo verso qualcosa di diverso. Quella che era una volta
la trascendenza diventa la maschera diabolica di una realtà
che si finge come il paradiso in terra e adempie all'obbiettivo
di una società che, per eternarsi, non sa rimandare
a nulla di meglio della tautologia di essere "a posto".
La propagazione del suono della musica leggera diventa strumento
di controllo di una società che vuole legare e stritolare
a sé l'individuo. Questi non deve riflettere su stesso,
la possibilità non gli deve essere data, poiché
"quanto meno i soggetti stessi avvertono di vivere
tanto più sono felici di illudersi di essere anche
loro là dove sono persuasi che vivano gli altri".[29]
La musica come funzione sociale, per Adorno, è molto
simile al raggiro: promette la gioia, ma in realtà
pone solo se stessa al posto della gioia.
[1]
V. Jankélévitch, La musique et l'ineffable,
A. Colin, Paris, 1961, trad. it. La musica e l'ineffabile,(a
cura di) Enrica Lisciani-petrini, Bompiani, Milano 2001.
Pag. 40
[2] V. Jankelevitch, La musica e l'ineffabile, op. cit.
pag. 55.
[3] V. Jankélévitch, L'ironie, Flammarion,,Paris,
1964, trad. italiana, L'ironia, (a cura di) Fernando Canepa,
il nuovo melangolo, Genova, 2003, pag. 39.
[4] V. Jankélévitch, L'ironia, op. cit. pag.
96.
[5] V. Jankélévitch, L'ironia, op. cit. pag.104
[6] V. Jankélévitch, La musica e l'ineffabile,
op. cit. pag. 126
[7] Cfr. Marcel Proust, Du cotè de chez Swamm,trad.
it, La strada di Swannn,,(a cura di) Natalie Ginzburg, La
Biblioteca di Repubblica, Roma, 2002.
[8] V. Jankélévitch, La musica e l'ineffabile,op.
cit. pag.130
[9] Max Black, Models and Metaphors: studies in language
and philosophy, Ithaca, New York, 1972, trad. it., Modelli
archetipi e metafore, Pratiche, Parma, 1983, pag 82.
[10] Cfr. Elena Vizzardelli, Battere il tempo, estetica
e metafisica in V. Jankelevitch, Quod Libet, Macerata, 2003
[11] Migliaccio Carlo, L'odissea musicale nella filosofia
di Vladimir Jankélévitch, Cuem, Milano, 2000,
pag. 110.
[12] Jankélévitch Vladimir, Debussy et le
Mystere, La Baconnière, Neuchatel, 1949, trad. it
Debussy e il Mistero,(a cura di) Carlo Migliaccio, Il Mulino,
Bologna, 1991.
[13] V. Jankélévitch, La musica e l'ineffabile,
op. cit. pag.68
[14]Elena Vizzardelli, Battere il tempo,op cit. pag.155.
[15]Vladimir Jankélévitch, La musica e l'ineffabile,
op. cit. pag.101.
[16]Cfr. su questo argomento, Andrea Tagliapietra, Che cos'è
l'illuminismo?, i testi e la genealogia del concetto, Mondadori,
Milano, 1997
[17]Cfr. Andrea Tagliapietra, Filosofia della bugia, Mondadori.,
Milano, 2001
[18]Hans Blumenberg, Paradigmen zu einer metaphorologie,
Bonn, 1960, trad. it Paradigmi per una metaforologia,(a
cura di) M. V.Serra Hansberg, Mulino, Bologna, pag. 67.
[19]V. Jankélévitch, Le Je-ne-se-quoi et le
Presque-rien, Editions du Seuil, Paris, 1980, trad.it Il
non so che e il quasi niente,(a cura di) C. Bonadies, Marietti,
Genova, 1989, pag.8.
[20]V. Jankélévitch, ivi, pag. 17
[21]Hans Blumenberg, Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma
einer Daseinsmetapher,
Frankfurt am Main, 1979, trad. it., Naufragio con spettatore,
(a cura di) Francesca Rigotti, il Mulino, Bologna, 1985,
pag. 124.
[22]T.W. Adorno, Die musikalischen Monographien, Frankfurt
am Main, 1985 (terza ed.), trad. it. Wagner, Mahler: due
studi Einaudi, Torino, 1966, pag. 95.
[23]T.W. Adorno, Philosophie der neunen Musik,J. C. B. Mohr,
Tubingen, 1949, trad. it. Filosofia della musica moderna,
Giacomo Manzoni, Einaudi,Torino, 1959, pag. 69.
[24]Cfr. Matassi A., Abbri F., Segala M., Filosofia e musica
nell'età contemporanea, studi e ricerche a cura di
Abbri F., Dip. St., soc. e fil, Università studi
di Siena, Siena, 1995.
[25]Cfr. Jonke Gert, Geblendeter Augenbkick. Anton Weberns
Tod, Residenz Verlag, Salzburg ubd Wien, 1996, trad. it
La morte di Anton Webern, (a cura di) Cristina Grazioli,
Meridiano zero, Padova, 2002.
[26]T.W. Adorno, Filosofia della musica moderna, op. cit.
pag. 121.
[27]Per conoscere il giudizio di T.Mann sul "Wagner"di
Adorno, cfr. T.W. Adorno, T. Mann Briefwechsel, Suhrkamp
Verlag, Frankfurt am Main, trad. it. "Il metodo del
montaggio, lettere 1943-1955" (a cura di) Carlo Mainoldi,
Archinto, Milano 2003 pag. 83.
[28]T.W. Adorno, Wagner Mahler due studi,op. cit. pag. 46
[29]T.W. Adorno, Einleitung in die Musiksoziologie, Suhrkamp
Verlag, Frankfurt am Main, 1962, trad. it. Introduzione
alla sociologia della musica,(a cura di) Giacomo
Manzoni, Einaudi, Torino, 2001, pag. 55.
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