Gianmaria Secci
DOGMA 95 ED IL CINEMA IN DIGITALE: Verso un nuovo realismo?
1. Dogma 95-04: il cinema al limite.
Nel 1995 ad un convegno sul centenario del Cinema, Lars von Trier presentò il Manifesto di DOGMA 95, proponendo un provocatorio decalogo per realizzare delle opere cinematografiche.
I primi film realizzati dal movimento promosso dal regista danese [1] vennero proiettati in anteprima al Festival di Cannes del 1998 ottenendo un effetto dirompente sul mondo cinematografico. Per la prima volta delle opere girate interamente con delle video camere digitali erano in concorso nel più importante festival cinematografico addirittura aggiudicandosi uno dei premi maggiori (Gran Premio della Giuria per Festen di Thomas Vinterberg).
A quasi dieci anni dalla stesura del Manifesto, l’esperienza dogma può dirsi conclusa per quel che riguarda gli aspetti formali [2] ma non per quanto riguarda l’influenza che questo movimento tuttora ha nel linguaggio del cinema contemporaneo.
In questo nostro studio cercheremo di analizzare le principali tendenze promosse dal Dogma per quel che riguarda linguaggio e modalità produttive, investigando sui differenti usi della tecnologia digitale nella produzione di opere cinematografiche.
Infatti, la maggior parte dei film dogma sono stati girati con delle videocamere digitali invece che con la tradizionale pellicola. Uno dei meriti unanimemente riconosciuti al movimento è proprio quello di aver dato credibilità al formato DV (digital video), sviluppato verso la metà degli anni ‘90 da un consorzio di imprese che comprendeva anche Sony e Panasonic. Soprattutto i numerosi riconoscimenti internazionali ed il grande successo di pubblico ottenuti da Festen (in Danimarca nella stagione 98-99 ha incassato più di Titanic di James Cameron) hanno creato un grande interesse attorno al digitale e molti registi si sono convinti ad utilizzare questo formato.
Tuttavia la scelta del digitale non è legata direttamente al Manifesto Dogma 95, infatti la nona regola dice che il formato del film deve essere in pellicola 35mm Academy, cioè il formato originario del cinema [3]. Vengono banditi i formati panoramici (quelli in cui la dimensione orizzontale dello schermo è nettamente superiore a quella verticale), per certi versi “spettacolari” (come l’1:1,85 o 1:2,35), quindi maggiormente legati a film di genere quali i western o i film storici, che poco hanno a che vedere con lo spirito del movimento (la regola 8 vieta i film di genere).
Successivamente alla stesura del Manifesto, durante una riunione tra i quattro fondatori, uno di loro (Kragh-Jacobsen) ha contestato la scelta di utilizzare la macchina da presa a 35mm perché troppo pesante per fare riprese a spalla (la regola numero 3 dice che la camera deve essere tenuta a mano). Quindi ha proposto di interpretare alla lettera la regola, e di intendere il 35mm standard come il formato finale del film, ovvero quello di distribuzione. In seguito Vinterberg ha suggerito che si potesse girare anche in video e successivamente fare il trasferimento in pellicola per la distribuzione nelle sale, ed infatti questo procedimento è stato utilizzato dalla maggior parte dei registi dogma.
Elenchiamo brevemente i principali vantaggi della scelta del video:
I costi di produzione sono nettamente inferiori rispetto alla realizzazione di un film in pellicola, inoltre è possibile effettuare dei ciak di maggior durata (un nastro magnetico per video camere DV può registrare ininterrottamente fino a 90 minuti mentre il caricatore della pellicola 35mm va cambiato ogni quattro) [4].
I tre fondatori che hanno optato per il video digitale hanno scelto delle videocamere consumer e prosumer (le mini DV della Sony) che sono decisamente più maneggevoli sia rispetto a qualsiasi tipo di cinepresa, sia rispetto alle videocamere professionali (come le Beta, ad esempio), quindi più adatte per le riprese a mano.
Il costo non elevato delle videocamere (nettamente inferiore a quello di qualsiasi tipo di cinepresa) ha permesso a questi registi di utilizzare più apparecchi in fase di ripresa (in Il Re è vivo di Kristian Levring sono state utilizzate tre handycam).
I film che hanno ottenuto la certificazione dogma sono stati trentuno, di questi, undici sono statunitensi, otto danesi, tre spagnoli; gli altri hanno nazionalità italiana, francese, svedese, norvegese, belga, coreana e argentina, a dimostrazione che Dogma è stato un fenomeno cinematografico di dimensioni planetarie. Paradossalmente è negli U.S.A. (la nazione di Hollywood…) che la proposta danese è stata accolta con maggiore entusiasmo, visto l’elevato numero di film dogma prodotti. Soprattutto Festen ha riscosso un notevole successo nell’ambiente dei filmaker indipendenti ed il movimento Dogma è stato visto da parte di molti giovani autori americani come una nuova possibilità per fare film a basso costo con videocamere digitali.
Dovendo stilare un bilancio, dobbiamo constatare come siano stati pochi i film appartenenti direttamente al movimento che hanno ottenuto successo nelle sale o visibilità internazionale grazie a partecipazioni a qualche festival cinematografico. Purtroppo la maggior parte delle opere dogma sono state delle piccole produzioni indipendenti che non hanno trovato una distribuzione [5].
Il vero successo di Dogma 95 è stato quello di avere scosso l’ambiente cinematografico e di avere stimolato numerosi registi a confrontarsi con il video o con alcune delle limitazioni del Manifesto. Il movimento danese è stato soprattutto un invito ad evitare i cliché cinematografici, le scelte più facili, i modi soliti di raccontare una storia per immagini. Dogma 95 ha rappresentato e rappresenta principalmente un rinnovamento dell’arte cinematografica, dove attraverso dieci regole-limitazioni viene chiesto ad ogni regista di tornare al grado zero del cinema e di reinventarne il linguaggio.
Nel loro Manifesto, i quattro fondatori, denunciano “certe tendenze” presenti nel cinema contemporaneo: attaccano quello che essi definiscono come fondato sull’illusione (made in Hollywood), basato sugli effetti speciali, le cui storie sono spesso solo un pretesto per mostrare le innovazioni in questo campo, un cinema che non riesce (o non vuole più) raccontare la realtà. Inoltre, mettono in evidenza la deriva a cui è giunto il cosiddetto “cinema d’autore”, diretto discendete delle avanguardie cinematografiche sorte negli anni ’60 (Nouvelle Vague, Free cinema inglese, il Cinema Novo in Brasile, il John Cassavetes di Shadows e Faces, etc.), a cui essi stessi si sono ispirati nel fondare il loro movimento. Secondo von Trier e gli altri, questo tipo di cinema è arrivato ad un’impasse, questi registi ritengono che molti autori non riescono (più) a rinnovarsi ed a rinnovare le loro storie ed il modo di raccontarle. Dietro la proposta danese, possiamo intravedere, provocatoriamente e presuntuosamente una volontà di “rifondazione” dell’arte cinematografica, una sorta di annullamento [6] che non può però rinunciare (come possono fare e fanno i film basati sulla computer grafica) a quelli che questi registi considerano i due elementi essenziali del fare cinema: la camera e gli attori.
L’adozione della tecnologia digitale, unito al rispetto delle regole del Manifesto, ha fatto nascere un metodo di lavoro incentrato soprattutto sulla fase delle riprese [7] (a differenza di molte produzioni hollywoodiane, dove il momento più importante della realizzazione del film è la fase di post produzione, con l’inserimento degli interventi di computer grafica) e sul lavoro con gli interpreti basato su un nuovo tipo di improvvisazione, o se vogliamo, di relazione camera-attori, che rappresenta una delle peculiarità e novità dei film dogma.
Inoltre, l’adozione di tecniche e stilemi tipici del documentario e di alcune produzioni televisive ha creato un’interessante commistione che ha prodotto delle opere originali, ibride nel linguaggio e nei contenuti.
Film come Idioti di Lars von Trier, Festen di Thomas Vinterberg e Julien Donkey Boy di Harmony Korine riteniamo siano i migliori esempi di questo “gioco” intrapreso con il mezzo cinematografico, le sue convenzioni (i film di genere, alcuni stereotipi, le belle immagini patinate) ed i suoi legami con il medium televisivo. Infatti, questi registi hanno fatto ricorso ad alcuni elementi del linguaggio della televisione, ma per distanziarsene, per tornare al cinema, alla sua funzione di interprete del reale, mettendo in evidenza la differenza tra questi due mass media. Nel prosieguo del nostro studio approfondiremo questi temi, prima però ci occuperemo di analizzare i differenti usi della tecnologia digitale nell’arte cinematografica.
Il digitale nel cinema contemporaneo
Come abbiamo osservato in precedenza, uno dei principali meriti di Dogma 95 è stato quello di aver dato credibilità al nuovo supporto digitale. Sempre più registi negli ultimi anni hanno deciso di girare i loro film con delle piccole videocamere, sia per ragioni economiche (il costo della pellicola e del suo trattamento è superiore rispetto all’utilizzo del video) che estetiche.
Negli ultimi anni la tecnologia digitale ha notevolmente influenzato le produzioni cinematografiche nei diversi livelli di realizzazione.
Per semplificare la nostra analisi, suddivideremo i diversi usi del digitale in una opposizione che crediamo possa rivelarsi proficua: contrapporremo il digitale “ricco” (pesante) quello sbilanciato sugli effetti speciali e sulla fase di post produzione ad un digitale “povero” (leggero), che utilizza la nuova tecnologia come mezzo riproduttivo (parliamo dell’uso delle handycam, soprattutto quelle in formato DV).
Riprendendo una dichiarazione di Amaducci, fatta ad un convegno sul cinema e le innovazioni tecnologiche, possiamo affermare che la principale caratteristica del digitale rispetto al tradizionale modo di fare film in pellicola sia quella di “eccedere” [8]. L’uso della tecnologia digitale “eccede” la cosiddetta “Linea Melies” (quella che riguarda gli effetti speciali, il cinema di pura fantasia, sganciato dalla realtà) sia la cosiddetta “Linea Lumiere” (quella documentaristico-televisiva: riproduzione della realtà senza manipolazioni). Vediamo come.
Melies vs Lumiere
Il digitale “ricco” è quello che caratterizza la maggior parte dei film di stampo hollywoodiano e dei suoi numerosi epigoni: il cosiddetto cinema di “illusione”, carico di computer grafica e stereotipi, condannato dai registi dogma nel loro Manifesto.
Nel corso degli anni ‘80 gli effetti speciali digitali hanno caratterizzato prevalentemente il cinema di fantascienza made in Hollywood dove ogni nuova pellicola era l’occasione per mostrare i progressi compiuti nell’utilizzo della nuova tecnologia.
Per illustrare i risultati raggiunti in questo campo possiamo prendere ad esempio la saga di Guerre Stellari ideata e diretta da George Lucas. Il primo episodio, del 1977, ha segnato una svolta nel campo degli effetti speciali perché per la prima volta delle riprese fatte in pellicola sono state passate in video per potervi aggiungere degli effetti digitali e sono state poi ritrasferite in pellicola. L’ultimo episodio finora realizzato (L’attacco dei cloni, 2002) è stato girato interamente con delle videocamere digitali ad alta definizione [9] , in modo da poter “saltare” le tradizionali fasi del trasferimento pellicola-digitale-pellicola e, in fase di post produzione, poter lavorare direttamente sul materiale ripreso digitalmente.
Il progetto di Lucas prevede l’abbandono totale della pellicola in vista del sesto e ultimo episodio della saga che il regista intende distribuire via satellite nelle sale. Il film dovrebbe uscire nel 2005, ma sembra difficile la sola distribuzione in formato digitale dato che specialmente in Europa sono pochissime le sale già attrezzate per tale tipo di proiezione.
Negli anni ‘90 la tecnologia digitale ha smesso di essere prerogativa dei soli film di fantascienza e si è resa sempre più invisibile nell’ambito del cinema hollywoodiano. Si è assistito a quella che possiamo definire come la “perdita del profilmico”. Quindi un utilizzo sempre più consistente di set virtuali, con gli attori costretti a recitare davanti ad uno schermo blu, a causa del successivo inserimento delle scenografie create al computer. Sempre più decisiva si è rivelata la fase di post produzione dove tramite la tecnologia digitale è possibile non solo modificare o costruire completamente dei set “sintetici” ma addirittura utilizzare comparse generate al computer ed intervenire sulle performance degli attori.
Emblematico in questo senso è Titanic (1998), il kolossal diretto da James Cameron, dove, oltre alle scenografie digitali, sono state usate migliaia di comparse create interamente al computer. Si è spinto oltre Final Fantasy, film d’animazione che simula un film “dal vivo”: gli “attori” che vi recitano (se così possiamo definirli) sono stati generati da sofisticati software e mostrano l’enorme grado di fotorealismo raggiunto dalla nuova tecnologia.
Un altro dei fenomeni verificatisi negli ultimi anni è la possibilità di intervenire direttamente sulla recitazione degli attori. Ad esempio ne Il miglio verde (The Green Mile, 1999) il regista in fase di montaggio ha chiesto di intervenire sullo sguardo di uno dei protagonisti (Dabbs Greer). Infatti, durante le riprese, al termine di una carrellata che si chiudeva con un primo piano su di lui, invece di guardare in macchina, l’attore aveva guardato verso sinistra. In post-produzione lo sguardo è stato “corretto” in modo da rivolgersi direttamente verso la macchina da presa. Allo stesso modo in una scena di La Maschera di Zorro (The Mask of Zorro, 1998), il regista aveva chiesto a Catherine Zeta Jones di piangere, l’attrice non ci è riuscita, così in post produzione sono state aggiunte delle lacrime digitali [10].
L’eccedere del digitale “ricco” a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza è proprio questo: l’alto grado di manipolazione su ogni aspetto del film che la nuova tecnologia consente. Oltre alla perdita del profilmico e all’enorme importanza assunta dalla fase di post produzione (vanno ricordate anche le immense possibilità offerte dal montaggio digitale) stiamo assistendo a importanti cambiamenti anche nelle fasi di ideazione e scrittura, dato che oggi è possibile creare al computer delle scene che nei decenni passati non sarebbero state tecnicamente realizzabili oppure sarebbero risultate troppo costose.
Ma la conseguenza più importante di questo “eccedere” riguarda l’ontologia della stessa immagine cinematografica, il suo legame con la realtà. La computer graphics crea delle immagini sinteticamente, a partire da un calcolo matematico, in assenza quindi del referente, dell’oggetto concreto che queste visualizzano. E’ innegabile che la possibilità di manipolare e generare delle immagini con un alto grado di fotorealismo tali da sembrare “vere” (riprese dal vero) ci costringa ad interrogarci nuovamente sul rapporto esistente tra cinema e realtà rappresentata. La natura stessa dell’immagine fotografica e di quella digitale è totalmente differente: mentre la prima può essere considerata un oggetto concreto, compiuto, finito, la seconda è immateriale ed è composta da un insieme di bit sempre modificabili.
La Linea Melies viene così spinta al suo limite estremo, il cinema degli effetti speciali, dei trucchi, consente di fare a meno del reale. Il cinema di “pura fantasia”, come quello di Melies, può fare a meno della materialità delle scenografie che la macchina da presa doveva riprendere per mostrarci quei “mondi fantastici” che il regista francese creava.
Con l’immaterialità dell’immagine digitale, ci troviamo di fronte ad un cinema come costruzione, finzione totale nato dalla fantasia del regista che non ha più bisogno della realtà per poter girare i propri film: non è piu necessario “riprendere” la realtà che si vuole rappresentare dato che può essere ricostruita sinteticamente. Ciò significa un controllo totale su ogni aspetto del film viste le enormi possibilità di intervento in fase di post produzione a cui abbiamo accennato in precedenza.
“L’immagine digitale ha per ora l’estrema debolezza, nella sua anelata perfezione […] di non fare sentire a pieno l’atto di ricomporla, quel sentire l’esperienza nel momento stesso di essere nell’esperienza, che rimane la maggiore portata filosofica espressa dal cinema” [11].
Crediamo che questa perdita di “realtà”, stia avendo come conseguenza la nascita di un cinema che “eccede” nel suo opposto, ovvero cerchi di portarsi ai confini della Linea Lumiere, il cui limite è il “registrare la realtà” senza alcuna manipolazione. Quindi, il tentativo di mostrarci il reale così com’è, di farci sembrare ciò che vediamo sullo schermo come “autentico”, ed allo stesso tempo di svelarci la costruzione filmica ed il meccanismo che la genera.
Crediamo che l’intento del progetto Dogma vada in questa direzione e possiamo inserire in questa nuova prospettiva anche l’opera recente di altri registi come Mike Figgis, Paul Greengrass ed il suo Bloody Sunday, i film dei F.lli Dardenne [12] solo per citare gli autori che riteniamo più significativi.
Attraverso le piccole videocamere digitali, leggere e maneggevoli, molti registi cercano di mostrare la realtà nei suoi aspetti più crudi e violenti, andando ad esplorare territori finora poco sondati dal cinema.
Non a caso negli ultimi anni la soglia del “visibile cinematografico” è molto cambiata. Abbiamo un cinema marcato da un “eccesso” di realismo, che spesso viene tradotto in un eccesso di visione. Ci viene mostrato tutto senza censure, anche le cose più insopportabili. Troviamo film che fanno vedere gli aspetti più “osceni” della realtà: la crisi dell’istituzione “famiglia” attraverso scene di violenza familiare (temi come l’incesto in Festen e Il fiume di Tsai Ming Liang), la sessualità “a rischio” degli adolescenti (Kids e il recente Ken Park di Larry Clark), l’omosessualità (Happy Together di Wong Kar Way, Rosatigre e Fare la vita di Tonino de Bernardi), la violenza splatter (Pulp fiction di Tarantino, Natural Born Killers di Stone, ma anche Baise moi di Virginie Despuentes), la “malattia” che si nasconde in vite apparentemente normali (La pianista di Haneke, American Beauty di Mendes).
Un'altra tendenza del cinema contemporaneo è quella del cinema “pseudo documentario”, possiamo portare ad esempio Bloody sunday (girato in video), Rosetta e il Figlio dei F.lli Dardenne, La vita sognata dagli angeli di Zonca ma anche i già citati Rosatigre e Fare la vita di De Bernardi e Intimacy di Cherau. Opere a metà strada tra fiction e documentario, in cui si cerca di ottenere il massimo del realismo attraverso una messa in scena essenziale con ambienti reali e illuminazione naturale, un uso preponderante della camera a mano ed un utilizzo decisamente parsimonioso o in alcuni casi inesistente della musica.
Questi film possono facilmente essere accomunati a Dogma 95, che nei suoi intenti cerca di abbattere la cosiddetta “Linea Lumiere”. Attraverso i richiami all’autenticità e alla verità contenuti nel Manifesto, sembra che i registi dogma promuovano un cinema che si faccia esso stesso realtà, che rifiuti ogni tipo di manipolazione mostrando tutto, anche i difetti della recitazione, le imperfezioni dell’immagine.
In questo senso, Dogma si pone agli antipodi, o meglio, “contro” il cinema Hollywoodiano che fa un massiccio ricorso alla computer graphics.
In opposizione alla perdita del profilmico attraverso l’uso di set generati al computer, i registi dogma pretendono l’uso di set naturali in cui la manipolazione consentita al regista è minima (non è possibile portare degli oggetti di scena).
Agli attori digitali e alla recitazione alterata dall’intervento del computer, i dogmatici propongono un lavoro con gli attori intenso in cui anche gli errori fanno parte della verità della loro performance, per questo sono spesso esibiti nei loro film [13].
All’invisibilità degli effetti digitali Dogma propone la “visibilità” della propria messa in scena, con il pubblico viene instaurato un rapporto basato sulla fiducia proponendo una ricerca di “verità totale”: tutti sappiamo che si tratta di un film, Dogma 95 non cerca di ingannare il pubblico e di rendere invisibili i suoi “trucchi” come fa il cinema hollywoodiano (pensiamo a Idioti e ad alcune sequenze in cui è visibile la videocamera e i microfoni o le stesse interviste). Anche l’uso della camera a mano e le numerose “infrazioni” al decoupage classico (il cosiddetto “montaggio invisibile”) del cinema americano servono per affermare l’estrema soggettività e costruzione di questi film [14]. Con l’uso di set digitali è possibile ottenere un controllo totale sugli ambienti e sul look del film, mentre i registi dogma non si preoccupano di nascondere eventuali imperfezioni nell’illuminazione di una certa ripresa, o della scarsa qualità del suono. Al contrario, questi “difetti” diventano delle cifre stilistiche (pensiamo soprattutto a Idioti e Julien Donkey Boy) che servono a dare quella ”illusione di autenticità” contenuta nel film.
Con la computer graphics il momento più importante della lavorazione è diventato quello della post produzione, in cui vengono inseriti gli effetti digitali e possono essere fatte tutte le correzioni. Al contrario per il progetto Dogma 95 il momento più importante del film è quello delle riprese e alcune regole richiedono il minimo intervento in fase di montaggio (regola 2:nessun intervento è possibile né sul suono né sull’immagine), tutte le decisioni devono essere prese mentre si gira, non è poi possibile alterare niente.
Di fronte a queste scelte tecnico-estetiche possiamo parlare di un “nuovo realismo” cercato e sviluppato non solo dal Dogma ma più in generale dai film che utilizzano i movimenti della camera a mano per raccontare le loro storie. Noi crediamo che il forte “effetto di realtà” provocato da questi film sia dovuto ai legami che queste opere instaurano con il linguaggio televisivo e con l’universo mediatico in generale. Inoltre, va sottolineato come il pubblico non sia più solo un fruitore passivo di immagini ma come negli ultimi anni ne è stato anche un massiccio produttore [15]: è ormai smaliziato ai cosiddetti “trucchi” cinematografici ed è in grado di leggere e capire un’ immagine o una qualsiasi costruzione audio-visiva più rapidamente ed in modo decisamente più evoluto rispetto a solo una decina di anni fa. Crediamo che solo così si possa spiegare l’accettazione da parte del pubblico di film girati in video e con camera a mano usciti nelle sale in questi anni (basti pensare al clamoroso successo di un home-movie come The Blair witch project, realizzato con videocamere amatoriali e cinepresa 8 mm).
In conclusione, questo nuovo realismo a cui stiamo facendo riferimento, non ha più come riferimento la realtà ma l’idea di realtà che fanno passare altri media: “la messa in scena insomma, non è più messa in codice di un reale tout court, ma trasposizione di un reale codificato secondo le leggi dell’estetica televisiva o mediatica” [16].
[1] Oltre a von Trier gli altri fondatori del movimento Dogma 95 sono i registi Thomas Vinterberg (autore di Festen, 1998), Kristian Levring (Il Re è vivo, 2000) e Soren Kragh-Jacobsen (Mifune, 1999). Segnaliamo il sito ufficiale del movimento (www.dogme95.dk) per attingere ulteriori informazioni.
[2] I quattro registi fondatori del movimento, dopo aver visionato e verificato che i film aspiranti “dogma” avessero rispettato le regole contenute nel Manifesto, consegnavano un certificato che ne stabiliva la fedeltà. Solitamente i certificati dogma sono visibili all’inizio dei film del movimento, in modo da confermarne l’appartenenza.
[3] E’ lo standard di ripresa e di proiezione. Il fotogramma misura 18x24mm ed il rapporto tra altezza e larghezza è di 1:1,33; è lo stesso formato dell’immagine televisiva tradizionale, detta anche 4:3. Una mascherina sull’otturatore può trasformare il rapporto in 1:1,66 o 1:1,85 ampliando la dimensione orizzontale dell’immagine. Cit. Professione film-maker, di Daniele Maggioni, Mondatori, Milano 1997, p. 41.
[4] I film dogma che hanno avuto maggiore successo di critica o pubblico sono stati: Idioti di von Trier, Festen di Vinterberg, Mifune di Kragh-Jacobsen, Julien Donkey boy di Harmony Korine, Lovers di Jean Marc Barr e Italiano per principianti di Lone Scherfig. Segnaliamo che l’unico film dogma italiano (Diapason di Antonio Domenici) è stato un fallimento di critica e pubblico…
[5] Esistono alcune cineprese che consentono di girare fino a 15 minuti di seguito, naturalmente sono più ingombranti di quelle che hanno caricatori che permettono riprese dalla durata massima di quattro minuti.
[6] Rinunciando ad alcuni usuali strumenti presenti nelle “normali” produzioni cinematografiche, quali i set ricostruiti in studio, particolari illuminazioni o trucchi ottici, macchinari quali dolly e carrelli, visto l’obbligo della camera a mano. A ciò va aggiunta l’impossibilità di raccontare alcuni “tipi” di storie, visto il divieto di fare film di genere.
[7] Alcune regole, come quella che obbliga a produrre suono e immagine contemporaneamente, impediscono di fare alcuni usuali interventi in fase di post-produzione (come ad esempio inserire della musica, o modificare alcuni parametri dell’immagine).
[8] Cit. Intervento di Alessandro Amaducci al convegno “L’avvento del digitale nell’Arte audiovisiva” tenutosi a Siena il 29 Novembre 2002 all’interno del VII Festival Internazionale del Cortometraggio. Amaducci è regista oltre che studioso di cinema e video-arte.
[9] Hanno una qualità dell’immagine superiore a quelle in formato DV, vicina alla resa fotografica della pellicola.
[10] Cfr. Julia Lee, Trade Secrets ,art. pubbl. in <Premiere>, Marzo 2001, p. 54.
[11] Cit. Lorenzo Esposito, La diversità fruitiva, art. pubbl. in <Filmcritica> n. 504, Aprile 2000, p. 165.
[12] Rosetta ed Il figlio, dei F.lli Dardenne, a cui faremo riferimento in seguito, sono stati girati in pellicola, a differenza di Timecode di Figgis e Bloody Sunday di Greengrass, che sono stati realizzati con videocamere digitali. Nonostante questo, Il figlio dei f.lli Dardenne è stato girato con un nuovo tipo di cinepresa (Aaton, in grado di filmare per soli 5 minuti di fila) che consente la stessa libertà di movimento delle consumer camera usate dai registi dogma.
[13] Nei film dogma inoltre sono gli attori stessi ad occuparsi del proprio guardaroba e del trucco ed in alcuni casi la loro collaborazione è andata oltre la semplice recitazione: in fase di ripresa in alcune scene gli è stato chiesto di fare loro stessi da operatori (Festen e Idioti). In questo senso il film più estremo nella collaborazione con gli attori come operatori è stato The Blair witch project (1999) di Sanchez e Myrick. Dato che l’intero film è stato girato dai tre attori protagonisti.
[14] Il montaggio invisibile è nato con il cinema classico americano ed è la tecnica di ripresa e montaggio prevalente nella cinematografia e nelle produzioni di fiction televisiva. In questo tipo di montaggio lo spettatore non deve accorgersi degli stacchi tra un’inquadratura e l’altra, c’è una continuità temporale e spaziale basata sulla tecnica dei raccordi (di sguardo, di movimento, sull’asse etc…). L’obiettivo di questa tecnica è di annullare la distanza tra spettatore e schermo, immergendolo completamente dentro la storia, facendogli scordare il carattere fittizio (la palese “costruzione” data dalla sucessione delle inquadrature) dell’evento a cui assiste. In molti film dogma questa tecnica viene scardinata, utilizzando delle tecniche chiamate jump cut e time cut che non rispettano il flusso temporale (la linearità) e la “coerenza” dei movimenti e delle posizioni degli attori sulla scena che variano “inspiegabilmente” da un’inquadratura all’altra rendendo evidente il lavoro operato dal regista per creare la sua opera.
[15] Si pensi all’enorme diffusione delle videocamere e dei computer che permettono a tutti di montare i propri filmati, oppure al massiccio uso delle web-cam con Internet.
[16] Bruno Di Marino, Sperimentalismo di massa, in <Filmcritica>.
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Gianmaria Secci, Dogma 95 ed il cinema in digitale: Verso un nuovo realismo?, in "XÁOS. Giornale
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IV, N.1 Marzo -Giugno 2005/2006 URL:
http://www.giornalediconfine.net/n_4/5.htm