L'intervista impossibile di Nicola Marotta
Lettera a Saul Steinberg
un
disegno vive se è l'uomo che lo invita a vivere,
lo sguardo di chi lo cerca lo risveglia da quel foglio che
somiglia a un deserto di carta e, nel momento che comincia
ad interrogarlo, il disegno diventa memoria, libro, conoscenza.
Si sa che le conoscenze importanti
fatte nella giovinezza rimangono sempre indelebili nella
mente.
Conobbi i suoi disegni, nel 1953 o, per meglio dire, l'influenza
che i suoi disegni ebbero su quelli del mio amico, un ragazzo
speciale allora, oggi, l'artista Normanno Soscia. Il
mio livello di lettura lo ritrovo ancora oggi, e corrisponde
a quel decorativismo di gusto rococò, leggero, vibrante,
gioioso, ma soprattutto quella intuizione geniale, che consisteva
nell'andare in fondo alle cose, attraverso un surreale paradosso,
e, da allora, in un continuo evolversi. Questo pensiero
si presentava alla mia mente, in tutti quei momenti che
credevo di avvicinarmi al cospetto dell'immagine fisica,
Saul Steinberg, l'ologramma che dovevo creare e anteporre
come persona vera difronte a me, a cui, avrei dovuto rivolgere
la mia intervista impossibile; conoscendolo come uomo meticoloso,
dubbioso e schivo, mi sembrava difficile. La sua infanzia
vissuta come incantata in un contesto di piccole magie agli
occhi di un bambino di nove anni, che oggi,
in un fotomontaggio strepitoso - visto su un libro recente
sulla autobiografia con Aldo Buzzi - Saul Steinberg tiene
per mano se stesso da vecchio; e, se la freccia del tempo
avesse la possibilità di ritornare indietro, l'insieme
sarebbe già da sempre un tutto: cioè vedendo
oggi il fotomontaggio saremmo in grado di dire che entrambi,
sono la stessa persona, ma si deve aggiungere, che nel bambino
di allora c'era di già l'adulto che era stato, perché
oggi è tutto già passato.C'è da chiedersi
se quel senso di appartenenza che un figlio sente nei riguardi
della propria madre nel guardarla in una fotografia giovanile,
ancor prima che concepisse il proprio figlio che la osserva,
cioè sentirla madre, ancor prima che questa lo sia
realmente, sia da considerarsi pura fantasia, oppure se
ci sia qualcosa, che non sia solo una propria proiezione
psicologica. E se così fosse, in un tempo percepito
da noi diversamente saremmo tutti uno negli altri, come
le cellule prima di duplicarsi.
Steinberg da piccolo aiutava
i genitori a rilegare libri e costruire scatole di cartoni
di varie misure; aveva due zii pittori di insegne, due altri
con cartolibrerie, e ancora un altro orologiaio; cosa poteva
aspirare di più per diventare lo Steinberg che conosciamo?
Nacque in Romania a Ràmnicul Sarat il 15.5.1914.
Nel 1933 si trasferisce a Milano. Costantino Nivola andrà
a Monza nel 1931, si incontreranno a Milano. Nivola andrà
in America nel 1940. Steinberg, fuggendo a causa delle persecuzioni
razziali, si imbarcherà anche lui per gli Stati Uniti
nel 1941. Per entrambi una vita da protagonisti, in quanto
hanno operato con artisti innovatori del pensiero dell'arte
contemporanea. Penso a quando conobbi personalmente Costantino
Nivola, una taglia d'uomo di misura d'altri tempi, forse
intorno a un metro e sessanta, un viso modellato con grande
destrezza alla Giovanni Pisano, i capelli con la scriminatura
al centro e le due bande di capelli opposte. Aveva
un aspetto fiero. Oggi penso che avrei potuto chiedergli
del suo amico Saul, e pensare che proprio nello stesso periodo
che io lo conobbi, Antine, come lo chiamavano gli amici
sardi, aveva fatto uno straordinario ritrattino a figura
intera - alto circa 16 centrimetri - in argilla cotta a
Steinberg; Nivola, modellava la creta come le donne sarde
manipolavano la pasta lievitata per fare il pane.
Dopo questa breve, ma indispensabile premessa, evocatrice
di ricordi, ho di fronte a me, con la postura e le sembianze
Saul Steinberg, visto da Nivola. E' dentro la mia mente,
la proiezione della mia volontà di parlargli, che
mi apre alla conversazione.
D. Maestro, chi era Nivola?
R. Nivola è stato un uomo che ha indagato
con intelligenza su tutto il Novecento, ma gli ultimi venti
anni della sua vita su se stesso dopo aver capito gli altri,
senza più sodalizi come per esempio col grande Le
Corbusier; per essere più chiaro, lungo tutto il
suo percorso era sempre presente questa vena figurativa
della grande ritrattistica italica come la scultura romana,
ripresa dai maggiori artisti italiani del Novecento, Arturo
Martini, Medardo Rosso, Marino Marini.
Mi piaceva perché non era un ritratto celebrativo;
è un ritratto di come ci vedevamo, di come eravamo,
anzi oggi si dovrebbe dire come siamo in relazione alla
storia dell'uomo. Io
non ho mai avuto piacere di guardarmi, né mi sono
mai amato. Devo dire però, che, più volte,
la mia immagine ha fatto parte dei miei disegni, insieme
ad altri personaggi, ma l'autoritratto, non era a scopo
di indagine psicologica, era ritratto direttamente dalla
mia memoria che attingevo dall'immagine trattenuta nella
mia mente per evocarne i tratti somatici della mia figura
intera.
Quando si è vecchi, il viso non è più
interessato dalla fisionomia determinata dalla componente
muscoli, nervi, tensioni, no! Il viso prende una sua maschera
fissa, e l'espressione è data direttamente dall'anima.
Mi sono mirato, ora ricordo, un giorno in uno specchio antico
d'argento, e ho visto me; lo stesso gesto fu fatto innumerevoli
volte da una qualche fanciulla pompeiana, senza che abbia
lasciato una minima traccia di questo rito realmente accaduto:
lo stesso gesto tra me e lei, a distanza di secoli, documentato
solo dalla certezza che lo specchio riflette.
D.
Come nasce un suo disegno e che cosa è per lei?
R. La mia curiosità è la molla
principale che si innesca nel mio vedere il mondo, nel vivere
quotidiano, e, solo dopo aver capito questo, cerco di fare
entrare nel disegno il mio pensiero. È come la ricerca
di una conferma, è un modo di approfondire, di analizzare;
è come lo scrivere: si cerca la via più giusta
per porgere l'argomento al lettore. Bisogna dire che non
è un'operazione del tutto cosciente, è un
misto di intuito, esperienza e caso. Non tutti i disegni
che faccio, sono esaurienti per dire ciò che penso
di una cosa; perciò, quasi sempre l'argomento lo
replico più volte; solo allora ogni disegno è
completo, autonomo; come se ognuno ricevesse in dono la
propria singolarità e unicità, e chiarezza.
Vi sono momenti in cui il tempo rallenta, e abbiamo la quasi
coscienza che fare arte è come inviare per posta
messaggi, tra generazioni diverse.
D. Maestro, perché
nei suoi disegni c'è la costante ricerca del paradosso
che specula sui comportamenti di un popolo, come le mode
generazionali, e le nevrosi esistenziali?
R. Vuole dire il mio stile di disegnare e il mio
modo di vivere; vede dello stile non rimane più nulla,
perché il tempo appiattisce le cose in lontananza,
così come accade con le cose fisiche, un paesaggio,
un'isola, una veduta aerea viste a distanza diventano un'altra
cosa. Le opere si vedranno per epoche, per secoli; e molti
autori che oggi si differenziano l'uno dall'altro, in seguito
andranno tutti sotto un'unica insegna, connotata solo da
uno o due nomi fortunosamente sorteggiati dalla sorte.
Lo stile è un piccolo
spazio che un artista si crea e successivamente si gestisce
per avere una sua identità apparente; questa differenza
gli consentirà di avere libero accesso a quelle idee
al disopra delle parti che sono la saggezza dello spirito
di un popolo che è dato dalle stratificazioni delle
necessità primarie sia materiali che spirituali che
rimangono inalterate nel tempo; lo stile è solo un
abito da indossare. Però vi sono le eccezioni.
Senza omettere che rimarranno i pensieri le idee, i concetti
le essenze delle cose, si pensi che le opere che ancora
ispirano altri artisti sono sempre dei minori, mentre le
maggiori sono quasi sempre sterili, esauste, non hanno più
nulla da dire, in quanto è un percorso concluso.
Quindi, lo stile è una trappola, è un limite.
Il mito di Narciso non corrisponde solo al suo concetto
di mito, narcisismo, ma anche al desiderio di fissare un'immagine
renderla sempre presente: lo specchio in cui l'immagine
è sempre latente, da cui deriva la pittura che si
rivela per miracolo degli specchi che trattengono le immagine
fissate.
D. Lo specchio e il suo doppio
la pittura.
R. Sì, vede, per questo si disegna per realizzare
senza specchio ciò che lo specchio consente, finché
ci si è di fronte.
D. Allora lei adopera
gli specchi deformanti per una sua logica?
R. Non direi. Lei conosce quel racconto di HERBERT
GEORGE WELLS "Il paese dei ciechi"; ebbene in
questo non luogo vive una comunità di ciechi perfettamente
consolidata, che esprime una vita sociale completa ed è
autonoma nel tessuto sociale e spaziale, regolata da leggi
sagge e progressiste: diremmo 'naturalizzata senza il complesso
della vista'; fino a quando non capita lì, per uno
strano sortilegio, un vedente, che, tra un'estenuante lotta
nella ricerca dell'integrazione di una vita vissuta come
in un sogno, riuscirà a disincagliarsi da questa
paradossale vita priva della vista, a cui anche lui avrebbe
dovuto rinunciarvi per amore di una donna priva di vista,
con un altrettanto sortilegio, riuscirà a sfuggire
a questa cappa di piombo, che soffoca il desiderio più
ambito che è la libertà. Il
mondo dell'arte è come quando si varca la soglia
d'ingresso di uno specchio. Sono mondi paralleli in cui
tutto è regolato da leggi relative a quegli ordinamenti,
a quelle relazioni, a quella realtà immaginata o
fantastica; l'arte è una finzione che la si accetta
per fede, se c'è fede, solo dopo ci si accosta, e
la si legge. E' come una bandiera: ognuno può destinargli
le proprie insegne, facendo apparentemente suo, l'eterno
gioco che gli dona il vento.
D. Lei è un artista
ma non è un pittore; dico questo per portare il discorso
sulla luce, con la quale lei ci gioca senza colori, con
un interesse che è sorpresa e meraviglia: i riflessi
e le ombre
R. Certo, il mio interesse
trascende la sua reale azione, ma che tuttavia è
una sua reale conseguenza, in quanto in entrambi i casi,
la generatrice di questi miei corti circuiti è la
luce: la prima, rivela, i riflessi, la seconda, crea l'ombra;
ci sono ancora gli specchi, con funzione diversa. Vede,
guardandoci intorno, il mondo che ci circonda è fatto
di luci, ombre e riflessi; solamente che, pur percependoli,
ci disturbano e per questo rimuoviamo tutto, perché
le informazioni sono eccessive, frantumano e destrutturano
l'ambiente e lo spazio, così, come capita con il
vociare in un affollato mercato. Vede i riflessi, effetto
carta assorbente, gli specchi, le simmetrie, sono solo un
veicolo per comunicare un'idea. Riflessi e ombre le due
componenti presenti nello stesso disegno rispondono a tempi
diversi della giornata; le ombre fanno pensare a un sole
alto del mattino, o del primo pomeriggio, perché
le ombre sono nette; viceversa riflessi così si verificano
di primo mattino, quando il sole sta per sorgere o di tardo
pomeriggio, appena dopo il tramonto. Questa compresenza
non attesa è deviante. Lo stupore nel vedere il Narciso
di Caravaggio non consiste nel doppio dipinto del giovane,
ma è il concetto del riflesso, la funzione dello
specchio, un oggetto quotidiano la cui presenza ci inquieta
alquanto ma che cerchiamo di rimuovere. I disegni a soggetto
i riflessi o le simmetrie portano ad uno spaesamento in
una realtà surreale, e assumono un significato di
macchina per sondare l'ignoto, con l'assenza del tempo.
D. In un disegno pubblicato
ne "La scoperta dell'America", il tema del disegno
"riflesso e ombre", rappresenta un tema classico
(per il genere), in una intricata situazione di improbabili
riflessi che si riflettono a loro volta,
in un punto si inserisce la parola OHIO, accade l'ennesimo
corto circuito, il riflesso, il segno OHIO darà sempre
OHIO, paradosso del paradosso che apparentemente sembra
sbagliata nel contesto non lo è, continuando a confondere
il nostro sistema di attesa,
R. Sembra solo una trovata
ma non è così, sembrerebbe un sofisma ma non
è così; per me è ancora un sorprendermi,
che la realtà oggettiva che ci circonda è
misteriosa, e che le nostre regole convenzionate sono manovrabili,
manipolabili; ciò che non si ipotizzava è
che ci sono certezze non certe.
D. Il mondo psicologico dei
suoi fogli disegnati, fanno riferimento ai luoghi della
storia, quando parlano degli anni del fascismo; quando parlano
del costume americano e delle abitudini delle masse nella
vita quotidiana e delle costanti che un consumatore tipo
si comporta nei grandi magazzini, queste rilevazioni anticiperanno
la pop art. in America.
R. Vede io non amo essere
intervistato, perché non mi sento di dare risposte
adeguate a queste domande; i miei disegni sono ampiamente
autosufficienti, voglio dire che parlano da soli e senza
l'aiuto di nessuno che li spieghi; come può essere
possibile parlare degli umori, o a ventagli di sensazioni
appena percettibili, letture che sono affidate a più
sensi contemporaneamente.
L'artista ha in dote strumenti grafici e segnici che fanno
da portali a scenari di varia natura, sociali, politici,
filosofici, che certamente fanno parte della struttura culturale
dell'artista, ma questo è sempre un intuitivo, i
suoi sensi sono sempre tutti assieme partecipi quando si
lavora.
Mi dica lei come posso rispondere alla sua domanda e condensare
quello che ho detto dei miei disegni?
Per poter dire le stesse cose che ho detto con i mie disegni,
ci vorrà un poeta, uno scrittore, ma questi lo fanno
già per conto loro, e con i loro argomenti, con le
loro storie.
D. Maestro ho un incontenibile desiderio, di chiederle
di un disegno che a me affascina particolarmente: rappresenta
una scala che gira su se stessa, con dei personaggi che
ci vivono sopra in un circuito chiuso, questo disegno ha
a che fare qualcosa con Danese M. C. Escher.
R. Mi meraviglio di lei, Escher è dimostrativo, crea
delle dimostrazioni a scopo di ricerca sulla percezione,
le sue opere, non hanno nessun rapporto con le necessita
esistenziali dell'uomo.
Sì è vero che anche a me capita ogni tanto
di dare qualche saggio di questo tipo, ma se ben guarda
appena oltre, troverà sempre qualcosa, di cui stupirsi,
e qualche enigma da risolvere: vede mi sento più
vicino a Magritte, anche se lo ritengo troppo pittore per
delle trovate surreali, che sono quasi vicine al grafico
pubblicitario. Tornando al mio disegno della scala, questo
vuole rilevare un atteggiamento dei rapporti tra gli uomini.
D. Ma non comunicano, i suoi
uomini si incontrano su una scala impossibile collocata
in un quasi deserto; e poi i personaggi non si accorgono
di essere soli, senza essere consci del loro isolamento.
R. Certamente è
una comunicazione formale tra persone; del resto è
una constatazione basata sui dati di fatto, il mondo è
pieno di situazioni di questo tipo: la formalità
ha una sua ritualità.
Il disegno farà pure sorridere, creerà pure
un segnale di sgomento, ma sarà pure una presa di
coscienza seppure amara; rispecchiandoci in questi uomini
ci vediamo nei nostri comportamenti intrisi di ipocrisia
e luoghi comuni, ma, nello stesso momento, questa analisi
è anche catartica oppure ironica e ci farà
sorridere di noi stessi. Le mie indagini non vertono sugli
inganni percettivi, e sulle convenzioni delle tecniche delle
rappresentazioni grafiche; io indago sui vizi degli uomini,
sugli stereotipi, sui comportamenti dei singoli e dei gruppi.
Questi uomini prigionieri da regole formali, ma è
proprio il formalismo che manda messaggi di non aggressione,
di tolleranza, di continuità, di normalità,
la non regola è la regola delle regole. La forma,
la formalità, i luoghi comuni, le frasi fatte rappresentano
l'essenza stessa della normalità, e quindi della
pacifica convivenza. Ed io nella più classica della
normalità le registro, per confinarle nella normalità.
E' come un flusso di coscienza dei pensieri profondi dell'inconscio;
questo mondo parallelo dei disegni vive con noi e i miei
personaggi disegnati vivono in mondi paralleli ma comunicanti
per nostro stesso tramite.
D. Le tematiche che ricordo
maggiormente e che mi hanno affascinato, sono i visitatori
delle mostre, e le calligrafie antropomorfizzate: tra queste
due tematiche credo che vi siano molte analogie.
R. Chi di noi non ha fatto mai delle considerazioni su questi
due argomenti, coloro che vanno a visitare una mostra, i
cui visitatori somigliano tanto alle opere esposte: a me
è sempre capitato di fare questo accostamento e c'è
una ragione validissima; la nostra disposizione verso le
opere che andiamo a vedere, perciò l'autore farà
il referente, e noi noteremo nell'ambiente, solo ciò
che ci richiama allo stile della pittura che siamo andati
a vedere. Si è vero, anche io mi diverto quando disegno
il visitatore delle mostre e creo un'estensione come una
continuità di forme nello spazio, nello stile dell'opera,
una simbiosi tra l'opera e il suo spettatore; un poco come
fa il pittore con il tema, "il pittore e la sua modella"
Il pittore dipinge se stesso, e la sua modella, noti, sono
sempre io che dipinge il quadro e lo spettatore ideale.
Analogamente
la stessa cosa capita con le scritture che defluiscono dalle
penne a stilo, con le stesse componenti psicologiche di
personaggi, che le emettono; un presidente, un titolato,
un conte, uno caratterizzato da una funzione per esempio,
uno scienziato, un musicista, etc; anche qui disegno il
funzionario e la sua scrittura con gli stessi segni e caratteri.
Questi personaggi hanno, ognuno una calligrafia specifica,
adeguata alla propria funzione.
D. Che cosa è la qualità
del disegno?
R. Vede questa dipende molto dalle circostanze: un
disegno vive se è l'uomo che lo invita a vivere,
lo sguardo di che lo cerca lo risveglia da quel foglio che
somiglia a un deserto di carta e, nel momento che comincia
ad interrogarlo, il disegno diventa memoria, libro, conoscenza.
E poi vi sono fattori esterni; un disegno, ad esempio, scelto
per una copertina di un monografia, deve rispondere a tanti
requisiti, come l'impatto con l'argomento, l'epoca dei fatti,
aspetti che sono indipendenti dalla nostra volontà,
mentre altri fattori sono ricollegabili ai nostri interessi,
come la preparazione personale, la propria disponibilità
alla lettura. Quindi occorrono diversi fattori a concorrere,
per innescare il contatto con l'opera, goderne il suo significato.
D. Maestro c'è una
data in cui lei si è convinto che se stesso e la
sua opera siano un tutt'uno?
R. Ma è sempre stato così, essere disegnatore
è come essere padre, fratello, uomo, donna, certo
lo si desidera, lo si vuole.
D. L'arte l'artista, io intendevo
questo tra l'artista e la sua opera?
R. Ma quale arte, artista sì, arte è
sempre stata lì, nello spazio tempo, e può
essere raccolta, da chi è in grado di estrarla, come
la favola della spada nella roccia; è lì nei
libri, nella vita, nelle opere del passato: è un'aura,
che va raccolta; l'artista la rende solo visibile, la espone
attraverso la sua mediazione.
Ed è pronta a prendere altre forme, altre identità,
con l'evolversi dei tempi, pur rimanendo se stessa.
D. Maestro, lei ci ha lasciati
nel 1999 e questa intervista è stata effettuata nella
metà del 2001, le sembra possibile?
R. Mio gentile signor interlocutore, lei mi ha incuriosito
quando mi ha invitato a parlare di un mio amico sardo: l'artista
Costantino Nivola ed è stato questo che le ha aperto
l'uscio della mia memoria, ma sappia che io non sono interessato
a nulla, e ho speso una vita a rincorrere la poetica dell'inutile.
Nicola Marotta, Lettera a Saul Steinberg in "XÁOS. Giornale di confine", Anno I, n.1 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_precedente/art_3.htm