Ne
Il mito di Sisifo Albert Camus scrive: "Anche
gli uomini secernono l'inumano. In certe ore di lucidità,
l'aspetto meccanico dei loro gesti, la loro pantomima priva
di senso rendono stupido tutto ciò che li circonda. Un uomo
parla al telefono, dietro un tramezzo a vetri; non lo si
ode, ma si vede la sua mimica senza senso: e ci si chiede
perché mai egli viva. Questo malessere di fronte all'inumanità
dell'uomo, questa incalcolabile degradazione dell'immagine
di ciò che siamo (…) sono pure l'assurdo".La meccanicità
dell'esistere dunque è l'assurdo, tutto ciò che di sterilmente
ripetitivo scandisce la nostra esistenza. Consideriamo questo
peculiare aspetto dell'assurdo e guardiamolo dal
punto in cui noi stiamo: la realtà; si perché dando
una tale definizione dell'assurdo non si può prescindere
dalla realtà intesa come mondo. E' noto come ne Il mito
di Sisifo Camus definisca l'assurdo come il "divorzio
tra l'uomo e la sua vita", sottolineando l'importanza
fondamentale dei due termini uomo e vita, i quali devono
sopravvivere affinché possa sorgere l'assurdo; partendo
da ciò si potrebbe dire dunque che perché l'assurdo sia,
è necessaria la presenza dell'uomo, dell'uomo che
vive e si muove nella realtà, nel mondo circostante. Proseguendo
in tal senso si potrebbe altresì notare che appunto perché
l'uomo è inestricabilmente rapportato alla realtà, egli
ci-è-immerso; la realtà dunque nella quale, pur agitandosi,
l'uomo è ancorato, non riguarda un dato esterno,
o meglio non solo. Sicuramente non è su di un piano irreale
o metaempirico che l'assurdo si riconosce, si badi
bene si riconosce: per poter parlare di assurdo,
per poterlo riconoscere infatti dobbiamo stare-nella-realtà,
perché è la realtà che lo produce, è l'uomo che lo produce,
è a mezza via tra l'uomo e il mondo che si produce
l'assurdo: qualcosa che ci fagocita e allo stesso tempo
ci sospinge Altrove. Se
l'assurdo fosse prodotto solo dalla realtà si potrebbe guardare
solo da un punto di vista esteriore, in autentico; se, di
contro, fosse prodotto unicamente dall'uomo non gli si potrebbe
dare una definizione valida per "l'uomo" ma solo
per "un uomo", il tal tizio per esempio. Allora
che cosa c'è che sfugge? C'è forse una ingenuità di fondo
in quanto asseriva Camus? Se si domandasse all'autore di
un'opera d'arte in che modo e in che senso dai propri lavori
si intraveda l'assurdo, l'artista risponderebbe sicuramente
in linea con quanto detto sopra: l'assurdo è l'automatismo
di un mondo che non appartiene più all'uomo, l'assurdo è
l'alienazione sociale, probabilmente, dalla quale l'artista
si sente soffocato: l'artista che parla dell'assurdo come
di una categoria (definita e definibile quindi) rigetterà
dunque l'intera realtà o meglio tenterà di schivarla
abitando solo le proprie opere: un atteggiamento davvero
contro-corrente, peccato che chi ne parla in tal modo faccia
parte in maniera totale della corrente; per alcuni può essere
una posizione priva di contraddizioni, non lo mettiamo in
dubbio.
Poniamo, per ipotesi, che alla
domanda: - In che modo nella tua opera si può rilevare l'assurdo?
-
l'artista risponda: - Per me
l'assurdo non esiste. - E' possibile rinnegare l'assurdo
come facente parte delle proprie opere d'arte ma è possibile
negare l'esistenza dell'assurdo come categoria? Crediamo
di si, proprio per il fatto che riconoscere l'assurdo, sopra
definito, presupponga un sentirsi nella realtà. E se un'artista
non dipingesse che il suo immaginario? Se un'artista lavorasse
esclusivamente sul proprio inconscio? Sarebbe coerente che
definisse l'assurdo? Dal punto di vista dell'immaginario,
assolutamente no. L'assurdo, direbbe tale artista, è una
convenzione, è una etichetta che si appiccica a tutti quegli
artisti contro-tendenza (che sovente coincide con la tendenza)
i quali "fanno gli artisti" e spesso non lo sono.
Aggiungere che le opere di Miriam Ore qui proposte rientrano
nel tema dell'assurdo sarebbe quindi forzato seguendo il
ragionamento fin ora fatto, cioè dando al termine assurdo
il significato di mera convenzione. Non sarebbe forzato
tuttavia parlare di anelito verso la totalità, ricerca interiore
sul sentiero dell'immaginario, bisogno inconscio di senso.
I dipinti di Miriam Ore sfuggono, come l'autore stesso,
a dei canoni precisi di interpretazione: e forse nel momento
in cui si tenta di analizzare e descrivere un'opera d'arte
la si inaridisce…nel caso dell'autore in questione, non
esiste proprio spiegazione di sorta per i suoi lavori, il
senso dell'arte dunque riesce a risultare "evidente"
solo nell'istante della sua produzione per poi "rientrare
in se stesso", celarsi e lasciare fuori l'enigma irrisolto
di un corpo visibile solo a metà. Se l'autenticità
consiste non nel sentirsi parte di qualcosa, ma, come diceva
Goethe, nel vivere ciò che spontaneamente fuoriesce da se
stessi, Miriam Ore è perlomeno autentico, non definirlo
assurdo è solo un problema linguistico.
*Ringrazio Miriam
Ore per la discussione intrattenuta sul tema
A. Pigliaru, Miriam Ore, l'artista e l'assurdo in XÁOS. Giornale di confine,
Anno I, n.1 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_precedente/art_6.htm |