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ROSALIA CAVALIERI
Note sul concetto di cultura alimentare

1. Mangiare e bere sono gesti semplicissimi che tutti noi ogni giorno, anzi più volte al giorno, compiamo: sono perciò i due atti più comuni per l’uomo e tuttavia più densi di significato. Anzitutto perché, come gli altri animali, l’uomo mangia per prolungare la propria esistenza e poi a differenza di tutti gli altri animali, avendo trasformato il bisogno in desiderio, vive in un certo senso per mangiare, anzi per appagare il piacere di gustare. Attività necessaria, e dunque naturale per ogni essere vivente, cibarsi, oltre a nutrire il corpo nutre la mente, tramutandosi per gli esseri umani in un processo culturale, arricchito peraltro di significati simbolici. Con ciò, come si vedrà più avanti, non mi riferisco tuttavia soltanto alle diverse abitudini alimentari, variabili da una cultura all’altra, e/o alle norme socialmente condivise che stabiliscono al loro interno cibi commestibili, cibi vietati o ritenuti disgustosi e per di più modi di preparazione, tempi, luoghi e situazioni in cui il cibo può o deve essere consumato (cfr. Guigoni, 2009), quanto piuttosto ai processi culturali che trasformano la materia prima naturale in un prodotto culturale e sociale, affiancando all’attività predatoria, comune a tutto il mondo animale, l’attività di creazione e di produzione del cibo, specifica dell’animale umano. Ragione per cui possiamo affermare che «il cibo è cultura quando si produce, […], quando si prepara […], quando si consuma […]» (Montanari, 2004, pp. XI-XII).
Sebbene nel mondo animale non manchino esempi di comportamenti non istintivi, cioè non trasmessi geneticamente ma frutto di meccanismi di apprendimento e di trasmissione sociale, e ciò vale anche per l’ambito alimentare, sia per tecniche di procacciamento, sia per quelle di consumo del cibo – sicché ormai non si considera la cultura in senso lato come una prerogativa esclusiva degli umani (cfr. Mainardi, 1974; Bonner, 1980; Bisconti, 2008)
[1] –, la cultura alimentare è comunque un aspetto della cultura specificamente umano, almeno nella forma complessa in cui noi l’abbiamo progressivamente costruita e intesa. Ciononostante, solo in tempi abbastanza recenti l’alimentazione è divenuta materia di studio più sistematico non necessariamente legata alla nutrizione e alla medicina.
L’argomentazione più ricorrente a sostegno dell’idea che il cibo e tutto ciò che vi ruota intorno abbiano un valore culturale è quella che lo colloca nell’ambito della cosiddetta “cultura materiale”, includente un sapere che è anche un “saper fare”, quella cultura insomma che si concretizza nell’ideazione-produzione di utensili, di artefatti e di oggetti di uso e di consumo quotidiano e non, connessi alle attività di sussistenza, e non solo, ma anche di prodotti “artistici” (i vini e le pietanze hanno entrambe queste caratteristiche: creati per nutrire e per dare piacere sono frutto dell’abilità tecnica e manuale e perciò dell’arte nel suo significato originario (téchne) – cfr. Perullo, 2013; Cavalieri, 2016): la produzione e l’elaborazione del cibo, le tecniche e le tecnologie impiegate per questi scopi (cottura, fermentazione, conservazione, cucina, ecc.) sono infatti un patrimonio della cultura materiale.

2. Ma come siamo riusciti a trasformare uno dei gesti più istintivi ed essenziali per la nostra sopravvivenza, quello di mangiare, sfruttando le risorse naturali così come ce le offre la natura, in un’attività culturale stricto sensu? Nel corso della nostra lunga evoluzione ci siamo arrivati progressivamente, a partire da quando abbiamo cominciato a sfruttare il territorio attraverso le attività di caccia e di raccolta che richiedevano già un saper fare (la creazione di strumenti per la caccia e per la pesca: lance, mazze, trappole, retini, recinti), una conoscenza (della rotazione delle stagioni, delle condizioni metereologiche, del calendario lunare, ecc.), una cultura insomma come sapere acquisito, ma specialmente da quando abbiamo cominciato ad alterare la natura cuocendo i cibi con l’uso del fuoco (all’incirca 1,5 milioni di anni fa con homo ergaster/erectus – cfr. Wrangham, 2009), l’invenzione che secondo Claude Levi-Strauss «avrebbe reso umani gli umani» (1964), marcando simbolicamente la transazione dalla natura alla cultura. E poi anche attraverso l’uso di utensili dapprima improvvisati (per es.: carapaci di tartarughe, valve di molluschi o interiora di animali usati come bollitori), e più avanti appositamente costruiti per resistere alla fiamma (mi riferisco all’invenzione della pentola in argilla nel Neolitico - cfr. Medagliani, Valli, 2004) e per consentire l’elaborazione culinaria dei cibi – si pensi, per es., agli attualissimi Roner, forni per cottura a bagnomaria e sottovuoto, ai sifoni per creare cibi fragili ed evanescenti come le spume e le arie della cucina “tecno-emozionale” e alle cucine ipertecnologiche o hi-tech: piani di cottura interattivi, maxi tablet in vetro speciale capaci di cucinare con piastre a induzione dinamica, di pesare automaticamente il cibo, di proiettare video e connettersi a Internet e di fungere al contempo da ripiani per tagliare il cibo; oppure ai forni “intelligenti” che comunicano i dati sulla cottura e fanno una sorta di tomografia del cibo per mostrare le temperature di ogni strato (cfr. Tartamella, 2014) –, fino ad arrivare alla produzione-creazione del cibo con l’agricoltura e l’allevamento (la domesticazione di piante e animali e il passaggio dall’economia di predazione all’economia di produzione) nel Neolitico. La cucina, nella fattispecie, insieme alla “fabbricazione” dei cibi, è l’ambito proprio dell’elaborazione e della reinterpretazione della natura, la massima espressione della cultura alimentare, e l’arte stessa della tavola (legata alla socializzazione, alla convivialità, alla condivisione del cibo e del gusto) ha d’altra parte un rapporto molto lontano con il bisogno naturale la soddisfare la fame.
Ma la “cultura del cibo” risiede anche nel modo di consumarlo, perché gli animali umani pur potendo mangiare praticamente di tutto, come le poche specie onnivore esistenti (ci siamo evoluti dalle scimmie frugivore-onnivore - cfr. Cavalieri, 2014, pp. 27-42), scelgono il cibo sulla base di criteri nutrizionali, qualitativi, economici, culturali, filosofici, religiosi, etici, simbolici, e ancora di tradizioni locali e di famiglia e di gusti personali, ecc. Il cibo dunque è cultura perché non ci limitiamo a ingerirlo ma lo progettiamo, lo produciamo, lo trasformiamo, lo modifichiamo secondo il nostro gusto, il nostro piacere e le nostre esigenze, lo pensiamo, arricchendolo di attributi simbolici, trasformando così anche il mondo circostante. E poi, cosa non da poco, siamo capaci di comunicarlo, di socializzarlo, di tradurlo in linguaggio verbale, sia nell’ambito della convivialità della tavola, sia nel contesto della degustazione di una pietanza o di un vino: raccontare a voce o mettere per iscritto un’esperienza gustativa è una prerogativa degli animali umani proprio perché animali linguistici (cfr. Cavalieri, 2012).
Indubbiamente il concetto di “cultura alimentare” è un contenitore immenso che include una pluralità di cose diverse (sicché sarebbe arduo in questa sede farne una trattazione esaustiva): produrre ed elaborare il cibo, consumarlo in compagnia seduti attorno a una tavola, condividerlo attraverso la parola, conservare la tradizione ma anche modernizzare (aprirsi al nuovo e all’alterità esotica), concedersi il lusso della consapevolezza del cibo che mangiamo (cibarsi cioè in modo responsabile avendo le idee chiare su cosa abbiamo scelto come alimento e come bevanda e sul perché), sapere com’è fatto e da dove proviene, avere cognizione della stagionalità e della territorialità dei cibi e non limitarsi a ingerirli solo per la pura “sensazione al palato”; e ancora, conoscere la storia di un vino dalla vigna allo scaffale dell’enoteca, avere consapevolezza dell’impatto che il cibo che scegliamo di acquistare e di consumare ha sull’ambiente e sull’intero pianeta (dall’inquinamento atmosferico e idrico, all’impoverimento della biodiversità, alla deforestazione, alla degradazione del suolo, agli effetti sul clima, ecc.), tutelare responsabilmente l’ambiente dai danni provocati della produzione intensiva di cibo (dalle monoculture agli allevamenti intensivi, incluse la pesca marina e l’acquacoltura) e dall’industria alimentare più in generale, e altro ancora. Tutto questo ci permette tra l’altro di coltivare un piacere consapevole, un piacere equilibrato dal sapere, se solo riflettiamo sul fatto che la cultura alimentare è anche figlia del desiderio umano di prolungare il piacere del cibo e del gusto, contribuendo al nostro benessere. Ma «la ricerca del piacere – come osserva Carlo Petrini, fondatore e presidente dell’Associazione Internazionale Slow Food – va educata» (2016, p. 195).

3. Nel concetto ampio di “cultura alimentare” rientrano perciò a pieno titolo anche l’educazione al sapere gastronomico, cioè all’uso dei sensi, alla condivisione e alla comunicazione del gusto, l’apprezzamento del sapore di una pietanza e il saperne parlare, la comprensione del valore del cibo e della sua centralità nel creare e modellare la società, il diritto alla salute (dei consumatori ma anche degli animali allevati), e inoltre l’educazione all’agricoltura e al rispetto dell’ambiente. A proposito di quest’ultimo aspetto non possiamo ignorare come il dominio incontrastato esercitato sulla natura ci abbia condotto al disastro ambientale, una realtà concreta ormai sotto gli occhi di tutti: basti pensare a fenomeni come la deforestazione, la desertificazione, la degradazione del suolo, il riscaldamento globale, l’inquinamento ambientale, l’alterazione dell’intero ecosistema, fenomeni che scatenano e/o amplificano anche le calamità naturali, mettendoci in un certo senso la natura contro. La produzione industriale del cibo è infatti la causa principale della distruzione degli ecosistemi (un terzo della produzione mondiale di cereali è destinato a nutrire gli allevamenti, che sono anche causa di uno smodato impiego di risorse idriche e di inquinamento delle falde), specialmente negli ultimi sessant’anni, da quando cioè con l’avvento dell’industria agroalimentare facciamo una produzione intensiva di cibo a scapito della biodiversità, sfruttando fonti di energia non rinnovabili e inquinanti (combustibili fossili come petrolio o gas naturale), concimi chimici, pesticidi e mangimi per gli animali d’allevamento.
La cultura alimentare serve dunque anche a scegliere e a capire cosa è la qualità, cosa e come dobbiamo mangiare: quando scegliamo di cosa cibarci decidiamo di aiutare un’agricoltura piuttosto che un’altra, un metodo di produzione piuttosto che un altro (stesso discorso quando un produttore, per esempio, sceglie di andare controcorrente adottando una filosofia naturale per il suo vino nel rispetto della natura, dell’ecosistema e della tradizione). Così, se tutti acquistassimo vini naturali (quei vini cioè prodotti in modo non convenzionale, solo con succo d’uva fermentato, senza l’aggiunta di sostanza in cantina tranne, in qualche caso, pochi solfiti, da non confondere con i vini biologici, per lo più vini ottenuti senza trattamenti del terreno ma con l’aggiunta in cantina di gomma arabica, lieviti, tannini artificiali, ecc.) o smettessimo di mangiare cibo-spazzatura, cibo ipercalorico, conservato, appetibile ma di scarso valore nutrizionale, queste scelte influirebbero pesantemente sul processo produttivo industriale e poi anche sull’ambiente, sulla sua salute ma anche sulla nostra, stimolando ai cambiamenti. Una maggiore consapevolezza e una conoscenza più capillare possono aiutarci a invertire la rotta, anche attraverso comportamenti di acquisto e di consumo del cibo più responsabili che possono contribuire al risparmio energetico e alla riduzione dell’inquinamento senza rinunciare al piacere alimentare e ai godimenti del gusto.
Oggi la cultura alimentare in tutte le sue possibili declinazioni è appannaggio della scienza gastronomica o, per meglio dire, delle scienze gastronomiche, un ambito d’indagine trasversale (etichettato food studies nel mondo anglofono). Il termine “gastronomia” al quale mi riferisco definisce quella disciplina complessa inaugurata nell’Ottocento da Jean Anthelme Brillat-Savarin (1825), l’intellettuale gourmet considerato uno dei padri fondatori della gastronomia moderna, come insieme di saperi umanistici e scientifici, incentrati sull’alimentazione e sul gusto come elementi culturali. Questa scienza eteroclita attorno a cui si coagula tutto il sapere complesso relativo all’atto di mangiare (sia come elemento materiale, sia come elemento culturale) e al nostro rapporto con il cibo, con la sua produzione, con la sua commercializzazione e con il suo consumo, includente ambiti diversi che vanno dalla botanica, alle scienze naturali, alla chimica e alla fisica degli alimenti, alle scienze sensoriali, all’agricoltura, all’enologia, alla culinaria, all’agronomia, all’economia e al marketing delle imprese agro-alimentari, alla geopolitica, alla tecnica, all’ecologia, alla storia della cultura gastronomica, al commercio, alla semiotica del gusto, alla tecnologia alimentare, alla medicina, all’antropologia alimentare, alla filosofia, alla psicologia, ecc., non ha mai ricevuto la dovuta attenzione e il meritato riconoscimento scientifico e culturale da parte degli intellettuali e del mondo accademico, né tanto meno da parte delle istituzioni (la scuola in primis). Anzi è stata considerata un divertissement il cui unico scopo è produrre un semplice piacere sensoriale, un gioco, ignorandone la dimensione complessa e le numerose implicazioni e associandola per lo più alla sfera dello svago o alle sagre paesane (cfr. Petrini, 2016, p. 56).
Solo in tempi recentissimi il cibo, che, non dimentichiamolo, è il più grande trasmettitore di cultura, ha riacquistato centralità tra le attività umane e la scienza deputata alla sua conoscenza ha trovato ufficialità con l’istituzione di corsi di degustazione, di sommelier, di analisi sensoriale, di Laboratori del gusto (lezioni di degustazione guidate da produttori o da esperti di analisi sensoriale) e di Master of Food (serie di lezioni teoriche e di laboratori su generi merceologici diversi, centrati soprattutto sull’analisi sensoriale) ideati da Slow Food (l’Associazione Internazionale che difende e promuove la cultura alimentare) e specialmente di Corsi di Laurea dedicati e di Master post-laurea. Fino all’istituzione dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche, che ha sede in Italia, a Pollenzo (Cn), nata nel 2004 (e promossa sempre dall’Associazione Internazionale Slow Food), e oggi un centro d’eccellenza mondiale di studi e di ricerche relative alle questioni del cibo e dell’alimentazione e di formazione sulla cultura alimentare, con l’obiettivo di educare i futuri “gastronomi”, nuove figure dotate di conoscenze e di competenze nell’ambito agroalimentare che operano e indirizzano la produzione, la distribuzione e il consumo di cibo verso scelte corrette e utili a creare un futuro sostenibile per il pianeta.
È auspicabile, pertanto, che la cultura alimentare possa diventare, anche attraverso un sistema di educazione permanente che affianchi l’individuo nel corso di tutta la sua esistenza, «uno strumento ancora più potente di crescita culturale, economica e di qualità della vita» (Petrini, 2016, p. 205), un processo che richiede il pieno riconoscimento scientifico della scienza gastronomica come sapere multidisciplinare.

4. Vorrei concludere con una breve riflessione sul vino, uno degli oggetti alimentari più straordinari creati dall’uomo e anche più studiati (quello che storicamente ha maggiormente attirato l’attenzione di filosofi e di pensatori più in generale), quel «liquido odoroso» (Ackerman, 1990) inventato non per nutrirci e neppure per dissetarci ma per essere goduto e apprezzato, per il puro piacere che sa darci, un piacere complesso: sensoriale, estetico, intellettuale, perché il vino non è solo un nutrimento per il corpo e per i sensi ma è anche un nutrimento spirituale. Prodotto della cultura del “cotto”, come il pane, la birra o i distillati, oggetti alimentari che solo gli uomini sanno costruire, è l’esito di un sapere e di una tecnologia complessa e della mano sapiente dell’uomo.
Coltivare la cultura del vino e del bere significa imparare a conoscerlo e ad apprezzarlo, a scegliere la qualità, valorizzando anche il lavoro di chi lo produce e di chi lo coltiva, educando i più giovani al saper bere, al bere cioè responsabile, coniugando il piacere e l’apprezzamento alla moderazione. «Per diventare interlocutori consapevoli è importante educarsi al vino, ovvero accedere a un piacere più alto, farlo nostro […]» (Sangiorgi, 2011, p. 11). E il saper bere un vino, così come il saper apprezzare un cibo, passa anzitutto attraverso l’educazione sensoriale, attraverso la conoscenza della nostra sensorialità, parte integrante del nostro processo formativo (se oggi si fa annusare a un bambino un’essenza di pesca o di mela, il bambino asserisce che gli ricorda lo shampoo o le caramelle, un esempio di ignoranza sensoriale), attraverso l’esercizio dei sensi impegnati nella degustazione e quindi nella comprensione di un vino (la vista e specialmente l’olfatto e il gusto, due sensi in genere cognitivamente svalutati nella cultura occidentale ma che si riscattano nell’arte della degustazione), la frequentazione di corsi di degustazione e di educazione al vino.

La degustazione – scrive Sandro Sangiorgi ne L’invenzione della gioia. Educarsi al vino, 2011, un libro in cui l’autore assume un punto di vista assolutamente personale sul vino e sulla degustazione – è continua scoperta, un atto che coinvolge per intero e richiede una mente duttile. Il vino ha un raro potere evocativo: ascoltiamo il suo arrivo nel bicchiere, guardiamo la tonalità del colore e il riflesso, facciamo delle ipotesi che forse saranno confutate dall’esame dell’odore, recuperiamo il valore della tattilità, sentiamo la ferita della durezza o l’accoglienza del sapore dolce, godiamo dei profumi che rimangono oltre l’assaggio e proseguono nei ricordi. Quando è davvero buono il vino diventa magnetico, resta dentro e coinvolge la nostra emotività. Degustare significa affinare gli strumenti per far fronte al mistero che ogni bottiglia racchiude.

Ma educarsi al vino significa anche saperlo comunicare, descrivendo le emozioni e le sensazioni che il vino fa provare e interpretandone le qualità organolettiche, ma anche comprendere la storia di quel particolare vino, trasformando così ogni assaggio in una significativa esperienza culturale. L’esperienza enogastronomica, quella cioè che ci vede impegnati quando assaporiamo una pietanza o gustiamo un vino, è dunque un’esperienza che attiene a un piacere linguisticamente comunicabile e condivisibile: come e ancora più del cibo, il vino è condivisione, è una bevanda comunitaria che non si dovrebbe bere mai da soli.
Il «liquido odoroso» diventa così anche un pretesto per conoscere le potenzialità dei nostri sensi, per coniugare emozione e ragione nel concetto di conoscenza alimentare e per sviluppare maggiore capacità critica quando siamo chiamati a scegliere cosa mangiare e cosa bere: meglio scegliere di bere un buon vino quando è possibile, preferendo piuttosto l’acqua a un vino di scarsa qualità. L’educazione al vino e al piacere consapevole, che è anche il modo più sensato di coltivare la passione del bere, credo sia anche la strada migliore per imparare a bere in modo responsabile, con moderazione, prevenendo gli eccessi di alcol senza incorrere nel proibizionismo e nella repressione, ma con l’educazione, con la conoscenza e con l’apprezzamento: insegnando che il vino è un patrimonio culturale e artistico e perciò una bevanda che richiede responsabilità e rispetto.

Rosalia Cavalieri (Università di Messina)
rcavalieri@unime.it


[1] Il mondo degli animali non umani offre numerosi esempi di apprendimento e di trasmissione non genetica di informazioni e di comportamenti inediti e/o ingegnosi: gli scimpanzé vanno a pesca di termiti e di altri insetti usando la tecnica del bastoncino; le lontre marine usano delle grosse pietre per spezzare i gusci dei molluschi di cui sono ghiotte; alcuni fringuelli cacciano gli insetti annidati nei tronchi usando bastoncini modellati allo scopo; le gatte insegnano ai loro piccoli come cacciare i topi. Ma l’esempio più noto di elaborazione rudimentale del cibo (o di proto-cucina), e anche il primo chiaro esempio di “cultura” nel mondo animale, è quello dei macachi giapponesi dell’isola di Koshima, che in modo del tutto casuale hanno imparato a immergere nell’acqua di mare i tuberi di cui si cibano, inizialmente per ripulirli dalla sabbia e successivamente per insaporirli: un comportamento trasmesso alle generazioni successive, che una volta scoperto il gusto delle patate salate hanno imparato ad apprezzarlo (cfr. Mainardi, 1974, pp. 17-23; Bisconti, 2008, pp. 81-83, 122-124).


Riferimenti bibliografici

Ackerman, D., 1990, Storia naturale dei sensi, trad. it. Frassinelli, Milano, 1992.
Bisconti, M., 2008, Le culture degli altri animali, Zanichelli, Bologna.
Bonner, J.T., 1980, La cultura degli animali, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino (1983), 2016.
Brillat-Savarin, A., 1825, Fisiologia del gusto, trad. it. in Lettura di Brillat-Savarin di Roland Barthes, Sellerio, Palermo, (ed. fr. 1975) 1978, pp. 1-273.
Cavalieri, R., 2012, La natura linguistica del gustare, in “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. 205 gennaio/aprile 2012, pp. 49-63.
Cavalieri, R., 2014, E l’uomo inventò i sapori. Storia naturale del gusto, il Mulino, Bologna.
Cavalieri, R. 2016, L’arte del palato e la denaturalizzazione del cibo. Momenti di una storia evolutiva, in “Conjectura: filosofia e educação”, 21 (1), 2016, pp. 14-26
Guigoni, A., 2009, Antropologia del mangiare e del bere, Edizioni Altravista, Torrazza Coste (PV).
Lévi-Strauss, C., 1964, Il crudo e il cotto, trad. it., Il Saggiatore, Milano (1966), 2008.
Mainardi, D., 1974, L’animale culturale, BUR, Milano, ed. cit. 1975.
Medagliani, E., Valli, C.G., 2004, Storia della pentola. Il fuoco, i segni e le forme del calore, Bibliotheca Culinaria, Lodi.
Montanari, M., 2004, Il cibo come cultura, Laterza, Roma-Bari.
Perullo, N., 2013, La cucina è arte? Filosofia della passione culinaria, Carocci Editore, Roma.
Petrini, C., 2016, Buono, pulito e giusto, Giunti Editore, Firenze, Slow Food Editore, Bra (Cn).
Sangiorgi, S., 2011, L’invenzione della gioia. Educarsi al vino: sogno, civiltà, linguaggio, Porthos Edizioni, Roma.
Tartamella, V., 2014, Tavoli che cuociono e forni che parlano, in “FocusEXTRA”, n. dedicato a Il cibo, n. 63, pp. 46-51.
Wrangham, R.W., 2009, L’intelligenza del fuoco. L’invenzione della cottura e l’evoluzione dell’uomo, trad it., Bollati Boringhieri, Torino, 2011
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Rosalia Cavalieri, Note sul concetto di Cultura Alimentare, in "XÁOS. Giornale di confine", settembre 2016, -ISSN 1594-669X
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