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Fabio Treppiedi

POTENZE DELLA FINZIONE
La filosofia e Pessoa


Solo polvere e cenere essi afferrano,
dove, per loro, mai la tua vita fa ritorno.

G. W. F. Hegel, Eleusi (poesia per l’amico F. Hölderlin)

 

La sottrazione

C’è un frammento del Libro dell’inquietudine su cui è possibile impiantare una questione che tocca la poesia di Pessoa in uno dei suoi punti nevralgici:

Forse un giorno capiranno che ho compiuto, come nessun altro, il mio innato dovere di interprete di una parte del nostro secolo (1).

Non si tratta né di chiedersi fino a che punto la persona che ha scritto il frammento, l’“ortonimo” Fernando Pessoa, si identifichi col personaggio che vi appone la firma, l’“eteronimo” Bernardo Soares, né tantomeno di chiedersi fino a che punto il fatto che il secondo sia frutto dalla mente del primo basti di per sé a confinare l’affaire Pessoa nella finzione letteraria piuttosto che nella malattia mentale. Bisognerebbe infatti assumere fino in fondo la finzione pessoana, prenderla alla lettera, interrogandosi non tanto sull’arrivo presunto del “giorno” evocato nel frammento quanto più sulla capacità, da parte del pensiero stesso, di accogliere la finzione in tutta la sua portata.
Il titolo e il sottotitolo di questo saggio stanno ad indicare innanzitutto quanto esso non nasca soltanto come contributo critico su un poeta redatto con gli strumenti della filosofia, ma anche e soprattutto come un’interrogazione della filosofia stessa a partire da Pessoa. Il Leitmotiv delle pagine che seguiranno rappresenta nello specifico un contrappunto a quanto il filosofo francese Alain Badiou afferma circa la figura e l’opera del poeta che, attraverso l’eteronimia, si è indefinitamente reinventato: l’essere “contemporanei” di Pessoa è un “compito della filosofia” perché il pensiero stesso, laddove “non è, o non è ancora, ancora sotto la condizione di Pessoa”, giunge attraverso la sua lettura a fare esperienza dell’incapacità se non addirittura dell’impossibilità di pensare “all’altezza di Pessoa” (2).
Badiou può così constatare che “la linea di pensiero assolutamente singolare tracciata da Pessoa è tale da non trovare nella modernità filosofica alcuna figura in grado di sostenerne la tensione”(3). Si scorge nelle parole del filosofo francese il segno di una sfida non indifferente: laddove ci si fa propriamente carico delle finzioni di Pessoa, infatti, tale segno precorre e anticipa uno spazio inesplorato del pensiero che darebbe occasione alla filosofia di tracciare inattesi orizzonti di senso ed elaborare nuovi concetti. Si tratta allora di accogliere la sfida, lanciata da Pessoa e rilanciata da Badiou, di pensare l’eteronimia come “condizione possibile” della filosofia.
L’atipicità di Pessoa si evince immediatamente dalla seria difficoltà di collocare pacificamente la sua più che unica esperienza in seno alla forbice storica che, secondo Badiou, separa meno di quanto non sembri il cosiddetto “platonismo”, come pensiero della trascendenza, dal “rovesciamento del platonismo” operato da correnti di pensiero che, sulla scia di Nietzsche e Heidegger, hanno contrapposto alla verticalità dell’idea astratta l’orizzontalità e l’immanenza creatrice della vita. La singolarità dell’“evento Pessoa” non soltanto sta fuori dall’opposizione tra platonismo e antiplatonismo ma taglia trasversalmente lo spazio storico filosofico cui tale opposizione dà origine:

Se la poesia di Pessoa costituisce una sfida singolare per la filosofia, se la sua modernità è ancora davanti a noi, per certi versi inesplorata, è in quanto il suo pensare-poesia apre una via che riesce a non essere né platonica né antiplatonica. Pessoa costituisce poeticamente –e senza che la filosofia ne abbia ancora preso l’esatta misura- un luogo del pensare propriamente sottratto all’unanime parola d’ordine del rovesciamento del platonismo (4).

Questo inedito taglio permette a Pessoa di “sottrarsi” in modo altrettanto inedito allo spazio compreso tra platonismo e antiplatonismo nella misura esatta in cui la sottrazione si produce, nella sua poesia, a partire dalla necessaria inclusione del poeta stesso in questo spazio storico filosofico. Inclusione dalla cui cogenza Pessoa viene a sua volta necessariamente attraversato, trafitto, ritagliato e spezzettato. Ed è a partire da questa enigmatica inclusione che, d’altra parte, la filosofia va alla ricerca della domanda che le permetta, finalmente, di pensare “all’altezza di Pessoa”.

Il verso e il concetto

Spesso il concetto filosofico risulta determinante per la comprensione del verso poetico così come quest’ultimo diviene altrettanto spesso indispensabile per la comprensione dei concetti filosofici. È allora possibile incrociare, compenetrare e fondere dimensioni che, come nel caso del poetico e del filosofico, arrivano ad essere separabili solo in via ipotetica. Opere come il Libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa e i Sentieri erranti di Martin Heidegger mostrano pienamente quanto il limite tra filosofia e creazione poetica assuma una variabilità allo stesso tempo suggestiva e problematica.
La stessa variabilità del rapporto tra filosofia e poesia, d’altro canto, è antica quanto il pensiero occidentale: da Platone ai giorni nostri, la filosofia non ha mai negato categoricamente alla poesia una specifica capacità di accedere al vero. A partire dagli anni Trenta del secolo scorso, inoltre, Heidegger ha dedicato gran parte della sua ricerca al “colloquio” con i poeti, ponendolo come indispensabile in un epoca storica -quella del tramonto della metafisica intesa come dominio della tecnica ed affermazione massima dell’oblio dell’essere- in cui si scopre sempre più quanto il “dire” dei poeti assuma un’incidenza capitale sulle sorti della filosofia e dell’umanità.
La scrittura diviene così il luogo essenziale di una sperimentazione in cui la creazione poetica e la finzione letteraria integrano entrambe una tensione filosofica verso il vero. Se ci si domanda chi possa davvero considerarsi interprete o ricercatore della verità si entra immediatamente in una delle questioni più spinose del pensiero occidentale: ciò accade innanzitutto perché il tentativo stesso di porre la domanda non si separa dalla necessità di prendere in considerazione un po’ tutta la storia della filosofia così come un po’ tutta la storia della letteratura. La domanda affonda infatti le radici in un contesto, quello della filosofia greca, in cui la poesia e l’appena nata filosofia si definiscono reciprocamente in rapporto a una non facile emancipazione dalla sapienza mitica.
Nella fase germinale della filosofia, i ricercatori del sapere e della verità erano tanto gli indagatori della natura quanto i tragici e i poeti come Omero ed Esiodo. Lo stesso Aristotele si trova ad esitare nel momento in cui deve stabilire a chi, tra il poeta Esiodo e il filosofo Parmenide (che scrive a sua volta in versi), possa essere attribuita maggiore capacità di verità:

si potrebbe pensare che sia stato Esiodo il primo che ricercò una causa di questo genere, ponendo l’amore e il desiderio a principio degli esseri, così come fece, per esempio, Parmenide […]. A quale di questi pensatori spetta la priorità, ci sia concesso di giudicare più avanti (5).

È allora evidente che l’origine della filosofia è in un certo senso comune a quella della poesia nel derivare ambedue da un’unica radice, una sola istanza veritativa che, ad esempio, lo stesso Aristotele non attribuiva alla storia (6). La nascita della filosofia coincide col momento in cui l’uomo greco scopre la potenza della parola. L’umano dire non esprime più soltanto il dolore, lo smarrimento e gli stati emotivi magistralmente espressi nella tragedia: la parole di Edipo così come quelle di Antigone, infatti, evocano il mistero di un angosciato ritrovarsi allo scoperto, esistenza segnata interamente dall’equivocità che rende la vita maledetta e al tempo stesso sacra. Solo a partire da questo equivoco, con l’avvento della filosofia, la parola si scoprirà capace di penetrare le ragioni di quella tragicità del vivere di cui il mito rendeva conto solo in parte (7).
Pur dispiegando in momenti distinti la potenza di cui è capace, dunque, il dire umano promana da quell’unica radice che è la parola stessa. Con la filosofia l’umano dire assurge a logos, capacità di connettere, discernere e porre domande anche rispetto a ciò che sta alla base delle ossessioni e degli smarrimenti tipici del vivere tragico. Il passaggio dal mythos al logos si concretizza nel disciplinare e nel dare un orientamento all’erranza dell’uomo, così da trasformarla in ricerca della verità. La parola, elemento ad ogni modo presente sia nel mito che nella filosofia, lascia pensare il passaggio stesso dall’una all’altra fase sia nel segno della rottura sia in quello della continuità. La scoperta della filosofia estende, prolunga e trasforma tutto ciò che era già mito e tragedia: il filosofo va in un certo senso a vedere dove si trova Edipo, lo cerca, lo trova e attraverso il logos scruta da tutt’altra parte il mistero dell’eroe cieco e smarrito.
Lì dove il vivere umano si ritrova dilaniato come il corpo del piccolo Dioniso, la parola dei filosofi torna fondamentale tanto quanto quella del poeti nella misura in cui si tratta di cogliere la verità di questo smarrimento, “tentando” di realizzare, come afferma Heidegger:

un dialogo onto-storico con il poetare, in quanto i poeti sono, tra i mortali, coloro i quali cantando rintracciano la traccia degli dei fuggiti, restano sulla loro traccia e indicano così per i mortali loro affini, la via verso la svolta (8).

Troppo tardi, amico, giungiamo noi. Vivono certo gli dèi
Ma là, sul nostro capo, in un altro mondo.
Senza tregua lì agiscono e sembrano poco curare
Se noi viviamo, tanto ci risparmiano i celesti.
Perché non sempre è capace un debole vaso di contenerli:
Solo a periodi l’uomo sostiene pienezza divina.
Sogno di loro è, dopo, la vita. Pure l’errare
Giova come sopore: rende forti lo stento e la notte,
Finché eroi cresciuti in culla di bronzo,
Cuori, come una volta, ai celesti di forza sian pari.
Tuonando giungono allora. Ma intanto spesso mi chiedo
Se non è meglio dormire che stare così senza compagni
A languire in attesa: e che fare intanto e che dire
Non so: e perché poeti nel tempo di privazione?
Ma tu dici che sono come i preti sacri di Dioniso
Che di paese in paese andavano nella sacra notte (9).

Suggestionato e sedato dall’ennesimo mito, quello del progresso, l’uomo d’inizio Novecento subisce il fascino del potere disporre di tutto. Un fascino che serra la sua bocca allo stesso modo del mito che, prima della filosofia, sedava l’animo lì dove il pensiero iniziava appena ad avvertire la vertigine che gli è più propria. Un tacito e latente livellamento degli uomini, quello d’inizio Novecento, che Heidegger scorge nel loro esistere installati ad un “livello del reale” in cui:

le distinzioni non esistono più. Il bisogno di materiale umano è soggetto alle regole dell’ordinamento esattamente come il bisogno di libri di lettura amena e di poesie, per la produzione dei quali il poeta non è in nulla più importante dell’apprendista rilegatore che aiuta a rilegare le poesie per una biblioteca di fabbrica, per esempio andando a prendere in magazzino il cartone che occorre alla confezione del libro (10).

In “tempi di privazione” il poeta è come squarciato da questo radicale senso d’indistinzione nella misura in cui “il deserto della terra devastata” immancabilmente condivisa con l’umanità del tempo in cui vive trova poi espressione nel deserto che egli crea dentro e fuori di sé. L’estrema esposizione all’indistinto descritta da Heidegger costituisce la messa alla prova dell’umanità intera. Solo da una simile prova può in effetti emergere una prima fondamentale distinzione tra chi si limita a “utilizzare la terra” e chi, come il poeta o il filosofo, ne accoglie la “benedizione” e si mostra capace di vivere “nella legge di questa accettazione come nella propria casa, per custodire il segreto dell’essere e vegliare sull’inviolabilità del possibile”. Il filosofo fraternizza col poeta “resistendo” a un’indistinzione sempre più prossima alla morte e scoprendo, nella poesia, concetti in potenza, elementi essenzialmente “incoativi” (12), dal momento che la filosofia, pensando con la poesia, non fa che portare all’atto il concetto implicito nel verso.

La galassia eteronimica

Ciò che rende Pessoa unico tra i poeti è il suo scrivere non attraverso un solo nome (ortonimo) ma attraverso molteplici altri nomi (eteronimi). L’eteronimia in Pessoa è un fenomeno complesso, non riducibile alle molteplici esperienze di pseudonimia che la letteratura ci ha dato modo di conoscere. È possibile, certamente, rintracciare di primo acchito suggestive somiglianze tra l’eteronimia pessoana e, ad esempio, la pseudonimia kierkegaardiana. Eduardo Lourenço dedica attenzione a questo tema, concludendo però che la pseudonimia di Kierkegaard non coincide con l’eteronimia di Pessoa dal momento che quest’ultima si colloca ad un livello di complessità più incisivo: “come scrive uno dei suoi recenti biografi Frithiof Brandt –ricorda Lourenço- l’intenzione di Kierkegaard era stata quella di immaginare scrittori diversi che avrebbero presentato diverse concezioni di vita, quelle che lui ha chiamato stadi sul cammino della vita” (13).
La pseudonimia non corrisponde al fenomeno che Pessoa definirà eteronimia poiché, in quest’ultimo caso, non si ha soltanto a che fare con “scrittori diversi responsabili di diverse concezioni di vita” ma anche con “scritti diversi che incarnano diverse visioni del mondo” (14). Quello che Badiou non ha esitato a definire un “ritardo scandaloso” della modernità filosofica su Pessoa fa il paio col fatto stesso che l’opera dei “molteplici” Pessoa non ha goduto di un successo immediato (15). Un ostacolo alla diffusione degli scritti di Pessoa è stato sicuramente rappresentato dalle complicatissime avversità filologiche ad essi legate: il poeta portoghese non soltanto firma le opere con nomi diversi, ma le lascia perlopiù incompiute sotto forma di appunti e frammenti sparsi dentro un grande baule (16).
Dopo il lungo e travagliato lavoro di sistemazione che ha consentito una parziale pubblicazione delle opere di Pessoa (concomitante a un primo filone di critica), l’attenzione dei più attenti esegeti si è gradualmente spostata verso l’ambito filosofico (17). Ciò che contraddistingue questo secondo movimento di comprensione è una lettura che forza in qualche modo i metodi, le categorie e gli stilemi della critica letteraria, con lo scopo preciso di cogliere “le alchimie filosofiche dell’opera di Pessoa” (18). Su questo versante si tratta di capire innanzitutto se sia possibile articolare un’unità per così dire “sintetica” dell’esperienza pessoana o, se si vuole, la sua dimensione euristica. La singolarità della poesia di Pessoa, d’altra parte, consiste nell’introdurre un’algebra in versi: attraverso almeno quattro nomi (Pessoa, Caeiro, Campos, Reis), si dispone di altrettanti “insiemi poetici” eterogenei in grado di configurare nelle loro connessioni reciproche un vero e proprio “sistema” (19).
È innegabile, pertanto, che la finzione poetica di Pessoa eccede l’espediente letterario fine a se stesso: fingere diventa qualcosa di talmente vero da produrre un senso che arriva a manifestarsi sul piano esistenziale più concreto (20). Ed è proprio a questo punto che le condizioni di un’adeguata interrogazione filosofica sull’evento Pessoa si rendono individuabili non soltanto a partire dai componimenti del poeta e dei suoi eteronimi, cioè dall’opera così per come essa risulta data, ma anche e imprescindibilmente a partire della vita stessa di Pessoa come ortonimia ed eteronimia di uno stare al mondo che, tendendo metodicamente alla spersonalizzazione, ci fa assistere al darsi in atto dell’opera stessa.

La totalità frammentata

La filosofia è spinta verso un punto di non ritorno nel momento stesso in cui Pessoa non viene più assunto come un che di già individuato o riconducibile senza equivoco alcuno all’io del poeta creatore di eteronimi (la domanda “Dio non ha unità come potrei averla io?”(21) andrebbe, in questo caso, presa alla lettera). L’identità di Pessoa sembra più strettamente paragonabile a una nebulosa che resiste alle forze che la dissipano, all’universo in movimento del caosmo di Joyce o magari ad una “galassia eteronimica” (22). Non a caso Eduardo Lourenço mette in guardia i lettori dal considerare quella di Pessoa un’“unità frammentata” di cui ortonimo ed eteronimi sarebbero appunto i “frammenti”. Si dovrebbe piuttosto pensare ad una “totalità frammentata”, deducibile da un processo, di non facile comprensione, che appare ancora più radicale della stessa frammentazione dell’unità equivocamente posta all’origine dell’evento Pessoa (23).
Dal momento in cui diviene più poeti, Pessoa è già più di un poeta: è Reis, è Caeiro, è Campos, è Pessoa. Ma egli è più di un poeta poiché è anche scrittore in prosa: Alexander Search autore di novelle poliziesche, Antonio Mora filosofo neopagano di ispirazione nietzscheana, Rafael Baldaya alchimista, esoterista e astrologo. Pessoa è più di un poeta, infine, perché è anche Fernando Pessoa, anonimo impiegato in una ditta di import - export per la quale traduce le lettere dal portoghese alle altre lingue (24). Ma Pessoa è anche un antifilosofo che confonde programmaticamente le idee dei possibili interlocutori filosofici quando afferma che “i poeti mistici sono filosofi malati, e coloro che si professano filosofi sono uomini frastornati” (25). L’avventura eteronimica dimostra quanto Pessoa volesse intraprendere il maggior numero di strade possibili. Più specificamente, si tratta per lui di non rientrare mai definitivamente in una sola categoria: il creatore di eteronimi precorre trasversalmente il tentativo di giudizio altrui – ovvero di quell’altro che può anche essere egli stesso – e lo fa precisamente lasciandosi cogliere dal giudizio nella stessa misura in cui, al contempo, ad esso si sottrae. Pessoa sfida cioè le dicotomie proposte dai saperi storici (psicanalisi, antropologia, filosofia, critica letteraria ecc.) non girandovi attorno o sorvolandole, ma attraversandole in diagonale (26).
Se per esempio si osserva Pessoa attraverso la lente del pensiero poetante heideggeriano, sarà facile riconoscere nell’eteronimo Alberto Caeiro le caratteristiche del “pastore dell’essere”(27). Quello del maestro Caeiro, primo grande poeta eteronimo creato da Pessoa nonché mentore di Campos e Reis, è infatti uno sguardo silenzioso che ascolta e contempla intensamente la natura, fondendosi con essa nell’eliminare ciò che si frappone tra lo sguardo e la cosa osservata, compreso il pensiero stesso:

Il mondo non è fatto perché lo si pensi
ma perché lo si guardi e gli si dica di sì.
Pensare è come avere gli occhi malati

Proprio nel momento in cui questi versi di Caeiro iniziano a fraternizzare col discorso heideggeriano, è possibile guardare ad un altro eteronimo, l’“ingegnere metafisico” Alvaro De Campos (28), e riconoscere in lui le caratteristiche dell’antieroe heideggeriano, ovvero, dell’esaltatore esasperato della tecnica la cui la volontà è “dominata dal calcolare” (29). Il taglio che la poesia di Pessoa effettua da un eteronimo all’altro traccia una diagonale in cui, come una dissonanza che è già poesia, vibra sia la tensione specifica del “padrone dell’essere” (De Campos) sia quella del “pastore dell’essere” (Caeiro) laddove, viceversa, lo stesso Heidegger penserebbe le due figure più nel presupporre la loro fondamentale opposizione che non in virtù dello scambio obliquo attuato da Pessoa. Il poeta portoghese inaugura un’esperienza più che radicale, dunque, addentrandosi in una foresta nella quale, per giocare di metafora con Heidegger, risulta sempre più difficile scorgere una radura luminosa. Foresta gravida di sentieri, ogni sentiero un eteronimo (30).
Già all’età di cinque anni Pessoa crea il suo primo eteronimo, il cavalier De Pas, un amico immaginario con cui intraprende una corrispondenza: perso drammaticamente il suo altro nella morte prematura del fratellino, il futuro poeta ricrea un compagno di giochi. Il gioco non potrà che diventare da lì a poco quel sublime vincolo in cui, attraverso la creazione poetica, l’eteronimia si fa vita. Se uno sguardo da solo non basta ad abbracciare il tutto, perché non ricreare il tutto attraverso molteplici sguardi? Tale ricerca si fonda sul principio per cui ogni sguardo è di per sé non solo una finestra irriducibile sul tutto ma è anche l’espressione di un tutto che non esiste indipendentemente dall’irriducibile sguardo che lo accoglie.
È nell’interstizio tra uno sguardo è l’altro che va ricercata l’intuizione alla base dell’eteronimia pessoana: la finzione non è né adeguazione dello sguardo alle cose su cui esso si posa né tantomeno appropriazione delle cose da parte di singoli sguardi voraci. La verità della finzione è “intersezione” di più sguardi, ognuno dei quali non esiste a prescindere dalle cose su cui si posa così come, allo stesso modo, né le cose stesse esistono a prescindere da ogni singolo sguardo né tantomeno ogni singolo sguardo esiste a prescindere da quello altrui. Moltiplicandosi, l’esistenza poetica di Pessoa mette in opera quel metodico “sottrarsi” che, di eteronimo in eteronimo, ci fa assistere alla nascita di molteplici sguardi trasversali su una quotidianità segnata da un’estenuante “legge del doppio” (31).

Sulla soglia della morte propria o altrui nasce in Pessoa l’altro da sé così come anche l’altro del suo stesso altro: dal cavalier De Pas al barone De Teive (32) - suicida dopo avere scritto il proprio diario - passando per il filosofo Antonio Mora (33), che visse i suoi ultimi giorni in una clinica psichiatrica.
Scrive Heidegger: “Molti sono i sentieri ancora ignoti. Ma a ogni pensante è assegnata sempre e soltanto una via la sua: nelle cui tracce egli deve costantemente vagare, e nessuna via mai gli appartiene. I sentieri vanno errando ma non si smarriscono” (34). I tanti enigmi lasciatici da Pessoa si intersecano tra loro proprio come i sentieri di un’unica selva. Il Libro dell’inquietudine (35) di Bernardo Soares fu pensato inizialmente dal suo autore col titolo Nella foresta del disconoscimento; quasi a significare che, prima di qualsiasi mostrarsi dell’essere, dunque prima di scorgere una radura luminosa nella quale l’essere possa dirsi, tocca al poeta addentrarsi massimamente nell’oscurità, prestando il proprio corpo a quello che Heidegger stesso chiama lo “spaesamento”. Quest’ultimo è incarnato appunto da un Pessoa che, più guarda alle cose e più si rende conto di “quanto sia oscura l’oscurità” (36), laddove la sua poesia offre un ritmo al rischio più grande che l’uomo sia in grado di correre: “chi di sua volontà scenderebbe ad esplorare i recessi della foresta? (37)”.
Nella poetica pessoana dell’autoframmentarsi, le parti, che si allontanano sempre più l’una dall’altra, assumono così tanta autonomia da arrivare, in certi casi, a non riconoscersi più:

E poiché sono frammenti
Dell’ente, le cose disperse
Rompo l’anima in pezzetti
E in persone diverse.
(38)

Nella moltitudine di eteronimi alcuni non si conoscono ed altri sì, tanto da scambiarsi elogi e critiche o coltivare rivalità come artisti piuttosto che come amanti della stessa donna (39). Per il poeta portoghese il rapporto con l’altro, creato per mezzo dell’eteronimia, non tende soltanto alla costruzione ed al consolidamento di un sé individuabile, univoco e preminente rispetto agli altri eteronimi, ma anche alla frammentazione e all’annullamento del primato di ogni sé (40).

Dall’enigma alla domanda

La trama dei rapporto tra l’ortonimo e gli eteronimi si impone come l’oggetto principale di un’indagine filosofica su Pessoa, e ciò perché tale trama, come una tela di Penelope, sembra destinata alla continua ridefinizione: l’odissea espressa dalla poesia di Pessoa si consuma, in tal senso, nell’impossibilità di uno stabile primato dell’ortonimo sugli eteronimi (41).
Proprio da quest’odissea ci sembra poter trarre origine l’interrogazione filosofica su Pessoa. Il pensiero occidentale entra proprio qui in gioco puntando, di lettura in lettura, di eteronimo in eteronimo, i guadagni mai definitivamente acquisiti della sua stessa storia. Filosofia che non intende cedere, in una resistenza estrema almeno quanto quella della poesia, all’enigma di quel non identico che si sottrae alla sua presa.
La filosofia persiste infatti nel conservare del non identico un qualche memoria, mentre la poesia di Pessoa consegna prepotentemente al pensiero un nuovo enigma, pronto a risuonare nella storia della filosofia con la violenza e la paradossalità di un dono inatteso, se non addirittura poco gradito. I versi del poeta che fu più d’uno arrivano pertanto a turbare ancora una volta il pensiero:

Il poeta è un fingitore
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente
(42)

Dovrà essere questa volta la filosofia stessa a mettere metodicamente in atto la sottrazione insegnataci da Pessoa. È infatti così che il pensiero può scoprirsi finalmente in grado di preservare la poesia dalla tendenza, tipica di molto sapere come anche della stessa filosofia, a ricondurre voracemente ogni cosa all’unità e a neutralizzare le potenzialità tuttora inespresse di un’esperienza come quella di Pessoa. Nell’eteronimia si trova infatti riposta una potenza che, nel suo rendersi pensabile a partire da Pessoa, eccede già la dimensione contestuale e biografica del poeta portoghese, dando così vita al “problema” Pessoa. “Essere all’altezza di Pessoa” significherà in tal senso, per la filosofia, riuscire a tenere saldamente insieme l’impossibile esperienza vissuta dal poeta da ciò che la rende irripetibile proprio in quanto impossibile. Chiunque di noi, infatti, può fingersi altro o fingersi lo stesso Pessoa anche se “in verità” nessuno fingerà propriamente come lui. La possibilità di distinguere, in ultima istanza, colui che finge dalla persona che egli finge di essere, così come anche quella di chiedersi quale tra più individui possa dirsi “vero” piuttosto che “finto” riposano entrambe, paradossalmente, sulla necessità che uno ed un solo individuo finga di essere un’altra persona non soltanto fino a rendersi indiscernibile da un finto altro ma finanche ad essere questo altro in tutti i sensi o, in altre parole, fino a porsi a sua volta come individuo finto rispetto all’altro che egli finge di essere. Attorno a questo elemento più che paradossale, potenza effettiva dell’eteronimia, gravita la “finzione vera” che la poesia di Fernando Pessoa continua ad essere per la filosofia.
Pessoa ha sperimentato appieno la “sottrazione” vivendo altrettanto pienamente l’impossibilità di essere più individui. Il modo stesso in cui Pessoa fa esperienza dell’impossibilità rappresenta per la filosofia un problema che forse, senza Pessoa, essa non arriverebbe a porre; il pensiero si ritrova in qualche modo “costretto” con la sua poesia e nella sua poesia a pensare un evento che non si riscatta né riconducendo l’affaire Pessoa a un che di storicamente sperimentato prima di lui né presupponendo la distinzione netta tra il “separarsi” dell’uomo Pessoa dalla vita quotidiana e le vite “separate” da lui create nella scrittura. Lo scopo di un’autentica interrogazione filosofica su Pessoa potrà consistere pertanto nello sperimentare il rischio di porsi al cuore di ogni evento capace di mettere radicalmente in crisi la filosofia nella sua stessa attitudine a porre domande dal momento che, ed è proprio Pessoa a mostrarcelo, non sempre si può disporre subito della domanda giusta.



(1) F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, Feltrinelli, Milano 2002, p. 230.
(2) A. Badiou, Inestetica, Mimesis, Milano-Udine 2007, p. 60.
(3) Ivi, p. 61.
(4) Ibid.
(5) Aristotele, Metafisica, 984b 25.
(6) Nel libro IX della Poetica, Aristotele attribuisce maggiore fondamento teorico, quindi maggiori importanza e istanza veritativa alla poesia piuttosto che alla storia in quanto la poesia dicendo le cose per come possono avvenire tratta dell’universale mentre la storia, dicendo le cose per come sono avvenute si ferma al particolare.
(7) Nella radice greca del termine mythos, si può cogliere l’essenza stessa del mito come di quel modo di esprimersi che non permette alla parola di rivelarsi in tutta la sua potenza: il verbo myo, infatti, indica l’esprimersi a bocca serrata proprio come il verbo italiano mimare. Nel mito è dunque custodito il senso di impedimento proprio di chi vuole esprimersi ma non può farlo in modo completo ed efficace.
(8) M. Heidegger, Holzwege. Sentieri erranti nella selva, Bompiani, Milano 2002, p. 322.
(9) F. Hölderlin, Pane e vino, in Poesie, Mondadori, Milano 1971, p. 141
(10) M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, p. 62, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1991, pp. 45-65.
(11) Ivi, p. 64.
(12) M. Pagnini, Letteratura e ermeneutica, Olschki, Firenze, 2002, p. 61.
(13) E. Lourenço, Fernando re della nostra baviera. Dieci saggi su Fernando Pessoa, Empirìa, Roma 1997, p. 149.
(14) Quello dello pseudonimo, conclude Lourenço, sarebbe solamente un “testo maschera” ovvero “una questione d’attribuzione nominale, ben diverso dalla creazione con carattere eterogeneo a quello del suo creatore manifesto; quest’ultimo è il privilegio che il complesso autore portoghese reclama per i suoi poemi-poeti, confusi e presentati subito non solo al pubblico ma anche a se stesso come poeti autonomi creatori di poesie che l’autore apparente non riconosce come proprie, se non nella misura in cui egli si nega in esse come soggetto ontologicamente e psicologicamente uno”, ibid.
(15) Ciò lo si può ad esempio evincere dalle osservazioni di Robert Bréchon sulla prima edizione della Storia della letteratura portoghese scritta da Georges Le Gentil il quale “pubblicò questo libro nel 1935, l’anno della morte di Pessoa. Non avrebbe potuto sospettare che il poeta di cui cita il nome di sfuggita, sarebbe stato riconosciuto sessant’anni più tardi come il più grande scrittore del suo paese”, G. Le Gentil, R. Bréchon, Storia della letteratura portoghese, Laterza, Bari 1997, p. 127.
(16) Secondo Antonio Tabucchi sono essenzialmente tre i motivi per i quali, ancora oggi, il lavoro di sistemazione completa risulta alquanto impegnativo. “innanzitutto la mole e la complessità dell’opera poetica, che ha soverchiato e messo in disparte l’attività del teorico; poi il legittimo convincimento di ogni suo critico che l’ipoteca risultante dall’essere tale opera ancora aperta (soprattutto per i numerosi inediti ancora esistenti) ostacoli seriamente un giudizio, se non definitivo, almeno abbastanza attendibile di Pessoa come intellettuale del suo tempo; e infine, motivo che non bisogna sottovalutare, l’imbarazzo della critica di fronte ad un personaggio scomodo come Pessoa: il che la dice lunga sui pregiudizi di tutta quella critica che guardando al poeta ha rimosso il politico e il filosofo, relegandolo nella classe dei cattivi del Novecento, una classe molto affollata: da Nietzsche ad Heidegger passando per Cèline, Artaud e Kafka” A. Tabucchi, Un baule pieno di gente. Scritti su Fernando Pessoa, Feltrinelli, Milano 2001, p. 15.
(17) Oltre al già citato volume di Eduardo Lourenço, dal punto di vista filosofico, sono fondamentali i lavori di José Gil (Fernando Pessoa ou la métaphysique des sensations, Éditions de la Différence, Paris 1988), Leda Miranda Hune (O pensar poetante. Um dialogo imaginado entre Fernando Pessoa e Martin Heidegger, Editoria Uapé, Rio de Janeiro, 2000) e Judith Balso (Pessoa. Le passeur métaphysique, Seuil, Paris 2006). Maria Ivone de Ornellas de Andrade, si è cimentata da parte sua in sette diverse interpretazioni del Marinaio di Pessoa, attraverso le quali, facendosi in qualche modo essa stessa marinaio, tenta di “circumnavigare l’arcipelago pessoano abbordandolo da punti di vista differenti”. I punti di vista sono rappresentati da una riflessione simbolica, una platonica, una plotiniana, una nietzscheana, una heideggeriana, una cubista ed una eteronimica (Sete Reflexões sobre “O Marinheiro”, in “Centro da Historía da Cultura da Universidade Nova”, Lisboa 1986, pp. 671-701
(18) A. Tabucchi, introduzione a F. Pessoa, Una sola moltitudine,Vol. I, Adelphi, Milano 1979, p. 20. Lo stesso Tabucchi, in Interpretazione dell’ eteronimia di Pessoa (“Studi mediolatini e volgari”, vol. XXIII, 1975, pp. 139-187), ha svolto una ricerca sulle attinenze di Pessoa con Heidegger e Wittgenstein.
(19) A. Badiou, Inestetica, cit., p. 61. La maggior parte delle opere pubblicate in vita da Pessoa sono firmate da Caeiro, Campos e Reis (poche, viceversa, quelle a firma dell’ortonimo). Il resto degli eteronimi sono venuti e continuano a venire fuori a partire dagli anni successivi alla sua morte.
(20) “Non regge neanche un istante l’ipotesi per cui Pessoa possa essere un mero simulatore: egli chiede di essere preso molto sul serio”, M. Piazza, Alle frontiere tra filosofia e letteratura. Montaigne, Maine de Biran, Leopardi, Pessoa, Proust, Derrida, Guerini e Associati, Milano 2003, p. 117.
(21) F. Pessoa, L’ora del diavolo, Passigli, Firenze 1998, p. 15.
(22) M. Piazza, Alle frontiere tra filosofia e letteratura, cit., p. 114.
(23) “gli eteronimi sono la totalità frammentata, e nessuna esegesi, per quanto abile o sottile, la può ricostruire a partire da essi. Questa è la verità che i primi esegeti non hanno colto, e nel non conoscerla si è consumato l’equivoco originario che consistette nel considerare gli eteronimi come frammenti di una totalità che, convenientemente interpretati e letti, avrebbero permesso di ricostruirla” in E. Lourenço, Fernando re della nostra baviera, cit., p. 25.
(24) Per una rassegna dei più celebri eteronimi di Pessoa, tenendo conto che se ne contano circa settantadue, e che altri continuano a venire allo scoperto ancora oggi cfr. A. Tabucchi, Un baule pieno di gente, cit., pp. 42-53.
(25) F. Pessoa, Maschere e paradossi, Passigli, Firenze 1997, p. 131.
(26) Per comprendere, ad esempio, come Pessoa attraversa l’opposizione tra il normale e il patologico risulta interessante la lettera ad Adolfo Cascais Montero (appendice a A. Tabucchi, Un baule pieno di gente, cit., pp. 125-137) in cui Pessoa fornisce un’autoanalisi dell’esperienza da lui vissuta. L’intera lettera, scritta in chiave pressoché ironica, ruota attorno a uno stato interiore definito “isteronevrastenìa”: Pessoa non fa che coniare un neologismo fondendo due termini canonici della psichiatria e della psicanalisi, isteria e nevrastenia.
(27) Caeiro è un solitario uomo di campagna e l’affinità col pastore dell’essere heideggeriano, la si può notare, pensando per immagini, in quello stesso tema del pascolo che più volte ritorna nella sua poesia già dalla prima silloge Lo scrutatore di greggi.
(28) Antonio Tabucchi vede in Campos un esaltatore della tecnica e del mito positivista del progresso. De Campos altro non è che l’attivista e il militante tipico delle avanguardie del suo tempo: se “egli non è soltanto una creatura creante come gli altri eteronimi” è perché si esprime anche come “una creatura operante in uno specifico contesto culturale”. Cfr. A. Tabucchi, Alvaro de Campos, ingegnere metafisico, in A. Tabucchi, Un Baule pieno di gente, cit., pp. 54-59.
(29) M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, cit., p. 62.
(30) Le metafore della Foresta nera, come noto, rappresentano una costante della riflessione heideggeriana. Attorno agli Holzwege (sentieri interrotti) e alla Lichtung (radura luminosa), il filosofo di Essere e tempo fonde la memoria della sua Messkirch con la ben più vasta memoria storica della filosofia stessa. Su questo tema cfr. L. Amoroso, La Lichtung di Heidegger come lucus a (non) lucendo, in G. Vattimo e P. A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 137-163.
(31) “della doppia lingua, della doppia cultura, di dover inventare un’anima inglese essendo portoghese e una portoghese per non essere inglese, obbligato soprattutto, ad abitare e riempire l’intervallo che le separa, vedendosi (e vedendoci come nessun altro) dall’interno e dall’esterno, ma non in modo identico” E. Lourenço, Fernando re della nostra baviera, cit., p. 32.
(32) Cfr. F. Pessoa (Barone di Teive), L’educazione dello stoico, Einaudi, Torino 2005.
(33) Cfr. F. Pessoa, Il ritorno degli dei, opere di Antònio Mora, Quodlibet, Macerata 2006.
(34) M. Heidegger, Holzwege, cit., p. 180.
(35) Cfr. M. Petrelli, Disconoscimenti, poetica e invenzione di Fernando Pessoa, Pacini, Pisa 2005, pp. 153-159. Il testo critico della Petrelli presenta in appendice l’unica traduzione italiana di questo testo pessoano, dal quale emergono i temi che torneranno fondamentali nel Libro dell’inquietudine.
(36) F. Pessoa, Faust, a cura di M. J. De Lancastre, Einaudi, Torino 1991, pag. 31.
(37) N. K. Sandars (a cura di), L’epopea di Gilgameš, trad. it. di A. Passi, Adelphi, Milano 1996, pag. 99.
(38) F. Pessoa, I racconti, cit., pag. 39.
(39) Dalla corrispondenza tra Pessoa e la fidanzata Ophèlia, emerge una vera e propria rivalità amorosa tra Pessoa e l’eteronimo Alvaro de Campos, Cfr. F. Pessoa, Lettere alla fidanzata, Adelphi, Milano1988. Sul triangolo Pessoa-Ophèlia-Campos Cfr. M. J. De Lancastre, Profilo del poeta ingegnere Alvaro de Campos, introduzione a F. Pessoa, Poesie di Alvaro De Campos, Adelphi, Milano 2002, pp. 17-26.
(40) “in Pessoa, la parola dell’eteronimo non è quella dell’altro quale mezzo di affermazione di se medesimo. Per Pessoa, al contrario, proprio nella parola si consuma una fenomenologia dell’alterità che non conduce ad alcuna forma strumentale di individualizzazione. Si delinea un percorso in un certo senso inverso, in quanto non si tratta di chiedere all’altro se stessi, semmai di disfarsi di sé nell’altro” M. Petrelli, Disconoscimenti, cit. , p. 31.
(41) “risulta impossibile scoprire se l’io di Pessoa sia quello di Alvaro de Campos o quello di Ricardo Reis, cioè non esiste un punto focale nell’inedito circuito finzione/realtà creato da Pessoa con il fenomeno dell’eteronimia” M. Piazza, Alle frontiere tra filosofia e letteratura, cit., p. 114.
(42) F. Pessoa, Il poeta è un fingitore, in F. Pessoa, Una sola moltitudine, cit., p. 165.


Fabio Treppiedi, POTENZE DELLA FINZIONE.La filosofia e Pessoa in "XÁOS. Giornale di confine", Novembre 2012
URL: http://www.giornalediconfine.net/2012/fabio_treppiedi_pessoa.htm

 
 

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