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M. BARBARA SPANU, "IL LINGUAGGIO E LA PAROLA: cenni sul pensiero di Maria Zambrano"

 

M. B. Spanu, Il linguaggio e la parola.: cenni sul pensiero di Maria Zambrano, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.1 Marzo-Giugno 2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_1/17.htm

 

"Maria Zambrano non ha venduto l'anima all'idea, ha salvaguardato la sua essenza unica, mettendo l'esperienza dell'insolubile al di sopra della riflessione su di esso, insomma ha oltrepassato la filosofia… E' vero ai suoi occhi, solo ciò che precede o segue il detto, il verbo strappato agli intralci dell'espressione o, come dice magnificamente, la palabra liberada del lenguaje." [E. M. Cioran]

Così si esprime E. M. Cioran a proposito di una delle figure più interessanti del panorama filosofico contemporaneo: la pensatrice spagnola Maria Zambrano.
Quasi del tutto sconosciuta fino a pochi anni fa, l'autrice andalusa, nata a Velez-Malaga nel 1904, dopo quasi 40 anni di esilio lontano dalla Spagna a causa del regime di Franco, nel 1988 viene insignita del premio Miguel de Cervantes, ottenendo finalmente l'attenzione che merita. In Italia, una delle mete del suo peregrinare, la fortuna di questa pensatrice è abbastanza recente, in questi ultimi anni sono state infatti tradotte quasi tutte le sue opere più importanti: La confessione come genere letterario, Delirio e destino, Persona e democrazia, Verso un sapere dell'anima, per citarne alcune.
Discepola di Ortega Y Gasset, che incontra quando si trasferisce a Madrid per studiare filosofia, partecipa attivamente al movimento di rinascita non solo culturale, ma prima di tutto civile e spirituale, che caratterizza la Spagna a cavallo tra la fine dell'800 e l'inizio del '900, e che trova nell'esistenzialista spagnolo uno dei suoi massimi esponenti.
In Maria Zambrano si mescolano "españolidad y europeismo": se il suo essere spagnola è una "circostanza" dalla quale non è possibile prescindere per comprenderne pienamente il pensiero, permeato com'è dalla cultura della sua terra- tra gli autori che hanno influito sulla nostra autrice oltre alla filosofia del maestro Ortega con i protagonisti della "Generazione del '98", Unamuno, Zubiri, la poesia di Quevedo e di Machado, la mistica di Molinos, e soprattutto di San Giovanni della Croce- la nostra autrice conosce bene anche i maggiori esponenti del pensiero occidentale, dalla filosofia greca a quella contemporanea, con una particolare predilezione per alcuni di essi: i presocratici, Platone, Plotino, Seneca, Agostino, Spinoza, Husserl, Heidegger, Nietzsche.
Da Ortega la Zambrano eredita la concezione di una ragione che vuole riconciliarsi con la vita, con quelle circostanze che costituiscono il tessuto della quotidianità di ogni individuo e che la filosofia è chiamata a rischiarare dandole senso. Ragione vitale o "raziovitalismo" in contrapposizione con la ragione assoluta elaborata dai sistemi dell'epoca moderna, che si è insuperbita arroccandosi nella sua fortezza di nozioni chiare e distinte, ma incapace di dire alcun che all'uomo nella sua concreta esistenza perché ha reciso il legame con le proprie origini.
L'aver dimenticato le proprie origini è, infatti, secondo Maria Zambrano, il "peccato originale" che l'uomo continua a perpetuare quando, assolutizzando la sua ragione ne fa lo strumento del proprio desiderio di divinizzarsi, per cancellare il ricordo della "nascita" e con essa la condizione di creatura limitata, soggetta al fluire del tempo e della storia, la "stoffa" che avvolge l'esistenza di ogni individuo. Eppure l'uomo porta dentro di sé un anelito, un desiderio di trascendere e di trascendersi verso "qualcosa" o "qualcuno" che sazi la propria fame di infinito.
La filosofia della Zambrano parte dalla vita e ad essa ritorna, come è possibile vedere in Delirio e destino, dove vicende autobiografiche e filosofiche si intrecciano, richiamandosi e illuminandosi reciprocamente, a dimostrazione che le circostanze quelle della sua vita personale, come la malattia che la coglie nel periodo di maggiore attività sia filosofica che politica, costringendola ad un lungo periodo di immobilità, e quelle della Spagna, la guerra civile conclusasi con l'instaurarsi della dittatura di Franco e la conseguente scelta dell'esilio, influiscono in maniera decisiva nello sviluppo della sua riflessione, che approderà ad un ripensamento della filosofia del maestro.
Secondo la Zambrano la filosofia di Ortega è "incapace di concepire l'aspetto tragico della vita", quando questa si fa incomprensibile; ma è proprio allora che essa necessita dell'intervento di una ragione che la illumini portandola alla luce della coscienza, perché l'uomo non può vivere senza "vedere" e quindi senza capire.
La ragione deve essere capace di addentrarsi nelle zone più oscure della realtà dell'uomo e della storia, si tratta di elaborare un sapere per l'essere umano nella sua totalità e complessità: la nostra filosofa dirà che la ragione deve farsi poetica, razón poética, saber sobre el alma, capace cioè di conciliare filosofia e poesia, ragione e passione, intelletto e cuore, a partire dal linguaggio chiamato a rispecchiare la molteplicità, l'inesauribilità ma anche il limite che la vita porta inevitabilmente con sé.
"Si hay un lugar en el que el ser se haga accesible, se abra, es la palabra" [1]: anche per la Zambrano come per Heidegger il linguaggio è il luogo privilegiato della manifestazione dell'essere, e in modo particolare il linguaggio poetico e quello mistico. Il linguaggio non è solo un mezzo del quale ci serviamo per andare verso le cose, per indicarle, qualcosa a noi esterno, come una strada che percorriamo per raggiungere un luogo, ma la cosa si mostra a partire dal linguaggio che perciò è qualcosa nella quale siamo immersi, che in certo modo ci detiene, come la storia; possiamo dire che per Heidegger l'uomo è chiamato non solo a parlare un linguaggio, ma a parlare "il linguaggio", in "un atteggiamento ramemorante di ascolto per esprimere ciò che preme per essere detto".
La Zambrano esprime questo concetto distinguendo il linguaggio dalla parola. La parola è "il principio al di sopra di tutto" [2], essa scaturisce direttamente da quella realtà originaria che ha dato vita al mondo e alle cose: il fuoco primordiale "che si fa fiamma, parola" [3]: "nella notte del senso germina l'Aurora della parola" [4].
Perciò la parola sta all'origine del linguaggio: "primo frutto del seme del logos è proprio la parola stessa, non il linguaggio che da essa deriva, che essa ha seminato" [5]. E' "il dire che precede l'espressione, anelito disperato che chiede prima di tutto ascolto" [6], dono inesauribile, non è soggetta al tempo e alla storia, come il linguaggio "albero del seme caduto del verbo (…) perituro e caduco, prigioniero delle circostanze e delle situazioni" [7], ma è ciò che sta sempre oltre , "la garanzia della sua trascendenza" [8].
Il linguaggio è il luogo in cui la parola si incarna, si fa corpo, ma può correre il rischio di divenire materia inerme, pura "estensione" che immobilizza la parola pietrificandola.
Dirà la Zambrano che uno dei peggiori mali del nostro tempo è il "materialismo", una forma di riduzionismo, che appiattisce ogni realtà trasformandola in cosa, in oggetto da utilizzare e sul quale estendere il proprio dominio.
"In questa stagione che viviamo il linguaggio non lascia quasi spazio e respiro alla parola" [9]: la parola autentica, quella capace di fornire un senso, fatica a farsi spazio in un'epoca dove l'abuso della parola ha portato ad una sua progressiva svalutazione; come l'uomo e il mondo nel quale egli vive, anche la parola ha subito progressivamente un processo di impoverimento, divenendo uno sterile prodursi di suoni che l'uomo utilizza come qualsiasi altra merce, per rispondere ai propri bisogni o per estendere il proprio dominio su ciò che lo circonda, incapace non solo di permettere comunicazione vera con gli "altri" in quanto individui, ma anche con il "totalmente altro".
All'alienazione dell'uomo segue l'alienazione della parola: così egli insieme all'immagine oscura di sé cerca disperatamente e a volte inconsapevolmente, sotto la babele di linguaggi che produce, quella "parola perduta", insieme divina e umana, perché non proviene dall'uomo ma a lui è rivolta e solo lui può accoglierla. E se essa fugge davanti a chi è animato solo dal desiderio di possesso, che distrugge l'oggetto desiderato perché ne diviene il carcere, si manifesta in maniera sorprendente a chi la cerca mosso dall'amore, infatti l'amore vero non esiste senza libertà.
Per questo mentre il linguaggio filosofico, nei sistemi elaborati nell'epoca moderna, da strumento di comprensione della realtà si trasforma in strumento di occultamento, quando pretende di possedere la realtà intera, di rispecchiarla nella sua totalità, quello poetico continua ad essere il logos amorevole che "non si impossessa delle parole, ma le lascia svolgere perché generino immagini e significati inediti", che le custodisce senza imprigionarle: "La poesia nasce, come la conoscenza, dall'ammirazione e non dalla violenza. Coloro che furono presi da ammirazione per le cose- per le "apparenze"- e che non vollero staccarsi da esse per andare a caccia delle essenze occulte, furono poeti." [10]
La Zambrano dirà che filosofia e poesia ebbero la stessa origine, lo stupore di fronte alla realtà, e per un periodo di tempo camminarono insieme, sino a Platone, quando le strade si divisero: il sapere filosofico si separò da quello poetico per raggiungere l'essenza, l'essere, mentre il poeta fu incapace di rinunciare alla molteplicità delle cose e della vita per una verità, l'unica unità che poteva raggiungere era quella conferita dalla parola stessa.
Strumento privilegiato del sapere poetico è la metafora, figura retorica che ha come caratteristica quella di alludere sempre a qualcosa che sta oltre. Così il linguaggio della Zambrano a partire da I beati, Chiari del bosco, Dell'Aurora, si arricchisce di una serie di metafore: il cuore, la serpe, l'aurora, il fuoco.
"La verdad necesita de un gran vacío, de un silencio donde pueda aposentarse" [11]: la rivelazione dell'essere e della verità, necessita prima di tutto di ascolto, di silenzio, perché la parola possa fecondare il linguaggio.
Esiste un luogo in cui il linguaggio non può più esistere, là dove l'individuo si è svuotato per fare spazio solo alla parola e alla verità di cui è portatrice: è l'anima del mistico, è l'anima di San Giovanni della Croce, il santo la cui poesia che è insieme mistica raggiunse per la filosofa andalusa le vette più elevate.
Il mistico è colui che alla fine del proprio cammino ha divorato la propria anima, essa è divenuta cavità vuota, e questo non per desiderio di evasione, di uscire dalla vita, ma per addentrarsi ancora più pienamente in essa [12], affinché ciò che sta al di là della vita, ma allo stesso tempo la sostiene, come il suolo nel quale camminiamo, come l'aria che respiriamo e che attraversa i nostri corpi, si impossessi di lui.
Allora il linguaggio cede il passo al silenzio e alla contemplazione: perché non c'è più niente da dire o da fare quando si possiede tutto nella pienezza del suo essere:
" 'le montagne, le valli solitarie e boscose, le isole strane, i fiumi sonori, il soffio delle aure amorose. La quieta notte aperta al levarsi dell'aurora, la musica taciuta, la solitudine sonora'…Tutto, tutto è presente, con una fragranza che lo fa come appena uscito dalle mani del Creatore" [13].
L'individuo sperimenta la possibilità di possedere l'Uno, la Verità, l'Essere senza rinunciare alle cose, a ogni cosa, alla luce di quella bellezza originaria che l'uomo attraverso il tempo e la storia ha spesso offuscato; è un addentrarsi nelle profondità del singolo, là dove convergono cuore e intelletto, là dove è possibile riscoprire la propria integrità, è uno sprofondare per ritrovarsi finalmente e ritrovare "il seme indissolubile della parola stessa" [14].
Ma questo è concesso solo all'esperienza mistica, e non a tutti è dato di raggiungerla; la filosofia della Zambrano finisce così per essere "sapere della soglia", "filosofia del limite", sulla linea di confine tra filosofia, poesia e mistica, come la vita dell'uomo, sospesa tra il tempo e l'eternità, tra l'inferno in cui può tramutarsi la storia e la ricerca senza fine del paradiso perduto.
Il linguaggio riflette questa condizione "aurorale" dell'uomo, l'Aurora è il luogo dove tenebre e luce si confondono e si mescolano, la notte non è ancora terminata e il giorno non è sorto del tutto; e se spesso esso è schiacciato dalla regole di una comunicazione sterile incapace di dire niente di nuovo e di importante per l'individuo, chiuso in una logica stringente che non lascia spazi in cui la parola possa penetrare, nel linguaggio poetico può ancora rivelarci qualcosa su ciò che più ci preme, generando in noi stupore e meraviglia.


[1] M. Zambrano, Espana, sueno y verdad, Barcelona, Edhasa, 1965, p. 214.
[2] M Zambrano, Dell'Aurora, Genova: Marietti, 2000, p. 93.
[3] Ivi, p. 75.
[4] Ivi, p. 80.
[5] Ivi, p. 95.
[6] Cfr Ivi, p. 88.
[7] Ivi, p. 95.
[8] Ivi, p. 93.
[9] Ivi, p. 93.
[10] M. Zambrano, S. Giovanni della croce, dalla notte oscura alla più chiara mistica, appendice a M. Zambrano, La confessione come genere letterario, Milano: Mondatori, p 123.
[11] M. Zambrano, Hacia un saber sobre el alma, Buenos Aires: Losada .
[12] Cfr. M. Zambrano, S. Giovanni della croce, dalla notte oscura alla più chiara mistica, cit., p. 118.
[13] Ivi, p. 118-119.
[14] M. Zambrano, Dell'Aurora, cit., 90.