"Maria Zambrano
non ha venduto l'anima all'idea, ha salvaguardato la sua
essenza unica, mettendo l'esperienza dell'insolubile al
di sopra della riflessione su di esso, insomma ha oltrepassato
la filosofia
E' vero ai suoi occhi, solo ciò
che precede o segue il detto, il verbo strappato agli intralci
dell'espressione o, come dice magnificamente, la palabra
liberada del lenguaje." [E. M. Cioran]
Così si esprime E. M.
Cioran a proposito di una delle figure più interessanti
del panorama filosofico contemporaneo: la pensatrice spagnola
Maria Zambrano.
Quasi del tutto sconosciuta fino a pochi anni fa, l'autrice
andalusa, nata a Velez-Malaga nel 1904, dopo quasi 40 anni
di esilio lontano dalla Spagna a causa del regime di Franco,
nel 1988 viene insignita del premio Miguel de Cervantes,
ottenendo finalmente l'attenzione che merita. In Italia,
una delle mete del suo peregrinare, la fortuna di questa
pensatrice è abbastanza recente, in questi ultimi
anni sono state infatti tradotte quasi tutte le sue opere
più importanti: La confessione come genere letterario,
Delirio e destino, Persona e democrazia, Verso un sapere
dell'anima, per citarne alcune.
Discepola di Ortega Y Gasset, che incontra quando si trasferisce
a Madrid per studiare filosofia, partecipa attivamente al
movimento di rinascita non solo culturale, ma prima di tutto
civile e spirituale, che caratterizza la Spagna a cavallo
tra la fine dell'800 e l'inizio del '900, e che trova nell'esistenzialista
spagnolo uno dei suoi massimi esponenti.
In Maria Zambrano si mescolano "españolidad
y europeismo": se il suo essere spagnola è una
"circostanza" dalla quale non è possibile
prescindere per comprenderne pienamente il pensiero, permeato
com'è dalla cultura della sua terra- tra gli autori
che hanno influito sulla nostra autrice oltre alla filosofia
del maestro Ortega con i protagonisti della "Generazione
del '98", Unamuno, Zubiri, la poesia di Quevedo e di
Machado, la mistica di Molinos, e soprattutto di San Giovanni
della Croce- la nostra autrice conosce bene anche i maggiori
esponenti del pensiero occidentale, dalla filosofia greca
a quella contemporanea, con una particolare predilezione
per alcuni di essi: i presocratici, Platone, Plotino, Seneca,
Agostino, Spinoza, Husserl, Heidegger, Nietzsche.
Da Ortega la Zambrano eredita la concezione di una ragione
che vuole riconciliarsi con la vita, con quelle circostanze
che costituiscono il tessuto della quotidianità di
ogni individuo e che la filosofia è chiamata a rischiarare
dandole senso. Ragione vitale o "raziovitalismo"
in contrapposizione con la ragione assoluta elaborata dai
sistemi dell'epoca moderna, che si è insuperbita
arroccandosi nella sua fortezza di nozioni chiare e distinte,
ma incapace di dire alcun che all'uomo nella sua concreta
esistenza perché ha reciso il legame con le proprie
origini.
L'aver dimenticato le proprie origini è, infatti,
secondo Maria Zambrano, il "peccato originale"
che l'uomo continua a perpetuare quando, assolutizzando
la sua ragione ne fa lo strumento del proprio desiderio
di divinizzarsi, per cancellare il ricordo della "nascita"
e con essa la condizione di creatura limitata, soggetta
al fluire del tempo e della storia, la "stoffa"
che avvolge l'esistenza di ogni individuo. Eppure l'uomo
porta dentro di sé un anelito, un desiderio di trascendere
e di trascendersi verso "qualcosa" o "qualcuno"
che sazi la propria fame di infinito.
La filosofia della Zambrano parte dalla vita e ad essa ritorna,
come è possibile vedere in Delirio e destino, dove
vicende autobiografiche e filosofiche si intrecciano, richiamandosi
e illuminandosi reciprocamente, a dimostrazione che le circostanze
quelle della sua vita personale, come la malattia che la
coglie nel periodo di maggiore attività sia filosofica
che politica, costringendola ad un lungo periodo di immobilità,
e quelle della Spagna, la guerra civile conclusasi con l'instaurarsi
della dittatura di Franco e la conseguente scelta dell'esilio,
influiscono in maniera decisiva nello sviluppo della sua
riflessione, che approderà ad un ripensamento della
filosofia del maestro.
Secondo la Zambrano la filosofia di Ortega è "incapace
di concepire l'aspetto tragico della vita", quando
questa si fa incomprensibile; ma è proprio allora
che essa necessita dell'intervento di una ragione che la
illumini portandola alla luce della coscienza, perché
l'uomo non può vivere senza "vedere" e
quindi senza capire.
La ragione deve essere capace di addentrarsi nelle zone
più oscure della realtà dell'uomo e della
storia, si tratta di elaborare un sapere per l'essere umano
nella sua totalità e complessità: la nostra
filosofa dirà che la ragione deve farsi poetica,
razón poética, saber sobre el alma, capace
cioè di conciliare filosofia e poesia, ragione e
passione, intelletto e cuore, a partire dal linguaggio chiamato
a rispecchiare la molteplicità, l'inesauribilità
ma anche il limite che la vita porta inevitabilmente con
sé.
"Si hay un lugar en el que el ser se haga accesible,
se abra, es la palabra" [1]: anche per la Zambrano
come per Heidegger il linguaggio è il luogo privilegiato
della manifestazione dell'essere, e in modo particolare
il linguaggio poetico e quello mistico. Il linguaggio non
è solo un mezzo del quale ci serviamo per andare
verso le cose, per indicarle, qualcosa a noi esterno, come
una strada che percorriamo per raggiungere un luogo, ma
la cosa si mostra a partire dal linguaggio che perciò
è qualcosa nella quale siamo immersi, che in certo
modo ci detiene, come la storia; possiamo dire che per Heidegger
l'uomo è chiamato non solo a parlare un linguaggio,
ma a parlare "il linguaggio", in "un atteggiamento
ramemorante di ascolto per esprimere ciò che preme
per essere detto".
La Zambrano esprime questo concetto distinguendo il linguaggio
dalla parola. La parola è "il principio al di
sopra di tutto" [2], essa scaturisce direttamente da
quella realtà originaria che ha dato vita al mondo
e alle cose: il fuoco primordiale "che si fa fiamma,
parola" [3]: "nella notte del senso germina l'Aurora
della parola" [4].
Perciò la parola sta all'origine del linguaggio:
"primo frutto del seme del logos è proprio la
parola stessa, non il linguaggio che da essa deriva, che
essa ha seminato" [5]. E' "il dire che precede
l'espressione, anelito disperato che chiede prima di tutto
ascolto" [6], dono inesauribile, non è soggetta
al tempo e alla storia, come il linguaggio "albero
del seme caduto del verbo (
) perituro e caduco, prigioniero
delle circostanze e delle situazioni" [7], ma è
ciò che sta sempre oltre , "la garanzia della
sua trascendenza" [8].
Il linguaggio è il luogo in cui la parola si incarna,
si fa corpo, ma può correre il rischio di divenire
materia inerme, pura "estensione" che immobilizza
la parola pietrificandola.
Dirà la Zambrano che uno dei peggiori mali del nostro
tempo è il "materialismo", una forma di
riduzionismo, che appiattisce ogni realtà trasformandola
in cosa, in oggetto da utilizzare e sul quale estendere
il proprio dominio.
"In questa stagione che viviamo il linguaggio non lascia
quasi spazio e respiro alla parola" [9]: la parola
autentica, quella capace di fornire un senso, fatica a farsi
spazio in un'epoca dove l'abuso della parola ha portato
ad una sua progressiva svalutazione; come l'uomo e il mondo
nel quale egli vive, anche la parola ha subito progressivamente
un processo di impoverimento, divenendo uno sterile prodursi
di suoni che l'uomo utilizza come qualsiasi altra merce,
per rispondere ai propri bisogni o per estendere il proprio
dominio su ciò che lo circonda, incapace non solo
di permettere comunicazione vera con gli "altri"
in quanto individui, ma anche con il "totalmente altro".
All'alienazione dell'uomo segue l'alienazione della parola:
così egli insieme all'immagine oscura di sé
cerca disperatamente e a volte inconsapevolmente, sotto
la babele di linguaggi che produce, quella "parola
perduta", insieme divina e umana, perché non
proviene dall'uomo ma a lui è rivolta e solo lui
può accoglierla. E se essa fugge davanti a chi è
animato solo dal desiderio di possesso, che distrugge l'oggetto
desiderato perché ne diviene il carcere, si manifesta
in maniera sorprendente a chi la cerca mosso dall'amore,
infatti l'amore vero non esiste senza libertà.
Per questo mentre il linguaggio filosofico, nei sistemi
elaborati nell'epoca moderna, da strumento di comprensione
della realtà si trasforma in strumento di occultamento,
quando pretende di possedere la realtà intera, di
rispecchiarla nella sua totalità, quello poetico
continua ad essere il logos amorevole che "non si impossessa
delle parole, ma le lascia svolgere perché generino
immagini e significati inediti", che le custodisce
senza imprigionarle: "La poesia nasce, come la conoscenza,
dall'ammirazione e non dalla violenza. Coloro che furono
presi da ammirazione per le cose- per le "apparenze"-
e che non vollero staccarsi da esse per andare a caccia
delle essenze occulte, furono poeti." [10]
La Zambrano dirà che filosofia e poesia ebbero la
stessa origine, lo stupore di fronte alla realtà,
e per un periodo di tempo camminarono insieme, sino a Platone,
quando le strade si divisero: il sapere filosofico si separò
da quello poetico per raggiungere l'essenza, l'essere, mentre
il poeta fu incapace di rinunciare alla molteplicità
delle cose e della vita per una verità, l'unica unità
che poteva raggiungere era quella conferita dalla parola
stessa.
Strumento privilegiato del sapere poetico è la metafora,
figura retorica che ha come caratteristica quella di alludere
sempre a qualcosa che sta oltre. Così il linguaggio
della Zambrano a partire da I beati, Chiari del bosco, Dell'Aurora,
si arricchisce di una serie di metafore: il cuore, la serpe,
l'aurora, il fuoco.
"La verdad necesita de un gran vacío, de un
silencio donde pueda aposentarse" [11]: la rivelazione
dell'essere e della verità, necessita prima di tutto
di ascolto, di silenzio, perché la parola possa fecondare
il linguaggio.
Esiste un luogo in cui il linguaggio non può più
esistere, là dove l'individuo si è svuotato
per fare spazio solo alla parola e alla verità di
cui è portatrice: è l'anima del mistico, è
l'anima di San Giovanni della Croce, il santo la cui poesia
che è insieme mistica raggiunse per la filosofa andalusa
le vette più elevate.
Il mistico è colui che alla fine del proprio cammino
ha divorato la propria anima, essa è divenuta cavità
vuota, e questo non per desiderio di evasione, di uscire
dalla vita, ma per addentrarsi ancora più pienamente
in essa [12], affinché ciò che sta al di là
della vita, ma allo stesso tempo la sostiene, come il suolo
nel quale camminiamo, come l'aria che respiriamo e che attraversa
i nostri corpi, si impossessi di lui.
Allora il linguaggio cede il passo al silenzio e alla contemplazione:
perché non c'è più niente da dire o
da fare quando si possiede tutto nella pienezza del suo
essere:
" 'le montagne, le valli solitarie e boscose, le isole
strane, i fiumi sonori, il soffio delle aure amorose. La
quieta notte aperta al levarsi dell'aurora, la musica taciuta,
la solitudine sonora'
Tutto, tutto è presente,
con una fragranza che lo fa come appena uscito dalle mani
del Creatore" [13].
L'individuo sperimenta la possibilità di possedere
l'Uno, la Verità, l'Essere senza rinunciare alle
cose, a ogni cosa, alla luce di quella bellezza originaria
che l'uomo attraverso il tempo e la storia ha spesso offuscato;
è un addentrarsi nelle profondità del singolo,
là dove convergono cuore e intelletto, là
dove è possibile riscoprire la propria integrità,
è uno sprofondare per ritrovarsi finalmente e ritrovare
"il seme indissolubile della parola stessa" [14].
Ma questo è concesso solo all'esperienza mistica,
e non a tutti è dato di raggiungerla; la filosofia
della Zambrano finisce così per essere "sapere
della soglia", "filosofia del limite", sulla
linea di confine tra filosofia, poesia e mistica, come la
vita dell'uomo, sospesa tra il tempo e l'eternità,
tra l'inferno in cui può tramutarsi la storia e la
ricerca senza fine del paradiso perduto.
Il linguaggio riflette questa condizione "aurorale"
dell'uomo, l'Aurora è il luogo dove tenebre e luce
si confondono e si mescolano, la notte non è ancora
terminata e il giorno non è sorto del tutto; e se
spesso esso è schiacciato dalla regole di una comunicazione
sterile incapace di dire niente di nuovo e di importante
per l'individuo, chiuso in una logica stringente che non
lascia spazi in cui la parola possa penetrare, nel linguaggio
poetico può ancora rivelarci qualcosa su ciò
che più ci preme, generando in noi stupore e meraviglia.
[1] M. Zambrano, Espana, sueno
y verdad, Barcelona, Edhasa, 1965, p. 214.
[2] M Zambrano, Dell'Aurora, Genova: Marietti, 2000, p.
93.
[3] Ivi, p. 75.
[4] Ivi, p. 80.
[5] Ivi, p. 95.
[6] Cfr Ivi, p. 88.
[7] Ivi, p. 95.
[8] Ivi, p. 93.
[9] Ivi, p. 93.
[10] M. Zambrano, S. Giovanni della croce, dalla notte oscura
alla più chiara mistica, appendice a M. Zambrano,
La confessione come genere letterario, Milano: Mondatori,
p 123.
[11] M. Zambrano, Hacia un saber sobre el alma, Buenos Aires:
Losada .
[12] Cfr. M. Zambrano, S. Giovanni della croce, dalla notte
oscura alla più chiara mistica, cit., p. 118.
[13] Ivi, p. 118-119.
[14] M. Zambrano, Dell'Aurora, cit., 90.
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