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SEBASTIANO GHISU

Sull'impossibilità di essere realisti o antirealisti


0.
Innanzittuto un'indispensabile e inevitabile precisazione terminologica:

1. Per epistemologia genetica non intendo la psicologia di Jean Piaget, ma l'insieme di quelle teorie che si pongono il problema dell'origine, delle cause o delle ragioni della conoscenza scientifica, ovvero in altri termini il problema del rapporto tra la conoscenza scientifica e la realtà cui essa si riferisce.
2. Nell'ambito delle pratiche teoriche cognitive distinguerò tra livello epistemico e livello epistemologico. È epistemica quell'attività teorica che si riferisce ad un oggetto, mentre è epistemologica quell'attività teorica che ha come oggetto la conoscenza. Epistemico non è dunque per me sinonimo di scientifico. Si tratta di una distinzione troppo spesso assunta come ovvia e troppo poco problematizzata. Farò qui un tentativo di mettere in discussione questa ovvietà.
3. Mi baserò su di una definizione allargata di lingua. Con lingua non intendo solo il linguaggio verbale, ma qualsiasi sistema segnico.
4. Utilizzerò qui l'espressione "ontologico" nel suo significato ristretto: ontologico è quel discorso secondo cui si può accedere cognitivamente alla realtà in forma immediata.
Procederò nella maniera seguente:
una prima parte sarà dedicata alla critica dell'epistemologia genetica. Si tratterà di analizzare la questione del rapporto tra lingua e realtà, lingua e teoria, teoria e realtà. Quest'ultimo punto - il rapporto tra teoria e realtà - comprende anche un'analisi della problematica realismo/antirealismo.
La seconda parte rappresenta una critica all'epistemologia normativa, in particolare al falsificazionismo, mentre la terza parte ha per oggetto l'assenza di una teoria generale della razionalità.

1.1.

Cominciamo con la frase finale del Tractatus di Wittgenstein: "Wovon man nicht sprechen kann, darüber muß man schweigen" ("Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere")
Ora, che senso ha affermare che "non si deve dire ciò che non si può dire"? Infatti non si deve fare ciò che è comunque possibile fare (ciò che si può non dovere fare).
Si sarebbe semmai dovuto scrivere: "non tutto ciò che può essere detto deve essere detto".
"Non tutto ciò che può essere detto deve esser detto": proprio questo è accaduto nel corso della storia delle scienze (o delle conoscenze in generale): non tutto ciò che si sarebbe potuto dire in base alle regole di produzione di una lingua (al livello sintattico e semantico) è stato detto o è stato potuto dire. In altri termini, tra le immagini del mondo che la lingua avrebbe potuto produrre, solo alcune si sono realizzate (sono emerse o si sono imposte).
Ciò non si spiega certo attraverso la lingua, se per lingua intendiamo quell'insieme finito di elementi e regole, che rende possibile un numero indefinito di combinazioni sintagmatiche.
Sembrerebbe invece che alla lingua siano state imposte delle limitazioni dall'esterno. Possiamo individuare (senza la lingua) questo esterno alla lingua (Sia esso la teoria - o la produzione di teoria - sia esso la realtà cui la lingua si riferisce)?
Direi di no. Giacché se è vero che non è stato detto tutto ciò che si sarebbe potuto dire, tutto ciò che è stato detto è stato per l'appunto detto, cioé formulato linguisticamente. Non possiano dire che la lingua è transcendibile dato che essa è coestensiva alla realtà cui essa si riferisce. Accediamo cognitivamente al referente comunque tramite il suo significato linguistico, mentre il significato linguistico indica sempre un referente, esistente magari solo in uno dei mondi possibili creati dalla letteratura o dalla mitologia.
Abbiamo così una prima tesi: la lingua è coestensiva alla realtà cui si riferisce (ed è inoltre autoreferenziale).
Nei termini che sono di Donald Davidson possiamo dire che si tratta di superare il dualismo schema-contenuto (che egli chiama il terzo dogma dell'empirismo): non siamo in grado di individuare un contenuto empirico neutrale senza uno schema, mentre uno schema ha evidentemente sempre un contenuto (sia esso lo schema stesso).
Richard Rorty, commentando Davidson, afferma che in tal modo si supera definitivamente la visione della lingua come medium, come mediazione tra la realtà e la percezione di essa. La svolta linguistica è giunta a compimento. La lingua non può più essere intesa come rappresentazione. Davidson's treatment of language "breaks completely with the notion of language as something which can be adequate or inadequate to the world or to the self. Davidson breaks with the notion that language is a medium - a medium either of representation or of expression" .
Noi potremmo precisare che la lingua non rappresenta la realtà, almeno nel senso che non siamo in grado di verificare se è il rappresentato a determinare la rappresentazione linguistica oppure la rappresentazione il rappresentato. Non possiamo insomma individuare il rappresentato senza una qualche rappresentazione e la rappresentazione senza un qualche rappresentato.
Ed è questo un elemento che mi pare Rorty non prende in dovuta considerazione: la lingua ha inevitabilmente carattere rappresentazionale dato che si riferisce comunque a qualcosa che non viene indicato come ciò attraverso cui esso viene indicato. Se il referente è comunque accessibile tramite il significato (e questo tramite un significante), se insomma non siamo in grado di distinguere il referente dal segno, o se si vuole il contenuto dallo schema, d'altra parte la lingua è strutturata in modo tale da perpetuare la separazione tra le due entità. E questo è, potremmo dire, il suo carattere almeno potenzialmente ingannatore.
Allora: la lingua è inseparabilmente coestensiva alla realtà cui si riferisce, ma rappresenta questa realtà come se fosse separabile da essa e se stessa come separabile dalla realtà.
Per poter sapere se la lingua è intrascendibile dovremmo poter mostrare che lo schema determina il contenuto, cioè che non vi è contenuto senza schema. Ma proprio come non vi è contenuto senza schema, così non vi è schema senza contenuto, quindi vale anche la tesi della trascendibilità della lingua.
Ora, se non siamo in grado di sapere se è il contenuto a determinare lo schema concettuale o lo schema concettuale il contenuto, allora non possiamo sapere se la lingua ci riporta (ci rappresenta) la realtà così com'è oppure determina la percezione che noi abbiamo di essa (e non evidentemente la realtà). Non sappiamo se la lingua è una mediazione, se è opaca o trasparente.
Resta il fatto che alla realtà accediamo comunque cognitivamente tramite la lingua. Se dunque vi è una coestensione tra lingua e realtà di riferimento (della lingua), la lingua comprende la teoria cognitiva e forse le è coestensiva (lo potremmo asserire con certezza se fosse possibile stabilire che lo schema concettuale costituisce il contenuto, ma non possiamo saperlo). La teoria, qualsiasi teoria, non può che venire formulata linguisticamente.
Questo rapporto di comprensione o coestensione non è statico, ma dinamico, riguarda cioè anche la produzione (riproduzione/trasformazione) della teoria e la produzione (riproduzione/trasformazione) della lingua: laddove si verifica una trasformazione della teoria vi è una trasformazione della lingua (almeno al livello semantico), mentre una trasformazione della lingua rappresenta una trasformazione dell'immagine del mondo che la lingua veicola o una trasformazione del mondo che la lingua rappresenta (le due possibilità non si escludono a vicenda, mentre va precisato che una trasformazione dell'immagine del mondo costituisce comunque una trasformazione del mondo, dato che l'immagine del mondo appartiene al mondo).
Riassumiamo le tesi principali:
1. La lingua è coestensiva alla realtà cui si riferisce. Non possiamo sapere se essa rappresenta la realtà, mentre ha comunque carattere rappresentazionale. Ciò significa che il problema del rapporto tra lingua e realtà è irrisolvibile. Non si tratta di cercare una risposta ad esso, ma di metterlo da parte in maniera definitiva.
2. La lingua comprende la teoria e le è forse coestenisiva. Anche in tal caso il problema del rapporto tra lingua e teoria è irrisolvibile, va superato come tale. Resta da analizzare il nodo principale: il rapporto tra teoria e realtà di riferimento, in altri termini il problema del realismo/antirealismo.
Affrontiamolo cercando di rispondere alla seguente domanda, vale a dire verificando se ad essa è possibile dare risposta. Si tratta di una domanda che, se intesa in un certo modo, le varie forme di epistemologia genetica implicano e alla quale cercano comunque di dare una risposta (senza dover per questo renderla esplicita). Essa recita:
Come mai (in un determinato momento ed in una determinata società) è apparsa quella teoria scientifica e non un'altra? Va specificato che restringiamo il campo alle teorie che perlomeno chi risponde a tale domanda considera scientifiche. Infatti se si trattasse di una teoria non considerata tale, si restringererebbe in partenza il campo delle risposte, si escluderebbe cioè una risposta di tipo realista.
Si tratta di una domanda legittima... a cui non possiamo dare una risposta. Possiamo infatti descrivere, ma non spiegare l'apparizione di una teoria. Non possiamo cioè definirne le cause determinanti senza ricadere in un paradosso. Vediamo perchè.
Innanzittutto: fino a che punto può spingersi quella domanda? Può spingersi fino al punto di chiedersi se la teoria in questione costituisce l'effetto di una percezione finalmente libera da qualsiasi condizionamento oppure il prodotto di situazioni extrateoriche o convenzioni culturali? Ci si può davvero porre, implicitamente o esplicitamente, il problema del realismo (o non realismo) della teoria?
Direi di no: per il semplice motivo che quella domanda non potrebbe mai trovare risposta (né in un senso né nell'altro).
Si potrebbe infatti misurare il grado di realtà della teoria solo sulla base della conoscenza, ritenuta scientificamente valida, della porzione di realtà a cui quella teoria in questione si riferisce quindi sulla base della stessa teoria. Potremmo dire: ad un certo punto, nel corso della storia, si sono potuti aprire gli occhi e la realtà è stata osservata come essa è veramente, ovvero - il che, assunta tale ipotesi, è lo stesso - come ce la rappresenta la scienza.
Si tratterebbe di dimostrare che la teoria "corrisponde" effettivamente alla realtà cui si riferisce, realtà che si suppone conoscere solo attraverso quella teoria.
Dovremmo insomma poter confrontare la teoria alla realtà; cioè poter conoscere la realtà a prescindere dalla teoria che si vuole tuttavia l'unica conoscenza possibile di essa e quindi, di fatto, confrontare la teoria con se stessa ovvero ipotizzare la presenza di un accesso conoscitivo a quella realtà alternativo, in quanto più autentico, a quella teoria.
Per lo stesso motivo non si può neppure escludere tale ipotesi realista, dato che per poterlo fare dovremmo presupporla, presupporre cioè la presenza di una conoscenza della realtà in base alla quale poter dimostrare il non-realismo della teoria in questione. L'antirealismo implica il realismo come il realismo l'antirealismo (cioè l'ammissione della presenza di almeno due possibili teorie conoscitive della medesima realtà). Il paradosso del realismo /antirealismo consiste nel fatto che la dimostrazione dell'uno è possibile solo attraverso l'asserzione dell'altro.
Rileviamo dunque un'altra coestensionalità: quella tra teoria e realtà di riferimento. Non è possibile alcun confronto tra la teoria e la realtà di riferimento. Un confronto può infatti venir effetuato solo all'esterno delle entità da confrontare. Nel nostro caso non si è appunto in grado di operare tale confronto dall'esterno, dato che accediamo cognitivamente alla realtà solo tramite la teoria che ad essa si riferisce come suo oggetto della conoscenza.
Ora, questo esterno è appunto il livello epistemologico, laddove una contrapposizione con la realtà può avvenire solo al livello epistemico: questo livello rappresenta la realtà cognitivamente.
Emerge così inevitabilmente la distinzione tra livello epistemico e livello epistemologico.

1.2.
Non risulta possibile dimostrare, collocandosi al di fuori del livello epistemico - cioè al livello epistemologico - il realismo o non-realismo di una teoria cognitiva epistemica.
Quest'impossibilità vale insomma solo per il livello epistemologico, laddove il problema del realismo antirealismo è appunto di natura epistemologica.
Il paradosso del realismo/antirealismo vale dunque per il livello epistemologico. Sul piano dell'attività scientifica epistemica si può evidentemente mostrare l'irrealtà di una teoria - o meglio, la sua non-validità - e proporne eventualmente una alternativa, accettabile in base a determinati criteri. Si possono operare delle trasformazioni locali o allargate, si possono verificare delle rotture, delle vere e proprie sostituzioni di teorie.
La distinzione tra vero e falso è insomma implicita in qualsiasi discorso. Ogni discorso ha tuttavia le proprie regole di produzione di enunciati veri (validi in esso).
È ridondante attribuire il predicato di verità (o di realtà) a degli enunciati a partire da un livello (meta-livello) che si pone come trascendente il discorso che li ha resi possibili (trasformato in livello-oggetto). Ciò significa, tra l'altro, che al livello epistemologico non può essere contestata la verità di un enunciato prodotto al livello epistemico (mentre la conferma della sua verità è per l'appunto superflua o ridondante).
Ciò significa altresì che i parametri attraverso cui definire (individuare) la "verità" - ciò che è ritenuto tale - non trascendono le condizioni (discorsive ed extradiscorsive) che la rendono possibile (che rendono possibile che un enunciato o un gruppo articolato di essi - una teoria, concezione etc. - sia ritenuto vero).
L'enunciato (o il procedimento) di un livello non può venire contraddetto da un enunciato (o un procedimento) dell'altro livello.
Tra le conseguenze della distinzione tra livello epistemologico e livello epistemico vi è anche l'impossibilità di naturalizzare l'epistemologia (nel senso inteso da Quine), se con ciò s'intende la sua riduzione al livello epistemico (per esempio sotto forma di psicologia cognitiva o di fisiologia). Infatti la psicologia cognitiva può tutt'al più mostrare che l'immagine scientifica del mondo è determinata dalla struttura cerebrale, e dimostrare che le corrisponde, ma non può dimostrare che la conoscenza scientifica del mondo corrisponde al mondo.

1.3.
In rapporto alla distinzione tra livello epistemico e livello epistemologico vorrei fare le seguenti precisazioni:
1. Essa vale solo nell'ambito delle pratiche cognitive. Queste sono o epistemiche o epistemologiche. Tertium non datur.
2. Il livello epistemologico è epistemico in quanto si riferisce comunque ad un oggetto, ma è epistemologico in quanto questo oggetto è il livello epistemico. La definizione dei due livelli è di carattere puramente relazionale.
3. L'unità di identificazione dei livelli è l'enunciato, non il testo né tanto meno un'opera o un autore (un soggetto). In un medesimo testo possono esservi enunciati epistemici ed enunciati epistemologici.
4. È chiaro che la distinzione non coincide con la distinzione tra scienza e filosofia: la filosofia opera delle affermazioni epistemiche (per esempio sull'esistenza), mentre al livello epistemologico possono farsi delle affermazioni scientifiche (o non lo si può escludere, comunque venga intesa la scienza).
5. Fino a che punto tale distinzione potrebbe sostituire quella che si pone tra scienza e filosofia, non saprei dire. Ma è una questione su cui vale la pena riflettere.

1.4.
Descrivendo il paradosso del realismo/antirealismo abbiamo parlato in generale di teoria da una parte e di realtà di riferimento dall'altra. Quel paradosso sembrerebbe a prima vista riferirsi esclusivamente al realismo (o eventualmente antirealismo) delle teorie. Ian Hacking tiene tuttavia a distinguere tra realismo delle teorie e realismo delle entità, respingendo il primo e sostenendo, con interessanti argomentazioni, il secondo.
Scrive ad esempio in Conoscere e sperimentare: "è possibile credere in qualche entità senza credere in alcuna teoria particolare in cui quelle entità siano inserite". E quindi, esponendo il suo lavoro: "la tendenza generale di questo libro è di allontanarsi dal realismo sulle teorie, ed avvicinarsi al realismo su quelle entità che possiamo usare nel lavoro sperimentale. Si tratta cioè di uno spostamento dal rappresentare all'intervenire" .
Non potendo qui esporre la posizione di Hacking in maniera esaustiva, diciamo solamente che la sua argomentazione si basa:
1. Su di una definizione ristretta di teoria (egli esclude per esempio che la lingua e ciò che Feyerabend chiama le interpretazioni naturali costituiscano una teoria. Teorie sono per lui quelle che possiamo chiamare conoscenze scientifiche elaborate).
2. Sulla negazione della concezione secondo cui l'osservazione è carica di teoria. 3. Sull'affermazione dell'autonomia dello sperimentare dalla teoria (sulla base di esempi storici). Esistono insomma delle entità reali, colte o prodotte sperimentalmente, che esistono indipendentemente dalle teorie che poi li accoglieranno. In tal senso Hacking parla anche di realismo sperimentale
Se così fosse, potremmo confrontare la teoria T con quanto risulta dall'osservazione e dall'esperimento, vale a dire con la realtà colta a prescindere dalla teoria.
Tuttavia, in Hacking i punti 2. e 3. Si basano sul punto 1.: tutto ciò che egli riesce a dimostrare è che l'osservazione e l'esperimento sono indipendenti dalla teoria in cui sono stati inquadrati solo successivamente, ma non riesce a dimostrare che sono indipendenti da qualsiasi teoria. Essi sono comunque condizionati teoricamente. La teoria non verrebbe confrontata con la realtà, ma con una teoria che la teoria in questione ha rigettato e sostituito. In breve il paradosso del realismo/antirealismo vale anche per il realismo (o antirealismo) delle entità.
D'altra parte il contributo di Hacking è importante perché ci ricorda che teorie differenti possono riferirsi alle medesime entità (che vi è dunque uno scarto tra entità e teorie).

1.5.
Ritorniamo ora alla domanda che ci siamo posti: Come mai (in un determinato momento ed in una determinata società) è apparsa quella teoria scientifica e non un'altra?
Se, come s'è visto, non è possibile fornirne una risposta, ne consegue che una teoria potrebbe essere effettivamente prodotto di una osservazione libera da condizionamenti, di una percezione della realtà non carica di teoria, di un adeguamento progressivo del pensiero alla realtà, oppure risultato di un sistema di convenzioni, espressione di determinati interessi sociali o politici, prodotto di processi sociali o economici, una delle forme di una volontà di sapere. Si potrebbe anche affermare che essa si è imposta grazie a determinate strategie retoriche (oltre che politiche) di chi se ne faceva portatore. Nessuna di queste ipotesi può essere esclusa a priori, ma affermare una di esse a scapito di tutte le altre, significa assumere un impegno ontologico sulla realtà della teoria, ovvero ricadere nel paradosso che abbiamo più sopra delineato. Affermare ad esempio che una teoria ha origine in determinati processi sociali, significa escludere che essa risulti da meccanismi di conoscenza in grado di cogliere la realtà così com'essa è, ovvero escludere l'ipotesi realista (e dunque implicarla).

Riassumiamo quanto finora sostenuto:
- vi è una coestensionalità tra teorie, linguaggi e le loro realtà di riferimento. Tutto ciò che può essere teorizzato, può essere detto. Tutto ciò che è detto implica forse una teoria. Tutto ciò che viene osservato implica una teoria. Ogni teoria rimanda ad un rappresentato. Tutto ciò che viene osservato può venir detto. Tutto ciò che viene detto ha un referente. Vale a dire: può darsi che sia la realtà cui la teoria si riferisce a strutturare la teoria oppure che sia la teoria a strutturare, non evidentemente la realtà esterna, ma la percezione e la conoscenza che noi abbiamo di essa. Lo stesso vale per il linguaggio nel suo rapporto con la realtà di riferimento.

2.1.
Su queste basi è possibile formulare una critica alle varie forme di epistemologia genetica tanto nella variante realista, che in quella relativista (sociologismo forte e debole, psicologismo, retorica della scienza, pragmatismo).

Possiamo provvisoriamente chiamare questa critica, che asserisce la relatività della conoscenza scientifica rispetto a se stessa, relativismo metodologico, nel senso che opera una relativizzazione dell'eventuale relatività della conoscenza alla realtà di riferimento o alla realtà eterogenea che la determina: non esclude né ammette le due possibili relatività.
Il relativismo metodologico descrive insomma la conoscenza ed il contesto nel quale essa s'inscrive, senza porsi, implicitamente o meno, il problema della verità e dell'origine di essa.
Secondo tale forma di relativismo, che ci pare l'unica non paradossale, non è possibile spingere la domanda "come mai una teoria scientifica è comparsa in quel determinato momento ed in quello spazio particolare" fino a chiedersi se essa abbia origine nella realtà cui si riferisce - sprigioni quasi da questa - oppure in determinati processi politici, economici, sociali, oppure ancora in specifiche convenzioni di tipo culturale.
Io sostengo dunque un'epistemologia descrittiva. Mi rendo conto delle difficoltà che comporta il termine descrizione. La descrizione sembra infatti implicare la pretesa di rappresentare la realtà così com'è, o comunque - si veda la descrizione fenomenologica - come essa viene immediatamente vissuta. Se invece noi parliamo di descrizione, intendiamo solamente quella pratica che evita di utilizzare la categoria di causa (o origine), e non avanza dunque nè pretese ontologiche né pretese fenomenologiche.
L'epistemologia descrittiva è neutrale rispetto alle possibili ricostruzioni interne delle produzioni scientifiche, purché non si proietti il passato nel futuro e si assumano le modalità di funzionamento delle scienze in norme universali, o, in altri termini in una teoria della verità.
Una teoria della verità sarebbe infatti consistente solo se coincidesse con, ed anzi si dissolvesse in un'epistemologia descrittiva, ovvero in una ricostruzione dei modi con cui le verità - ciò che viene ritenuto tale - si sono prodotte, senza escludere che in futuro potranno prodursi diversamente.

2.2.
Del tutto al contrario si comporta invece l'epistemologia normativa (eccoci arrivati alla seconda parte). Per epistemologia normativa intendiamo l'epistemologia che pone delle norme universali in base alle quali distinguere a priori tra scienza e non scienza e quindi eventualmente criticare - etichettare come non scientifiche - quelle discipline che non seguissero quelle norme. In tal senso si può parlare anche di demarcazionismo.
Esso assume come base e serbatoio le teorie scientifiche epistemiche ritenute universalmente valide (si tratta per lo più delle scienze naturali, la fisica in particolare). Ne ricostruisce il metodo - le modalità con cui esse sono state prodotte - (non bisogna tuttavia dimenticare che le ricostruzioni sono molteplici e spesso incompatibili tra loro) e universalizza infine questo metodo elevandolo a parametro in base al quale distinguere a priori tra scienza e metafisica, tra il vero e il falso (o meglio tra la produzione del vero e la produzione del falso). Da una parte l'epistemologia normativa dipende dagli esiti del livello epistemico, dall'altra li trascende ed anzi li trascendentalizza. Oltrettutto, in base ad una ricostruzione storica, avvenuta a posteriori, ipoteca il futuro escludendo che le scienze possano comportarsi diversamente a meno di non ricadere nella metafisica. In tal modo si commettono dei gravi errori (si veda la concezione kantiana di spazio e tempo).
L'epistemologia normativa formula inoltre, sulla base di una ri-costruzione epistemologica, degli enunciati di tipo epistemico (a prescindere da qualsiasi confronto con l'oggetto della conoscenza in questione). È una nuova metafisica, forse più pericolosa della "vecchia" perchè apparentemente sostenuta dalla scienza.

Essa è invece sostenuta da due postulati indimostrati e indimostrabili:

1. (un postulato sincronico). Le scienze hanno in quanto tali una struttura unitaria. Se è vero che quasi più nessuno parla di unità delle scienze, questo postulato è implitico in molte posizioni epistemologiche.
2. (un postulato diacronico). Quanto è valso in passato vale anche per il futuro. Io chiedo di contro:
ad 1. Perche mai quanto vale per una scienza deve valere per tutte le altre? (emerge qui il problema della scientificità delle scienze umane ritenute da molti "immature" per la presenza in esse di teorie concorrenti. Pongo a tal proposito un'altra domanda: perche mai le scienze umane raggiungeranno lo stato di scienze vere e proprie solo quando non vi saranno in esse teorie concorrenti?)
ad 2. Pure ammesso che almeno una parte rilevante della scienza abbia avuto un metodo, su quali basi affermare che essa avrà sempre lo stesso metodo ed escludere dei rivolgimenti oggi magari impensabili? Per quanto improbabile possa essere, non lo possiamo escludere... né soprattutto lo dobbiamo.

D'altra parte: in quale stato si trova il demarcazionismo? Nel corso di questi ultimi decenni abbiamo assistito ad una erosione - potremmo quasi dire "decostruzione" - delle teorie demarcazioniste. In breve è stato messo in evidenza come alla prova dei fatti spiegazioni unilaterali - l'induzionismo, il verificazionismo, falsificazionismo ingenuo e quello sofisticato, la MSRP etc. - risultano troppo anguste. Alcuni propongono soluzioni miste (per esempio Gillies) altri (per esempio Feyerabend o Hacking) propongono l'anarchismo (Hacking parla di anarco-razionalismo).

2.3.
Soffermiamoci brevemente su quella posizione demarcazionista che più ha avuto successo: il falsificazionismo.
Esso è già stato in effetti messo pesantemente in discussione e comunque relativizzato dalle approfondite ricostruzioni analitiche di episodi importanti della storia della scienza (in particolare da Lakatos, Feyerabend, Hacking, indirettamente dallo stesso Kuhn, quindi da studiosi per il resto non troppo distanti da esso come Gillies). Ha inoltre luogo un suo lento confluire nelle varie forme di teorie della conferma.
Tuttavia, la sua più grande debolezza risulta dal fatto che, applicando ad esso i criteri che esso stesso applica alle scienze epistemiche, ricade in un grave paradosso. La domanda da porsi è la seguente: è falsificabile il falsificazionismo?
Va qui innanzittuto precisato che assumiamo il falsificazionismo nella sua astrattezza (diciamo nei suoi lineamenti ideali), prescindendo dalle precisazioni che lo stesso Popper ha fatto e dalle trasformazioni che ha subito. Resta ciò nonostante un nucleo intatto: ad esso riferisco il paradosso.
Allora: il falsificazionismo afferma che sono scientifiche le teorie falsificabili. Esso presume d'essere scientifico. Esso dovrebbe dunque essere falsificabile. Verrebbe falsificato dalla presenza di teorie scientifiche non falsificabili. Ma esso esclude a priori che esistano teorie scientifiche non falsificabili. Quindi non è falsificabile e non scientifico.
Il falsificazionismo è infalsificabile in quanto esclude che possano esservi teorie scientifiche infalsificabili.
Seguendo questa argomentazione possiamo concludere che comunque, in generale, qualunque teoria che pone a priori una demarcazione tra scienza e non scienza ricade in un meccanismo di autoconferma.
Esse escludono infatti di considerare scientifiche quelle teorie che non rispondono ai criteri universali di scientificità. Se poi si trovano di fronte ad una teoria alla quale non si può contenstare la scientificità, allora entrano in gioco molteplici giochi interpretativi.

3.1.

Per concludere vorrei ricordare almeno una delle conseguenze di quanto fin qui sostenuto:

3.1.1.
L'assenza di una teoria generale della razionalità, o se si vuole di un universale (nel tempo e nello spazio) minimo comun denominatore di tutte le attività scientifiche, che valga come garanzia per il presente e il futuro. Una teoria generale della razionalità (come una teoria della verità o un'epistemologia normativa) più che condizione della ricerca scientifica ne costituisce un'ostacolo, o perlomeno può mutarsi facilmente in un'ostacolo, mentre nel migliore dei casi è superflua.
Se poi si vuol proprio ricercare una condizione della ricerca scientifica questa risiede in un clima politico e sociale di tolleranza (e di intolleranza verso l'intolleranza).
La scienza, in ogni caso, non ha bisogno di alcuna giustificazione.
A chi poi teme che una critica del demarcazionismo possa dare adito ad una rivalutazione di pratiche pre- o antiscientifiche (penso qui ai giusti richiami di Eco in Il pendolo di Foucault), va detto che è stata la cosmologia galileo-newtoniana a sconfiggere l'astrologia, che tuttavia continua purtroppo a sopravvivere; è stata la chimica e la fisica a sconfiggere l'alchimia. Se noi del resto critichiamo le pratiche esoteriche, diffuse purtroppo ancor oggi, lo facciamo rifaccendoci ai risultati e alle procedure delle scienze epistemiche - oltre che a dei valori etici e politici che non hanno necessariamente a che fare con le scienze.

3.1.2.
Non possiamo sapere se la scienza è un'attività libera. Forse essa, come suggeriva Foucault, è legata a delle forme di potere che ci costituiscono come soggetti e con il disintegrarsi di queste si disintegrerà anche'essa. O forse, come suggeriva Feyerabend, essa è un'attività creativa impermeabile a qualunque metodologia.
D'altra parte non possiamo neppure escludere che essa, autonoma o meno, trasformi completamente, al livello locale o in maniera estesa, i suoi meccanismi di funzionamento, i suoi metodi, se si vuole i suoi paradigmi. Le grandi rivoluzioni scientifiche non appartengono necessariamente al passato.
Se proprio vogliamo trarre le conseguenze pratiche da tutto ciò, possiamo dire che non si dovrebbero valutare le proposte di ricerca in base a dei criteri dedotti dai meccanismi finora accettati universalmente. Voglio dire: non sappiamo se la scienza è un'attività libera, ma essa va trattata come se lo fosse.
Ed è qua che essa entra in contrasto con alcuni principi (etici per esempio) che si considerano universali. Tale tensione è inevitabile: piegare la scienza alla ricerca della felicità (ammesso che vi sia una felicità: la ricerca della felicità è piuttosto un campo di battaglia) può significare ostacolarla ed anzi distruggerla. Piegarla alla sola ricerca della verità (della verità che essa stessa ricerca e che ritiene ricercabile) può significare ledere in modo intollerabile la felicità ed anzi l'integrità della persona umana. Dobbiamo saper vivere e amministrare questa tensione. Cercare delle norme o delle teorie onnicomprensive sarebbe un'illusione. Anche perché non è detto che i valori in cui noi oggi crediamo saranno sempre gli stessi: come diversi sono stati in passato, diversi potranno essere in futuro. Dobbiamo saper vivere con la contingenza ed anzi difenderla contro ogni fondamentalismo, compreso quello della scienza stabilita o della ragione e non ultimo della contingenza medesima.

 

 


 

S. Ghisu, Sull'impossibilità di essere realisti o anti-realisti. Critica all'epistemologia genetica e normativa, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.1 Marzo-Giugno 2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_1/5.htm

 
     

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