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Alessandro De Roma, Il bastone immerso nell'acqua di Andrea Oppo

 

Alessandro De Roma, Il bastone immerso nell'acqua di Andrea Oppo, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.2 Luglio-Ottobre 2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_2/18.htm

 

Che cosa hanno in comune i dubbi di Sesto Empirico, Alice nel paese delle meraviglie, la nevrosi, Tonio Kröger e Paolo di Tarso? Apparentemente nulla, naturalmente. Eppure, qualcosa in comune ce l'hanno, almeno stando all'autore di questo strano e, per certi versi, avvincente libro. Non solo! L'elenco potrebbe continuare, includendo il "mago" della ipnosi Milton Erickson, Charles M. Schulz (sì, proprio il disegnatore di Charlie Brown e Snoopy), l' "idiota" di Dostoevskij e molti altri. In 173 pagine dense di idee, suggestioni, ritratti di personaggi famosi e soprattutto dense di irrisolti (e ovviamente non risolvibili) rompicapi, Andrea Oppo ci propone un viaggio lungo e pieno di deviazioni. Un libro anarchico e soggettivo, che soltanto alla fine -dopo una lettura altrettanto anarchica e altrettanto soggettiva- rivela con sorpresa il suo filo conduttore: un obiettivo o una chimera che l'autore ha cercato, con convinzione e apparente disordine. Del resto, come si dichiara nel prologo "la linearità, gran cosa in sé, ha un inconveniente non da poco: presuppone un ordine che in natura non esiste" (p.20).
Andrea Oppo, nato a Sassari nel 1970, si è laureato in filosofia a Firenze sotto la guida del prof. Givone con una tesi su Sestov. Oggi vive tra la Sardegna (Ghilarza, il paese di Antonio Gramsci) e Dublino, dove sta lavorando ad una tesi di dottorato che si spinge forse più verso temi letterari che puramente filosofici (se questa distinzione ha ancora un senso nell'anno 2003). E quest'ultima direzione sembra riguardare, in certa misura, anche questa raccolta di saggi, pubblicata da un piccolo editore per un piccolo pubblico.
In un mondo accademico che sempre più spesso si auto-compiace dei propri minimi successi e delle conseguenti certezze, diffidando, a volte con eccessivo accanimento, di qualunque slancio di fantasia e vitalità, questo libro si propone obiettivi elevatissimi, pur cercando di perseguirli con strumenti semplici. Si parte innanzitutto da un profondo senso delle distanze (quelle che ci separano, ahimè, dalla verità) e dal coraggio di scegliere una strada difficile e tortuosa. E' un libro che, pur indulgendo talvolta sui suoi stessi difetti, e provando a farne degli aspetti interessanti dell'indagine (quasi come degli indizi mancanti), offre comunque una merce rarissima: l'autentica, a volte disperata, necessità della ricerca. L'origine -in fondo- di qualunque attività filosofica.
La filosofia è qui intesa come un attrezzo, "l'unico strumento capace di smontare per davvero la realtà" (p.15); uno strumento distruttivo e, perciò, costruttore di cose nuove, un cacciavite: un attrezzo che serve per scoprire ciò che apparentemente non interessa nessuno. Così appare, fastidiosamente, il filosofo per ciò che davvero è o dovrebbe essere, ossia uno che pensa che: "un televisore non è fatto per essere acceso e guardato ma per essere smontato" (p.15). Una specie di monello dalla testa dura, insomma.
Tuttavia, "se in superficie il mare è liscio come l'olio e la navigazione è più che garantita, a chi interessano le turbolenze che hanno luogo a mille metri di profondità e che mai verranno a galla?" (p.19) Eppure, come ricorda l'antico argomento presocratico che dà il titolo al libro: il bastone immerso nell'acqua appare spezzato benché non lo sia affatto, e se deve apparire dritto "dovrà essere storto nella realtà" (p.79). E di bastoni storti -come ricordava Immanuel Kant pur in ben altro contesto- è pieno il mondo. Ciascuno di noi lo è. E ciascuno ama e, spesso, vanamente ricerca "le turbolenze che hanno luogo a mille metri di profondità" e che un bel giorno vengono a galla, con gran sorpresa, rivelando un intero mondo fino a quel momento sconosciuto. Ciò che non si vede, non necessariamente non c'è; e ciò che si vede…be', chi può dirlo?
Il "Bastone immerso nell'acqua" è una raccolta di saggi divisa in due parti. Nella prima, assai frammentaria e fin troppo piena di idee e allusioni, si ricercano i fili dell'impossibile scelta tra "arte" e "vita" o anche tra "dentro" e "fuori" come l'autore stesso decide di riferirsi alla perenne ricerca che coinvolge personaggi del calibro di Heidegger, Borges, Husserl e forse l'intero popolo russo, inteso quasi come un'entità unica. La seconda parte, intitolata "profili", è un omaggio a sette grandi protagonisti della storia del pensiero (a volte protagonisti involontari); tutti scelti partendo dal presupposto che la grandezza sta nel voler cercare la verità, pur non negando il terribile naufragio nel quale l'umanità ha deciso di perdersi. In quest'ottica conosciamo, attraverso aspetti apparentemente secondari, ma in realtà illuminanti, il conte Lev Tolstoj che adora perdere a scacchi purché tutti i pezzi che ha avuto in mano possano aver vissuto la partita pienamente, allo sbaraglio, nella convinzione che, se lui, proprio lui, il conte, aveva fallito nella ricerca dell'amore, "nessun altro ce l'avrebbe fatta" (p.140). Conosciamo Jerzy Grotowski che rivoluziona il teatro insegnando che si deve pensare prima con il corpo poi con la mente e, non pago di ciò, "era convinto che il testo scritto non fosse che un pallido ricordo della realtà e addirittura si innervosiva con chi prendeva appunti alle sue lezioni" (p.146). E ancora Charles Schulz e i suoi personaggi che imitano il "non è" (certo! Piperita Patty, e la sua prima sufficienza scolastica; il pallone che Charlie Brown sta sempre per calciare "prima che Lucy glielo tolga ogni volta dai piedi"; oppure Linus e la sua eterna e inutile attesa del Grande Cocomero). Particolarmente ricco e di grande impatto emotivo è poi il profilo di Milton Erickson, costretto su una sedia a rotelle e costretto anche, da un altro, ennesimo difetto fisico, a vedere tutto il mondo di colore "violetto"; una specie di meraviglioso mostro che costruisce la sua forza con il pensiero e l'uso sapiente delle parole, la finzione, la convinzione di potercela fare, sempre. Incontriamo infine: Fritz Perls (lo scopritore della psicoterapia della Gestalt), il grande matematico Kurt Gödel, lo scrittore George Bernanos (a leggerlo "si ha la sicurezza, la prima, che il sole, quello vero, esiste", p.143).
Questa seconda parte appare forse più compiuta e distaccata rispetto alla prima parte, nella quale l'autore si lascia talvolta trascinare dal necessario disordine delle cose e dall'ubriacatura che dà l'avere in mano un'arma terribile e difficile come un cacciavite. Nella prima parte suggeriamo alcune "perle" filosofiche fra i trenta problemi sollevati, a volte solo accennati, dall'autore. Un brillante saggio su Lewis Carroll e i suoi tentativi di curare la propria nevrosi costringendo la piccola Alice a vagare, senza senso apparente, nel paese delle meraviglie (del resto "tecnicamente parlando, la nevrosi è il tentativo di soluzione di un problema insolubile", p.65). Il saggio o investigazione n.10 sull'affascinante storia del prof. Gabbiano e del più grande libro "mai" scritto, in cui il lettore prova allo stesso tempo pietà e compassione per un grande ingannatore che, in fondo, a guardar bene, non aveva poi tutti i torti…ma forse non si dovrebbe svelare il finale di questa storia, proprio come nei romanzi gialli. Spuntano fuori poi altri incredibili personaggi, grandi esperti nell'uso di cacciaviti, quali il giovane Holden di Salinger, Plotino o ancora Shakespeare e il prof. Benson, eroe del film -italiano- di fantascienza "Il pianeta degli uomini spenti" (1961) che ricorda che "difficile non è dire la verità, difficile è essere creduti". Gli si può forse dare torto davanti a una così variegata e nobile schiera di manovratori di cacciaviti?
Il libro -il cui titolo completo è "Il bastone immerso nell'acqua, 37 investigazioni su ciò che appare", sottotitolo assai chiarificatore, ingiustamente omesso dall'editore- occorre specificarlo, nonostante la sua apparenza bambinesca o, quanto meno "adolescenziale", la sua catena infinita di domande spiazzanti e talvolta crudeli, è un'opera seria, scritta con grande acutezza ed eleganza, accortezza tecnica e accuratezza (soprattutto per quanto concerne l'etimologia delle parole: tedesche, latine, greche e, specialmente, russe). E' possibile perfino tracciare alcuni confini e indicare le coordinate entro le quali si muove il percorso di Andrea Oppo: senza dubbio Dostoevskij (e in particolare Šestòv, il suo grande "interprete" nonché filosofo per conto proprio), ma forse anche l'intera Russia e lo spirito del popolo slavo, il cinema (Abbas Kiarostami, e soprattutto Stanley Kubrick: a lui è dedicato il saggio n. 21: "L'ultima parola del maestro"); poi ancora il cristianesimo, la psicanalisi e la poesia, il teatro.
All'interno di queste coordinate il viaggio è lungo, affascinate e non sempre piacevole, molte sono le incursioni negli aspetti più bui o insoddisfacenti dell'animo umano. Si raccomanda in particolare la crudeltà del saggio n. 9 "Uomini in Gabbia" (la madre di tutte le gabbie è "il bisogno del nostro complemento, ovvero la paura che non vi sia", l'uomo infatti trascorre il tempo a ricercare il plauso del pubblico -se è un pianista- la risata degli altri -se è un umorista- piuttosto che accettare semplicemente che "a chi son io di pro se manca il sole?", è uno splendido endecasillabo di sesta, con un'armonia irregolare e un tono di nobile diversità, che già di per sé dovrebbe essere qualcosa di compiuto e autosussistente…pp.50-51). O ancora l'ardito saggio n.5 sulla misoginia o il n.14, nel quale il maggiordomo (sì, quello che è sempre l'assassino nei romanzi gialli) diventa il simbolo stesso della presunzione con la quale si cerca di coprire la ricerca della "verità" con la banalità delle piccole verità subito disponibili.
Un libro arduo e coraggioso insomma, un romanzo filosofico ma anche una specie di raccolta di "poesie in prosa", un tentativo vivo, talvolta esagerato, di sfidare i confini -ahimè alquanto ristretti- delle pubblicazioni filosofiche sempre più ispirate alla logica del maggiordomo, "viviamo e siamo immersi nel grigio" (p.75), pur sapendo, come diceva Dostoevskij che "qui sulla terra tutto comincia e nulla finisce". E pur dovendosi arrendere, alla fine, alla necessità di non dire tutto: "non è facile ammetterlo. Forse aveva davvero ragione Tonio Kröger: a fermarsi e tornare indietro. Lasciando perdere ultimo, penultimo, e tutto ciò che precede. La vita stessa. Rotta verso nord, ritorno all'origine. Alla prima porta. Già, Tonio. Chissà cosa avrà trovato, cosa avrà visto, lassù?" (p.129)
E in quel "non è facile ammetterlo " e "chissà cosa avrà trovato" c'è la follia che spinge ancora a scrivere libri di filosofia. E' giusto che sia così? O c'è forse un'altra ragione per farlo?

Andrea Oppo, Il bastone immerso nell'acqua, Gabrieli Editore, Roma 2003, prezzo 10,33 Euro