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Giuseppe Pulina, Il naufragio della bellezza. A partire da Lyotard

 

Giuseppe Pulina, Il naufragio della bellezza. A partire da Lyotard, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.2 Luglio-Ottobre 2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_2/20.htm

 

I.

Si dice - e forse lo si crede realmente - che l'arte possa salvare il mondo, che la bellezza sia in grado di redimerlo e renderlo ancora piacevolmente abitabile. Che cosa vuol dire ciò? E poi: può veramente la bellezza salvare il mondo? Non era questa una prerogativa del Dio della creazione?
Oggi viviamo all'interno di una condizione che Lyotard definiva - teorizzandola per primo - "postmoderna". In quel prefisso "post" si concentrano due sensi: il senso di un "prima", di un antecedente per sempre superato; il senso di un "dopo", di una posteriorità senza tempo, che non potrà avere mai fine. "Il postmoderno, scrive Lyotard, andrebbe quindi compreso secondo il paradosso del futuro (post) anteriore (modo)" [1]. Lyotard e i teorici del postmoderno lasciano, insomma, capire che, ora come ora (vale a dire nella condizione storico-planetaria nella quale ci troviamo), niente sarà più come prima. Nemmeno il mondo che la bellezza dovrebbe salvare. Ma che dovrebbe poi trarre in salvo da quale pericolo? Da quello che, con linguaggio teologico, si potrebbe chiamare "perdizione", assenza di gravità, composto deragliamento (immaginiamoci un treno in corsa che salta i binari, segue una direzione imprevista e mantiene, in un regime di precarietà, l'equilibrio).
Sembra una frase ad effetto questo aforisma - "la bellezza salverà il mondo" [2]- tanto da avere in sé una grande forza di consolazione, perché se è vero che c'è ancora qualcosa - la bellezza, in questo caso - in grado di salvare il mondo, il nostro destino, per capovolgere il senso di una battuta dello Zarathustra nietzscheano, non sarà poi così insopportabilmente funesto [3]. Lo spazio dell'arte contemporanea può continuare perciò ad essere questo mondo. Un mondo in piena caduta, è vero, ma questo precipitoso vorticare può ancora liberare sprazzi di luminosa, se non accecante, bellezza, perché se non c'è bellezza, non c'è via di salvezza. E - attenzione - la bellezza di cui qui si parla non è un surrogato escatologico, un "principio speranza" ad uso e consumo degli apocalittici del nostro tempo.
La dimensione dell'arte contemporanea è allora questo nostro mondo. Resto ancora in attesa di un'arte (ma questa è chiaramente una provocazione di cui riconosco tutta l'ingenuità) che esca fuori cornice [4] e s'impegni nella rappresentazione di un modello che non sia il mondo: né questo e né, se vi pare lecito, un suo succedaneo, parallelo o alternativo che sia. Qui si allude allora ad un'arte che, per scelta obbligatoria, si fa visionaria? Sarebbe una soluzione auspicabile (ma evidentemente l'ingenua provocazione non ha esaurito tutti i suoi effetti), se non fosse che la maggiore risorsa del mistico è la radice terrena, mondana, della sua propensione verso il cielo. Il mistico, ho sempre creduto, è un vero esperto del mondo, un viveur, un homme du monde, come Giovanni della Croce e Simone Weil, ad esempio. Chi rifiuta la cura del secolo deve essersene lasciato attraversare profondamente. Solo chi lo ha realmente conosciuto può bandirlo con efficacia: è la via - si ricorderà - che va dal tutto al Nulla percorsa da Siddharta Gautama.
È da escludere perciò, o da scoraggiare, quanto meno, un ruolo per così dire mistico dell'arte: il mistico (e non è necessario, per i fini che si propone il nostro discorso, considerarlo alla stregua di uno stilita autoflagellante) è spesso tale più per il disprezzo del mondo in cui vive e di cui, potendo, farebbe a meno, che per la scoperta di un mondo "altro", "alternativo", egualmente attingibile. L'arte può essere visione (Chagall e Kandinskij, ad esempio), ma non può essere visionaria. Lo slancio visionario dell'artista non trasforma la rappresentazione in visione: non c'è, pensandoci bene, soggetto meno blandibile dell'aldilà.

II.

Esiste la bellezza? Se si vuole avanzare qualche serio dubbio sull'identità dell'arte contemporanea, sulla legittimità del suo "stare al mondo" [5], sull'esito e il senso di quel decesso dato per incontrovertibile da Hegel (morte o metastasi dell'arte? La prognosi, impossibile da sciogliere, non lasciava adito a molte speranze), se tutto questo si vuole fare dando risposta ad un'unica domanda, occorrerà chiedersi se oggi ci sia ancora spazio per la bellezza, se quello di una bellezza salvatrice non sia un appello miseramente caduto nel vuoto. Esiste, dunque, la bellezza in un mondo senza aura che esercita un'attrazione sempre più blanda? È possibile che sia esistita, che abbia fatto il suo corso, che i complicati equilibri in cui consisteva siano stati rotti, che non sia, pertanto, più la stessa, che sia stata occultata, facendosi maschera, e che attenda solo di essere dis-velata, ri-scoperta, anche se, è bene tenere presente, la bellezza non è la verità, non è l'alethéia di cui, con rimpianto e languore (se erotico o conoscitivo cambia poco), parlavano Eraclito e Heidegger. Bellezza e verità, pensandoci bene, potrebbero condividere, spartirsi, il carattere cieco e paralizzante della loro vera rivelazione.
Esiste, pertanto, la bellezza? A una bellezza residua - una convulsione che rapisce l'anima, secondo Breton - seppure compromessa con l'insignificanza della realtà [6], non potrà essere negato il diritto di cittadinanza. Ma è una bellezza reietta, violata, oppressa. Con ciò non si vuole dire che il campo d'indagine dell'estetica sia minato dall'abbattimento delle foreste amazzoniche o dalla moltiplicazione delle discariche o, spettacolo non meno osceno, dall'abbrutimento dei mari che al vecchio marinaio di Coleridge ispirerebbero oggi pensieri meno lirici. La bellezza che è venuta meno è spirata nell'abominio dei campi di sterminio [7], nei gulag, nell'inaccettabile (oggi molto più di prima) miseria di una parte incresciosamente grande del pianeta. La bellezza che, come diceva Eraclito a proposito della natura (natura = bellezza, una gustosa tautologia, in fin dei conti), ama celarsi e non mostrarsi alla vista, è l'annuncio frustrato del dio, bandito da Nietzsche e promesso da Heidegger, che, unico, potrebbe salvare il mondo [8]. Un dio offeso, perito, forse, nel naufragio della bellezza. Se questa è la bellezza residua di cui è ancora capace il mondo, se questo è tanto, l'arte rischia di perdere la sua più intima e originaria ragion d'essere. Se gli occhi mancano, lo sguardo, non è solo assente, vuoto, cieco, ma impossibile; se la bellezza è morta, che ne sarà dell'arte? Se l'intenzionalità, il darsi del soggetto all'oggetto relazionato, non è un costume accessorio, una costosa abitudine di vita, un optional della ragione estetica, come si potrà salvare l'eteroreferenzialità dell'arte? Come incanalare la bellezza residua? Come rendere all'arte la sua eteroreferenzialità?

III.

Disimpegnarsi dal mondo per non cadere nella trappola del suo non-senso: potrebbe essere questo il nuovo modus essendi dell'arte del nostro tempo. Ne deriverà un approccio alla realtà (nel senso di un'effettualità data ad un soggetto agente, Wirchlichkeit) politicamente neutrale [9]. Nel nostro Occidente l'artista maledetto è un esemplare estintosi da tempo, ed Eminem e i rappers newyorkesi non fanno, certo, al caso di De Sade e Genet. È comunque vero che l'arte non viene considerata in tutto il pianeta come una inoffensiva disciplina dello spirito dalle polveri bagnate: viene piuttosto avvertita ancora come una minaccia al sistema [10], e questo è, tutto sommato, un indizio della sua vecchia fragranza, del suo pervicace attaccamento ad un modello altrove superato, una risorsa dal vago ed equivocamente confortante aroma di chincaglieria. Quell'altrove è, ovviamente, l'Occidente.
Penso al ruolo delle avanguardie o di quei movimenti che le avanguardie - termine che, come ricorda Lyotard, ha in sé qualcosa di sinistramente militaresco [11] - attraversano, utilizzandole come una piattaforma di lancio, per approdare (o tentare almeno) in regioni mai prima esplorate. Proposito nobile se il risultato cui approderebbero le cosiddette "transvanguardie" (così tali movimenti, agganciati ad alcuni nomi notabili, vengono spesso chiamati [12]) non fosse quello di un mondo già abbondantemente saccheggiato, la bellezza residua del quale può essere tuttavia ancora attinta e, nella misura di questo suo prelievo, anche garantita e conservata [13]. La prospettiva di un totale esaurimento della bellezza residua del mondo coinciderebbe con le attese di una genuina vocazione apocalittica che attraversa anche l'arte contemporanea. Apocalittica è l'arte che assume come paradigma, in modo spesso non dichiarato, la desacralizzazione del mondo: un mondo senza aura in cui anche l'opera d'arte è inevitabilmente costretta a subire una dura sottrazione di valore e senso. La bellezza residua ancora presente nel mondo può essere allora oggetto di riscatto delle nuove espressioni dell'arte contemporanea. Da Hegel a Schopenhauer, ma l'elenco potrebbe essere molto più lungo, i filosofi hanno costruito una gerarchia delle arti corrispondente alla realtà materiale, il fondo paludoso che nessuna creazione avrebbe potuto mai liquefare totalmente, che va da quelle più compromesse con la materia a quelle che, come la musica e la poesia, ne parlano il linguaggio silenzioso. Ebbene, oggi, questa è la tesi del presente saggio (tesi che merita necessariamente l'approfondimento che qui manca), le arti plastiche hanno nelle mani la carta di un'assoluta rivoluzione. Grazie alla digitalizzazione della realtà, alla sua intima riduzione in cifre e mirabolanti artifici in cui viene a compiersi una nuova (ma quanto trionfante?) intesa tra l'uomo e la macchina, le arti plastiche dispongono oggi del più rivoluzionario degli strumenti. Di fronte ad un pixel l'artista dovrebbe avvertire la fascinosa attrazione che Merleau-Ponty sentiva di provare per un algoritmo [14]. La via è stata tracciata solo di recente, e servirà perciò ancora tempo per comprendere la direzione della rotta e indovinare (altro non si potrà fare) le sue possibili destinazioni. Insomma, con l'arte digitale il tentativo di gettare una sonda alla ricerca della bellezza perduta si appropria di uno strumento che può rivelarsi micidiale. Quanto più saprà liberarsi dal mondo, alleggerire la sua dipendenza materica, tanto più l'arte del nostro tempo potrà dare riparo alla bellezza naufraga. Dovrà rivelarne il volto e ristorarla dalle fatiche. Provare a richiamarla in vita, per un'ultima volta almeno, e disporsi a rinunciare anche a quell'estremo lembo di mondo tecnologicizzato in cui aveva trovato riparo.


[1] LYOTARD Jean François, Risposta alla domanda: che cos'è il postmoderno?, in Il postmoderno spiegato ai bambini, Milano, Feltrinelli, 1987, p. 24.
[2] Tesi che Dostoevskji presenta in una delle pagine più belle dell'Idiota e che può essere variamente interpretata se, ad esempio, il cardinale Martini vede in quella bellezza redentrice il Cristo trasfigurato.
[3] "Io amo colui che della sua sua virtù fa un'inclinazione e un destino funesto: così egli vuole vivere, e insieme non più vivere, per amore della sua virtù" (NIETZSCHE Friedrich, Così parlò Zarathustra, Milano, Adelphi, 1992, p. 9).
[4] Da non prendere alla lettera nel senso di un'arte che si proponga solo un'abolizione fisica dei contorni. Qui, ovviamente, s'intende dell'altro.
[5] "Stare al mondo" e "abitare il mondo" non sono ovviamente, nel caso presente, la stessa cosa.
[6] "Insignificanza della realtà", espressione forse grossa e compromettente, ma che cosa si può dire di una realtà che tende sempre più a suscitare una piatta indifferenza gnoseologia. Il tempo delle grandi teorie della conoscenza, fatti salvi alcuni sviluppi nelle filosofie della scienza, sembra essere tramontato. La realtà non sorprende più; venuta meno la curiosità che suscitava, viene meno l'urgenza di dare risposta a certi interrogativi.
[7] "È in generale incomprensibile che il tempo, processo naturale senza valore normativo, possa esercitare un'azione attenuante sull'insostenibile orrore di Auschwitz" (JANKÉLÉVITCH Vladimir, Perdonare?, Firenze, Giuntina, 1987, p. 19).
[8] Siamo o non siamo, d'altronde, nel punto zero della storia? Dopo Auschwitz gli orologi hanno ripreso a funzionare? E se è così, scandiscono il tempo esattamente come facevano una volta? Che sia solo una questione di bravi orologiai non lo credo affatto.
[9] La "neutralità politica" dell'arte era, del resto, per Guy Debord, uno degli effetti degenerativi della spettacolarizzazione della vita sociale.
[10] Come chiamare l'insieme di ordine, potere, controllo e pianificazione che la parola "sistema", più di tante altre, è in grado di implicare?
[11] "Come molti altri, io non amo il termine ?avanguardia', con tutte le sue connotazioni militari." (Lyotard, Nota sul senso di "post-", in Il postmoderno spiegato ai bambini, cit., p. 91).
[12] Diverso, e, in sostanza, positivo è il giudizio di Lyotard sulle avanguardie: "È un atteggiamento convenzionale, per così dire, sorridere o ridere delle avanguardie, considerate l'espressione di una modernità tramontata" (ibid).
[13] Conservare la bellezza? Un paradosso, come tenere il mondo in vitro e pensare, illudersi in questo caso, di non farne parte.
[14] "Il nostro obiettivo non è mostrare che il pensiero matematico poggia sul sensibile, ma che esso è creatore, e lo si può vedere proprio e persino da una matematica formalizzata" (MERLEAU-PONTY Maurice, L'algoritmo e il mistero del linguaggio, in La prosa del mondo, Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 132)