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Graziella Barmina, La libertà di K. Un'interpretazione politica dell'opera di Franz Kafka

 

Graziella Barmina, La libertà di K. Un'interpretazione politica dell'opera di Franz Kafka, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.2 Luglio-Ottobre 2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_2/9.htm

 

La concezione di Hannah Arendt secondo cui la libertà coincida con l'imprevedibilità dell'azione umana che fa irruzione nel mondo come l'assolutamente nuovo trova spazio anche negli scritti non prettamente politici della filosofa. La libertà, filo conduttore del pensiero arendtiano, si trova già in alcuni saggi che furono pubblicati nel 1944 [1]. L'argomento di questi interventi è l'analisi e l'interpretazione dell'opera dello scrittore praghese Franz Kafka. I personaggi dei romanzi di Kafka diventano così per la filosofa l'incarnazione letteraria della lotta contro ogni concezione deterministica delle sorti umane e del mondo.
Il tema principale di questi romanzi viene individuato dalla filosofa nel conflitto tra un mondo che funziona senza alcun contrattempo e un eroe che cerca di distruggerlo.
Josef K. protagonista de "Il processo" non è altro, nella lettura fattane dalla Arendt, che una vittima della "macchina dell'apparenza della necessità, la quale può realizzarsi soltanto tramite l'ammirazione degli uomini per la necessità" [2]. "Il processo" è appunto la storia di Josef K. un uomo accusato, che tuttavia non riconosce la sua colpa e che non riesce a scoprire secondo quali leggi sia condotto al processo né secondo quali leggi venga poi pronunciata la condanna. Alla fine del romanzo viene giustiziato senza sapere che cosa sia effettivamente successo. Gli altri personaggi che K. incontra in questo calvario cercano di spiegargli quanto sia irragionevole mettersi a criticare la situazione nella quale, ormai, si trova avviluppato. Sono infatti questi i discorsi che l'avvocato tiene a K., il quale per questo motivo lo abbandona. Lo stesso è il tono del cappellano del carcere. Quest'ultimo gli tiene una predica sulla grandezza di un tale sistema e gli consiglia di non chiedersi se tutto ciò corrisponda o meno a verità. Dice, infatti, il cappellano "non si deve ritenere tutto vero, ma soltanto necessario". La macchina che avvolge e che uccide K. è dunque la necessità. Una necessità sostenuta dalla menzogna. "La macchina _ scrive la Arendt _ resta in moto grazie alle menzogne dette in ossequio a questa necessità tanto che, in piena conseguenza, un uomo che non si assoggetta a quest'ordine universale, cioè a questa macchina, viene considerato un criminale che agisce contro una specie di ordine divino" [3]. All'interno di questa macchina per assoggettarsi bisogna essere solamente pronti a svolgere il ruolo assegnato "dall'arbitrio nel gioco della necessità" [4]. La Arendt ritiene che ciò che riuscirà a far sottomettere Josef K. non è la forza ma il crescente senso di colpa e di vergogna.
Questa interpretazione dell'opera kafkiana mette in luce, come è stato detto, le preoccupazioni politiche della filosofa che saranno successivamente approfondite nei suoi testi più famosi. Saranno infatti le concezioni deterministiche della Storia ad essere messe sotto accusa nelle "Origini del Totalitarismo" [5]. E sottolineerà proprio come questa apparenza di necessità, e questa volta purtroppo non nella finzione letteraria, sia stata sorretta dalle menzogne. Nel pensiero della filosofa, la menzogna nei regimi totalitari prende la forma dell'ideologia. In questi sistemi l'essere si riduce alla logica del pensiero. La realtà diventa quindi un processo regolato da leggi razionalmente conoscibili e, naturalmente, possedute dall'ideologia ufficiale. Le grandi menzogne prolificano nei regimi totalitari grazie a questa apparenza, per cui la realtà non è quella percepita dagli uomini ma quella iscritta nelle previsioni dei capi totalitari. Dalla coincidenza di essere e pensiero nasce la possibilità di modificare, sconvolgere, distruggere e inventare gli stessi fatti umani della Storia [6].
Il personaggio K. è l'esempio letterario dell'"estraniazione" termine con il quale Hannah Arendt definisce nelle Origini del totalitarismo la qualità primaria dell'uomo di massa. L'uomo di massa non è semplicemente un uomo in solitudine. La sua esistenza perde il senso di identità nel suo essere una tra le tante, privata di uno spazio comune che la renderebbe unica in virtù della sua diversità. Identità che non è data all'uomo ma che è costruita con l'azione libera nel corso della vita su questo mondo. Qui si rileva l'insistenza della filosofa per la necessità di salvare lo spazio politico, unico spazio in cui sia possibile all'uomo apparire tra gli altri senza esserne schiacciato. L'unico spazio nel quale viene garantita la libertà di dare sempre inizio al nuovo. L'ordine universale nel quale crede di muoversi il personaggio kafkiano è uno spazio che manca della libertà così intesa; un mondo determinato dalla processualità intrinseca alla vita naturale, ovvero quella che risponde al ciclo vita-morte del mondo della natura, che ha fatto sua l'irrimediabilità e l'imprevedibilità umane caratteristiche dell'azione.
L'Ordine universale, falso e necessario, del "Processo" riappare nell'altro romanzo di Kafka, "Il Castello". Questa volta la necessità appare sotto forma di "benedizione o maledizione cui ci si sottomette con timoroso e riverente rispetto". Il protagonista del Castello, l'agrimensore K., si ribella all'ordine stabilito dall'alto perché non vuole che gli sia concesso ciò che gli spetta di diritto ovvero: una famiglia e un lavoro. K non si rassegna all'idea che essere nel giusto o nel torto sia soltanto una parte del destino che, in quanto tale debba essere solo accettato e che non può essere modificato. Per Hannah Arendt, K., il protagonista che continua a rivendicare i suoi diritti, "dimostra di essere l'unico ancora in grado di concepire una semplice esistenza umana sulla terra" [7].
Ancora una volta è la condizione umana della libertà, alla quale dedicherà nel 1958 uno dei suoi testi filosofici più conosciuti, Vita activa [8] a destare l'attenzione di Hannah Arendt. La libertà è la condizione umana dell'agire politico, inteso come agire all'interno di una pluralità di uomini. Caratteristica di questa libertà è la sua totale imprevedibilità che è connessa alla nascita dell'uomo. Ogni nuova nascita è un inizio, dunque, portatore di novità sulla Terra. In questo mondo arendtiano non c'è spazio per destini prevedibili o storie già scritte, pena perdere l'essenza stessa dell'esistenza umana. La ribellione di K. è la garanzia della possibilità di interrompere il flusso falsamente necessario e prevedibile dei destini umani. Ecco perché solo K., nel Castello, riesce a vivere una semplice esistenza umana. Questi personaggi, per questa loro forza, sono definiti dalla Arendt gli uomini di buona volontà [9]. "Come Kafka dimostra_ scrive la Arendt _ questa via non porta ad un cambiamento del mondo, al massimo può servire ad istruire e ad illuminare gli altri: essa infatti va al di là delle possibilità di un singolo individuo. Poiché questa modesta intenzione di realizzare i diritti umani è, proprio per la sua semplice essenzialità, il progetto più grande e più difficile cui un uomo possa aspirare. Nella società contemporanea le forze di un singolo individuo possono bastare a costruirsi una carriera, ma non a soddisfare il bisogno elementare di vivere un'esistenza umana. Lo sforzo dell'agrimensore sarebbe coronato pienamente solo nell'ambito di un'esistenza politica. Manca un'esperienza comune nella quale K. o ogni uomo di buona volontà possa creare un cambiamento. Lo spazio nel quale si muove l'agrimensore è per Hannah Arendt la raffigurazione della società nella quale vive lo stesso autore Kafka . Una società nella quale emerge l'atteggiamento degli ebrei assimilati nei confronti del mondo. Gli ebrei scelsero due soluzioni. O assimilarsi attraverso la carriera, nel modello di vita borghese o vivere nell'isolamento della vita intellettuale. Gli ebrei non riuscirono a creare uno spazio comune, uno spazio politico, unica condizione per l'agire libero. "Solo nell'ambito di un popolo l'individuo può vivere come uomo fra gli uomini senza rischiare di morire per mancanza di forze. E solo un popolo in comunità con altri popoli può contribuire a costruire sulla terra un mondo umano creato e gestito dalla collaborazione fra tutti gli uomini" [10]
Hannah Arendt non vuole certo fare di Kafka un profeta. Riconosce, infatti, nel leggere l'opera kafkiana un estremo senso di irrealtà. E questo è vero, per la Arendt, proprio perché ritiene che, anche le storie più terrificanti narrate da Kafka, siano state superate dalle atrocità che seguiranno nel XX secolo. Con Gunther Anders direbbe l'uomo è antiquato proprio perché la nostra capacità di immaginazione è stata superata dai prodotti che noi stessi abbiamo creato [11].
Hannah Arendt nella sua analisi dell'opera dell'autore praghese non considera solo il soggetto del racconto ma anche la tecnica narrativa. Per Arendt ciò che caratterizza la tecnica kafkiana non è il realismo dei romanzi dell'Ottocento, ma neppure il surrealismo. Infatti se i surrealisti, come sostiene la Arendt, utilizzavano la tecnica del fotomontaggio, Kafka usa la tecnica della costruzione di modelli. Nelle storie di Kafka tutto appare esagerato. Ma, per Hannah Arendt, il senso di esagerazione scompare non appena si legge la storia, cioè la finzione, non come una situazione reale ma come un modello delle situazioni reali. Così la finzione diventa il modello e la realtà diventa l'imitazione. In questo capovolgimento sta per la filosofa lo humor kafkiano. "Il riso di Kafka _ scrive _ è un'espressione diretta di quella spensierata libertà umana, per cui l'uomo vale ben più del suo fallimento, già per il solo fatto che egli possa immaginare una confusione maggiore di ogni confusione reale". Il lettore non può immedesimarsi in uno dei personaggi, come nel romanzo dell'Ottocento ma deve, per capire Kafka, utilizzare quella stessa immaginazione dell'autore nel momento in cui quest'ultimo pensa i suoi modelli. I suoi personaggi non incarnano nessun destino, non si identificano in nessun ruolo. Questo a dispetto di ogni immagine ottocentesca in cui il tipo più elevato di individuo, il genio, era quello che aveva un destino, una missione, una vocazione da servire o di cui era il compimento. Grazie all'immaginazione l'uomo è ancora libero per la sua capacità di trascendere il mondo, per la sua capacità di dare inizio all'assolutamente nuovo. Il lettore esperirebbe la sua libertà nella non immedesimazione nel ruolo del personaggio e nella sua capacità di immaginare al pari dell'autore nuovi modelli.
Così Kafka, come Hannah Arendt, era interessato ad un mondo nel quale le azioni umane non dipendessero che dall'uomo stesso e dalla sua spontaneità. La società doveva essere retta dalle leggi create dagli uomini e non da forze misteriose. Per questo, secondo Hannah Arendt, attraverso i suoi romanzi Kafka non farebbe altro che iniziare la distruzione di questo mondo, facendo sorgere dalle sue rovine l'immagine di un individuo che con la sua buona volontà possa davvero costruire nuovi mondi. Questa lettura arendtiana, che indubbiamente va al di la degli intendi dell'autore Kafka, è da considerare non solo un saggio di critica letteraria ma un'analisi di una condizione storica di un uomo come Kafka che aveva affidato all'immaginazione la possibilità di salvezza della libertà umana. Un'immaginazione nella quale si mostra la libertà umana ma che non è sufficiente per Hannah Arendt ad affermarla, a garantirla. Solo nel mondo plurale l'esistenza propria dell'uomo può manifestarsi come realmente libera. E solo grazie alla presenza degli altri l'azione può sfuggire alla mortalità.


[1] I testi cui si farà riferimento in questo articolo sono: Franz Kafka: Tha man of Goodwill tratto da The Jew as Pariah: A Hidden Tradition, apparso per la prima volta in: "Jewish Social Study", VI, n°2, 1944, pp.99-122. L'altro testo cui si farà più volte riferimento è: Franz Kafka: A revaluation, apparso per la prima volta in "Partisan Review", XI, n°4, 1944, pp. 412-422. La traduzione italiana dei due saggi si trova in: Hannah Arendt, Il futuro alle spalle, Il Mulino 1995, a cura di Lea Ritter Santini.
[2] Hannah Arendt, Il futuro alle spalle, 1995, op. cit.p.25.
[3] Ibidem, pp. 25-26.
[4] Ibidem.p. 26.
[5] Hannah Arendt, The Origins of Totalitarianism, Harcourt, Brace and Co, New York, 1951. Traduzione italiana: Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino, 1999.
[6] Ecco cosa dice nelle Origini del Totalitarismo, pagg.: 641-642: Le ideologie _ ismi che per la soddisfazione dei loro aderenti possono spiegare ogni cosa e ogni avvenimento facendoli derivare da una singola premessa _ sono un fenomeno molto recente e, per parecchi decenni, hanno avuto una parte trascurabile nella vita politica. (...) Le ideologie sono note per il loro carattere scientifico: esse combinano l'approccio scientifico con risultati di rilevanza filosofica e pretendono di essere una filosofia scientifica.(...). Un'ideologia è letteralmente quello che il suo nome sta ad indicare: la logica di un'idea. La sua materia è la storia, a cui l' "idea" è applicata; il risultato di tale applicazione non è un complesso di affermazioni su qualcosa che è, bensì lo svolgimento di un processo che muta di continuo. L'ideologia tratta il corso degli avvenimenti come se seguisse la stessa legge dell'esposizione logica della sua idea. Essa pretende di conoscere i misteri dell'intero processo storico _ i segreti del passato, l'intrico del presente, le incertezze del futuro _ in virtù della logica inerente alla sua "idea". Di questa ideologia si sono serviti i regimi totalitari. La loro prevedibilità garantiva alle masse la sicurezza. Così gli obiettivi dei regimi diventavano le premesse del procedimento logico. E la selezione della razza diventa una Legge di natura.
[7] H. Arendt, Il futuro alle spalle, op. cit. p.29.
[8] Testo originale: Hannah Arendt, The Human Condition, Chicago, University of Chicago Press, 1958; traduzione italiana: Hannah Arendt, Vita activa, la condizione umana, Bompiani Milano, 1964, 1987.
[9] In H. Arendt, Il futuro alle spalle, op. cit., pp,11-22.
[10] Ibidem, p. 21.
[11] Ghunter Anders, Die antiquierhaeit des Menschen, Munchen 1980; trad.it. L'uomo è antiquato, Il Saggiatore, 1963.