La concezione di Hannah Arendt
secondo cui la libertà coincida con l'imprevedibilità
dell'azione umana che fa irruzione nel mondo come l'assolutamente
nuovo trova spazio anche negli scritti non prettamente politici
della filosofa. La libertà, filo conduttore del pensiero
arendtiano, si trova già in alcuni saggi che furono
pubblicati nel 1944 [1]. L'argomento di questi interventi
è l'analisi e l'interpretazione dell'opera dello
scrittore praghese Franz Kafka. I personaggi dei romanzi
di Kafka diventano così per la filosofa l'incarnazione
letteraria della lotta contro ogni concezione deterministica
delle sorti umane e del mondo.
Il tema principale di questi romanzi viene individuato dalla
filosofa nel conflitto tra un mondo che funziona senza alcun
contrattempo e un eroe che cerca di distruggerlo.
Josef K. protagonista de "Il processo" non è
altro, nella lettura fattane dalla Arendt, che una vittima
della "macchina dell'apparenza della necessità,
la quale può realizzarsi soltanto tramite l'ammirazione
degli uomini per la necessità" [2]. "Il
processo" è appunto la storia di Josef K. un
uomo accusato, che tuttavia non riconosce la sua colpa e
che non riesce a scoprire secondo quali leggi sia condotto
al processo né secondo quali leggi venga poi pronunciata
la condanna. Alla fine del romanzo viene giustiziato senza
sapere che cosa sia effettivamente successo. Gli altri personaggi
che K. incontra in questo calvario cercano di spiegargli
quanto sia irragionevole mettersi a criticare la situazione
nella quale, ormai, si trova avviluppato. Sono infatti questi
i discorsi che l'avvocato tiene a K., il quale per questo
motivo lo abbandona. Lo stesso è il tono del cappellano
del carcere. Quest'ultimo gli tiene una predica sulla grandezza
di un tale sistema e gli consiglia di non chiedersi se tutto
ciò corrisponda o meno a verità. Dice, infatti,
il cappellano "non si deve ritenere tutto vero, ma
soltanto necessario". La macchina che avvolge e che
uccide K. è dunque la necessità. Una necessità
sostenuta dalla menzogna. "La macchina _ scrive la
Arendt _ resta in moto grazie alle menzogne dette in ossequio
a questa necessità tanto che, in piena conseguenza,
un uomo che non si assoggetta a quest'ordine universale,
cioè a questa macchina, viene considerato un criminale
che agisce contro una specie di ordine divino" [3].
All'interno di questa macchina per assoggettarsi bisogna
essere solamente pronti a svolgere il ruolo assegnato "dall'arbitrio
nel gioco della necessità" [4]. La Arendt ritiene
che ciò che riuscirà a far sottomettere Josef
K. non è la forza ma il crescente senso di colpa
e di vergogna.
Questa interpretazione dell'opera kafkiana mette in luce,
come è stato detto, le preoccupazioni politiche della
filosofa che saranno successivamente approfondite nei suoi
testi più famosi. Saranno infatti le concezioni deterministiche
della Storia ad essere messe sotto accusa nelle "Origini
del Totalitarismo" [5]. E sottolineerà proprio
come questa apparenza di necessità, e questa volta
purtroppo non nella finzione letteraria, sia stata sorretta
dalle menzogne. Nel pensiero della filosofa, la menzogna
nei regimi totalitari prende la forma dell'ideologia. In
questi sistemi l'essere si riduce alla logica del pensiero.
La realtà diventa quindi un processo regolato da
leggi razionalmente conoscibili e, naturalmente, possedute
dall'ideologia ufficiale. Le grandi menzogne prolificano
nei regimi totalitari grazie a questa apparenza, per cui
la realtà non è quella percepita dagli uomini
ma quella iscritta nelle previsioni dei capi totalitari.
Dalla coincidenza di essere e pensiero nasce la possibilità
di modificare, sconvolgere, distruggere e inventare gli
stessi fatti umani della Storia [6].
Il personaggio K. è l'esempio letterario dell'"estraniazione"
termine con il quale Hannah Arendt definisce nelle Origini
del totalitarismo la qualità primaria dell'uomo di
massa. L'uomo di massa non è semplicemente un uomo
in solitudine. La sua esistenza perde il senso di identità
nel suo essere una tra le tante, privata di uno spazio comune
che la renderebbe unica in virtù della sua diversità.
Identità che non è data all'uomo ma che è
costruita con l'azione libera nel corso della vita su questo
mondo. Qui si rileva l'insistenza della filosofa per la
necessità di salvare lo spazio politico, unico spazio
in cui sia possibile all'uomo apparire tra gli altri senza
esserne schiacciato. L'unico spazio nel quale viene garantita
la libertà di dare sempre inizio al nuovo. L'ordine
universale nel quale crede di muoversi il personaggio kafkiano
è uno spazio che manca della libertà così
intesa; un mondo determinato dalla processualità
intrinseca alla vita naturale, ovvero quella che risponde
al ciclo vita-morte del mondo della natura, che ha fatto
sua l'irrimediabilità e l'imprevedibilità
umane caratteristiche dell'azione.
L'Ordine universale, falso e necessario, del "Processo"
riappare nell'altro romanzo di Kafka, "Il Castello".
Questa volta la necessità appare sotto forma di "benedizione
o maledizione cui ci si sottomette con timoroso e riverente
rispetto". Il protagonista del Castello, l'agrimensore
K., si ribella all'ordine stabilito dall'alto perché
non vuole che gli sia concesso ciò che gli spetta
di diritto ovvero: una famiglia e un lavoro. K non si rassegna
all'idea che essere nel giusto o nel torto sia soltanto
una parte del destino che, in quanto tale debba essere solo
accettato e che non può essere modificato. Per Hannah
Arendt, K., il protagonista che continua a rivendicare i
suoi diritti, "dimostra di essere l'unico ancora in
grado di concepire una semplice esistenza umana sulla terra"
[7].
Ancora una volta è la condizione umana della libertà,
alla quale dedicherà nel 1958 uno dei suoi testi
filosofici più conosciuti, Vita activa [8] a destare
l'attenzione di Hannah Arendt. La libertà è
la condizione umana dell'agire politico, inteso come agire
all'interno di una pluralità di uomini. Caratteristica
di questa libertà è la sua totale imprevedibilità
che è connessa alla nascita dell'uomo. Ogni nuova
nascita è un inizio, dunque, portatore di novità
sulla Terra. In questo mondo arendtiano non c'è spazio
per destini prevedibili o storie già scritte, pena
perdere l'essenza stessa dell'esistenza umana. La ribellione
di K. è la garanzia della possibilità di interrompere
il flusso falsamente necessario e prevedibile dei destini
umani. Ecco perché solo K., nel Castello, riesce
a vivere una semplice esistenza umana. Questi personaggi,
per questa loro forza, sono definiti dalla Arendt gli uomini
di buona volontà [9]. "Come Kafka dimostra_
scrive la Arendt _ questa via non porta ad un cambiamento
del mondo, al massimo può servire ad istruire e ad
illuminare gli altri: essa infatti va al di là delle
possibilità di un singolo individuo. Poiché
questa modesta intenzione di realizzare i diritti umani
è, proprio per la sua semplice essenzialità,
il progetto più grande e più difficile cui
un uomo possa aspirare. Nella società contemporanea
le forze di un singolo individuo possono bastare a costruirsi
una carriera, ma non a soddisfare il bisogno elementare
di vivere un'esistenza umana. Lo sforzo dell'agrimensore
sarebbe coronato pienamente solo nell'ambito di un'esistenza
politica. Manca un'esperienza comune nella quale K. o ogni
uomo di buona volontà possa creare un cambiamento.
Lo spazio nel quale si muove l'agrimensore è per
Hannah Arendt la raffigurazione della società nella
quale vive lo stesso autore Kafka . Una società nella
quale emerge l'atteggiamento degli ebrei assimilati nei
confronti del mondo. Gli ebrei scelsero due soluzioni. O
assimilarsi attraverso la carriera, nel modello di vita
borghese o vivere nell'isolamento della vita intellettuale.
Gli ebrei non riuscirono a creare uno spazio comune, uno
spazio politico, unica condizione per l'agire libero. "Solo
nell'ambito di un popolo l'individuo può vivere come
uomo fra gli uomini senza rischiare di morire per mancanza
di forze. E solo un popolo in comunità con altri
popoli può contribuire a costruire sulla terra un
mondo umano creato e gestito dalla collaborazione fra tutti
gli uomini" [10]
Hannah Arendt non vuole certo fare di Kafka un profeta.
Riconosce, infatti, nel leggere l'opera kafkiana un estremo
senso di irrealtà. E questo è vero, per la
Arendt, proprio perché ritiene che, anche le storie
più terrificanti narrate da Kafka, siano state superate
dalle atrocità che seguiranno nel XX secolo. Con
Gunther Anders direbbe l'uomo è antiquato proprio
perché la nostra capacità di immaginazione
è stata superata dai prodotti che noi stessi abbiamo
creato [11].
Hannah Arendt nella sua analisi dell'opera dell'autore praghese
non considera solo il soggetto del racconto ma anche la
tecnica narrativa. Per Arendt ciò che caratterizza
la tecnica kafkiana non è il realismo dei romanzi
dell'Ottocento, ma neppure il surrealismo. Infatti se i
surrealisti, come sostiene la Arendt, utilizzavano la tecnica
del fotomontaggio, Kafka usa la tecnica della costruzione
di modelli. Nelle storie di Kafka tutto appare esagerato.
Ma, per Hannah Arendt, il senso di esagerazione scompare
non appena si legge la storia, cioè la finzione,
non come una situazione reale ma come un modello delle situazioni
reali. Così la finzione diventa il modello e la realtà
diventa l'imitazione. In questo capovolgimento sta per la
filosofa lo humor kafkiano. "Il riso di Kafka _ scrive
_ è un'espressione diretta di quella spensierata
libertà umana, per cui l'uomo vale ben più
del suo fallimento, già per il solo fatto che egli
possa immaginare una confusione maggiore di ogni confusione
reale". Il lettore non può immedesimarsi in
uno dei personaggi, come nel romanzo dell'Ottocento ma deve,
per capire Kafka, utilizzare quella stessa immaginazione
dell'autore nel momento in cui quest'ultimo pensa i suoi
modelli. I suoi personaggi non incarnano nessun destino,
non si identificano in nessun ruolo. Questo a dispetto di
ogni immagine ottocentesca in cui il tipo più elevato
di individuo, il genio, era quello che aveva un destino,
una missione, una vocazione da servire o di cui era il compimento.
Grazie all'immaginazione l'uomo è ancora libero per
la sua capacità di trascendere il mondo, per la sua
capacità di dare inizio all'assolutamente nuovo.
Il lettore esperirebbe la sua libertà nella non immedesimazione
nel ruolo del personaggio e nella sua capacità di
immaginare al pari dell'autore nuovi modelli.
Così Kafka, come Hannah Arendt, era interessato ad
un mondo nel quale le azioni umane non dipendessero che
dall'uomo stesso e dalla sua spontaneità. La società
doveva essere retta dalle leggi create dagli uomini e non
da forze misteriose. Per questo, secondo Hannah Arendt,
attraverso i suoi romanzi Kafka non farebbe altro che iniziare
la distruzione di questo mondo, facendo sorgere dalle sue
rovine l'immagine di un individuo che con la sua buona volontà
possa davvero costruire nuovi mondi. Questa lettura arendtiana,
che indubbiamente va al di la degli intendi dell'autore
Kafka, è da considerare non solo un saggio di critica
letteraria ma un'analisi di una condizione storica di un
uomo come Kafka che aveva affidato all'immaginazione la
possibilità di salvezza della libertà umana.
Un'immaginazione nella quale si mostra la libertà
umana ma che non è sufficiente per Hannah Arendt
ad affermarla, a garantirla. Solo nel mondo plurale l'esistenza
propria dell'uomo può manifestarsi come realmente
libera. E solo grazie alla presenza degli altri l'azione
può sfuggire alla mortalità.
[1] I testi cui
si farà riferimento in questo articolo sono: Franz
Kafka: Tha man of Goodwill tratto da The Jew as Pariah:
A Hidden Tradition, apparso per la prima volta in: "Jewish
Social Study", VI, n°2, 1944, pp.99-122. L'altro
testo cui si farà più volte riferimento è:
Franz Kafka: A revaluation, apparso per la prima volta in
"Partisan Review", XI, n°4, 1944, pp. 412-422.
La traduzione italiana dei due saggi si trova in: Hannah
Arendt, Il futuro alle spalle, Il Mulino 1995, a cura di
Lea Ritter Santini.
[2] Hannah Arendt, Il futuro alle spalle, 1995, op. cit.p.25.
[3] Ibidem, pp. 25-26.
[4] Ibidem.p. 26.
[5] Hannah Arendt, The Origins of Totalitarianism, Harcourt,
Brace and Co, New York, 1951. Traduzione italiana: Le origini
del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino,
1999.
[6] Ecco cosa dice nelle Origini del Totalitarismo, pagg.:
641-642: Le ideologie _ ismi che per la soddisfazione dei
loro aderenti possono spiegare ogni cosa e ogni avvenimento
facendoli derivare da una singola premessa _ sono un fenomeno
molto recente e, per parecchi decenni, hanno avuto una parte
trascurabile nella vita politica. (...) Le ideologie sono
note per il loro carattere scientifico: esse combinano l'approccio
scientifico con risultati di rilevanza filosofica e pretendono
di essere una filosofia scientifica.(...). Un'ideologia
è letteralmente quello che il suo nome sta ad indicare:
la logica di un'idea. La sua materia è la storia,
a cui l' "idea" è applicata; il risultato
di tale applicazione non è un complesso di affermazioni
su qualcosa che è, bensì lo svolgimento di
un processo che muta di continuo. L'ideologia tratta il
corso degli avvenimenti come se seguisse la stessa legge
dell'esposizione logica della sua idea. Essa pretende di
conoscere i misteri dell'intero processo storico _ i segreti
del passato, l'intrico del presente, le incertezze del futuro
_ in virtù della logica inerente alla sua "idea".
Di questa ideologia si sono serviti i regimi totalitari.
La loro prevedibilità garantiva alle masse la sicurezza.
Così gli obiettivi dei regimi diventavano le premesse
del procedimento logico. E la selezione della razza diventa
una Legge di natura.
[7] H. Arendt, Il futuro alle spalle, op. cit. p.29.
[8] Testo originale: Hannah Arendt, The Human Condition,
Chicago, University of Chicago Press, 1958; traduzione italiana:
Hannah Arendt, Vita activa, la condizione umana, Bompiani
Milano, 1964, 1987.
[9] In H. Arendt, Il futuro alle spalle, op. cit., pp,11-22.
[10] Ibidem, p. 21.
[11] Ghunter Anders, Die antiquierhaeit des Menschen, Munchen
1980; trad.it. L'uomo è antiquato, Il Saggiatore,
1963.
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