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ANDREA TAGLIAPIETRA
L'apocalisse delle immagini.
Esegesi del cinema di Wim Wenders a partire da "Fino alla
fine del mondo"
Apocalisse
senza catastrofe
"Il 1999 fu l'anno in cui il satellite nucleare indiano
impazzì, nessuno sapeva dove sarebbe potuto cadere.
Si librava, appena al di sopra dello strato dell'ozono,
come un micidiale uccello rapace. Il mondo intero era in
allarme, ma Claire, in quel periodo, viveva un suo incubo
privato. Sognava tutte le notti un volo silenzioso, su una
terra sconosciuta. Al principio la sensazione di volo era
piacevole, ma poi diventava una sensazione di caduta, e
successivamente di panico. E si svegliava di soprassalto.
Nell'autunno del 1999 a Claire Tourneur capitava di svegliarsi
in strani posti [...]". Così inizia il prologo
di "Fino alla fine del mondo" (1991) di Wim Wenders,
raccontatoci da una voce fuori campo, quella - lo apprenderemo
in seguito - ,dello scrittore Eugene, marito di Claire,
che, mentre ci racconta quella storia che il film rappresenta,
insieme sta leggendo l'inizio del suo romanzo, "Una
danza intorno al pianeta". Romanzo, ossia parola scritta
che, come vedremo, avrà una funzione decisiva nel
meccanismo narrativo della trama del film. Sarà,
infatti, la lettura del romanzo di Eugene - il medesimo
"Una danza intorno al pianeta", secondo un raffinato
anacronismo di autodissoluzione (lo stesso che faceva evocare
a Wittgenstein, alla fine del suo "Tractatus logico-philosophicus",
la figura di colui che "getta via la scala dopo che
v'è salito"(6.54) (Einaudi, Torino 1974, p.
82)) - a salvare Claire dall'intossicazione visiva delle
immagini oniriche di cui resterà vittima con l'amico
Sam, il cacciatore di immagini. Spiegando questa guarigione
in una lunga intervista sul film, Wenders dichiarava "la
malattia di Claire è la malattia delle immagini,
curata da un'arte molto più antica e più semplice,
con una narrazione, con la parola. E Eugene, lo scrittore
che segue lo sviluppo del morbo, non ha altri strumenti
se non mostrarle la sua immagine riflessa usando il linguaggio.
Le sue parole effettivamente guariscono Claire: leggendo
la propria storia lei si libera della malattia delle immagini"
("L'atto di vedere", Ubulibri, Milano 1992, p.
53).
Come leggiamo nel testo di un discorso tenuto da Wenders,
al festival del teatro di Monaco, lo stesso anno dell'uscita
nelle sale di "Fino alla fine del mondo", "se
il mondo delle immagini sta andando a rotoli e se le immagini
si stanno ormai autonomizzando sempre più a causa
del progresso e della tecnica, tant'è che non sono
già più controllabili e lo saranno sempre
di meno, esiste comunque anche un'altra cultura, una controcultura
nella quale nulla è cambiato e nulla cambierà:
la narrazione scritta di storie, la letteratura, la lettura,
la "parola". Io non credo a molte cose della Bibbia,
ma credo comunque profondamente nella frase [si tratta dell'inizio
del "Vangelo di Giovanni" (Gv. 1,1) che fa eco
all'inizio dell'intera Scrittura, ossia al primo versetto
della Genesi ]: "In principio c'era la parola".
E non ritengo che un giorno si dirà: "E alla
fine ci fu l'immagine...". La parola rimarrà"
("L'atto di vedere", cit., p. 140).
Le considerazioni sul cinema di Wenders che intendiamo svolgere
partono dal breve suggerimento di queste parole. Parole
che ci dicono la possibilità di porre l'immagine
al di fuori della banalità con cui il senso comune
contemporaneo traduce l'"apocalisse" - e, quindi,
anche l'"apocalisse delle immagini" -, ovvero
come "catastrofe" e "disastro" (e "catastrofe",
anzi "dis-astro", in senso letterale, ossia la
"caduta della stella" è l'uscita dalla
sua orbita del satellite nucleare indiano con cui si apre
la narrazione di "Fino alla fine del mondo").
Al di fuori, quindi, della consuetudine culturale "anti-utopica"
o "dis- topica" con cui si è soliti pensare
"in negativo", almeno a partire dal secondo decennio
di questo secolo ("Il tramonto dell'Occidente"
di Oswald Spengler può, in qualche modo, rappresentarne
il testo di riferimento), ai progressi della tecnica che
condizionano la nostra vita. Alla fine non ci sarà
l'immagine, potremmo dire, perché l'immagine non
sarà sola, perché l'immagine "finalmente
avrà la sua parola". Per Wenders, com'è
noto, compito del cinema è quello di ricostruire
la "purezza dello sguardo" che è propria
dell'"infanzia", degli "occhi di un bambino".
"Gli occhi del bambino". Ricordate il cantilenante
refrain della poesia di Handke che accompagna la visione
de "Il cielo sopra Berlino" (1987): "quando
il bambino era bambino, se ne andava a braccia appese...
non sapeva d'essere un bambino, per lui tutto aveva un'anima,
e tutte le anime erano tutt'uno... Su niente aveva un'opinione,
non aveva abitudini... Narra Musa del narratore, l'antico
bambino, gettato ai confini del mondo e fa che in lui ognuno
si riconosca... Un vecchio son io, di voce stridula, ma
il racconto si leva ancora dal profondo... Basta con l'espansione
nel tempo: avanti e indietro nei secoli. Posso pensare solo
da un giorno all'altro. I miei eroi non sono più
guerrieri e re, ma fatti di pace. Cosa c'è nella
pace che alla lunga non entusiasma e non si presta al racconto?
Devo darmi per vinto ora? Se mi do per vinto, allora l'umanità
perderà il suo cantore e, quando l'umanità
avrà perso il suo cantore, avrà perso anche
l'infanzia". Gli "occhi del bambino", si
diceva, sono gli occhi con cui si deve fare e si deve guardare
un film, secondo quanto sosteneva il nostro regista in un'interessante
conversazione con Jean-Luc Godard dell'autunno del 1990
("L'atto di vedere", cit., p. 146). Viene in mente,
in proposito, la famosa sequenza di "Nel corso del
tempo" (1975) in cui Robert, ossia Kamikaze, regala
i suoi occhiali e la sua valigia a un bambino in cambio
del suo quaderno. Nel quaderno il bambino annota tutto ciò
che vede. Il quaderno del bambino diviene, dunque, il simbolo
eminente di una visione pura, fenomenologica, oggettiva,
che contrappone l'"evidenza" intrinseca della
rappresentazione/riproduzione della realtà all'inevitabile
"falsificazione" della "messa in scena"
di una qualsiasi trama. Abbiamo qui due modelli antitetici
del cinema che, secondo un gioco etimologico già
adombrato nel finale di "Nel corso del tempo",
trovano adeguata corrispondenza nella stessa terminologia
della lingua tedesca. Lingua che Wenders, come ogni buon
intellettuale figlio della "pallida madre", almeno
da Herder e Hegel in poi, non perde occasione di elogiare
per la sua ricchezza e per la sua espressività intrinseca:
"la nostra salvezza", egli scrive, "in questo
paese, che ne è attualmente così bisognoso,
è la lingua tedesca. È una lingua matura,
esatta, sottile, differenziata, amabile, precisa e cauta
a un tempo. Ed è una lingua ricca, l'unica grande
ricchezza di un paese che si crede ricco e non lo è.
La lingua è tutto ciò che questo paese non
è più, non è ancora e, forse, non sarà
mai. Forse potete credere a queste parole, dette da un creatore
di immagini [...]" ("L'atto di vedere", cit.,
p. 141). Ecco allora che, esplicitando la pregnanza etimologica
della lingua tedesca, accade che, per Wenders, il "cinema
come "Lichtspiel"" si contrapponga al "cinema
come "Kino"". Il "Lichtspiel" è
il cinema dell'evidenza degli oggetti, è il cinema
che cerca di ricuperare lo sguardo del bambino. Questo cinema
è, letteralmente, un "gioco di luce", "Lichtspiel",
sì che è la luce stessa dell'immagine a scrivere
la propria storia e l'"atto di vedere" è,
insieme, un "mettersi in ascolto delle immagini"
(tema che Wenders svilupperà in particolar modo in
"Lisbon Story" (1994)), ovvero un "lasciarle
parlare". Dall'altra parte sta il cinema dell'intreccio
e della trama, il "cinema come "Kino"",
identificato usualmente con il film d'azione della tradizione
americana. Come Wenders affermava in un'intervista a "Jeune
Cinéma" (n. 94, aprile 1976) appena successiva
all'uscita di "Nel corso del tempo", "non
mi piacciono le storie che costringono a una tensione, a
far attendere qualche cosa". Il "cinema come "Kino"",
al di là delle distinzioni di genere (Giallo, Western,
Avventura, Fantascienza, ecc.), è il cinema dell'attesa,
della "suspense", in cui il movimento - in "Kino"
risuona, meglio che nel francese "cinéma",
di cui è calco, il greco "kìnesis",
che significa appunto "movimento" - è dato
dalla trasmissione meccanica della trama, dall'esteriorità
della storia che si addiziona artificiosamente all'immagine,
togliendole la parola, ossia sovrapponendo la parola vettorialmente
orientata della narrazione alla parola che narrano le immagini,
nella loro semplicità. In più occasioni Wenders
ci ha messo inguardia sul pericolo di accecamento che si
nasconde dietro questa sovradeterminazione ed intensificazione
narrativa dell'immagine ("quando un'immagine è
troppo piena o quando le immagini sono troppe non si vede
più niente" ("L'atto di vedere", cit.,
p. 90)), che preclude l'autenticità dello sguardo,
cancellando il luogo stesso che lo ospita, ossia la città
o il paesaggio ("in un film si inventa una vicenda,
la si inserisce in un luogo, in una città, in un
paesaggio, e capita che l'invenzione precluda lo sguardo
su questo paesaggio. Si vede soltanto la propria invenzione.
Il paesaggio sullo sfondo viene solo sfruttato, nel senso
proprio della parola" ("L'atto di vedere",
cit., p. 121)). Allora, la violenza del "cinema come
"Kino"" potremmo dire che si manifesti, di
fatto, nella forma dell'inserimento di un "falso movimento",
quello della "storia" esterna all'immagine, nel
"movimento" che è proprio della realtà
della visione che appare. In un breve scritto del 1991,
preposto come introduzione al catalogo delle foto di Mario
Ambrosius, Wenders osservava che "nel film conta soltanto
il tempo raffigurato che scaturisce dalla narrazione di
una storia e poi si impone, come dimensione temporale autonoma,
sul luogo. Questo significa, forse", s'interrogava
il regista, "che i film fanno sempre torto ai luoghi
ripresi, vincolandoli in maniera subordinata ad un unico
tempo, ovvero il presente della storia narrata?". La
risposta di Wenders, qualche riga più avanti, suona
così: "forse, il torto che un film può
fare a un luogo, è proprio quello di rendere invisibile
il suo grande tempo, spacciando il tempo della propria storia
come più importante"("L'atto di vedere",
cit., pp. 113-114). La cifra stilistica del "cinema
come "Kino"" è la "velocità",
la "rapidità" che, per dirla sempre con
Wenders, "non lascia spazi vuoti tra le immagini"("L'atto
di vedere", cit., p. 90). A questarapidità il
"cinema come "Lichtspiel"" contrappone
la "lentezza" - lentezza esasperante, al limite
della carenza tecnica nei primi cortometraggi e nei primi
film di Wenders che, per sua stessa ammissione, "equivalevano
a un dipingere con la telecamera"("L'atto di vedere",
cit., p. 38). Questa lentezza ha tuttavia a che fare con
il tentativo di rispettare "il tempo dell'immagine",
ovvero la sua storia. Come nota Wenders in un'intervista
del 1988, i miei primi film "erano veramente immagini
che scorrevano in un tempo dato, erano dipinti. Le immagini
catturavano una realtà e si concludevano per il semplice
fatto che veniva la fine del film, per me, a quel tempo,
l'unico modo plausibile per terminare un'opera. E fu quella
di tagliare un'immagine la prima idea assolutamente indipendente
dalla pittura. Da quel momento, tutto all'improvviso cambiò.
Si trattava di un diverso sistema di pensiero, e d'esperienza".
Tuttavia, "anche quando ho fatto abitudine ai tagli,
e al delinearsi di un linguaggio interamente nuovo, che
si distanziava da quello pittorico, non ho mai rinunciato
a cercare una sorta di equità a livello temporale,
di "rendere giustizia al tempo"" ("L'atto
di vedere", cit., p. 38). "Rendere giustizia al
tempo" mediante l'immagine significa, scrive Wenders,
nel testo di una conferenza sul "Paesaggio urbano"
dell'ottobre del 1991, consentire "agli occhi e ai
pensieri di muoversi liberamente" ("L'atto di
vedere", cit., p. 90). Il contrasto fra il "cinema
come "Lichtspiel"" e il "cinema come
"Kino"" non è, dunque, un contrasto
tecnologico (p. es. quello fra l'immagine cinematografica
e l'immagine elettronica), ma un contrasto linguistico,
che implica ben determinate conseguenze ideologiche e morali.
Proprio a partire da "Fino alla fine del mondo",
ove vi è un elevato tasso di sperimentazione tecnologica,
Wenders sembra spostare la critica alla tecnologia, da una
critica del mezzo, ossia dello strumento in sé, ad
una critica dell'utilizzo dello strumento, ossia del linguaggio.
Questa critica, che a volte scivola nel facile moralismo
- è questo, a mio avviso, il caso di "Così
vicino, così lontano" (1993) e del più
recente "The Million Dollar Hotel" (1999) -, poggia
sul superamento dell'opposizione fra immagine e storia e
sull'acquisizione della consapevolezza di un'autonomia narrativa
dell'immagine, non più basata sulla sua presunta
ed astratta purezza, ma anzi, proprio sulla sua concreta
"complessità". Riprendendo la chiusa allegorica
di "Nel corso del tempo" è come se Robert/Kamikaze
avesse compreso che gli "occhiali", ossia il "modo
di vedere", e la "valigia", ovvero la "storia"
che ognuno di noi porta con sé - oggetti che, nel
film, Robert scambia con il "quaderno" del bambino
-, si trovano già fuse insieme in quel "quaderno"
di registrazione fenomenologia delle immagini, giacché,
in sé, non c'è immagine senza storia e non
c'è storia senza immagine. Parafrasando un noto adagio
della "Critica della ragion pura" di Kant a proposito
di intuizioni e di concetti, si potrebbe dire che "le
storie senza immagini sono cieche, mentre le immagini senza
storie sono vuote". Applichiamo, allora, questa nuova
prospettiva di sintesi fra immagine e storia alla prima
inquadratura di "Fino alla fine del mondo".
Prologo teologico. Dell'inizio Prima che la voce fuori campo
inizi a parlare, il quadro presenta il massimo di rarefazione.
Lo schermo è nero e vuoto. Nella conferenza sul "Paesaggio
urbano" di cui abbiamo già fatto menzione in
precedenza, parlando a un pubblico di architetti, Wenders,
paradossalmente, aveva esortato i suoi ascoltatori "a
considerare ciò che per definizione è l'esatto
contrario del vostro lavoro", ossia "creare spazi
liberi per conservare il vuoto, affinché la sovrabbondanza
non ci accechi, e il vuoto giovi al nostro ristoro"
("L'atto di vedere", cit., p. 93). Dobbiamo subito
osservare che, in questo caso, lo schermo nero e vuoto non
rappresenta affatto una mera "interpunzione" della
scrittura filmica, di un passaggio da un'inquadratura all'altra
- sia pure quel primo passaggio che corrisponde all'"incipit"
della scrittura. Qui, ciò che si pone immediatamente
alla nostra considerazione è proprio la questione
stessa dell'"incipit", ossia dell'inizio. Come
nella scrittura l'inizio è il bianco della pagina,
così, nell'immagine, l'inizio è il nero, l'assenza
dell'immagine (e/o di qualsiasi colore). Il paradosso della
scrittura - ma, certo, anche dell'immagine - è che
anche quest'inizio si dà, comunque, nella forma della
scrittura e dell'immagine, ossia appartiene alla scrittura
e all'immagine. "Nulla vi è, né in cielo,
né in terra, "né all'Inizio""
- potremmo dire, ripetendo le parole dell'omonimo scritto
di Massimo Cacciari, "Dell'Inizio", appunto -,
"che non contenga insieme immediatezza e mediazione"(Adelphi
1990, p. 167). Ciò significa che, all'inizio, è
già la dualità, la piega della rappresentazione,
sì che, in un certo qual modo, possiamo affermare
che la rappresentazione appartiene all'inizio, sin dall'inizio.
Se è vero quanto scriveva il filosofo francese Gilles
Deleuze nelle sue riflessioni sul cinema raccolte in "Cinema
1. L'immagine-movimento", "il quadro ci informa
che l'immagine non si dà soltanto per essere vista"
(Ubulibri 1984, p. 26). "Non si dà soltanto"
significa che l'immagine si dà "anche per essere
vista" ma, oltre a ciò, l'immagine manifesta,
nello stesso darsi, l'ulteriorità del suo "essere
immagine". Ogni immagine - potremmo dire -, mostra
ciò che mostra e, insieme, mostra se stessa. "Quell'ombra
che l'immagine getta sul mondo", s'interroga Wittgenstein
nei "Quaderni" degli anni 1914-1916, "come
afferrarla esattamente? Ecco un mistero profondo" (Einaudi
1974, p. 120). Il cinema, secondo Wenders, è il mezzo
per afferrare, per cercare di cogliere, in qualche modo,
l'essenza di questo mistero. Rubando le parole che lo stesso
regista mette in bocca a Malkovich nel prologo dell'"Al
di là delle nuvole" (1995) di Michelangelo Antonioni,
"non sono un filosofo, al contrario sono uno visceralmente
legato all'immagine". Il mistero dell'ombra dell'immagine
sul mondo, infatti, non è, forse, un problema filosofico.
Almeno non lo è nel senso in cui la filosofia stessa
sta all'interno di questo problema e non lo domina, ma anzi,
in forme diverse, ne viene dominata. Su questo tema, più
di dieci anni fa, ho anche cercato di scrivere un libro,
"La metafora dello specchio" (Feltrinelli 1991),
nella convinzione che sulla definizione di ciò che
è "immagine" si decida l'orientamento di
molte altre cose, nel pensiero come nella vita. Ma il problema
in questione, proprio perché è un problema
prefilosofico o metafilosofico, può (o deve) anche
essere declinato in forma mitica, senza perdere complessità
- anzi, forse, guadagnandone in chiarezza -, come ci insegna
il testo più autorevole della tradizione occidentale,
la Bibbia, nei primi cinque versetti del "Genesi".
"In principio", recita quello che potremmo definire
l'"incipit" di tutti gli "incipit",
"Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra
era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso
e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse "Sia
la luce!". E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa
buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò
la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e mattina:
primo giorno"(Gen. 1,1-5). Inutile ricordare come,
nei secoli, l'esegesi ebraico-cristiana abbia dissezionato
questi versetti e come la traduzione burocratica della Bibbia
- quella vigente, che qui, per comodità, abbiamo
riportato - riproduca solo alla lontana e spesso, anzi,
adombri, l'estrema ricchezza del testo. In funzione di quanto
cerchiamo di dire qui - e quindi in senso assolutamente
non teologico - va inteso, pertanto, il ricorso al testo
delle "Confessioni" di Agostino il quale, negli
ultimi tre libri della sua opera (XI-XIII), inserisce, in
questa che, per certi versi, può essere definita
la prima autobiografia intellettuale della letteratura occidentale,
un attento e ponderato commento alle prime parole del "Genesi".
Agostino si sofferma particolarmente sul problema di cui
si è appena detto, ossia su come quell'"in principio"
possa e non possa supporre un "prima". È
la grande domanda brutalmente formulata dal cosiddetto credente
curioso, "che cosa faceva Dio prima della creazione?"(XI,12),
la quale, quando non viene elusa con la battuta, tipicamente
pretesca, "preparava l'inferno per coloro che vogliono
scrutare il cielo", costringe alla risposta più
banale "prima di creare il cielo e la terra Dio non
faceva assolutamente nulla". Solo il "nulla",
infatti, che è anche, ovviamente, quell'assenza di
tempo e di storia che si suole chiamare "eternità",
permette di sfuggire dal modello umano del fare, che, al
contrario, presuppone sempre una materia, un'immagine precedente
- si potrebbe dire -, un'azione, ovvero la temporalità
che è propria dell'"immagine-movimento",
la quale, quindi, si manifesta, sempre e comunque, come
storia. Ricompare qui la polarità fondamentale che
struttura l'arco dell'intera opera wendersiana, ossia la
dialettica fra "immagine" e "storia",
a cui noi
abbiamo già accennato prima contrapponendo il "cinema
come "Lichtspiel"" al "cinema come "Kino"".
Per Wenders, che nelle sue dichiarazioni pubbliche non ha
mai mancato di ricordare la giovanile passione per la pittura
e la formazione prettamente figurativa, l'"immagine"
è - almeno nella prima fase della sua parabola artistica
(diremmo almeno fino a "Lo stato delle cose" (1982)
e, cioè, alla prima metà degli anni Ottanta)
- la capacità di aderire perfettamente al reale.
L'immagine è il luogo eminente della "verità".
In una famosa intervista raccolta in "L'atto di vedere",
Wenders dichiarava: "trovo straordinario che l'immagine,
diversamente dal pensiero, non imponga alcuna opinione alle
cose. In ogni operazione del pensiero è sempre implicito
anche un giudizio sugli oggetti, sugli uomini, su una città
o su un paesaggio. Il vedere, invece, trascende dalle opinioni;
guardando una persona, un oggetto, o il mondo noi sviluppiamo
un rapporto autentico, un'attitudine sganciata da qualsiasi
giudizio, in fondo percepiamo a livello puro. L'atto del
vedere è percezione e verifica del reale, ovvero
un fenomeno che ha a che fare con la verità, molto
più del pensiero, nel quale invece ci smarriamo più
facilmente allontanandoci dal reale. Per me, vedere significa
sempre immergersi nel mondo, pensare, invece, prenderne
le distanze. E dato che la mia mente funziona soprattutto
a livello intuitivo, l'immagine è per me la forma
espressiva e ricettiva per eccellenza" ("L'atto
di vedere", cit., pp. 43-44). Al contrario, invece,
la "storia" appare come il luogo della "falsificazione"
e della "menzogna" per eccellenza. Nella stessa
intervista, appena citata, Wenders affermava che "le
storie sono sempre manipolazione pura. È per questo
che le immagini sono, per lo meno a livello latente, ben
più cariche di verità. Una storia, a livello
latente, tende alla menzogna. Le immagini, invece, hanno
un alto tenore potenziale di verità, a maggior ragione
quando le osservano i bambini. È ovvio che possono
essere fortemente manipolate, e in Germania questo fenomeno
lo abbiamo vissuto ben più che altrove. Non io personalmente,
certo, è avvenuto nella storia della Germania. Anche
il cinema americano dimostra come è possibile manipolare
le immagini. Ciononostante resta comunque latente una parte
di verità, mentre dietro le storie si nascondono
le frottole" ("L'atto di vedere", cit., p.
44). Nella storia, dunque, l'originaria ed immediata aderenza
al reale dell'immagine viene travisata e manipolata. La
storia lavora, cioè, "contro l'immagine".
Molto spesso, infatti, come si è detto a proposito
del "cinema come "Kino"", la storia
impedisce di vedere, concentrando lo sguardo sui personaggi
e sull'intreccio, mettendo in ombra i paesaggi e l'ambiente,
in una parola, rimuovendo quello stesso apparire dell'immagine
"come immagine" che ne dice la verità.
È questo il senso di quella celebre battuta de "Lo
stato delle cose": "la vita è a colori,
ma il bianco e nero è più realistico".
Perché il bianco e nero - potremmo osservare - dice
immediatamente l'esser immagine dell'immagine, mentre il
colore, mediante l'illusione di una pretesa adeguatezza
naturalistica, mente, dice il falso sullo statuto stesso
dell'immagine. Il tema centrale del rapporto fra "immagine"
e "storia", viene allora sviluppato, nel corso
dell'opera di Wenders, da un'iniziale antitesi secca per
cui l'"immagine si contrappone in modo assoluto alla
storia", mediante una progressiva "presa di coscienza
della storicità intrinseca dell'immagine", fino
alla considerazione, apparentemente opposta allo sguardo
fenomenologico dell'inizio, della "priorità
della storia". Se il "primo Wenders" credeva
fermamente nella verità dell'immagine e vedeva nell'autonomia
giustapposta della storia qualcosa di esteriore all'immagine,
una sorta di intruso che velava la vista, col tempo e soprattutto
di fronte al fenomeno fortemente "inflattivo"
della "civiltà dell'immagine" (la pubblicità,
l'immagine come droga) anche l'immagine viene ritenuta inaffidabile
(si pensi, per esempio, a "Lisbon Story"). Elemento
inaffidabile dell'immagine è divenuta proprio la
sua presunta "autonomia", ossia la possibilità
che essa, l'immagine, possa essere "disancorata dalla
realtà". Il distacco dell'immagine dalla realtà
è reso possibile "tecnicamente" - ma la
tecnica, per Wenders,, dopo "Fino alla fine del mondo",
può essere anche neutra (e quindi non è qui
che si cela il male) - dalla nuova frontiera dell'"immagine
digitale", che sopprime il rapporto fra "originale"
e "copia", facendo venir meno il più antico
ed efficace criterio di verità delle immagini, pensato
per la prima volta da Platone, per il quale la verità
era, come ci ha spiegato, da ultimo, Martin Heidegger nello
scritto su "La dottrina platonica della verità"
(1940), l'adeguatezza al vedere sovrasensibile dell'"idéa":
"l'"idea" è l'e-videnza che conferisce
la vista su ciò che è presente. L'"idéa"
è il puro risplendere (Scheinen) nel senso in cui
si dice "il sole risplende". L'"idea"
non fa "apparire"(erscheinen) qualcos'altro (dietro
di lei), ma è essa stessa ciò che risplende,
importandole unicamente del proprio risplendere. L'"idéa"
è ciò che ha il potere di risplendere (das
Scheinsame). L'essenza dell'idea consiste in questo suo
potere risplendere e rendersi visibile (Schein- und Sichtsamkeit).
Essa realizza il venire alla presenza (Anwesung), cioè
il presentarsi di ciò che un ente, di volta in volta,
è" (Adelphi 1987, p. 180). La normatività
di questo "vedere" dell'idea fonda, per Platone,
il vedere derivato degli oggetti e delle immagini, entrambi
copie di primo e di secondo grado dell'originale. Ma se
l'originale dovesse sparire? "Nel momento in cui l'immagine
televisiva verrà registrata digitalmente", dichiara
Wenders ne "L'atto di vedere", "l'immagine
sarà riproducibile all'infinito senza pregiudicarne
la qualità, e di conseguenza manipolabile all'infinito.
Non si conoscerà più la natura dell'immagine,
la sua autenticità [...] Se in un fotogramma c'è
una casa, cinque minuti dopo, d'un tratto, non c'è
più, e non c'è mai stato niente di simile.
L'informazione "casa" si è estinta".
Negli "effetti speciali" del cinema tradizionale,
quello che, per contrasto tecnico, definiremo "analogico",
"noi possiamo percorrere a ritroso", aggiunge
il nostro regista, "la creazione di quei trucchi, possiamo
ancora individuarli sulla pellicola. Ci sono sei positivi
intermedi nei quali, passo dopo passo, si può seguire
il procedimento, mentre nel video digitale non c'è
più nessun passaggio intermedio, "non c'è
più alcun originale". Non ci sono più
nemmeno i negativi sulla base dei quali si poteva ancora
dire "Qui, inizialmente, l'immagine era diversa, mentre
ora è stato fatto dell'altro". Con la registrazione
digitale tutto questo non avverrà più. Nel
film si può manipolare il negativo, ma esiste ancora
la prerogativa della verità, che è conservata
dalla fotografia. Nelle immagini digitali non più.
Un'immagine così non è più portatrice
di verità". Così, conclude Wenders, "non
si può più avere nessuna certezza. Si lavora
con un materiale che non obbedisce più ad alcun criterio
di verità. Conta solo ciò che si vuole realizzare.
Si può fare di tutto" ("L'atto di vedere",
cit., p. 64). E allora, ci chiediamo, se l'immagine ha perduto
il suo criterio di verità interno, come possiamo
difenderci dall'invasione delle immagini strumentali? Come
possiamo arginare il proliferare dei "cloni digitali",
emblemi della totale commercializzazione dell'immagine?
Pur oscillando, come si è detto, fra punte di facile
moralismo e momenti di ritrovato entusiasmo per le capacità
espressive offerte dalle nuove tecnologie, Wenders cerca
la conciliazione in un ritrovato equilibrio fra immagine
e storia. Nascita dello sguardo Nella già citata
conferenza sul "Paesaggio urbano" dell'ottobre
del 1991 egli dichiarava, infatti, che "come cineasta
sono arrivato alla conclusione che le mie immagini hanno
un'unica possibilità, per non essere travolte da
questo immenso flusso visivo di concorrenzialità
e commercializzazione: devono "narrare una storia".
Nel mestiere del regista si cela il pericolo di produrre
immagini fini a se stesse, e dai miei stessi errori ho imparato
che una "bella immagine" non ha alcun valore in
sé, al contrario: una bella immagine può distruggere
l'effetto e il funzionamento dell'intera struttura drammatica.
Quando iniziai a fare cinema, se il pubblico lodava le mie
immagini mi ritenevo estremamente lusingato, come se fosse
il miglior plauso. Oggi, se qualcuno le loda penso piuttosto
di avere sbagliato qualcosa nel film. E dai miei sbagli
ho imparato che l'unico antidoto contro le immagini autocelebrative
è credere fermamente alla "priorità della
storia". "Ogni immagine trae", infatti, "una
sua legittimità solo in rapporto a un personaggio
della storia che narra"; e dandole troppa importanza
finisce per indebolire il personaggio. E una storia con
personaggi deboli non ha alcuna forza. "Solo la storia,
l'insieme dei personaggi, conferisce credibilità
a ogni singolo fotogramma", "fonda una morale",
"per esprimermi nel gergo di un artista""
("L'atto di vedere", cit. pp. 88-89). Io credo
che la ripresa d'importanza della storia rispetto all'immagine,
riqualificazione che accompagna la parabola creativa di
tutto il "secondo Wenders", derivi da una maggiore
consapevolezza dell'intrinseca reciprocità a cui
dà luogo ogni immagine. L'immagine è la relazione
soggettivo-oggettiva, nel senso che l'immagine è
tanto l'oggettività di ciò che viene inquadrato,
quanto l'occhio di chi guarda. Sempre negli scritti raccolti
ne "L'atto di vedere" troviamo la seguente affermazione:
"ogni obiettivo mostra non solo un oggetto di ripresa,
ma svela (nel vero senso del termine) anche l'occhio del
fotografo o del regista" ("L'atto di vedere",
cit. p. 114). In "Fino alla fine del mondo" questa
distinzione, come si vedrà in seguito, si manifesta
come distinzione fra il vedere dell'occhio e il vedere del
cuore. Tale distinzione porta Wenders a riflettere e a prendere
progressiva consapevolezza che l'immagine non è quella
sorta di "quanto visuale", di "pura percezione"
che l'ottica fenomenologica implicava, ma è, anch'essa,
un "evento ermeneutico", ossia, per l'appunto,
una "relazione". Ciò emerge chiaramente
dalla meditazione del regista sul termine tedesco "Einstellung",
che nel linguaggio cinematografico significa "inquadratura",
ma che insieme, nella lingua comune, significa "posizione",
"atteggiamento" nei confronti del mondo. "Dietro
ogni inquadratura", dice Wenders, "c'è
sempre una persona che la realizza e che prende posizione
rispetto a ciò che viene inquadrato. Direi che la
morale, l'atto morale insito in ogni inquadratura consiste
nel rispetto sia nei confronti di ciò che la cinepresa
riprende, che verso il significato veicolato e poi proiettato
sullo schermo. Questo atto di fissare e conservare un senso
in un'immagine possiamo considerarlo morale, credo, solo
come rispetto. Un cineasta fa ogni sforzo per portare rispetto
verso l'oggetto dell'immagine e il contenuto di verità
che comunica. Non tutti credono a questa caratteristica
del cinema: dietro ogni inquadratura si possono intuire
le attitudini delle persone nascoste dietro la macchina
da presa, e che portano la responsabilità del film.
Io credo fermamente che ogni inquadratura rispecchi anche
l'indole del cineasta, e che ogni immagine ci mostri ciò
che sta davanti e, al contempo, dietro la macchina da presa.
La cinepresa funziona in due direzioni, mostra i suoi oggetti
ma anche i soggetti. È un fenomeno veramente straordinario
per il cinema, che è difficile spiegare in lingue
diverse dal tedesco. Il concetto di "inquadratura"
si è fissato in maniera geniale nella nostra lingua
ancor prima di riferirsi al cinema. Il tedesco è
proprio una buona lingua" ("L'atto di vedere",
cit. pp. 59-60). La presa di coscienza della "responsabilità
dell'immagine" come "posizione morale" e
"inquadratura" (Einstellung) che implica la relazione
di soggetto e oggetto è, come quelli che l'hanno
visto avranno già inteso, il tema di "Lisbon
Story". Ecco allora che nel finale allegorico del film
Wenders può giocare sull'iperbole di un'immagine
"pura", "vera", "meravigliosa"
e "innocente", che "non sia stata mai vista".
Come spiega il regista Friedrich (il Fritz Munro de "Lo
stato delle cose", risorto dodici anni dopo) allo stralunato
tecnico del suono Phillip, "una volta che l'immagine
è stata vista, l'oggetto abbandona l'immagine",
"l'oggetto muore". Di conseguenza, se non si vuole
che la città si ritragga come il gatto di "Alice
nel paese delle meraviglie", diventando invisibile,
bisogna riprendere la città senza inquadrarla, appendendosi
la cinepresa alle spalle. Così Friedrich sta raccogliendo
una "cineteca di immagini mai viste" per sottrarre
all'intenzionalità dello sguardo, ossia al "mercato
delle immagini", le "immagini rivelatrici di cose".
Queste immagini riposano, incontaminate, in attesa dell'innocenza
delle generazioni future, che sapranno guardarle con altri
occhi, probabilmente gli "occhi del bambino",
di cui si diceva in precedenza, che sono anche gli "occhi
dell'angelo" o del "profeta apocalittico".
Infatti, quello che Friedrich tratteggia è, indubbiamente,
un quadro apocalittico, come sottolinea un grande pannello
didascalico, appeso nella sala della cineteca, ove il bambino
Ricardo, muto come il cinema delle origini, combina in incrocio
le parole inglesi "mostrare" (show), "vendere"
(sell), "potere" (power), "bugie" (lies).
Ma a questo pessimismo radicale di Friedrich, Phillip contrappone
ancora il cuore. Mettendoci il cuore, egli dice, "le
immagini in movimento possono ancora fare quello per cui
sono state inventate cento anni fa". Avere a cuore
l'immagine significa, quindi, responsabilità dell'immagine:
l'"amore" contrapposto alla "morte",
la "pace" alla "guerra", come ci insegnava
la poesia-refrain de "Il cielo sopra Berlino".
Solo mediante questo amore si può ribaltare la "catastrofe
dell'immagine" in autentica "apocalisse dell'immagine".
"E vidi cielo nuovo e terra nuova", recita l'"Apocalisse
di Giovanni", "perché il cielo e la terra
di prima se n'erano andati"(Ap. 21,1). Perché
le immagini tornino ad essere "rivelatrici di cose"
non serve elidere l'intenzionalità dello sguardo,
bisogna rieducare lo sguardo mediante l'amore. Ma questo
sguardo d'amore è lo sguardo dell'inizio, è
lo sguardo del bambino, è lo sguardo del creatore
nei confronti della sua creatura, senza tuttavia immaginarci
il creatore molto diverso da un bimbo che gioca e, giocando,
scopre per la prima volta i colori e le forme degli oggetti.
Cerchiamo allora di concludere il nostro prologo teologico,
congedandoci dai versetti biblici del "Genesi".
Spogliati da ogni teologia essi, infatti, non ci raccontano
nulla di più che l'"origine dello sguardo",
ossia l'"inizio stesso del vedere". Sulla buia
negatività del principio, che l'antico sacerdote-poeta
descrive come "informe" (o "caotica"
(tohu)) e "deserta" - in ebraico "vuota",
vocabolo che lo "Sefer ha-Bahir", il "Libro
fulgido" della Kabbalah definisce così, interpretando
il termine "bohu" come "bo hu", ossia
"v'è in esso", il "luogo", lo
"spazio" della chòra platonica (e cinematograficamente
interpretabile come la pellicola non ancora impressionata)
(tutte le citazioni dei testi della Kabbalah sono tratti
da "Mistica ebraica", Einaudi 1995, a cura di
G. Busi e E. Loewenthal) -, e noi traduciamo, sedotti da
altre immagini, "tenebra" ed "abisso",
prorompe il "fiat lux", il "sia la luce!"
divino. Ci raffiguriamo tutto ciò come un raggio
intenso e progressivo, che con il suo stesso apparire marca
il primo orizzonte e traccia la prima forma, la linea curva
del globo. È esattamente ciò che Wenders fa
nell'inizio di "Fino alla fine del mondo", dove
alla prima inquadratura, il quadro nero dell'estrema rarefazione,
fa succedere l'alba orbitale, ossia l'apparire del sole
visto da un punto dell'orbita terrestre. La terra è,
quindi, un'ombra scura definita da un alone luminoso che
si espande fino a rivelare la superficie terrestre, piena
di scoscendimenti, ferite e fratture della crosta che prendono
la forma di monti, valli, pianure e mari. Adesso, forse,
comprendiamo meglio la chiusura dei primi cinque versetti
del "Genesi": "Dio vide che la luce era cosa
buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò
la luce giorno e le tenebre notte". Qui, infatti, non
si racconta nulla di più che la "nascita dello
sguardo". È solo grazie al vedere, che a questo
punto inizia, che la luce è luce e le tenebre sono
tenebre, perché è questo vedere che, appunto,
li separa nella loro distinzione, ma nella loro distinzione
insieme, saldamente, li congiunge.
Anche questa interpretazione, del resto, trova piena conferma
nell'ambito dell'esegesi ebraica della Bibbia. Nello "Zohar",
il "Libro dello splendore", ovvero l'opera più
nota della mistica ebraica, leggiamo "quando il Santo,
sia Egli benedetto, volle creare il mondo, "guardò"
("istakkel", "guardare", "fissare
con attenzione") la "Torah", parola per parola,
e in corrispondenza di essa compì l'arte del mondo;
giacché tutte le parole e tutte le azioni di tutti
i mondi sono nella "Torah""(II,161a). Nel
"Genesi Rabba" (I,1), un "midrash" del
"Genesi" redatto, molto probabilmente, agli
inizi del V secolo d. C., è detto "il Santo,
Egli sia benedetto, "guardò" (radice ebraica
"navat") la Torah e creò l'universo".
Sia nel "Libro di Giobbe" (Gb. 28,25-27) che in
quello dei "Proverbi" (Pr. 8,22-30) è presente
la figura di Dio che "vede" la sua stessa sapienza
e "questo vedere" è già, in qualche
modo, l'atto creatore. Ma non dobbiamo credere che questa
figura dell'"atto del vedere" come "atto
creatore" appartenga solo alla tradizione ebraica.
Un altro esempio lo possiamo trarre dalla tradizione greca.
Il filosofo neoplatonico Proclo di Atene, nel "Commento
al Timeo di Platone", ci riporta, infatti, questa spiegazione
"teologica" del mito di Dioniso fanciullo che,
per gioco, si guarda allo specchio: "dicono che Efesto
fece uno specchio per Dioniso e che il dio, guardandovi
dentro e contemplando la propria immagine (eìdolon
heautou theasamenos), si gettò a creare tutta la
pluralità" ("In Plat. Tim." 33b).
Per inciso, qui lo specchio è il simbolo che riassume
tutti i mezzi di produzione dell'immagine adeguata. Riprendendo
il testo di Proclo: "anticamente lo specchio è
stato tramandato dai teologi come simbolo dell'adeguatezza
(epitedeiòtetos) alla perfezione intuitiva dell'universo"
("In Plat. Tim." 33b). Esso è, quindi,
per così dire, l'antenato del "cinema"
inteso come depositario della "descrizione fenomenologica
del reale", secondo cioè uno dei due poli della
dialettica wendersiana di immagine e storia di cui si è
detto in precedenza. "Il cinema", scriveva Wenders
nel 1976, "è cominciato come una faccenda puramente
fenomenologica. Chi ha inventato le prime macchine da presa,
quando riprendeva le cose, era interessato solo alla loro
rappresentazione. Tutte le altre idee del cinema si sono
sviluppate in seguito. Al principio non c'era altro che
la pura e semplice rappresentazione della realtà".
Ancora una volta, allora, l'"atto di vedere" è
il principio, principio che, tuttavia, implica "paradossalmente"
la scissione fra guardante e guardato e, quindi, "retrospettivamente"
la "storia" della loro dualità e del loro
riunirsi nell'unità della visione. L'inizio, che
al principio appariva come l'estrema rarefazione dello schermo
nero è, ora, la "trasparenza" dello sguardo
che accoglie l'estrema concentrazione dell'immagine. La
trasparenza, infatti, si manifesta "nella differenza"
di "tutti i colori", la trasparenza è l'iride,
che altri, più poeticamente, chiamano "arcobaleno"
e che in una "Lettera", attribuita a Basilio di
Cesarea (un Padre della Chiesa greca vissuto dal 330 ca.
al 379 d. C.), servirà ad affermare che "la
medesima realtà è insieme unita e distinta",
immaginando, "come in enigma", "una nuova
e straordinaria distinzione congiunta e congiunzione distinta"
("Epistula XXXVIII",4,14-17). Questa luminosità
dell'iride - leggiamo nel cuore dell'"Epistula"
- "è insieme continua in se stessa e divisa.
Poiché infatti presenta molti colori e molte forme,
grazie alla varietà dei colori si mescola con se
stessa in modo tale che sfugge al nostro sguardo e, senza
farcene accorgere, sottrae ai nostri occhi la confluenza
dei vari colori gli uni con gli altri, così che non
distinguiamo la zona intermedia fra l'azzurro e il rosso,
dove avviene insieme la mescolanza e la separazione di un
colore dall'altro, e neppure quella fra il rosso e il purpureo
o fra questo e il colore dell'ambra. Poiché infatti
i riflessi luminosi di tutti i colori si mostrano tutti
insieme, brillano di lontano e ci sottraggono i segni del
loro congiungersi gli uni con gli altri, essi sfuggono ad
un esame, così ch'è impossibile accertare
fino a che punto della zona luminosa c'è il rosso
o il verde, e da che punto un colore comincia a non essere
più tale quale lo scorgiamo nel suo brillare di lontano"("Epistula
XXXVIII",5,9-22). Nella trasparenza iridescente si
dà, allora, il "paradosso" della "distinzione
congiunta" e della "congiunzione distinta"
che è la cifra di ogni relazione originaria dell'immagine
- dell'"esser immagine dell'immagine", si potrebbe
dire - e, quindi, dell'"apocalisse" di ognivisione,
conoscenza o scrittura. Il vedere pone, quindi, la barra
in base alla quale l'immagine contiene già la propria
storia, sì che il buio delle tenebre, "solo
a partire da questo vedere", diviene ora immagine delle
tenebre, come la luce accecante di uno schermo bianco diviene,
a sua volta, immagine della luce.
L'inizio di "Fino alla fine del mondo" mi pare
che ben riassuma questo carattere autonomamente produttore
di storia che è proprio dell'immagine, di modo che
lo schermo nero della prima inquadratura diviene il "dark
side", il lato oscuro della terra, solo "alla
luce" dell'immagine successiva, ossia dell'apparire
del sole e dell'alone dell'orizzonte, come una luminosa
linea curva. Qui, dunque, non c'è affatto contraddizione
con la linea che Wenders ha assunto sin dai primi film,
i cortometraggi e la splendida "trilogia della strada",
vale a dire quella per cui, come egli stesso affermava nell'intervista
a "Jeune Cinéma" citata in precedenza (n.
94, aprile 1976), preferisco che "le storie o le azioni
si addizionino e formino alla fine una storia", piuttosto
che "seguire una storia in cui i personaggi sono vincolati
dal dramma". Qui, la costrizione estrinseca della storia
lascia il posto alla storia come "descrizione"
dell'immagine, ma la purezza dello sguardo che consente
all'"inquadratura" di diventare "posizione
morale" è data dalla disposizione d'amore che
lo muove, secondo la metafora dell'angelo. "La macchina
da presa", diceva Wenders in un'intervista successiva
all'uscita de "Il cielo sopra Berlino", "è
l'occhio dell'angelo invisibile, molto mobile, molto flessibile;
ma è anche uno sguardo pieno di affetto per gli uomini"
("L'atto di vedere", cit. p. 168). Propria dell'angelo
wendersiano è la disposizione alla testimonianza
e alla cura, cura che si fa partecipazione emotiva, finché
l'angelo cade è si fa uomo. L'"e-mozione"
diviene "mozione", sì che l'angelo abbandona
la fissità eterna del suo bianco e nero per i colori
in movimento della vita. Questo tragitto, topologicamente
dall'alto al basso, è, a ben vedere, anche il tragitto
dell'inquadratura di molti film di Wenders, che iniziano
(o finiscono) con inquadrature aeree (si pensi, per esempio,
a "Falso movimento" (1974) o al finale di "Alice
nelle città" (1973)). Inquadratura dall'alto
è, ovviamente, anche quella che riproduce lo sguardo
angelico ne "Il cielo sopra Berlino", a partire
dalla statua alata della Colonna della Vittoria. In un suo
intervento sugli angeli wendersiani (in AA. VV., "Wim
Wenders, il cinema dello sguardo", Loggia de' Lanzi,
Firenze 1995, pp. 35-40), il compianto Sergio Quinzio segnalava
l'affinità fra questo "sguardo angelico"
e le "Storie del buon Dio" di Rilke, dove si racconta
di un essere soprannaturale che "se ne stava contemplando,
dall'alto, una grande città. Ma poiché, alla
lunga, i suoi occhi si stancarono di tutto quel trambusto
[...] risolse di fermare lo sguardo per un po' sopra un
unico, altissimo, casamento. Lo riprese, nel tempo stesso,
l'antico desiderio di vedere come fosse fatto un uomo vivo.
E incominciò pertanto ad affondare lo sguardo dentro
le finestre" (TEA 1989, p. 24). Ma, antenato di questo
e di altri sguardi aerei è quello che ci viene raccontato
nell'inizio dell'"Apocalisse di Giovanni" - libro,
fra l'altro, traboccante di figure angeliche con trombe,
spade, libri, coppe e sigilli - dove il Veggente di Patmos
afferma "guardai, ed ecco una porta dischiusa nel cielo,
e quella voce già udita parlarmi con voce di tromba,
dicendo: "sali quassù e ti mostrerò le
cose che, dopo queste, debbono accadere"" (Ap.
4,1). Lo sguardo apocalittico, lo sguardo angelico, parte
da il non-luogo dello sguardo umano - l'alto del divino
-, dall'autentica "u-topia" del cielo e si abbassa,
teologicamente "si incarna", in un "atto
di misericordia", ricuperando, come qualcuno ha osservato,
quella coincidenza di "bellezza" e "misericordia"
che l'antico pensiero kabbalistico concepiva unite assieme
(nell'albero sefirotico della Kabbalah la sesta "sefirah",
corrispondente al simbolo del
Sole che illumina tutte le altre "sefirot", può
essere sia "Tiferet" (bellezza) che "Rahamin"
(misericordia)).
Solo ciò che è amato può essere vero,
ma l'uomo ama ciò che è bello, sì che
la realtà stessa dev'essere bella. In questa declinazione
estetica sembra risolversi, per Wenders, l'"atto morale"
dell'inquadratura, in cui verità e bellezza si trovano
congiunte nell'amore. In "Fino alla fine del mondo"
l'atto d'amore, lo sguardo angelico che si abbassa e cade,
raggiunge la massima apertura perché, nell'iperbole
assoluta della veduta dall'alto con cui il film inizia,
ora, ad essere inquadrato, è il mondo intero. Se
il tutto diviene oggetto d'amore, allora tutto è
"molto buono", lo sguardo del "Genesi",
dove si dice la bontà di ogni cosa vista e creata,
diviene lo sguardo dell'"Apocalisse", in cui si
dice "non vi sarà più nulla di maledetto"(Ap.
22,3). Ecco l'anello elementare di ogni storia che, in quanto
tale, non è estrinseco a nessuna immagine e che Nicholas
Ray ci affida nel testamento di "Lampi sull'acqua"
(1979-1980), più o meno con queste parole: "verso
la fine di un film è importante riscrivere l'inizio,
così verso la fine della vita è necessario
rintracciare il percorso per riconquistare la stima di se
stessi". Solo l'amore e la cura redimono le storie
dal loro essere, come diceva il Fritz Munro ne "Lo
stato delle cose", "todesboten", "portatrici
di morte". L'Apocalisse fa questo su macroscala, perché
l'oggetto dell'amore è, in essa, l'immane inventario
di morte dell'intera "storia universale".
Apocalisse. Storia e immagine Detto questo, la storia di
"Fino alla fine del mondo", non è un meccanismo
narrativo di genere, produttore di menzogna e di allontanamento
dalla verità dell'immagine, perché la storia
di "Fino alla fine del mondo" non è una
storia qualsiasi, ma, nell'intenzione di Wenders, è
la" storia di tutte le storie", il modello della
"storia per eccellenza", quello, per intenderci,
che congiunge l'inizio con la fine in una totalità
perfetta e compiuta e, proprio in quanto compiuta, assolutamente
redenta. Questo modello è fornito, all'intera letteratura
occidentale, dalla redazione finale del testo biblico e,
in particolare, dalla geniale funzione di raccordo, chiusura
e, insieme, apertura sulla storia del mondo che, in esso,
è svolta dall'"Apocalisse di Giovanni".
L'"Apocalisse" è il libro che chiude la
Scrittura e, chiudendola, ne ricapitola l'intero arco del
significato, assieme al significato complessivo di qualsiasi
libro a venire. Ciò accade perché l'"Apocalisse"
è sia un "modello del tempo" che un "modello
letterario". "L'"Apocalisse" - ha scritto
il filosofo francese Paul Ricoeur nel secondo dei suoi tre
volumi su "Tempo e racconto" - ha potuto rappresentare,
al tempo stesso, sia la fine del mondo che la fine del libro.
Ma la congruenza tra mondo e libro va ancora oltre: il principio
del libro concerne il Principio e la fine del libro concerne
la Fine; in tal senso la Bibbia è il grandioso intrigo
della storia del mondo, e "ogni intrigo letterario
è una sorta di miniatura che congiunge" l'"Apocalisse"
alla "Genesi""(Jaca Book 1987, p. 45). Il
modello apocalittico, come ha ben saputo mostrare il grande
critico anglosassone Frank Kermode, trasmette alla storia
della letteratura il "senso del punto finale"(sense
of an Ending)(Rizzoli 1972), ossia l'idea di una compiutezza
intrinseca all'universo della scrittura e della rappresentazione.
Questa "perfezione" implica la possibilità
che un'opera si presenti come specchio della totalità,
come autentica "opera-mondo". Il "punto finale"
è, allora, il Giudizio nella scrittura, quel punto
di vista totalizzante che abolisce il "valzer degli
addii e dei rinvii" della temporalità, per riconvertire
il tempo del mondo e il tempo della scrittura
nella prospettiva dell'eterno epifanico, nella figura del
"vieni-e-vedi" apocalittico o, per l'appunto,
nel vedere fenomenologico dell'"immagine-movimento"
di Wenders, che ha in sé, nel suo stesso apparire,
la propria storia. Ma l'apocalisse wendersiana - anticipiamo
-, come tutte le apocalissi moderne, è un'apocalisse
senza Giudizio, cioè un'apocalisse che non si apre
su alcuna dimensione ulteriore, che non dipende da un "aldilà"
della storia. "Si annuncia qui - ammetteva il filosofo
francese Jacques Derrida in un suo scritto sul tono apocalittico
della modernità -, promessa o minaccia, un'apocalisse
senza apocalisse, un'apocalisse senza visione, senza verità,
senza rivelazione, "degli invii" (perché
il "vieni" è plurale in sé), degli
indirizzi senza messaggio e senza destinazione, senza destinatore
o destinatario decidibile, senza giudizio finale, senz'altra
escatologia che il tono del "Vieni" stesso, la
sua stessa differenza, un'apocalisse al di là del
bene e del male" (Jaca Book 1984, p. 142). Pensiamo,
per esempio, all'inizio de "Lo stato delle cose",
a quel clima di attesa che, costruito sul paradigma di una
catastrofe immaginaria - la catastrofe nucleare che il film
di Fritz Munro "I sopravvissuti" sta rappresentando
-, si esercita, in realtà, nella catastrofe reale
della sospensione dei destini degli attori e del cast del
film, abbandonati in un albergo dismesso sulla spiaggia
di Sintra. Commenta il regista Fritz, alter ego di Wenders,
"stanno succedendo molte cose simultaneamente. Tutto
questo è un film. Sono tante storie. Storie che esistono
solo nelle storie, mentre la vita scorre, tanto per citare
me stesso, ****"Nel corso del tempo", senza bisogno
di creare storie o di manifestarsi in teorie". Il passaggio
fra le "storie che esistono solo nelle storie"
e la vita che "scorre", "nel corso del tempo",
"senza bisogno di creare storie", è il
passaggio fra la struttura tradizionale dell'apocalisse
che, come diceva Kermode, è il modello di ogni intreccio
che congiunge un inizio con una fine, rendendoli entrambi
"figure dell'inizio e della fine", e la struttura
moderna dell'apocalisse, che si esaurisce nel concetto di
"momento critico". Se nella struttura tradizionale,
il vettore narrativo, in base al paradigma dell'inizio e
della fine, assegnava differenze qualitative ai "momenti"
della storia, nella struttura moderna dell'apocalittica
"ogni" momento è "momento della crisi",
epifania ed apocalisse congiunte insieme. Dobbiamo ricordarci
dell'ultima delle "Tesi di filosofia della storia"
di Walter Benjamin, la diciottesima che, a proposito del
"tempo messianico", cioè il tempo dell'apocalisse,
affermava "ogni secondo, in esso, era la piccola porta
da cui poteva entrare il Messia" (Einaudi 1981, p.
86). La modernità, allora, sostituisce il tempo della
Fine con il tempo della Crisi. Eppure, chi interpreta la
Crisi come il contrario della Fine, quindi come una transizione
"senza fine", vede nella Crisi la distruzione
della Fine. Anche quando si dice, come fa Ricoeur, che "la
Crisi non segna l'assenza di qualsiasi fine, bensì
la conversione della fine imminente in fine immanente"
("Tempo e racconto", cit. vol. II, p. 112), ciò
è esatto solo se si rimane all'interno delle vecchie
categorie metafisiche della trascendenza e dell'immanenza.
Ma l'imminenza dell'apocalittico, il "vieni-e-vedi"
dell'"Apocalisse", esula dalle categorie della
temporalità che appartengono alla tradizione del
pensiero occidentale. Il "senso del punto finale"
dell'"Apocalisse" non è il senso di una
chiusura che rinvia, pur sempre, all'isolamento del punto,
al "senso isolato" della parte, così come
l'immagine tradizionale del Giudizio "divide"
ed "isola" i Sommersi dai Salvati. Il "senso
del punto finale" è quello di un'apertura che
rinvia al suo stesso aprire, ovvero il senso di un "e"
e di un "sì", non il senso di un "no".
Ecco allora che per pensare il significato autentico della
Crisi è necessario abbandonare l'esattezza della
sua mera opposizione con la Fine. La parola Crisi deriva
dal termine greco "krìsis", i cui significati
si possono riassumere attorno a tre plessi principali: (1.)
"krìsis" come "separazione" ;
(2.) "krìsis" come "giudizio";
(3.) "krìsis" come "evento".
"Krìsis" come "giudizio" è,
quindi, l'identificazione della Crisi con la Fine, ma il
suo senso - è facile intuirlo - diviene profondamente
diverso qualora si intenda questa "krìsis"
come "separazione" o come "evento".
Di conseguenza, per cogliere il significato autentico della
Crisi, bisogna abbandonare l'interpretazione tradizionale
della "krìsis" come "separazione"
- come "scisma" dai paradigmi della metafisica,
come "secessione rivoluzionaria" dalla "legge"
e dall'"ordine" della Tradizione -, pensando radicalmente
la "krìsis" come "evento". La
modernità ha fatto suo questo compito e, in questo
modo, ha pensato la Crisi come "evento perfetto",
ossia come "apocalisse". Ma cosa significa, propriamente,
la parola "apocalisse"? Il verbo greco "apokalyptein",
da cui deriva il sostantivo "apokàlypsis"
significa, in senso materiale e figurato, "scoprire",
"togliere il velo", "rivelare qualcosa di
nascosto". Il termine è, tuttavia, piuttosto
raro nel greco classico, mentre assume un senso religiosamente
rilevante nella traduzione greca dell'Antico Testamento,
la cosiddetta "Septuaginta". Come notava André
Chouraqui nel suo breve "Liminaire pour l'Apocalypse",
il greco "apokàlypsis" è la versione
dell'ebraico "galah", che ricorre più di
cento volte nella Bibbia. In base a queste ricorrenze, Chouraqui
propone di tradurre "galah/apokàlysis"
con "contemplazione": "l'Apocalisse",
egli scrive, "è essenzialmente una contemplazione
(hazon) o un'ispirazione (neboua) per la vista, per lo scoprimento
di YHWH e, quindi, di Yeshoua, "il Messia"".
Non possiamo fare a meno di ricordare una lontana intervista
di "Filmkritik" del 1972 in cui Wenders dichiarava
che "è maggiormente il fatto di contemplare
che mi ha affascinato facendo dei film, che il fatto di
trasformare, di muovere o di mettere in scena". Sviluppando
il suggerimento di Chouraqui di tradurre "apocalisse"
con "contemplazione", Jacques Derrida concludeva,
nel libro già citato in precedenza, che l'"Apocalisse"
è la rappresentazione paradossale, compiuta mediante
dei segni, della fine dell'orizzonte segnico. "Di questo
volume", egli afferma, "scritto, ve ne ricordate,
"dentro e fuori", è detto tutto alla fine:
non sigillarlo "non sigillare le parole dell'ispirazione
di questo volume" (Ap. 22,10). Non sigillare, cioè
non chiudere, ma anche "non segnare"". Questa
apertura, cui l'assenza di sigilli del libro stesso dell'"Apocalisse"
allude, è la riproduzione figurale del significato
autentico del termine "apocalisse", il quale è,
appunto, l'"apparire dell'apparire", l'apertura
dello sguardo. La parola "apocalisse" si scopre,
a questo punto, nella sua più prossima vicinanza
con la parola greca che nomina la "verità",
ossia "alétheia". "Lasciar-essere,
nel senso di lasciar-essere l'ente come quell'ente che è,
- scriveva il filosofo tedesco Martin Heidegger nel suo
saggio "Sull'essenza della verità" (1930)
- significa lasciarci coinvolgere da ciò che è
aperto nella sua apertura, entro cui ogni ente sta, portandola
per così dire con sé. Questo "aperto"
è stato concepito dal pensiero occidentale, al suo
inizio, come "tà alethéa", lo svelato.
Se traduciamo "alétheia", invece che con
"verità", con "svelatezza", allora
questa traduzione non è solamente "più
letterale", ma contiene anche l'indicazione che induce
a pensare e a ripensare il concetto abituale di verità,
come conformità dell'asserzione, in quell'orizzonte
non ancora capito della svelatezza e dello svelamento dell'ente"
(Adelphi 1987, p. 144). La "verità" come
"svelamento" è la "verità"
come "apocalisse", è l'apertura originaria
della visione che manifesta l'autenticità dell'immagine,
perché, apocalitticamente, ogni immagine "è
la verità stessa". Questo svelamento, questa
verità automanifestativa delle cose, che nei film
di Wenders trova riscontro nell'esaltazione del cosiddetto
"sguardo fenomenologico" - fenomenologico dal
greco "phaìnesthai", ossia "apparire"
- può essere tuttavia equivocato. È ciò
che accade quando si traduce "apocalisse" con
il latino "revelatio", "rivelazione".
Rivelare è, infatti, una metafora costitutivamente
infida, che gioca sul doppio registro del "togliere
il velo" e del "rimettere il velo", giungendo
a formulare i termini di un autentico "paradosso".
Ciò che viene rivelato, allora, non è altro
che la consistenza stessa del "velo". Nell'epilogo
di "Al di là delle nuvole" di Michelangelo
Antonioni - firmato, come il prologo e l'intermezzo, dallo
stesso Wenders -, il personaggio narrante, il regista interpretato
da John Malkovich, appare, in un inquadratura che lo ritrae
dietro il vetro di una finestra, mentre fuori è notte
e piove. È un'inquadratura cara a Wenders. Si pensi,
per esempio, all'inizio di "Falso movimento",
quando la ripresa aerea di Glückstadt scende, fra le
case, nella piazza cittadina, inquadrando un edificio nel
quale si scorge un uomo che guarda da dietro una finestra
e poi avviene il famoso passaggio in soggettiva, ossia l'assunzione
del punto di vista di Wilhelm, da dietro la finestra. "Nelle
mie prime pellicole", ha dichiarato Wenders in un'intervista
del 1991, "non succedeva mai niente, non c'erano né
dialoghi, né azione, neppure personaggi. Era come
stare a guardare dalla finestra. Di tanto in tanto apparivano
delle figure che si muovevano sullo sfondo (nei totali,
mai nei primi piani), a volte parlavano, anche se non era
essenziale. In realtà, allora mi importava soprattutto
l'immagine"("L'atto di vedere", cit. pp.
44-45).
Il gioco della finestra evoca, infatti, la pura trasparenza
dell'immagine, quella "distinzione congiunta"
o "congiunzione distinta" di cui si parlava in
precedenza, sulla scorta dell'esegesi della "Lettera"
di Basilio di Cesarea. Sulla trasparenza del vetro giochi
di riflessi permettono, del resto, la sovrapposizione dei
volti e, insieme, con un semplice giro di filtro polarizzato,
quella dissolvenza del riflesso che ci fa vedere ciò
che sta al di là della lastra riflettente. Si tratta
di un espediente tecnico della scrittura cinematografica
a cui Wenders ricorre spesso. Nello stesso "Falso movimento",
non si può dimenticare quella sequenza, alla stazione
di Amburgo, in cui Wilhelm vede Therese, che ancora non
conosce, dal finestrino del suo treno, all'interno di un
altro treno che corre parallelo al suo. Lì accadeva,
allora, che il volto di Wilhelm si riflettesse sul finestrino
"sopra" la visione di Therese, anticipando "in
immagine" l'incontro e la conoscenza fra i due. In
"Alice nelle città" v'è l'episodio
in cui la piccola Alice scatta una polaroid a Felix, "per
farti vedere come sei", ella dice. La successiva inquadratura
della foto mostra la polaroid del volto di Felix e insieme,
riflesso sulla superficie lucida della foto, il volto di
Alice. Anche in "Fino alla fine del mondo", per
concludere questo breve inventario, possiamo segnalare l'inquadratura
in cui si vede il volto di Eugene riflesso sullo schermo
del videofax con l'immagine di Claire che gli parla e gli
invia altre immagini dalla Cina. Ma torniamo all'epilogo
di "Al di là delle nuvole". Mentre Malkovich
guarda la pioggia che riga la lastra della finestra, una
voce fuori campo riproduce il pensiero del regista che dice
"noi sappiamo che sotto l'immagine rivelata ce n'è
un'altra più fedele alla realtà, e sotto quest'altra,
un'altra ancora, e di nuovo un'altra sotto quest'ultima,
fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta,
misteriosa, che nessuno vedrà mai".
Qui compare il limite costitutivo di quell'interpretazione
che legge l'"apocalisse" come la dialettica fra
il nascondimento del "velo" e l'apertura della
"visione". L'immagine, per siffatta interpretazione,
non è la "verità", ma un semplice
"rinvio", presupponendo, secondo uno schema di
lontana ascendenza platonica, oltre l'"immagine visibile",
un'"immagine invisibile e assoluta", perfettamente
adeguata al reale. È questa la tentazione ricorrente
del cinema di Wenders. In "Alice nelle città",
guardando le polaroid che continuamente scatta, Felix osserva
che esse "non riproducono mai ciò che si vede"
e che esse, quindi, non "provano" nulla. C'è
un detto del "Vangelo apocrifo di Filippo", uno
scritto gnostico della seconda metà del II secolo
d. C., che recita: "la verità non è venuta
nuda in questo mondo, ma in simboli e immagini. Non la si
può afferrare in altro modo"(67,10)("Vangeli
gnostici", a cura di L. Moraldi, Adelphi 1984, p. 61).
Questo antico detto, elaborato in epoca e ambiente apocalittico,
ci dice la "necessità dell'immagine". Nel
mondo, la verità si può afferrare solo "in
simboli e immagini". Le immagini sono il modo in cui
la verità si manifesta. Ma queste immagini, in quanto
"immagini di verità", in quanto "immagini
apocalittiche", contengono, in se stesse, il processo
dello svelamento. C'è, nell'immagine, una dinamica
intrinseca che porta sempre "oltre se stesse",
pur rimanendo, anche questa, all'interno dell'immagine.
Spesso, la cultura occidentale ha interpretato questa dinamica
secondo la retorica della "nuda verità",
ossia ritenendo i simboli e le immagini quali "mezzi"
per una verità posta comunque "al di là"
delle immagini e dei simboli. Ma questa interpretazione
si rivela, a ben vedere, assolutamente ingenua. Oltre l'immagine
c'è sempre, come spiegava il meditabondo regista
di "Al di là delle nuvole", un'altra immagine.
Anche la spoliazione assoluta dell'immagine, quello sguardo
fenomenologico che Wenders trae dalla lezione della filosofia
husserliana, dalla paradigmatica trasparenza dei dipinti
di Vermeer - ma anche del romantico Caspar David Friedrich
e dell'ipperealista americano Edward Hopper - e, infine,
dal modello cinematografico dei film di Yasujiro Ozu, a
cui sarà dedicato "Tokyo-ga" (1985), appartiene,
comunque, alla retorica dell'immagine. Ascesi. La sottrazione
del vedere e l'esercizio dell'amore Allora, la vera "apocalisse
delle immagini" non deve intendersi come un impossibile
fuga "oltre le immagini", ma piuttosto come una
presa di coscienza del loro statuto veritativo, ossia di
ciò che fa essere immagine l'immagine. A mio avviso,
questa stessa "presa di coscienza di ciò che
fa essere immagine l'immagine" è quanto, per
Wenders, più si avvicina alla definizione strutturale
dell'essenza del cinema.
"L'ottica fenomenologica", ha scritto Filippo
D'Angelo nel "Castoro-Cinema" dedicato a Wenders,
"che non frappone alcunché fra l'occhio e l'oggetto
della visione, puntata sulla realtà allo scopo di
restituire "iperrealisticamente" la "scandalosa"
"fisicità" e l'"assurda" "evidenza"
delle sue componenti, tende a recuperare una sorta di "primo
sguardo", una visione innocente e straniata da contrapporre
ai freddi stereotipi della percezione meccanizzata. Negare
l'esistenza di significati sottesi all'immagine significa
far balzare in primo piano l'evidenza del reale, renderne
riconoscibili i lineamenti" (Il Castoro 1995, p. 19).
L'ottica fenomenologica è, in questo senso, la separazione
dell'immagine dalla sua retorica: una sorta di catarsi critica
che riconduce, come abbiamo visto, allo sguardo u-topico
dell'angelo e del bambino, là dove, come diceva Trakl
in una sua poesia, "l'anima non è più
che uno sguardo celeste"(Ein blazer Augenblick ist
nur mehr Seele)("Infanzia", v. 8).
In un'intervista del 1976 Wenders affermava che, "nelle
incisioni, i paesaggi sono ridotti a pure forme, come se
stessi strizzando gli occhi e vedessi solo le forme".
Questo singolare "atto di vedere" "per sottrazione"
viene sottolineato dall'affermazione di Wilhelm in "Falso
movimento" che dichiara "occorre chiudere gli
occhi per vedere un paesaggio". In "Alice nelle
città" la stessa piccola Alice, di fronte alla
polaroid scattata da Felix, dal finestrino dell'aereo, che
riproduce le nuvole del cielo esclama, "è bella
questa foto... così vuota!". Anche qui il cielo,
il vuoto dell'immagine, coincide con l'"a priori"
del fenomeno, ossia con il non-luogo dello sguardo dell'angelo.
In "Fino alla fine del mondo", film che abbiamo
scelto come documento di partenza e filo conduttore di queste
nostre considerazioni, il tema faustiano dello scienziato-maledetto,
Heinrich Farber che, letteralmente, "vuole restituire
la vista ai ciechi", va inteso proprio come esemplificazione
"a contrariis" dell'ascetismo dell'immagine. L'ipertrofia
dell'immagine che, in tutto il film in questione, viene
testimoniata dalla presenza ossessiva di schermi e di riproduzioni,
si contrappone alla semplicità visiva del deserto
australiano - com'è noto dal tempo degli anacoreti
della Tebaide, il deserto è il luogo d'elezione degli
asceti e Wenders vi aveva già alluso nella seconda
parte di "Paris, Texas" (1984) - e al desiderio
di Edith Farber, moglie dello scienziato faustiano e madre
di Sam, il cacciatore di immagini, a cui importa più
la "presenza" del figlio, il sentire dei sentimenti,
che il "poter vedere" la sua immagine, ossia il
sentire della percezione. Come dice la voce narrante, mentre
Sam, presso il saggio giapponese Mr. Mori - interpretato
da Ryu Chishu, l'attore preferito di Ozu -, viene guarito
dalla malattia agli occhi prodotta dallo sforzo nell'impiego
della macchina che registra il fenomeno biochimico della
vista, "l'occhio non vede allo stesso modo del cuore".
Questa stessa "vista del cuore", propria degli
aborigeni australiani che collaborano con Farber, fa comprendere
perché la fredda visione tecnologica riprodotta dallo
scienziato faustiano (cieco nel cuore perché non
vede l'amore del figlio) spinga Edith, la madre, a lasciarsi
morire. La visione rende tristi, toglie la voglia di vivere,
"chi aveva occhi per vedere", aggiunge la voce
fuori campo (e questi occhi sono, ovviamente, gli "occhi
del cuore"), "se ne rendeva conto".
Ecco allora che nella scena patetica della morte di Edith
questa contrapposizione fra "visione" e "vita"
appare in tutta la sua evidenza. A Farber che la richiama
alla vita mediante le seduzioni della "visione del
mondo" Edith risponde, infatti, "il mondo non
è affatto vivo" e prosegue affermando che "la
vita finisce ma io "finalmente" ho visto".
Vorrei sottolineare il significato strettamente etimologico
di questo "finalmente" - "at last",
"da ultimo", "alla fine" -, in cui è
chiaro il senso catastrofico di questo vedere "alla
fine della vita". Di conseguenza, è come se
Edith dicesse che "è perché ho visto
di quel vedere che uccide la vita che la vita stessa finisce".
Ecco l'altra traduzione di "apocalisse", la traduzione
che legge l'"apocalisse" come l'accadere della
"catastrofe" e della "morte", solo che
qui ad essere "portatrici di morte", "todesboten"
come diceva Fritz Munro in "Lo stato delle cose";
non sono soltanto le "storie", ma anche un certo
tipo di immagini. "Come le parole possono uccidere",
dichiarava Wenders, in un'intervista successiva a l'uscita
di "Fino alla fine del mondo", "credo che
anche le immagini, e non certo da oggi, possano farlo"("L'atto
di vedere", cit. p. 51). In "Fino alla fine del
mondo" si allude al superamento di questa "iconodulia",
ossia schiavitù dell'immagine, mediante il ricorso
al canto e alla parola, ma anche, ricollegandoci a quanto
dicevamo prima, alla cura amorosa dell'immagine stessa,
sì che all'immagine portatrice di morte, all'immagine
micidiale della tecnica, possa infine contrapporsi un'immagine
più semplice, portatrice di vita e d'amore. Abbiamo
già ricordato, all'inizio, come Claire venga disintossicata
dalla droga delle immagini oniriche mediante la lettura
del romanzo di Eugene, "Una danza intorno al pianeta",
romanzo che è la stessa storia narrata dal film,
ma che soprattutto è la testimonianza dell'amore
di suo marito per lei. Nella versione proiettata nelle sale
poco spazio è dato, invece, alla descrizione della
guarigione di Sam Farber (William Hurt). "La guarigione
di Sam", raccontava Wenders nella stessa intervista
appena citata, "è stata un po' accorciata nel
film. In realtà, lui guariva immergendosi nel paesaggio
ed esercitandosi nel disegno. Purtroppo le scene sono state
tagliate. Sam dipingeva rocce e fili d'erba e, come succede
a Eugene con le parole, ritrovava la semplicità di
un'arte originaria, slegata dalla tecnica.
Restava seduto a dipingere acquarelli, e ritrovava così
uno stato di benessere. La nostra storia prevedeva, quindi,
una guarigione legata alle immagini. L'atto di magia, di
dormire tra i due vecchi, era soltanto una parte del processo"
("L'atto di vedere", cit. p. 53).
Il tratto comune di queste guarigioni, al di là della
critica alla tecnica che, come abbiamo detto in precedenza,
non ci pare essenziale per la loro interpretazione, è
che l'atto di rappresentare - nella pittura, così
come nella scrittura - è ricondotto ad un semplice
atto d'amore. Solo l'amore, si diceva, rende l'immagine
vera e necessaria. Viene in mente quanto si augurava il
giovane Wilhelm, in "Falso movimento", quando
pensava allo scrivere come ad un atto naturale e spontaneo,
quale il mangiare o il camminare: "vorrei poter scrivere
qualcosa", egli diceva, "che sia assolutamente
necessario, come una casa o un bicchiere di vino, la sera".
Questa semplicità la troviamo nella "brocca"
che Edith, la cieca a cui la tecnica del dottor Farber ridà
la vista, scorge sul tavolo accanto alla figlia e alla nipote,
famigliari che vede, entrambi, per la prima volta, più
con il cuore, tuttavia, che mediante lo stesso espediente
tecnico. D'altra parte la "Brocca" non pare innocentemente
posta su quel tavolo da Wenders, dal momento che almeno
due dei maggiori pensatori del Novecento, Ernst Bloch e
Martin Heidegger, hanno usato l'esempio determinato della
brocca per risalire al momento elementare dell'"esperienza
autentica" (Bloch, in una splendida sezione di "Spirito
dell'utopia", del 1918, Heidegger, nel saggio su "La
cosa" (Das Ding), del 1950). La brocca, come il bicchiere
di vino e la casa del Wilhelm di "Falso movimento",
rappresenta un emblema della familiarità e della
quotidianità dell'immagine, della capacità,
evocativa di storia, che ogni cosa racchiude in corrispondenza
con uno sguardo che sappia interrogarla ed ascoltarla. Scrive
Wenders, subito dopo la lavorazione di "Fino alla fine
del mondo": "Nel corso degli ultimi anni ho lavorato
in Australia e ho avuto la fortuna di conoscere gli aborigeni.
E mi ha sorpreso che per loro ogni singola conformazione
del paesaggio incarni una figura del loro passato mitico.
Ogni collina, ogni roccia porta in sé una storia
intimamente legata alla loro epoca mitica. E mi è
tornato in mente come anch'io, da bambino, nutrissi simili
convinzioni. Un albero non era semplicemente un albero,
ma anche uno spettro; e i profili delle case avevano tratti
umani. C'erano case serie, case truci e case amichevoli.
Un fiume poteva mettere paura, ma anche dare pace. Le strade
avevano una personalità; alcune le evitavo, in altre
mi sentivo al sicuro. Le montagne e i profili dell'orizzonte
erano i riflessi di certe nostalgie e desideri, e ricordo
ancora la mia paura di fronte a una grande roccia, in un
bosco, che chiamavamo la "donna seduta". I paesaggi
e le immagini delle città evocano nei bambini emozioni,
associazioni, idee, storie. Diventando adulti tendiamo a
dimenticarle, perché impariamo a difenderci dal "nostro
sapere infantile", che "si affidava molto più
ai nostri occhi: ciò che vedevamo determinava la
coscienza di noi stessi e dei nostri luoghi""
("L'atto di vedere", cit. p. 89). Ancora una volta,
quindi, l'approfondimento fenomenologico delle immagini
e l'appello allo sguardo infantile come "sguardo del
cinema" - elementi, questi, presenti con forza nei
primi film di Wenders -, non vengono rinnegati, bensì
sussunti nell'ambito della nuova fiducia nella storia e
nella narrazione che compare nella seconda fase della parabola
creativa del regista tedesco. Adesso, tuttavia, l'immagine
si è liberata dall'astratta oggettività dello
sguardo fenomenologico ed è divenuta responsabile
del suo stesso sguardo.
In "Alice nelle città" Felix usava la sua
polaroid come una pistola, per sparare le immagini sugli
oggetti. Analogamente, più di vent'anni dopo, in
"Lisbon Story", il regista Friedrich afferma che
"puntare una cinepresa è come puntare un fucile".
Parlando delle sue foto e sul fatto che la morte ne fosse
il soggetto ricorrente, Wenders ha affermato che "io
credo che l'amore sia qualcosa che non si può fotografare...
Per quanto riguarda la morte, la fotografia ne evoca immediatamente
l'idea: perché ha a che fare col tempo, con la fine
del tempo, con l'eternità". Secondo l'interpretazione
di Cesare De Seta qui Wenders formulerebbe "un sillogismo
che rivela la trama meno evidente della sua poetica":
"il fotogramma è eternità, dunque morte,
mentre il cinema, la sequenza dei fotogrammi è lo
scorrere del tempo, dunque la vita, cioè amore"(AA.
VV., "Wim Wenders, il cinema dello sguardo", cit.
p. 45). Non credo di poter concordare con quanto dice De
Seta, almeno finché non si sappia distinguere fra
il fotogramma del cinema che, come ha spiegato Gilles Deleuze
("L'immagine-movimento", cit. pp. 16-24), è
sempre "sezione immobile" del movimento, e la
fotografia tradizionale, in quanto "posa eterna".
"Il cinema", scrive Deleuze, "è il
sistema che riproduce il movimento in funzione del "momento
qualsiasi"" ("L'immagine-movimento",
cit. p. 17). Al contrario, la fotografia d'arte parte dalla
fissazione di un "istante privilegiato", la cosiddetta
"posa". Qui Deleuze denuncia l'appartenenza della
fotografia ad un orizzonte estetico ancora condizionato
dalla metafisica, dove il movimento viene ricomposto a partire
da elementi formali trascendenti ("le pose", appunto),
mentre il cinema, in conformità con l'antimetafisica
della scienza moderna, ricostruirebbe il movimento a partire
da elementi materiali immanenti ("le sezioni").
Allora, le pose sarebbero l'"analogon" esemplaristico
dell'idea platonica, mentre le sezioni avrebbero una caratteristica
del tutto accidentale e quantitativa (assolutamente casuale,
come le 18 immagini/secondo del cinema delle origini, corrette,
in seguito, nelle 24 immagni/secondo del cinema attuale).
Il ricorso strumentale alla polaroid - tema ricorrente in
tutti i film di Wenders - può essere visto, quindi,
non solo come la scelta per un mezzo riproduttivo che produce
solo originali (la polaroid, com'è noto, non ha negativo),
ma anche come il tentativo di sfuggire alla fissità
costitutiva della "posa", essa sì "mortifera",
come interpreta De Seta. Tuttavia, è anche ben nota,
sin da "Alice nelle città", la critica
che Wenders svolge nei confronti delle stesse riproduzioni-polaroid,
quelle che una volta si chiamavano "istantanee"
che, diceva Felix, "non riproducono mai ciò
che si vede". Del resto esse non lo riproducono, perché
"isolano" l'"oggetto dell'immagine"
dal "chi", ossia dal "soggetto della visione".
In questo senso l'"immagine-movimento" del cinema
non allude alla vita solo per la sua peculiare prerogativa
tecnica (la sezione invece della posa), ma perché
in essa il movimento della camera riproduce il flusso vitale
in simmetria con il movimento delle cose che stanno all'interno
dell'inquadratura, evocando la relazione di un movimento
soggettivo-oggettivo. Tipiche del cinema di Wenders sono,
infatti, le inquadrature in movimento di cose in movimento,
che bene si esprimono, del resto, nel grande tema narrativo
del "viaggio" e nella preferenza estetica per
la rappresentazione dei "mezzi di trasporto" di
qualsiasi genere (paradigmatica, in proposito, la celebre
sequenza de "Lo stato delle cose", con Fritz in
auto, presso l'aereoporto di Los Angeles, mentre i velivoli
atterrano e decollano). Ecco allora che l'antitesi fra "foto/istante/morte"
e "cinema/durata/vita" può essere letta,
in realtà, come antitesi fra "isolamento"
e "relazione".
La foto, diceva Wenders, "ha a che fare col tempo,
con la fine del tempo, con l'eternità", in quanto
si isola dalle altre immagini ma, soprattutto, perché
simula un'autosufficienza emotiva che aspira ad elidere
la reciprocità dello sguardo. L'alternativa si sposta,
dunque, fra chi crede che ""l'immagine sia tutto""
(per esempio Felix nella prima parte di "Alice nelle
città", ma anche il dottor Farber di fronte
alle immagini dei sogni riprodotte dal computer), e chi
crede, invece, che ""l'immagine non sia tutto"",
(la piccola Alice e Claire di fronte alle stesse immagini
oniriche di Farber). Chi crede che l'immagine sia tutto
si perde narcisisticamente nell'immagine, vi si rispecchia,
come i drogati di sogni del terzo finale di "Fino alla
fine del mondo". Il fautore dell'immagine totalizzante
e totalitaria non traduce l'immagine in un atto d'amore,
come invece fa Sam Farber, che gira il mondo per raccogliere
immagini "per amore della madre". Piuttosto chi
si specchia nell'immagine, e non vede altro che l'immagine,
ha a che fare con la "fine del tempo", con l'"eterno
passato" quale ci è dato nella fissità
mortale della posa fotografica. L'immagine totalizzante
e totalitaria è, infatti, portatrice di morte, come
le storie, nel celebre dialogo rivelativo fra Fritz e Gordon,
all'interno del camper, in conclusione de "Lo stato
delle cose".
Lì Fritz Munro dirà che "come c'è
il soggetto", cioè la storia, "la vita
se ne va", sicché "tutto viene compresso
nelle immagini". Allora "tutti i soggetti raccontano
la morte" e, infine, - si tratta di una delle ultime
battute del film (l'ultima sarà la messa in guardia
di Gordon, "occhi aperti") - Fritz sentenzierà:
"la morte... non c'è nient'altro. È la
più grande storia del mondo, seconda soltanto alle
storie d'amore". La morte può essere la più
grande storia del mondo solo se non c'è l'amore,
solo se si riesce a mettere l'amore tra parentesi. Ecco
che il finale de "Lo stato delle cose" annuncia,
in qualche modo, il tema di "Fino alla fine del mondo"
che, come si evince dai primissimi appunti sul film tratti
dai quaderni di Wenders del maggio 1984, si propone come
"un film d'amore. Un film sull'amore. Benché
nessuno sappia cosa sia l'amore. Quindi un film per scoprire.
E poiché i film su un argomento sono pensabili solo
in quanto si trasformano in ciò di cui trattano questo
film "sull'amore" diventerà anche un film
"nel", "con", "di", "per",
"a favore" e "contro l'amore""("L'atto
di vedere", cit., p. 11). Proseguendo in queste annotazioni,
Wenders definiva l'amore il "miglior soggetto"
per il cinema "da quando esiste". Tuttavia, aggiungeva,
ai giorni nostri, bisogna constatare che "il cinema
ha fallito sul suo soggetto privilegiato". Ci dobbiamo,
quindi, interrogare se, forse, l'amore non sia "fuori
luogo" proprio "nel mondo delle immagini".
Ecco la sfida da superare: "so che per me è
venuto il momento", scrive Wenders, "adesso o
mai più, di raccontare la storia a cui finora mi
sono sottratto: una storia d'amore. Assolutamente. Una storia
in cui l'amore sia possibile, funzioni, un amore vero, che
vinca anche nel finale. A ogni costo. Contro ogni sorta
di falsa coscienza [...] Col coraggio della disperazione,
e la gioia di una scelta audace. Nonostante tutto e tutti,
e se necessario "Fino alla fine del mondo""("L'atto
di vedere", cit., p. 12).
"Fino alla fine del mondo" è, allora, il
tentativo di superare l'"impasse" della morte,
prodotta vuoi dalle storie e vuoi dalle immagini - il cinema
come "la morte al lavoro", secondo la nota espressione
di Cocteau -, mediante una storia d'amore raccontata nel
mondo delle immagini. Sin dai primi abbozzi della sceneggiatura,
buttati giù dallo stesso Wenders e da Solveig Dommartin,
torna ricorrentemente una frase-guida tratta dai "Frammenti
di un discorso amoroso" di Roland Barthes. "Immagine",
scrive Barthes, "Nella sfera amorosa, le ferite più
dolorose sono causate più da ciò che si vede
che non da ciò che si sa" (Einaudi 1979, p.
105). Il vedere, per l'amore, è spesso una ferita.
Nel film questo tema viene ripetuto più volte. In
modo più deciso, come abbiamo visto, nella sofferenza
di Edith Farber, che muore perché "finalmente
ha visto". La morte di Edith rappresenta il secondo
finale del film che, nella sua scrittura devastata dal montaggio
(Wenders ne ha apprestato una versione più accettabile,
dal punto di vista dell'autore, che dura più del
doppio dell'attuale, cioè quasi sei ore), sembra
avere almeno tre finali. Un primo finale coincide con l'abbattimento
del satellite nucleare indiano e con l'"effetto Nell",
ossia con il blocco di tutti i dispositivi elettromagnetici
(orologi, radio, TV, computer, motori ad avviamento elettrico,
ecc.). È risolto da Wenders con la splendida soluzione
dell'arresto del motore dell'aereo di Sam e Claire in volo,
mentre il paesaggio del deserto australiano riproduce le
fratture della crosta terrestre già viste nell'immagine
dell'inizio. "È la fine del mondo", ripetono
pacatamente i protagonisti. L'abilita di Wenders - mi pare
sia doveroso riconoscergliela - fa sì che la "fine
del mondo" coincida con l'istante, con l'arresto epifanico
del mondo. Nei "Vangeli apocrifi dell'infanzia"
e, in particolare, nell'"Apocrifo di Giuseppe del Protovangelo
di Giacomo", si dà questa descrizione dell'attimo
della nascita di Gesù: "io Giuseppe stavo camminando,
ed ecco che non camminavo più. Guardai per aria e
vidi che l'aria stava come attonita. Guardai alla volta
del cielo e la vidi immobile, e gli uccelli del cielo erano
fermi. Guardai a terra e vidi posata lì una scodella
e dei contadini sdraiati intorno, con le mani nella scodella,
e quelli che stavano masticando, non masticavano più,
e quelli che stavano prendendo del cibo non lo prendevano
più, e quelli che stavano portandolo alla bocca,
non lo portavano più, ma i visi di tutti erano rivolti
in alto. Ed ecco, delle pecore erano condotte al pascolo,
e non camminavano, ma stavano ferme; e il pastore alzava
la mano per percuoterle con un bastone, e la sua mano restava
per aria. Guardai la corrente del fiume e vidi che i capretti
tenevano il muso appoggiato e non bevevano [...] insomma,
tutte le cose, in un momento, furono distratte dal loro
corso" ("I vangeli apocrifi", tr. M. Craveri,
intr. G. Pampaloni, Einaudi 1969, pp. 5-ss.).
Analoga scena ci viene descritta dal "Vangelo dell'infanzia
del Salvatore". "Nel più grande silenzio,
in quel momento, si sono fermate, tremanti, tutte le cose:
infatti, cessarono i venti, non dando più il loro
soffio, non s'è più mossa alcuna foglia degli
alberi, non s'è più udito alcun rumore di
acque, non scorsero più i fiumi, non ci fu più
il flusso del mare, tacquero tutte le fonti di acqua, non
risuonò più alcuna voce umana: c'era un grande
silenzio. In quel momento, lo stesso polo cessò l'agile
movimento del suo corso; le misure delle ore erano quasi
tramontate. Con timore grande, tutte le cose tacevano stupite,
mentre noi eravamo nell'attesa della venuta della maestà,
del termine dei secoli" ("Apocrifi del Nuovo Testamento",
a cura di L. Moraldi, UTET 1971, vol. I, pp. 119-ss.). Tutti
questi testi apocrifi, tuttavia, non fanno che tradurre,
trasportandolo sulla scena della Natività, ciò
che Paolo, nella "Prima Lettera ai Corinti", attribuiva
all'istante finale: "ecco, io vi annunzio un mistero:
non tutti, certo, moriremo, ma tutti saremo trasformati,
in un istante (en atòmo), in un batter d'occhio (en
rhipè ophthamoù), al suono dell'ultima tromba"
(1 Cor. 15,51-52). Un secondo finale, abbiamo detto, è
la morte di Edith, dove si manifesta il potere distruttivo
e apportatore di morte dell'immagine che, come diceva Barthes,
nella sfera amorosa produce ferite più dolorose del
sapere. Siamo già "dopo la fine del mondo".
È il febbraio del 2000. La voce del narratore fuori
campo dichiara: "credevamo che la storia fosse finita".
Un terzo finale, come si è visto, è quello
che vede la felice conclusione della vicenda della riproduzione
dei sogni. Qui l'immagine, dopo la prova della morte, che
è la prova del narcisismo, dell'autorispecchiamento
ipnotico nelle immagini private dei propri sogni, fa la
prova dell'amore, ossia dell'apertura all'altro e all'ascolto.
Eugene, lo scrittore, dichiara "credevo nella magia
e nella taumaturgia della parola e del racconto". Queste
parole non possono non ricordarci le frasi di un altro scrittore,
non immaginario come Eugene, anche se mirabilmente pseudonimico.
Si tratta del grande Pessoa, i cui splendidi pensieri intarsiano
le immagini di "Lisbon Story". Fra essi ricordiamo,
senza dubbio, quello che dice: "ascolto senza guardare
e così vedo". Ascoltare è, senza dubbio,
il modo in cui la violenza del vedere può apprendere,
dalla disposizione accogliente di un altro senso, l'udito,
la via per giungere al vedere dell'amore e, quindi, all'immagine
responsabile di una storia d'amore. Come diceva sempre la
parola di Pessoa, intercalata alle immagini di "Lisbon
Story" e sulla falsariga di una delle più belle
citazioni della "Prima Lettera ai Corinzi" di
Paolo: "se anche avessi il dono della profezia, potessi
svelare tutti i misteri e possedessi ogni conoscenza [...],
ma non avessi l'amore, allora non sarei nulla" (1 Cor.
13,2).
A. Tagliapietra, L'apocalisse delle immagini. Esegesi
del cinema di Wim Wenders a partire da "Fino alla fine
del mondo", in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.3 Novembre-Febbraio
2003/2004, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_3/1.htm