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Giovanni Ferrario, Deglutire la realtà

 

Giovanni Ferrario, Deglutire la realtà, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.3 Novembre-Febbraio 2003/2004, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_3/11.htm

 

La simulazione è una pratica condivisa, discorsiva e sempre contemporanea; come ogni pratica che frequentemente sfugge al controllo della logica. L'immagine della realtà di cui, a ragione, si diffida, non solo denuncia la piccolezza umana con cui, quotidianamente, ci si deve confrontare, ma anche quel perverso senso di abbandono in cui spesso si inciampa goffamente. Si cade in un iperrealismo che è il colmo del reale e dell'arte. Questa iperrealtà resta al di là della rappresentazione perché è completamente immersa nella simulazione. Come ricordava Proust "sentiamo in un modo, nominiamo in un altro", ed è per questa dislocazione imprevedibile che vale la pena gettarsi nella realtà multiforme e nella sua simulazione. Il pensiero e l'immagine sono le presentazioni critiche di ciò che vediamo, un'ipervisione del mondo. L'arte si è spesso confrontata con questo tipo di atteggiamento riflessivo; come il pensiero che pensa se stesso per ripensare a tutto il resto.



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La riflessione surrealista ci ha mostrato come la realtà quotidiana ha superato la finzione, ma oggi non viviamo più nell'allucinazione estetica di una realtà ma nell'esasperata simulazione di questa allucinazione. Si gioca sempre su più campi e la pratica simulatoria che è propria dell'arte non fa che sottolineare poeticamente le incongruenze con la realtà. Poiché il reale latita, l'arte che ha fortemente bisogno della materia, seppur nella sua forma più evanescente ed impalpabile, desidera riappropriarsene criticamente.
Ci sono molti esempi che, a partire dagli anni Novanta, lavorano sulla corrosione del reale per poterne dissimulare il senso. Ci sono opere in cui il gioco della cura verso un reale ormai in fuga da se stesso fa nascere sia una propensione verso un'indagine della produzione come piacere condiviso, sia una sorta di apoditticità della mimesi come simulazione di una realtà costantemente messa sotto una lente d'ingrandimento. Uno degli aspetti più interessanti che l'arte degli anni Novanta ha messo in luce è che non si arriva mai ad una rappresentazione simbolica ma ad una presentazione problematica dell'oggetto artistico.

Questa latenza simbolista ed espressionista tende al disvelamento totale del trucco. Non c'è inganno in cui l'occhio non possa permettersi di cadere e, tanto più è palese questo inganno, tanto più ci si diverte ad essere ingannati. Tuttavia, il piacere di essere caduti in trappola, nelle opere più raffinate, cede il passo alla riflessione sull'oggetto d'arte e sulla lettura della realtà che l'oggetto suggerisce. Sottovoce, l'opera ci introduce in un mondo simulato, ossia iperreale, tanto da farci vibrare e farci provare un senso di appartenenza e smarrimento di fronte all'ambiguità di questa presentazione.
Ciò che stimola il lato fantastico del pensiero è l'utilità dell'eccesso di realismo, mentre la gravità degli oggetti si smaterializza, si diffonde continuamente. Plasmare il mondo è un gioco squisitamente estetico, un gioco arcaico, fisico. La semplicità dei movimenti nello spazio è tanto più naturale quanto più ci si rende prossimi ad un'autocoscienza critica. Di fronte al mondo, ad un'opera d'arte, non si rimane passivi, ma si dà prova della propria vitalità. Spesso, le immagini hanno più controllo su di noi di quanto si sospetti; vi è in atto una potente dissimulazione. E' difficile mantenere il controllo di una bugia quando tutti pretendono di avere quello della verità.
Alla dissimulazione che colpisce la passività, si contrappone la simulazione del pensiero; una pratica che fonde analisi e poesia, accanto ad un raffinato cinismo. Glup! E la pillola sparisce nella zona d'ombra tra gli occhi e il cuore.

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Immagini

I. Glenn Brown, Little Deaths, olio su tavola, cm 54x68 (2000)
II. Tom Friedman, Untitled (plastic), plastica, capelli, cm 25,4x55,9 (2002)
III. Stefano Arienti, Senza Titolo, manifesti ritagliati e collage, cm 135x180 (1998)

IV. Gabriele Jardini, Senza Titolo, matite colorate su carta, cm 145x220 (1993/2003)