La simulazione
è una pratica condivisa, discorsiva e sempre contemporanea;
come ogni pratica che frequentemente sfugge al controllo
della logica. L'immagine della realtà di cui, a ragione,
si diffida, non solo denuncia la piccolezza umana con cui,
quotidianamente, ci si deve confrontare, ma anche quel perverso
senso di abbandono in cui spesso si inciampa goffamente.
Si cade in un iperrealismo che è il colmo del reale
e dell'arte. Questa iperrealtà resta al di là
della rappresentazione perché è completamente
immersa nella simulazione. Come ricordava Proust "sentiamo
in un modo, nominiamo in un altro", ed è per
questa dislocazione imprevedibile che vale la pena gettarsi
nella realtà multiforme e nella sua simulazione.
Il pensiero e l'immagine sono le presentazioni critiche
di ciò che vediamo, un'ipervisione del mondo. L'arte
si è spesso confrontata con questo tipo di atteggiamento
riflessivo; come il pensiero che pensa se stesso per ripensare
a tutto il resto.
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La riflessione
surrealista ci ha mostrato come la realtà quotidiana
ha superato la finzione, ma oggi non viviamo più
nell'allucinazione estetica di una realtà ma nell'esasperata
simulazione di questa allucinazione. Si gioca sempre su
più campi e la pratica simulatoria che è propria
dell'arte non fa che sottolineare poeticamente le incongruenze
con la realtà. Poiché il reale latita, l'arte
che ha fortemente bisogno della materia, seppur nella sua
forma più evanescente ed impalpabile, desidera riappropriarsene
criticamente.
Ci sono molti esempi che, a partire dagli anni Novanta,
lavorano sulla corrosione del reale per poterne dissimulare
il senso. Ci sono opere in cui il gioco della cura verso
un reale ormai in fuga da se stesso fa nascere sia una propensione
verso un'indagine della produzione come piacere condiviso,
sia una sorta di apoditticità della mimesi come simulazione
di una realtà costantemente messa sotto una lente
d'ingrandimento. Uno degli aspetti più interessanti
che l'arte degli anni Novanta ha messo in luce è
che non si arriva mai ad una rappresentazione simbolica
ma ad una presentazione problematica dell'oggetto artistico.
Questa latenza
simbolista ed espressionista tende al disvelamento totale
del trucco. Non c'è inganno in cui l'occhio non possa
permettersi di cadere e, tanto più è palese
questo inganno, tanto più ci si diverte ad essere
ingannati. Tuttavia, il piacere di essere caduti in trappola,
nelle opere più raffinate, cede il passo alla riflessione
sull'oggetto d'arte e sulla lettura della realtà
che l'oggetto suggerisce. Sottovoce, l'opera ci introduce
in un mondo simulato, ossia iperreale, tanto da farci vibrare
e farci provare un senso di appartenenza e smarrimento di
fronte all'ambiguità di questa presentazione.
Ciò che stimola il lato fantastico del pensiero è
l'utilità dell'eccesso di realismo, mentre la gravità
degli oggetti si smaterializza, si diffonde continuamente.
Plasmare il mondo è un gioco squisitamente estetico,
un gioco arcaico, fisico. La semplicità dei movimenti
nello spazio è tanto più naturale quanto più
ci si rende prossimi ad un'autocoscienza critica. Di fronte
al mondo, ad un'opera d'arte, non si rimane passivi, ma
si dà prova della propria vitalità. Spesso,
le immagini hanno più controllo su di noi di quanto
si sospetti; vi è in atto una potente dissimulazione.
E' difficile mantenere il controllo di una bugia quando
tutti pretendono di avere quello della verità.
Alla dissimulazione che colpisce la passività, si
contrappone la simulazione del pensiero; una pratica che
fonde analisi e poesia, accanto ad un raffinato cinismo.
Glup! E la pillola sparisce nella zona d'ombra tra gli occhi
e il cuore.
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Immagini
I.
Glenn Brown, Little Deaths, olio su tavola, cm 54x68
(2000)
II. Tom Friedman, Untitled (plastic), plastica, capelli,
cm 25,4x55,9 (2002)
III. Stefano Arienti, Senza Titolo, manifesti ritagliati
e collage, cm 135x180 (1998)
IV. Gabriele Jardini, Senza Titolo,
matite colorate su carta, cm 145x220 (1993/2003)
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