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Alessandro Tempi, Il nome e la cosa.
Per una genealogia del rapporto Arte-Tecnologia

 

A. Tempi, Il nome e la cosa. Per una genealogia del rapporto Arte-Tecnologia, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.3 Novembre-Febbraio 2003/2004 (Numero doppio), URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_3/15.htm

 

1. Vi è, nel rapporto fra arte e tecnologia, qualcosa di essenziale e di originario che ne costituisce in qualche modo il contrassegno di reciprocità. Lo aveva magistralmente intuito Heidegger quando parlava del legame fatalmente infranto fra poiesis e téchne, vale a dire fra i due processi creativi di cui l'uomo originario disponeva per analogare ed essere consonante con la physis (la natura). Questa reciprocità, che nel discorso heideggeriano non rimanda tanto ad una scambievolezza, quanto semmai a qualcosa di parallelo (come due rette destinate ad incontrarsi nell'infinito) in cui può metaforizzarsi l'appartenenza di entrambe ad un identico destino [1], riecheggia del resto in tutto il pensiero estetico della Grecia antica, per il quale l'aspetto poietico (ciò che propriamente oggi sarebbe "arte") della creatività umana andava ad identificarsi nella poesia, mentre quello tecnico (ciò che per quel pensiero era invece "arte") si sistematizzò nelle molteplici forme della prassi teorico-metodica [2].
E' Platone, fra il V ed il IV secolo a.C., il primo filosofo che riscatta le téchnai dall'ambito puramente materiale-servile cui il pensiero greco arcaico le aveva relegate. Nello Ione, opera in cui egli svolge la sua dottrina dell'ispirazione poetica, Platone puntualizza la superiorità del poietés (poeta) sul technités (tecnico-artista) con argomenti che tuttavia sono ampiamente rivalutativi della funzione tecnica, la cui azione è riconosciuta ordinarsi a "principi e regole razionalmente posseduti, dimostrabili e discutibili"[3]. Per la conoscenza di principi generali che comporta e per la metodica razionale che applica (da cui dipende il suo eventuale fine effettuale), la téchne entra a buon diritto in connessione con l'epistéme, ovvero con la scienza [4].
Questa connessione, nel IV secolo a.C., rimane molto forte anche nel pensiero di Aristotele, nel cui ambito essa si sviluppa ulteriormente come legame fra conoscenza e metodo, fra speculazione e prassi. Il filosofo è come al solito estremamente preciso nella sua enunciazione: "ogni arte (téchne) riguarda la produzione e il cercare con l'abilità e la teoria come possa prodursi qualcosa (...) il cui principio è in chi produce e non in ciò che è prodotto" [5]. Quest'ultima puntualizzazione è di importanza decisiva, poiché individua nelle téchne un principio di causa efficiente che rimarrà pressoché inalterato nella successive accezioni della tecnica.

2. L'assetto concettuale della téchne (la sua estensibilità a molteplici sfere disciplinari, la sua essenza metodico-pratica, il suo potenziale stato di know-how) sarà ereditato senza sostanziali alterazioni dalla cultura latina, che tuttavia accogliendo le indicazioni della teoria dell'arte aristotelica piuttosto che quelle dell'estetica speculativa platonica, accentuerà nell'ars gli aspetti tecnico-precettistici, in coerenza con l'orientamento pragmatico che caratterizza il suo universo di pensiero. Esemplare è a questo riguardo l'affermazione di Quintiliano per la quale "docti rationem artis intelligunt, indocti voluptatem"[6], in cui si sintetizza efficacemente la duplicità dei livelli di comprensione del fatto artistico: uno tecnico-compositivo, che è compito dei competenti individuare, l'altro più emotivo ed immediato, che punta tutto sul piacere della fruizione e che per questo è riservato ai non-competenti, ma da cui dipende peraltro il potenziale comunicativo dell'arte stessa, la sua capacità di veicolare e rendere fruibili i contenuti.

3. Gli sviluppi del pensiero medievale riconfermano l'impianto concettuale greco-latino della teoria dell'arte, di cui, aristotelicamente, continua ad esser enfatizzato il carattere oggettivo e regolistico (ciò che oggi chiameremmo l'aspetto tecnico dell'arte). La teoria medievale dell'arte si presente insomma, per molti versi, come una sorta di ricapitolazione "sub specie christiana" delle enunciazioni della tradizione classica, i cui motivi basilari possono essere così riassunti:

a) il legame di compresenza fra istanza conoscitivo-metodologica ed istanza pratico-produttiva, testimoniato da San Tommaso nella Summa Theologica ("Ars est recta ratio factibilium") non meno che da Alessandro di Hales nella Summa Alexandri ("Ars est principium faciendi et cogitandi quae sunt facienda");

b) la determinazione materiale del fare artistico: esso nasce da un bisogno la cui risoluzione dipende da una trasformazione intenzionale che l'uomo deve operare sulla natura ed in questo senso tutte le artes medievali, nella loro varietà e articolazione, si configurano come sistema (o sistematica) delle forme possibili di questa trasformazione;

c) il rapporto di determinazione che si stringe fra natura ed arte: questa assume valore ed identità allorché è posta in riferimento a quella; la natura è infatti il modello primale e perfetto che si offre all'uomo, il quale non può che imitarlo con le proprie tecniche. Ma secondo San Tommaso non si tratta di copiarne servilmente le forme: "Ars imitatur naturam in sua operatione"[7], il che significa che l'arte imita la natura nel suo stesso modo di operare. Questa puntualizzazione è fondamentale perché sancisce in modo sempre più decisivo la valenza conoscitiva dell'arte e la razionalità del suo metodo.

Proprio sul carattere metodico dell'arte aveva del resto già insistito Giovanni di Salisbury nel suo Metalogicon parlando a proposito della "facilitatem artis" (speditezza dell'arte) come mezzo economico di riproduzione dei processi naturali.
Ciò nonostante, la mentalità medievale si dimostra nel complesso poco incline a concepire l'arte come forza creatrice autonoma, giacché per motivi che potremmo definire teologici essa rimane sempre seconda rispetto alla natura: "Ars operatur ex materia quam natura ministrat", sosterrà l'Aquinate[8], come a dire che ciò che l'arte produce pertiene sempre e comunque ad una razionalità imperfetta, mentre la sostanza delle cose è tale per partecipazione divina.
Il pensiero medievale pone mano, comunque, ad una vasta ed articolata sistematica delle artes (San Tommaso ne distinguerà 55 tipi diversi) che rielabora il canone della tradizione classica. Il sistema continua a fondarsi sulla distinzione fra arti liberali (le discipline del Trivio - grammatica, retorica, dialettica - e del Quadrivio - geometria, musica, astronomia, aritmetica) ed arti meccaniche o servili, che secondo lo schema proposto da Ugo di S.Vittore nel Didascalicon comprendono: tessitura, nautica, edilizia (di cui pittura e scultura sono considerate semplici appendici), agricoltura, caccia, medicina, arte teatrale. Non vi è dubbio che tale partizione riproduca sostanzialmente quella già formulata da una tradizione di pensiero che risale alla cultura greca, che distingueva fra attività immateriali (il sapere puramente speculativo come esercizio dell'uomo libero) ed attività materiali (che richiedono manipolazione fisica, manualità e per questo spettano agli schiavi), ripresa nel mondo latino con la contrapposizione fra otium e negotium[9].
E' lecito chiedersi da cosa dipenda questa continuità di concezione, che cosa la assicuri, dal momento che rimarrà egemone per molti secoli almeno fino al Rinascimento. Il fatto è che proprio per tutto questo lunghissimo periodo continuerà a mancare un'autentica consapevolezza di ciò che modernamente sarà chiamato lo "specifico artistico" (vale a dire l'idea della creazione artistica come fatto autonomo che obbedisce unicamente a leggi e fini del tutto propri) e per via di questa mancanza l'arte rimarrà strettamente legata e/o determinata dalla ritualità della vita sociale e religiosa entro cui e per cui essa è chiamata ad operare. In questa prospettiva, questa continuità di concezione va letta anche come continuità degli elementi oggettivi che la sottendono:

a) la salda connessione fra artistico (il senso proprio dell'arte) ed estetico (il suo grado di fruibilità e quindi di comunicabilità);

b) il fatto che la gerarchia delle arti non risponde ad un criterio tecnico (qualcosa cioè che è insito nello statuto e nelle finalità delle singole attività), ma ad una precisa determinazione sociale (la divisione fra lavoro e non-lavoro che è frutto di una visione classistica-intellettualistica che è espressa tanto dall'ideologia oligarchica greco-latina quanto da quella della società feudale). Ciò concorre a spiegare anche il paradosso già rilevato da Etienne..Gilson[10] per le artes medievali: più esse realizzano la loro essenza tecnico-produttiva, più in basso sono collocate nella scala gerarchica ed intellettuale del sistema sociale e culturale che le comprende.

4. Alle soglia del Rinascimento (XV secolo) un fenomeno totalmente nuovo prende a delinearsi nel panorama della riflessione teorica sull'arte ed è il processo di ricollocazione dell'arte nella cultura e dell'artista nella società. L'immagine moderna dell'artista, quella che noi conosciamo anche in base alla storiografia, discende proprio da questo processo e va a coincidere col progressivo secolarizzarsi della cultura, alla quale gli ideali umanistico-rinascimentali non assegnano più o non solo compiti di mera ricapitolazione delle conoscenze del passato.
Di questo vasto processo di ricollocazione che si stenderà lungo l'arco di almeno due secoli, fino al Barocco, due fenomeni si pongono alla nostra attenzione:

a) con esso matura per la prima volta una consapevolezza tecnica delle arti cui daranno positivo impulso, prima ancora che le discussioni cinquecentesche di carattere regolistico intorno alla Poetica di Aristotele, quelle intorno ai fondamenti scientifici delle arti figurative, che proprio per la loro riconosciuta peculiarità cominciano ad essere considerate come un insieme unitario di discipline, separate dalle tecniche e dai mestieri;

b) la figura dell'artista, acquisendo ruolo e significato propri nel contesto sociale e culturale, tende a distinguersi da quella del tecnico e dello scienziato, pervenendo a quell'autonomia che sarà il suo segno distintivo nell'età moderna. Ciò va del resto letto come un aspetto di quella diversificazione e specializzazione dei ruoli intellettuali che caratterizzerà lo sviluppo della cultura in senso moderno.

Paradigmatiche del primo fenomeno sono le figure di L.B.Alberti e di Leonardo da Vinci. All'Alberti si deve la prima formulazione di una moderna "theorica delle arti" in cui pittura, scultura ed architettura si attestano come discipline specifiche fondate sull'imitazione razionale delle leggi fisiche che governano la natura. Nel De Pictura (1435) la teoria artistica dell'Alberti giunge ad esplicitare una matura consapevolezza del fondamento scientifico della rappresentazione pittorica grazie all'individuazione, con le leggi della prospettiva, delle sue condizioni oggettive di sussistenza. Solo in questa chiave la pittura è suscettibile di attestarsi come "scienza della visione" capace di garantire la fedeltà al reale.
Più radicale si dimostrerà dal canto suo Leonardo, per il quale l'arte figurativa è scienza senza mezzi termini e non solo perché la sua capacità di rappresentazione dipende da rigorose conoscenze tecnico-scientifiche, ma perché a differenza del sapere letterato (verso cui notoriamente egli dimostra profonda diffidenza), che è qualcosa di mentale e di astratto, la pittura è unità di metodo e di esperienza sensibile, di ideazione e realizzazione e proprio per questa sua duplicità essa si candida a forma particolarissima di conoscenza della natura. Se è lecito fare collegamenti un po' tendenziosi, potremmo dire che l'accentuazione del momento progettuale tipica di esperienze moderne quali il Bauhaus trova sicuramente nel pensiero di Leonardo un valido anticipatore.
Diversamente dal fervore scientifizzante dell'Alberti e di Leonardo, Giorgio Vasari affronta invece la questione del ruolo dell'artista - col che diamo testimonianza del secondo dei fenomeni sopra delineati - nell'ambito concreto della società. Con le "Vite" (1550), opera storiografica quanto teorica, egli inaugura una nuova concezione dell'artista il cui profilo specifico si differenzia dal mero artigiano quanto dal prototipo leonardesco, sviluppando nel contempo un discorso unitario sui problemi peculiari delle arti figurative, cui egli si riferisce, sulla scia dell'Alberti, come un insieme omogeneo discipline ben differenziate dalle tecniche e dai mestieri.
Le interferenze e gli sconfinamenti di ascendenza umanistica fra arte e scienza rimarranno peraltro un leitmotiv della cultura del Seicento, tanto che Charles Perrault, cui pure si deve la prima adozione del termine "beaux arts" in sostituzione dell'obsoleto "arti liberali", includerà fra queste anche l'ottica e la meccanica.

5. La rivoluzione filosofico-scientifica del Seicento introduce nuovi criteri epistemologici (sperimentalità, sistematicità, comunicabilità) a guida delle attività conoscitive, configurando un nuovo modello di sapere basato su un rigoroso concetto di metodo. Matura in tale nuovo contesto anche il divorzio fra arte e scienza, cui concorre in maniera determinante l'esito della cosiddetta "Querelle des Anciens et des Modernes", espressione che designa il dibattito sviluppatosi nella seconda metà del Seicento in Francia intorno alla valutazione dei progressi della cultura in paragone con i raggiungimenti della civiltà classica. La "Querelle" sorse in ambito strettamente letterario, ma ben presto sconfinò su temi filosofici ed estetici, aprendo la strada al nascente Illuminismo. Da essa si diffonde tuttavia l'idea di una diversificazione sempre più netta fra arte e scienza, che scorre lungo l'asse di antitesi quali soggettivo-oggettivo, metodo-creatività, regola-talento. Ma il suo effetto più significativo e duraturo si pone - almeno ai nostri fini - sul piano concettuale: arte comincia ad essere considerato come termine (ed ambito concettuale) diverso da ciò che fino ad allora esso aveva inteso designare (attività fondata su un impianto regolistico-procedurale razionale e formalizzato), il cui significato, per converso, va ricercato in relazioni a nozioni quali fantasia, immaginazione, estro, intuizione, genio, qualità che ben difficilmente potrebbero essere compendiabili in un sistema di regole oggettive.
La parola definitiva sulla via di una concezione moderna dell'arte viene tuttavia da Charles Batteux nella sua opera fondamentale Le Belle Arti ricondotte ad un Unico Principio (1746), che non è un manuale od una raccolta di precetti (come nella tradizione cinque-secentesca), bensì un'avvertita analisi delle manifestazioni dell'arte condotta sulla scorta di un principio unificatore che giustifica la loro organizzazione sistematica: il principio di imitazione della natura. Batteux configura per la prima volta l'arte come "un mondo a parte" nell'universo della vita spirituale dell'uomo, a cui hanno legittimo accesso tutte quelle problematiche tradizionalmente afferenti alla riflessione estetica, ma che sotto il suo impulso sistematico pervengono ad una nuova maturità di concezione, in coerente linea con le tendenze razionalistiche della cultura francese del Settecento. Ma ciò che vi è di più propriamente moderno è la definizione della sfera statutaria delle "belle arti" in sé ed in relazione alle altre discipline che compongono il sistema: ecco dunque che la gerarchia delle arti risponde a principi formali di ottemperanza (in grado discendente: piacere, utilità, bisogno) e la produzione del "bello" (la qualità che sola suscita l'innesco del piacere estetico) non va subordinata ad altri valori di riferimento. Il "bello" non è più insomma, come volevano gli Scolastici, la possibile via d'accesso degli indotti verso la "ratio" dell'opera, ma il suo fine stesso, il perché la si produce. Ed è anche esattamente ciò che separa ed eleva le "belle arti" da ogni altra attività umana. Un secolo dopo il divorzio fra arte e scienza, si viene così a consumare con Batteux quello, durato secoli, fra arte e tecnica.

6. Da questo sommario excursus possiamo ora trarre alcune utili conclusioni:

a) l'idea moderna di arte (già introdotta col termine "belle arti" nel Seicento) si pone come un aspetto sintomatico delle dinamiche di separazione e di specializzazione dei ruoli intellettuali che si sovrappone, nella società protoindustriale europea, al coincidente processo di divisione del lavoro. Pertanto la produzione e la fruizione dell'arte diventano una unica sfera di attività autonoma il cui rapporto col contesto sociale avviene tramite forme ancora rudimentali di mediazione estetica (l'adesione intellettuale a quei valori estetici che fondano il fatto artistico);

b) l'arte diventa di conseguenza un' "attività estetica" e qui il ribaltamento rispetto alla concezione classico-rinascimentale è radicale: laddove le artes realizzavano la propria essenza nel momento tecnico-effettuale (produzione dell'utile, del corretto, del preciso, del conforme) dal quale necessariamente partiva la comprensione intellettuale dell'opera, lasciando il "bello" come quoziente collaterale o residuale che tuttalpiù poteva assolvere una funzione comunicativa, nella concezione moderna esso viene assunto come valore assoluto e fondante, formalmente scisso da ogni altra determinazione;

c) in tal senso, il divorzio fra arte e tecnica va letto principalmente come divorzio fra valori di riferimento, fra orizzonti culturali, in ultima analisi fra forme diversamente assestate di sapere. Il "mondo a parte" che l'arte si guadagna non si identifica pertanto solo nei fenomeni esteriori (musei, collezioni) che dal Settecento prendono corpo sulla scena sociale, ma nella lenta costruzione di un sistema di valori destinato a collidere con le istanze della storicità, che ne pongono a repentaglio, in molti casi, la sua stessa legittimità. Fra tali istanze attuali, la più determinante è senza dubbio quella del nesso fra arte ed universo tecnico, giacché è esattamente quella in cui si gioca il principio stesso della legittimità dell'arte nel mondo attuale. La tecnica è stata per secoli l'essenza della creazione artistica e l'oggetto precipuo della riflessione estetica. Poi almeno per due secoli ne è stata estromessa. Oggi torna ad interferirvi prepotentemente e non solo con i suoi prodotti immaginali, ma con la sua pervasiva "ovvietà" (il fatto che c'è e non ce ne accorgiamo), che ci richiama nondimeno a rivedere le nostre stesse idee sull'arte, e con la sua realtà di "saper fare" (quindi di "potere" anziché di "agire") verso cui l'attuale sistema (ma si sarebbe tentati di usare il termine heideggeriano "gestell"[11]) dell'arte si va oggi convertendo nella società tecnologica avanzata. Nell'originaria ambivalenza semantica di téchne sembra insomma racchiudersi un destino di reciprocità e rapporti continui cui l'arte, come in un ritorno al passato, non è capace di sottrarsi.

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[1] "La téchne appartiene alla produzione, alla poiesis; è qualcosa di poetico (Poietisches)": M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Firenze, 1991.
[2] Per Heidegger, l'operare creativo della poiesis ripercorreva il processo creazionale della natura, pertanto arte e impulso vitale andavano a coincidere. In questo quadro, anche la téchne trovava il suo posto fondamentale come produzione e conoscenza generativa che, al pari della physis, porta al vero essere. Cfr. G. Steiner, Heidegger, Mondatori, Milano, 1990.
[3] G.Vattimo, Estetica, in Dizionario di Filosofia, Milano, Garzanti, 1993.
[4] Proprio qui, per Heidegger, inizia il destino fatale della téchne: una volta associata all'epistéme, non solo partecipa della svalutazione platonica degli oggetti naturali e dei prodotti umana, ma si instrada verso quella conoscenza a fini di dominio che si svilupperà poi col modello aristotelico-cartesiano.
[5] Cit. in M. Modica, Che cos'è l'estetica, Editori Riuniti, Roma, 1987.
[6] Institutio Oratoria, IX,4,116.
[7] Summa Teologica, I, 117, 1.
[8] Sentencia Libri de Anima, II, 1.
[9] La distinzione, peraltro già stata formulata da Aristotele nella Politica (VIII, 2) e rimasta pressoché inalterata per tutto il Medioevo, rappresenta senza dubbio un'idea rigidamente gerarchica ed inalterabile di società, oltre che ribadire, nel loro allontanarsi o avvicinarsi alla fabrilità, l'opposizione fra anima e corpo tipica del Medioevo cristiano.
[10] E. Gilson, Peinture et réalité, 1958, pag. 121.
[11] M. Heidegger, La questione della tecnica, cit.