1.
Vi è, nel rapporto fra arte e tecnologia, qualcosa
di essenziale e di originario che ne costituisce in qualche
modo il contrassegno di reciprocità. Lo aveva magistralmente
intuito Heidegger quando parlava del legame fatalmente infranto
fra poiesis e téchne, vale a dire fra i due processi
creativi di cui l'uomo originario disponeva per analogare
ed essere consonante con la physis (la natura). Questa reciprocità,
che nel discorso heideggeriano non rimanda tanto ad una
scambievolezza, quanto semmai a qualcosa di parallelo (come
due rette destinate ad incontrarsi nell'infinito) in cui
può metaforizzarsi l'appartenenza di entrambe ad
un identico destino [1], riecheggia del resto in tutto il
pensiero estetico della Grecia antica, per il quale l'aspetto
poietico (ciò che propriamente oggi sarebbe "arte")
della creatività umana andava ad identificarsi nella
poesia, mentre quello tecnico (ciò che per quel pensiero
era invece "arte") si sistematizzò nelle
molteplici forme della prassi teorico-metodica [2].
E' Platone, fra il V ed il IV secolo a.C., il primo filosofo
che riscatta le téchnai dall'ambito puramente materiale-servile
cui il pensiero greco arcaico le aveva relegate. Nello Ione,
opera in cui egli svolge la sua dottrina dell'ispirazione
poetica, Platone puntualizza la superiorità del poietés
(poeta) sul technités (tecnico-artista) con argomenti
che tuttavia sono ampiamente rivalutativi della funzione
tecnica, la cui azione è riconosciuta ordinarsi a
"principi e regole razionalmente posseduti, dimostrabili
e discutibili"[3]. Per la conoscenza di principi generali
che comporta e per la metodica razionale che applica (da
cui dipende il suo eventuale fine effettuale), la téchne
entra a buon diritto in connessione con l'epistéme,
ovvero con la scienza [4].
Questa connessione, nel IV secolo a.C., rimane molto forte
anche nel pensiero di Aristotele, nel cui ambito essa si
sviluppa ulteriormente come legame fra conoscenza e metodo,
fra speculazione e prassi. Il filosofo è come al
solito estremamente preciso nella sua enunciazione: "ogni
arte (téchne) riguarda la produzione e il cercare
con l'abilità e la teoria come possa prodursi qualcosa
(...) il cui principio è in chi produce e non in
ciò che è prodotto" [5]. Quest'ultima
puntualizzazione è di importanza decisiva, poiché
individua nelle téchne un principio di causa efficiente
che rimarrà pressoché inalterato nella successive
accezioni della tecnica.
2.
L'assetto concettuale della téchne (la sua estensibilità
a molteplici sfere disciplinari, la sua essenza metodico-pratica,
il suo potenziale stato di know-how) sarà ereditato
senza sostanziali alterazioni dalla cultura latina, che
tuttavia accogliendo le indicazioni della teoria dell'arte
aristotelica piuttosto che quelle dell'estetica speculativa
platonica, accentuerà nell'ars gli aspetti tecnico-precettistici,
in coerenza con l'orientamento pragmatico che caratterizza
il suo universo di pensiero. Esemplare è a questo
riguardo l'affermazione di Quintiliano per la quale "docti
rationem artis intelligunt, indocti voluptatem"[6],
in cui si sintetizza efficacemente la duplicità dei
livelli di comprensione del fatto artistico: uno tecnico-compositivo,
che è compito dei competenti individuare, l'altro
più emotivo ed immediato, che punta tutto sul piacere
della fruizione e che per questo è riservato ai non-competenti,
ma da cui dipende peraltro il potenziale comunicativo dell'arte
stessa, la sua capacità di veicolare e rendere fruibili
i contenuti.
3.
Gli sviluppi del pensiero medievale riconfermano l'impianto
concettuale greco-latino della teoria dell'arte, di cui,
aristotelicamente, continua ad esser enfatizzato il carattere
oggettivo e regolistico (ciò che oggi chiameremmo
l'aspetto tecnico dell'arte). La teoria medievale dell'arte
si presente insomma, per molti versi, come una sorta di
ricapitolazione "sub specie christiana" delle
enunciazioni della tradizione classica, i cui motivi basilari
possono essere così riassunti:
a)
il legame di compresenza fra istanza conoscitivo-metodologica
ed istanza pratico-produttiva, testimoniato da San Tommaso
nella Summa Theologica ("Ars est recta ratio factibilium")
non meno che da Alessandro di Hales nella Summa Alexandri
("Ars est principium faciendi et cogitandi quae sunt
facienda");
b)
la determinazione materiale del fare artistico: esso nasce
da un bisogno la cui risoluzione dipende da una trasformazione
intenzionale che l'uomo deve operare sulla natura ed in
questo senso tutte le artes medievali, nella loro varietà
e articolazione, si configurano come sistema (o sistematica)
delle forme possibili di questa trasformazione;
c)
il rapporto di determinazione che si stringe fra natura
ed arte: questa assume valore ed identità allorché
è posta in riferimento a quella; la natura è
infatti il modello primale e perfetto che si offre all'uomo,
il quale non può che imitarlo con le proprie tecniche.
Ma secondo San Tommaso non si tratta di copiarne servilmente
le forme: "Ars imitatur naturam in sua operatione"[7],
il che significa che l'arte imita la natura nel suo stesso
modo di operare. Questa puntualizzazione è fondamentale
perché sancisce in modo sempre più decisivo
la valenza conoscitiva dell'arte e la razionalità
del suo metodo.
Proprio
sul carattere metodico dell'arte aveva del resto già
insistito Giovanni di Salisbury nel suo Metalogicon parlando
a proposito della "facilitatem artis" (speditezza
dell'arte) come mezzo economico di riproduzione dei processi
naturali.
Ciò nonostante, la mentalità medievale si
dimostra nel complesso poco incline a concepire l'arte come
forza creatrice autonoma, giacché per motivi che
potremmo definire teologici essa rimane sempre seconda rispetto
alla natura: "Ars operatur ex materia quam natura ministrat",
sosterrà l'Aquinate[8], come a dire che ciò
che l'arte produce pertiene sempre e comunque ad una razionalità
imperfetta, mentre la sostanza delle cose è tale
per partecipazione divina.
Il pensiero medievale pone mano, comunque, ad una vasta
ed articolata sistematica delle artes (San Tommaso ne distinguerà
55 tipi diversi) che rielabora il canone della tradizione
classica. Il sistema continua a fondarsi sulla distinzione
fra arti liberali (le discipline del Trivio - grammatica,
retorica, dialettica - e del Quadrivio - geometria, musica,
astronomia, aritmetica) ed arti meccaniche o servili, che
secondo lo schema proposto da Ugo di S.Vittore nel Didascalicon
comprendono: tessitura, nautica, edilizia (di cui pittura
e scultura sono considerate semplici appendici), agricoltura,
caccia, medicina, arte teatrale. Non vi è dubbio
che tale partizione riproduca sostanzialmente quella già
formulata da una tradizione di pensiero che risale alla
cultura greca, che distingueva fra attività immateriali
(il sapere puramente speculativo come esercizio dell'uomo
libero) ed attività materiali (che richiedono manipolazione
fisica, manualità e per questo spettano agli schiavi),
ripresa nel mondo latino con la contrapposizione fra otium
e negotium[9].
E' lecito chiedersi da cosa dipenda questa continuità
di concezione, che cosa la assicuri, dal momento che rimarrà
egemone per molti secoli almeno fino al Rinascimento. Il
fatto è che proprio per tutto questo lunghissimo
periodo continuerà a mancare un'autentica consapevolezza
di ciò che modernamente sarà chiamato lo "specifico
artistico" (vale a dire l'idea della creazione artistica
come fatto autonomo che obbedisce unicamente a leggi e fini
del tutto propri) e per via di questa mancanza l'arte rimarrà
strettamente legata e/o determinata dalla ritualità
della vita sociale e religiosa entro cui e per cui essa
è chiamata ad operare. In questa prospettiva, questa
continuità di concezione va letta anche come continuità
degli elementi oggettivi che la sottendono:
a)
la salda connessione fra artistico (il senso proprio dell'arte)
ed estetico (il suo grado di fruibilità e quindi
di comunicabilità);
b)
il fatto che la gerarchia delle arti non risponde ad un
criterio tecnico (qualcosa cioè che è insito
nello statuto e nelle finalità delle singole attività),
ma ad una precisa determinazione sociale (la divisione fra
lavoro e non-lavoro che è frutto di una visione classistica-intellettualistica
che è espressa tanto dall'ideologia oligarchica greco-latina
quanto da quella della società feudale). Ciò
concorre a spiegare anche il paradosso già rilevato
da Etienne..Gilson[10] per le artes medievali: più
esse realizzano la loro essenza tecnico-produttiva, più
in basso sono collocate nella scala gerarchica ed intellettuale
del sistema sociale e culturale che le comprende.
4.
Alle soglia del Rinascimento (XV secolo) un fenomeno totalmente
nuovo prende a delinearsi nel panorama della riflessione
teorica sull'arte ed è il processo di ricollocazione
dell'arte nella cultura e dell'artista nella società.
L'immagine moderna dell'artista, quella che noi conosciamo
anche in base alla storiografia, discende proprio da questo
processo e va a coincidere col progressivo secolarizzarsi
della cultura, alla quale gli ideali umanistico-rinascimentali
non assegnano più o non solo compiti di mera ricapitolazione
delle conoscenze del passato.
Di questo vasto processo di ricollocazione che si stenderà
lungo l'arco di almeno due secoli, fino al Barocco, due
fenomeni si pongono alla nostra attenzione:
a)
con esso matura per la prima volta una consapevolezza tecnica
delle arti cui daranno positivo impulso, prima ancora che
le discussioni cinquecentesche di carattere regolistico
intorno alla Poetica di Aristotele, quelle intorno ai fondamenti
scientifici delle arti figurative, che proprio per la loro
riconosciuta peculiarità cominciano ad essere considerate
come un insieme unitario di discipline, separate dalle tecniche
e dai mestieri;
b)
la figura dell'artista, acquisendo ruolo e significato propri
nel contesto sociale e culturale, tende a distinguersi da
quella del tecnico e dello scienziato, pervenendo a quell'autonomia
che sarà il suo segno distintivo nell'età
moderna. Ciò va del resto letto come un aspetto di
quella diversificazione e specializzazione dei ruoli intellettuali
che caratterizzerà lo sviluppo della cultura in senso
moderno.
Paradigmatiche
del primo fenomeno sono le figure di L.B.Alberti e di Leonardo
da Vinci. All'Alberti si deve la prima formulazione di una
moderna "theorica delle arti" in cui pittura,
scultura ed architettura si attestano come discipline specifiche
fondate sull'imitazione razionale delle leggi fisiche che
governano la natura. Nel De Pictura (1435) la teoria artistica
dell'Alberti giunge ad esplicitare una matura consapevolezza
del fondamento scientifico della rappresentazione pittorica
grazie all'individuazione, con le leggi della prospettiva,
delle sue condizioni oggettive di sussistenza. Solo in questa
chiave la pittura è suscettibile di attestarsi come
"scienza della visione" capace di garantire la
fedeltà al reale.
Più radicale si dimostrerà dal canto suo Leonardo,
per il quale l'arte figurativa è scienza senza mezzi
termini e non solo perché la sua capacità
di rappresentazione dipende da rigorose conoscenze tecnico-scientifiche,
ma perché a differenza del sapere letterato (verso
cui notoriamente egli dimostra profonda diffidenza), che
è qualcosa di mentale e di astratto, la pittura è
unità di metodo e di esperienza sensibile, di ideazione
e realizzazione e proprio per questa sua duplicità
essa si candida a forma particolarissima di conoscenza della
natura. Se è lecito fare collegamenti un po' tendenziosi,
potremmo dire che l'accentuazione del momento progettuale
tipica di esperienze moderne quali il Bauhaus trova sicuramente
nel pensiero di Leonardo un valido anticipatore.
Diversamente dal fervore scientifizzante dell'Alberti e
di Leonardo, Giorgio Vasari affronta invece la questione
del ruolo dell'artista - col che diamo testimonianza del
secondo dei fenomeni sopra delineati - nell'ambito concreto
della società. Con le "Vite" (1550), opera
storiografica quanto teorica, egli inaugura una nuova concezione
dell'artista il cui profilo specifico si differenzia dal
mero artigiano quanto dal prototipo leonardesco, sviluppando
nel contempo un discorso unitario sui problemi peculiari
delle arti figurative, cui egli si riferisce, sulla scia
dell'Alberti, come un insieme omogeneo discipline ben differenziate
dalle tecniche e dai mestieri.
Le interferenze e gli sconfinamenti di ascendenza umanistica
fra arte e scienza rimarranno peraltro un leitmotiv della
cultura del Seicento, tanto che Charles Perrault, cui pure
si deve la prima adozione del termine "beaux arts"
in sostituzione dell'obsoleto "arti liberali",
includerà fra queste anche l'ottica e la meccanica.
5.
La rivoluzione filosofico-scientifica del Seicento introduce
nuovi criteri epistemologici (sperimentalità, sistematicità,
comunicabilità) a guida delle attività conoscitive,
configurando un nuovo modello di sapere basato su un rigoroso
concetto di metodo. Matura in tale nuovo contesto anche
il divorzio fra arte e scienza, cui concorre in maniera
determinante l'esito della cosiddetta "Querelle des
Anciens et des Modernes", espressione che designa il
dibattito sviluppatosi nella seconda metà del Seicento
in Francia intorno alla valutazione dei progressi della
cultura in paragone con i raggiungimenti della civiltà
classica. La "Querelle" sorse in ambito strettamente
letterario, ma ben presto sconfinò su temi filosofici
ed estetici, aprendo la strada al nascente Illuminismo.
Da essa si diffonde tuttavia l'idea di una diversificazione
sempre più netta fra arte e scienza, che scorre lungo
l'asse di antitesi quali soggettivo-oggettivo, metodo-creatività,
regola-talento. Ma il suo effetto più significativo
e duraturo si pone - almeno ai nostri fini - sul piano concettuale:
arte comincia ad essere considerato come termine (ed ambito
concettuale) diverso da ciò che fino ad allora esso
aveva inteso designare (attività fondata su un impianto
regolistico-procedurale razionale e formalizzato), il cui
significato, per converso, va ricercato in relazioni a nozioni
quali fantasia, immaginazione, estro, intuizione, genio,
qualità che ben difficilmente potrebbero essere compendiabili
in un sistema di regole oggettive.
La parola definitiva sulla via di una concezione moderna
dell'arte viene tuttavia da Charles Batteux nella sua opera
fondamentale Le Belle Arti ricondotte ad un Unico Principio
(1746), che non è un manuale od una raccolta di precetti
(come nella tradizione cinque-secentesca), bensì
un'avvertita analisi delle manifestazioni dell'arte condotta
sulla scorta di un principio unificatore che giustifica
la loro organizzazione sistematica: il principio di imitazione
della natura. Batteux configura per la prima volta l'arte
come "un mondo a parte" nell'universo della vita
spirituale dell'uomo, a cui hanno legittimo accesso tutte
quelle problematiche tradizionalmente afferenti alla riflessione
estetica, ma che sotto il suo impulso sistematico pervengono
ad una nuova maturità di concezione, in coerente
linea con le tendenze razionalistiche della cultura francese
del Settecento. Ma ciò che vi è di più
propriamente moderno è la definizione della sfera
statutaria delle "belle arti" in sé ed
in relazione alle altre discipline che compongono il sistema:
ecco dunque che la gerarchia delle arti risponde a principi
formali di ottemperanza (in grado discendente: piacere,
utilità, bisogno) e la produzione del "bello"
(la qualità che sola suscita l'innesco del piacere
estetico) non va subordinata ad altri valori di riferimento.
Il "bello" non è più insomma, come
volevano gli Scolastici, la possibile via d'accesso degli
indotti verso la "ratio" dell'opera, ma il suo
fine stesso, il perché la si produce. Ed è
anche esattamente ciò che separa ed eleva le "belle
arti" da ogni altra attività umana. Un secolo
dopo il divorzio fra arte e scienza, si viene così
a consumare con Batteux quello, durato secoli, fra arte
e tecnica.
6.
Da questo sommario excursus possiamo ora trarre alcune utili
conclusioni:
a)
l'idea moderna di arte (già introdotta col termine
"belle arti" nel Seicento) si pone come un aspetto
sintomatico delle dinamiche di separazione e di specializzazione
dei ruoli intellettuali che si sovrappone, nella società
protoindustriale europea, al coincidente processo di divisione
del lavoro. Pertanto la produzione e la fruizione dell'arte
diventano una unica sfera di attività autonoma il
cui rapporto col contesto sociale avviene tramite forme
ancora rudimentali di mediazione estetica (l'adesione intellettuale
a quei valori estetici che fondano il fatto artistico);
b)
l'arte diventa di conseguenza un' "attività
estetica" e qui il ribaltamento rispetto alla concezione
classico-rinascimentale è radicale: laddove le artes
realizzavano la propria essenza nel momento tecnico-effettuale
(produzione dell'utile, del corretto, del preciso, del conforme)
dal quale necessariamente partiva la comprensione intellettuale
dell'opera, lasciando il "bello" come quoziente
collaterale o residuale che tuttalpiù poteva assolvere
una funzione comunicativa, nella concezione moderna esso
viene assunto come valore assoluto e fondante, formalmente
scisso da ogni altra determinazione;
c)
in tal senso, il divorzio fra arte e tecnica va letto principalmente
come divorzio fra valori di riferimento, fra orizzonti culturali,
in ultima analisi fra forme diversamente assestate di sapere.
Il "mondo a parte" che l'arte si guadagna non
si identifica pertanto solo nei fenomeni esteriori (musei,
collezioni) che dal Settecento prendono corpo sulla scena
sociale, ma nella lenta costruzione di un sistema di valori
destinato a collidere con le istanze della storicità,
che ne pongono a repentaglio, in molti casi, la sua stessa
legittimità. Fra tali istanze attuali, la più
determinante è senza dubbio quella del nesso fra
arte ed universo tecnico, giacché è esattamente
quella in cui si gioca il principio stesso della legittimità
dell'arte nel mondo attuale. La tecnica è stata per
secoli l'essenza della creazione artistica e l'oggetto precipuo
della riflessione estetica. Poi almeno per due secoli ne
è stata estromessa. Oggi torna ad interferirvi prepotentemente
e non solo con i suoi prodotti immaginali, ma con la sua
pervasiva "ovvietà" (il fatto che c'è
e non ce ne accorgiamo), che ci richiama nondimeno a rivedere
le nostre stesse idee sull'arte, e con la sua realtà
di "saper fare" (quindi di "potere"
anziché di "agire") verso cui l'attuale
sistema (ma si sarebbe tentati di usare il termine heideggeriano
"gestell"[11]) dell'arte si va oggi convertendo
nella società tecnologica avanzata. Nell'originaria
ambivalenza semantica di téchne sembra insomma racchiudersi
un destino di reciprocità e rapporti continui cui
l'arte, come in un ritorno al passato, non è capace
di sottrarsi.
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[1]
"La téchne appartiene alla produzione, alla
poiesis; è qualcosa di poetico (Poietisches)":
M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi,
Mursia, Firenze, 1991.
[2] Per Heidegger, l'operare creativo della poiesis ripercorreva
il processo creazionale della natura, pertanto arte e impulso
vitale andavano a coincidere. In questo quadro, anche la
téchne trovava il suo posto fondamentale come produzione
e conoscenza generativa che, al pari della physis, porta
al vero essere. Cfr. G. Steiner, Heidegger, Mondatori, Milano,
1990.
[3] G.Vattimo, Estetica, in Dizionario di Filosofia, Milano,
Garzanti, 1993.
[4] Proprio qui, per Heidegger, inizia il destino fatale
della téchne: una volta associata all'epistéme,
non solo partecipa della svalutazione platonica degli oggetti
naturali e dei prodotti umana, ma si instrada verso quella
conoscenza a fini di dominio che si svilupperà poi
col modello aristotelico-cartesiano.
[5] Cit. in M. Modica, Che cos'è l'estetica, Editori
Riuniti, Roma, 1987.
[6] Institutio Oratoria, IX,4,116.
[7] Summa Teologica, I, 117, 1.
[8] Sentencia Libri de Anima, II, 1.
[9] La distinzione, peraltro già stata formulata
da Aristotele nella Politica (VIII, 2) e rimasta pressoché
inalterata per tutto il Medioevo, rappresenta senza dubbio
un'idea rigidamente gerarchica ed inalterabile di società,
oltre che ribadire, nel loro allontanarsi o avvicinarsi
alla fabrilità, l'opposizione fra anima e corpo tipica
del Medioevo cristiano.
[10] E. Gilson, Peinture et réalité, 1958,
pag. 121.
[11] M. Heidegger, La questione della tecnica, cit.
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