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ANDREA OPPO
DOSTOEVSKIJ: LA BELLEZZA, IL MALE, LA LIBERTÀ.
Un percorso filosofico in tre tappe
"Dostoevskij:
la Bellezza, il Male, la Libertà" è un
percorso filosofico-teoretico diviso in tre parti all'interno
del pensiero di F. M. Dostoevskij, seguendo altrettante
tematiche-chiave del grande scrittore russo: la Bellezza,
il Male e la Libertà. Attraverso la lettura dei tre
grandi romanzi della maturità (L'Idiota, I Demoni
e I Fratelli Karamazov) e le analisi che i suoi più
grandi interpreti, specialmente in Russia, hanno dato di
lui, questo percorso si propone di rintracciare, dentro
alcune idee e analogie ricorrenti, le più autentiche
sorgenti filosofiche di un autore al quale, secondo Nikolaj
Berdjaev, "forse la filosofia ha insegnato poco, ma
la filosofia ha molto da imparare da lui".
1. Quale
Bellezza salverà il mondo? L'Idiota di Dostoevskij
e un difficile enigma
2. L'idea di male assoluto nei "Demoni" di
Dostoevskij
3. La vera anima del genio crudele. Scavando al fondo dei Karamazov
3. La vera anima del genio crudele. Scavando al fondo dei Karamazov
-
Dimmi Ivàn: Dio esiste oppure no? Ma parla seriamente.
Ho bisogno di parlare sul serio.
- No, Dio non esiste.
- Alëa, esiste Dio?
- Sì, Dio esiste.
- Ivàn, e l'immortalità esiste? Un'immortalità
qualsiasi, anche piccola, anche minuscola?
- No, non esiste neanche l'immortalità.
- Di nessun genere?
- Di nessun genere.
- Alëa, esiste l'immortalità?
- Sì, esiste.
- L'immortalità è anche Dio?
- Sì, Dio è l'immortalità. In Dio c'è
l'immortalità.
- Ehm! È più probabile che abbia ragione Ivàn.
O Signore, se si pensa soltanto a quanta fede, a quante
energie di ogni sorta l'uomo ha speso invano per questo
sogno, e da quante migliaia di anni! Ma chi è dunque
che si fa così beffe dell'uomo? Ivàn, per
l'ultima volta, decisamente, Dio esiste o no? Te lo chiedo
per l'ultima volta.
- E per l'ultima volta rispondo no.
- Chi dunque si fa beffe degli uomini, Ivàn? Dev'essere
il diavolo... - e Ivàn Fëdorovic fece un risolino.
Ma il diavolo esiste?
- No, non esiste neanche il diavolo.
F. M. Dostoevski, I Fratelli Karamazov
Parlando
dei Karamazov, Dostoevskij scriveva: "Il problema principale,
che sarà trattato in tutte le parti di questo libro,
è lo stesso di cui ho sofferto consciamente o inconsciamente
tutta la vita: l'esistenza di Dio". È improbabile
credere che un solo libro sia bastato a decidere una volta
per tutte la sofferenza di un'intera vita, ma è certo
che I Fratelli Karamazov [1] rappresentano, in tutti i sensi,
il punto di arrivo di un lungo e tormentato percorso dell'autore
Dostoevskij, la piena risposta all'Idiota e ai Demòni,
nonché l'opera che come poche altre nella storia
della letteratura mondiale ha saputo riassumere, ai suoi
vertici più elevati, i dubbi fondamentali dell'uomo.
L'esistenza di Dio, l'immortalità dell'anima e la
salvezza universale, sono i temi che insieme costituiscono
"la più grande idea che l'umanità abbia
mai concepito": ciò che Dostoevskij si è
portato appresso da sempre e che ora in questo romanzo mette
a nudo senza timore. Sono passati alcuni anni dopo che il
principe Mikin ha visto spezzarsi fra le sue mani
l'illusione di un mondo salvato dal bene incarnato nella
bellezza; come pure dalla impudente 'Domanda' di Ippolit
che chiedeva conto a Dio di tutta la sofferenza del mondo;
sull'altro versante, spalancato dalla sola visione di un
quadro appeso all'ingresso della casa di Rogoin, Kirillov
- questa ieratica figura di sacerdote dell'ateismo - ha
fatto scattare la propria pistola, in qualche località
della Russia, ma nulla è accaduto di quanto egli
credeva e il mondo ha continuato a girare con le sue cieche
speranze.
Dopo la scoperta dell'universo del sottosuolo, dichiarata
apertamente nel 1864 con le sue Memorie, il percorso di
Dostoevskij si snoda attraverso una lucida, cruda, "crudele"
analisi della realtà umana: con la spietatezza ("criminale"
avrebbe detto Thomas Mann - che proprio per ciò preferiva
prenderlo "con misura") di chi non soltanto non
ha più nulla da perdere, ma forse - ha fatto bene
rilevare estòv - adesso non ha nemmeno più
la capacità di tollerare l'esistenza di un sol briciolo
di menzogna nella vita umana. Una crudeltà che nasce
da un bisogno ultimo ed essenziale di verità, e che
passa in rassegna soprattutto ciò che meno si presterebbe
ad essere analizzato e considerato come attualmente presente:
ciò che più facilmente ha il potere di illudere
e conservare nel tempo una speranza fallace. Ovvero gli
assoluti mai rappresentabili. Ed ecco che Dostoevskij si
preoccupa di dare forma al Bene e al Bello assoluti, considera
le ipotesi di una Giustizia e di una Colpa senza limiti;
e allo stesso modo fa con il Male e con le Idee, con la
Parola e con la Verità. Da Mikin a Stavrogin
il passo risulta più breve di quanto si sarebbe pensato.
Ma entrambi, alla fine del proprio percorso, smascherati
nella loro reale, attuale essenza, rimandano a qualcos'altro:
qualcosa di più grosso che a loro preesiste. E se
il Bene assoluto - che non può che manifestarsi in
forma di suprema, immacolata Bellezza, la quale agli occhi
del mondo appare sì vera e dotata della pura intelligenza
delle cose ma anche terribilmente ingenua, "idiota",
folle e vulnerabile - quasi di necessità attira su
di sé il Male, che solo da principio appare in forma
di caos e disarmonia, ma al suo fondo mostra un volto cinico
paragonabile alla tela di un ragno che attende al varco
la sua preda, perfino quest'ultimo quantunque possa anche
trionfare sul Bene, rivela infine di non possedere volto
né nome, che non sia quello della sua vittima. Il
Male, ultimo termine fin qui raggiunto nel percorso di Dostoevskij,
non è niente più che l'ombra di qualcosa che
lo scrittore russo ha sempre tenuto in considerazione, come
atmosfera essenziale della sua narrazione, ma mai svelato
apertamente.
I Karamazov, capolinea dichiarato ed effettivo, sono in
fondo l'inizio del percorso. Ciò che occorre per
comprendere, a ritroso, tutto il resto.
Non si tratta più di suicidio e di follia, o di una
morale, di una divinità che governa il mondo; non
sono qui in questione, alla maniera classica occidentale,
due termini in contrapposizione, di cui uno può decretare
la fine dell'altro o la cui coesistenza può determinare
un esito tragico o assurdo. "Non è di un'opera
assurda che si tratta in questo caso - mette bene in rilievo
Albert Camus riferendosi ai Karamazov -, ma di un'opera
che imposta il problema dell'assurdo" [2].
Ma quale assurdo potrà mai scaturire dall'assenza
di termini reali? E che cos'è infine la realtà
ultima (o forse dovremmo dire "prima") di cui
perfino il Male assoluto non era che l'ombra? Quale il pentagramma,
il sistema di note di base su cui s'inscrive la "polifonia"
di voci del romanzo dostoevskiano?
Sono questi temi di portata enorme che condurrebbero direttamente
nei luoghi ultimi della poetica e soprattutto dell'animo
del grande scrittore russo, se non fosse che, come ha dimostrato
finora più di un secolo di studi sull'argomento,
si tratta di zone alquanto problematiche se non definitivamente
inaccessibili. Capire la vera anima del genio Dostoevskij,
l'intenzione ultima che sorregge tutte le sue opere, o,
come in tanti hanno provato a fare, trovare il personaggio
dei suoi racconti che "parlerebbe per bocca sua",
è ormai un'impresa sulla quale gli studi di Michail
Bachtin dovrebbero aver posto la parola fine. Affidarsi
alle singole voci dei personaggi per comprendere il pensiero
dell'autore significa trovarsi davanti a miriadi di posizioni
diverse e disomogenee, ancor prima che contrapposte. Se
non si sapesse con certezza che è così, sembrerebbero
delle opere costruite di proposito perché non sia
possibile ricavarne un'interpretazione unitaria e coerente.
Ma ugualmente, proprio attraverso la teoria del romanzo
a più voci di Bachtin, è lecito chiedersi
quale ragione supporti l'universo polifonico narrativo dello
scrittore russo. A introdurci nell'argomento è lo
stesso Dostoevskij, il quale proprio alla fine del suo percorso
artistico definisce, in un quaderno di appunti privato,
le caratteristiche del suo realismo: "In pieno realismo
trovare l'uomo nell'uomo... Mi chiamano psicologo: non è
vero, io sono soltanto realista nel senso più alto,
cioè raffiguro tutte le profondità dell'anima
umana" [3]. Dostoevskij, commenta Bachtin a questo
proposito, "si considera realista e non romantico-soggettivista,
racchiuso nel mondo della propria coscienza; il suo nuovo
compito è 'raffigurare tutte le profondità
dell'anima umana' ed egli lo risolve 'in pieno realismo',
cioè vede queste profondità al di fuori di
sé, nelle anime altrui" [4]. In secondo luogo,
precisa Bachtin, egli ritiene che per risolvere questo 'nuovo'
compito non sia più sufficiente il realismo così
come da sempre inteso ("cioè, secondo la nostra
terminologia, il realismo monologico" [5]), ma occorra
una particolare maniera di "trovare l'uomo nell'uomo",
vale a dire, "il realismo nel senso più alto".
Per meglio spiegare di cosa si tratti Bachtin fa riferimento
all'ampio studio di L. P. Grossman dell'Accademia delle
Scienze dell'Urss, "Dostoevskij artista" (1959),
dal quale egli stesso ha tratto spunto per il suo lavoro.
Alla base della composizione di ogni romanzo di Dostoevskij,
spiega Grossman, vi sono due o più narrazioni che
s'incontrano e si svolgono in contrasto l'una con l'altra
secondo il principio musicale della polifonia. Sottolineando
pertanto il carattere tecnicamente musicale dell'opera dello
scrittore russo, Grossman fa osservare come Dostoevskij
trasferisca sul piano della composizione letteraria la legge
del passaggio musicale da una tonalità all'altra:
"Il racconto è costruito sul principio del contrappunto
artistico [...] Sono varie voci che cantano diversamente
su un solo tema. È questa la "pluralità
delle voci" che rivela la multiformità della
vita e la complessità delle sofferenze umane. Tutto
nella vita è contrappunto, cioè contrapposizione,
dice nei suoi Appunti uno dei compositori prediletti di
Dostoevskij, M. I. Glinka" [6]. "Trasferendo dal
linguaggio della teoria musicale al linguaggio della poetica
la tesi di Glinka, secondo cui tutto nella vita è
contrappunto, si può dire che per Dostoevskij tutto
nella vita è dialogo, cioè contrapposizione
dialogica" [7].
Il personaggio dei romanzi di Dostoevskij non sarebbe pertanto
una figura obiettiva, ma una parola autorevole, una pura
voce: "Noi non lo vediamo, lo sentiamo; e tutto ciò
che noi vediamo e sappiamo oltre le sue parole, non è
essenziale e viene inghiottito dalla parola, come suo materiale,
oppure resta al di fuori di essa, come fattore stimolante
e provocatore" [8]. In tal senso, fa osservare ancora
Bachtin, "l'epiteto di "genio crudele", dato
a Dostoevskij da Michajlovskij, ha un fondamento, sebbene
non così semplice come Michajlovskij s'immaginava"
[9]. I tormenti morali atroci che l'autore infligge ai suoi
personaggi per strappare loro le parole più profonde
dell'autocoscienza, quelle che mai diversamente verrebbero
alla luce, le analisi dell'animo che gli permettono di trovare
"l'uomo nell'uomo", rappresentano anche l'antidoto
che riesce a "dissolvere tutto ciò che è
materiale e oggettivo, saldo e invariabile, tutto ciò
che è esteriore e neutrale nella raffigurazione dell'uomo
nella sfera della sua autocoscienza e autoenunciazione"
[10].
La crudeltà di Dostoevskij, insomma, toglie all'uomo,
attraverso esperienze estreme, tutto ciò che è
possibile togliere. E osserva infine cosa rimane.
L'esito è uno "svuotamento" che consegna
al regno del presente tutte le infinite e possibili voci
che nella prospettiva 'monologica' erano sapientemente tenute
sotto chiave. "Nel mondo monologico tertium non datur:
il pensiero o si afferma, o si nega, o semplicemente cessa
di essere un pensiero pienamente significativo" [11].
Nell'universo delle infinite voci di Dostoevskij, invece,
"non è ancora avvenuto nulla di definitivo,
l'ultima parola del mondo e sul mondo non è ancora
stata detta, il mondo è aperto e libero, tutto ha
ancora da venire e avrà sempre da venire" [12].
La trasposizione di tutto ciò sul piano strettamente
filosofico ci porta a identificare la matrice che sta al
fondo dei Karamazov e con ogni probabilità di tutta
l'opera dostoevskiana: il problema filosofico della libertà.
Ovvero la condizione stessa che permette la contrapposizione
dialogica senza vincoli di cui parlava Bachtin.
***
Potremmo dire che i più importanti interpreti di
Dostoevskij hanno letto i Karamazov in particolare, se non
addirittura tutti i suoi romanzi precisamente sotto questo
segno. "La libertà sta al centro stesso della
concezione di Dostoevskij. Il suo sacro pathos è
il pathos della libertà" [13] scrive Berdjaev
nel suo celebre lavoro sul narratore russo. E così
Cantoni: "Sarebbe possibile interpretare tutte le opere
di Dostoevskij alla luce di questa categoria fondamentale
ed essere sicuri che l'interpretazione si muove sempre intorno
all'asse centrale della problematica dostoevskiana"
[14].
Malgrado al lettore questa scoperta possa apparire come
un piccolo sollievo e un aiuto nella comprensione del testo,
in verità ben lungi dall'essere il punto d'appoggio
di Archimede che sempre si cerca, il problema della libertà
in Dostoevskij si rivela una botola spalancata sull'abisso.
Alle fondamenta del suo pensiero si trova pure il massimo
grado d'instabilità: anzi si trova precisamente quell'instabilità
che sorregge il resto. L'unico assoluto che, nella concezione
dello scrittore russo, abbia un nome proprio: fra tutti
(il male, il bene, la bellezza, la verità...), probabilmente,
quello che meno ci si sarebbe augurati.
La sua natura solo in apparenza mostra sembianze innocue.
Come dice Berdjaev, interpretando il pensiero di Dostoevskij,
Dio ha creato l'uomo dal nulla e dalla libertà, e
con un atto d'amore, il più grande che si possa pensare,
lo ha voluto suo libero co-autore nella creazione. All'uomo
è dunque connaturata la libertà in una forma
che egli stesso rifiuta. È proprio questo il tema
di fondo del Grande Inquisitore, il racconto presente all'interno
dei Karamazov che Dostoevskij mette in bocca a Ivan.
Quest'ultimo, seduto al tavolo di una locanda, di fronte
al fratello Alëa, decide di narrargli l'unica
opera da lui concepita (e mai messa per iscritto) che ha
intitolato La Leggenda del Grande Inquisitore. È
una storia ambientata nel XVI secolo in Spagna, a Siviglia,
nel periodo più terribile dell'Inquisizione, quando
ogni giorno "con grandiosi autodafé si bruciavano
gli eretici". In quell'epoca, in quel luogo, Gesù
ritorna ancora una volta tra gli uomini. Tutti lo riconoscono,
tutti sono attratti da Lui. Anche il cardinale Grande Inquisitore,
un vecchio novantenne dagli occhi infossati "nei quali
splende come una scintilla di fuoco", lo riconosce
e subito lo fa arrestare per mandarlo al rogo il giorno
dopo, come il peggiore degli eretici ("Perché
sei venuto a disturbarci? Hai esaurito il tuo compito quindici
secoli fa!"). Il suo peccato, il più grave che
si potesse compiere, è quello di essersene andato
senza fare in modo che gli uomini avessero delle regole
sicure e fossero obbligati a seguirle. L'umanità
sarebbe stata ben felice d'essere schiava e servire un Dio.
Il grave peccato di questo Dio è di averla lasciata
libera, trattandola alla pari, con la dignità di
un figlio. Per questo, loro, i custodi di quel lascito,
hanno dovuto provvedere a fare ciò che Lui non aveva
fatto.
Il finale di questa storia, con il confronto nella cella
tra Il Grande Inquisitore e Cristo, è ancora più
sorprendente; così come la replica di Alëa
a fine racconto. Ma quello che a noi interessa di più
è l'argomento religioso-filosofico per eccellenza
di Dostoevskij, messo sul piatto qui, nel Grande Inquisitore:
l'"insopportabile libertà" dell'uomo, accordatagli
da Colui che egli voleva suo padrone, da servire alla maniera
degli schiavi.
Anche dalle pagine del Diario di uno scrittore traspare
l'interesse dostoevskiano per la tematica della libertà,
e anche se non sarà mai teorizzata in forma compiuta
neanche nei suoi scritti di pubblicistica questa rimane
il luogo d'origine, il punto di partenza di ogni uomo, in
un cammino che dalla libertà prende avvio e da essa
dipende completamente. Dostoevskij esprime più volte
la convinzione che la "dottrina dell'ambiente"
sia in contrasto con il cristianesimo, l'unica concezione
che riconosca in modo inequivocabile il principio della
libertà umana. Un cristianesimo che in Dostoevskij
s'identifica soprattutto con la figura di Cristo ed in particolare
del Cristo russo, come emerge molto bene già dalla
"Lettera alla Fonvizina" [15] del 1854 - in cui
egli pronuncia la celebre frase "se fosse effettivamente
vero che Cristo non è la verità, ebbene io
preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità"
- e successivamente nelle pagine del Diario di uno scrittore
del 1873:
Il Cristianesimo
pur riconoscendo pienamente la pressione dell'ambiente,
pone però come dovere morale dell'uomo la lotta contro
l'ambiente, pone un limite dove finisce l'ambiente e comincia
il dovere. Nel considerare l'uomo responsabile, il Cristianesimo
ne riconosce implicitamente la libertà. [16]
Ecco
dunque il grande dono del Creatore alla sua creatura: Dio
ha voluto l'uomo libero. E Cristo ha ribadito questa libertà
rifiutando le tentazioni di Satana e non scendendo dalla
croce per rispetto della libertà degli uomini. I
suoi discepoli lo vedranno risorto e crederanno in Lui per
libera scelta di fede. Da qui l'accusa del Grande Inquisitore
a Cristo: "Invece di impadronirti della libertà
umana, Tu l'hai ingrandita e hai gravato per sempre, con
il peso dei suoi tormenti, la vita dell'uomo. Tu volesti
il libero amore dell'uomo affinché egli liberamente
ti seguisse, attratto e conquistato da te" [17]. E
prosegue: "Ma è possibile che Tu non abbia pensato
che egli, oppresso da un fardello così terribile
come la libertà di scelta, avrebbe alla fine respinto
e discusso perfino la tua immagine e la tua verità
[...] Ci sono sulla terra tre forze, tre sole forze in grado
di vincere e di conquistare per sempre la coscienza di questi
deboli ribelli, per la felicità loro; queste forze
sono: il miracolo, il mistero e l'autorità. Tu respingesti
la prima, la seconda e la terza, e così desti l'esempio"
[18].
E conclude così il suo ragionamento:
E gli altri? Che
colpa hanno gli altri, gli uomini deboli, di non aver potuto
sopportare quello che hanno sopportato i forti? Che colpa
ha l'anima debole se non ha la forza di accogliere doni
così terribili? [...] E se c'è un mistero,
anche noi avevamo il diritto di predicare il mistero e di
insegnare agli uomini che non è la libera decisione
dei loro cuori quello che importa e neppure l'amore, ma
il mistero al quale devono inchinarsi ciecamente, anche
contro la loro coscienza. E così abbiamo fatto. Abbiamo
corretto l'opera tua e l'abbiamo fondata sul miracolo, sul
mistero e sull'autorità. E gli uomini si sono rallegrati
di essere di nuovo sospinti come un gregge e di sentirsi
finalmente il cuore libero da un dono così terribile,
che aveva procurato loro tante sofferenze! [19]
La
libertà è in realtà un dono terribile,
un peso troppo grande per la maggioranza degli uomini e
a conoscerla fino in fondo forse nessuno la vorrebbe. L'Inquisitore
e con lui gli inquisitori d'ogni epoca lo hanno capito perfettamente
e si sono affrettati a venire incontro alle esigenze umane,
offrendo in cambio della libertà, il benessere e
la felicità. Lo hanno fatto attraverso i tre elementi
che hanno capito essere la chiave per soggiogarli, per rinchiudere
e "sistemare" il problema della libertà:
il miracolo, il mistero e l'autorità. Ancora il numero
"tre", ricorrente quando Dostoevskij descrive
il lato opposto della libertà - o meglio ciò
che da essa può derivare -, così come tre
erano i "demòni" del precedente romanzo
e tre le tentazioni del brano evangelico.
Qualcosa di più che un semplice espediente per imbrigliare
ciò che è scomodo: piuttosto qualcosa di necessario
come necessario è il destino. Per questo motivo il
ritorno di Cristo è scandaloso, inaudito.
In questo caso, fa osservare Sergio Givone, "questo
ritorno è conversione, e lo è nel senso più
forte del termine: conversione dall'unica via percorribile,
conversione dall'unica via finora effettivamente percorsa,
conversione dal destino alla libertà" [20].
Il termine conversione, qui adoperato, che pure in ambito
cristiano assume vari modi d'essere inteso, richiama in
diverse maniere l'ambiguità fondamentale della condizione
umana, la quale è ben consapevole di trovarsi di
fronte la dura realtà, "stretta nella morsa
d'una necessità che toglie ogni speranza", e
ugualmente cosciente di non avere altro fondamento che la
libertà. "È precisamente questo che la
Leggenda del Grande Inquisitore illustra magnificamente.
(Perciò, basata com'è sul conflitto e anzi
sulla non superabile contraddizione di opposte tesi entrambe
legittime[...] la Leggenda può ben essere letta in
chiave di tragedia, tragedia della libertà). Il Grande
Inquisitore presenta la sua opera a Gesù come il
frutto d'una decisione non solo cogente, ma immodificabile.
La strada intrapresa, per il bene degli uomini, è
l'unica possibile" [21]. Ecco quindi lo scandalo: Cristo,
tornando sulla terra, riporta la condizione umana al punto
in cui tutto è ancora da decidere, in cui nulla è
già da sempre deciso.
****
La
libertà è dunque l'origine. Nei Karamazov
Dostoevskij svela apertamente quello che era stato il tema
di fondo, la condizione umana fondamentale, dei suoi precedenti
lavori, soprattutto quelli successivi alle Memorie dal sottosuolo.
Questo è il cuore dell'interpretazione di Berdjaev:
"Dostoevskij studia il destino dell'uomo lasciato in
libertà. Lo interessa solo l'uomo che incede sulla
via della libertà, il destino dell'uomo sulla libertà
e della libertà sull'uomo. Tutti i suoi romanzi sono
tragedie, un'esperienza della libertà umana"
[22].
E se non è certo semplice individuare la connessione
logica, in senso stretto, tra la Leggenda e il resto del
romanzo, come pure tra le singole vicende dei tre fratelli
Karamazov tra di loro, è anche vero che molti interpreti
hanno visto nella storia del Grande Inquisitore narrata
da Ivan il motivo fondamentale che, al di là della
'polifonia' di voci, legherebbe le varie parti dell'opera
dostoevskiana: precisamente in quanto condizione che permette
quella polifonia e quel "campo aperto" su cui
essa si esprime.
Fra gli interpreti che riconobbero l'importanza della Leggenda
a fondamento di tutta la narrativa di Dostoevskij, primo
fra tutti fu Vasilij V. Rozanov, il quale con il suo saggio
del 1891 "La Leggenda del Grande Inquisitore"
[23] ebbe il merito di inaugurare in Russia questa linea
interpretativa in senso tragico, chiusa idealmente molti
anni dopo dal lavoro di Berdjaev, ormai quasi alla metà
del '900, ultimo dei grandi filosofi russi a commentare
Dostoevskij. In contrapposizione con questa vi fu una seconda
corrente interpretativa che si potrebbe definire spiritualista,
che vede tra i suoi capifila Solov'ëv, Leont'ev e Merekovskij,
e, suo epigono - anche se con toni molto diversi rispetto
a questi altri -, Pavel N. Evdokimov.
Anche se è sempre difficile ricondurre figure molto
diverse fra loro ad un'unica linea di pensiero, potremmo
dire - come bene ha fatto rilevare Givone [24] - che dei
vari tentativi di leggere filosoficamente la figura di Dostoevskij
si possono cogliere già le tracce all'indomani del
suo discorso celebrativo su Pukin - all'Università
di Mosca l'8 giugno 1880. E che di questa seconda corrente
di interpreti - aggiungeremmo - si può ritrovare
facilmente la genesi nel contributo al dibattito su Pukin
portato dall'allora ventisettenne S. V. Solov'ëv, giovane
amico di Dostoevskij, al quale sarebbe toccato anche il
compito di commemorare lo scrittore russo, meno di un anno
dopo, in occasione del suo funerale. Al discorso funebre
seguirono gli ormai celebri "Tre discorsi in memoria
di Dostoevskij" [25] pubblicati negli anni 1881-1883.
La lettura solov'ëviana, oltre che innestarsi nello
spirito del Discorso su Pukin e rappresentare un momento
di passaggio importante nel suo stesso pensiero, si può
analizzare come tributo all'amicizia tra il filosofo e lo
scrittore i quali, proprio negli anni di preparazione dei
Fratelli Karamazov, avevano avuto modo di rinsaldare e approfondire
il loro rapporto. I temi comuni non erano pochi nell'ambito
religioso: dalla teodicea, all'ateismo, al problema teocratico
in generale fino ai rapporti tra la Chiesa ortodossa e le
Chiese occidentali. Certamente il percorso filosofico di
Solov'ëv nel suo passaggio dal momento teosofico a
quello teocratico subì il forte influsso dostoevskiano.
Questi vedeva in Dostoevskij il profeta di un "vero
Cristianesimo" e di una "Chiesa ortodossa universale",
e, certamente sfumando la carica tragica del suo pensiero,
tendeva in linea generale a cogliere il trionfo del bene
sul male e della luce sulle tenebre.
A mettere in dubbio le certezze dell'interpretazione di
Solov'ëv furono non tanto gli altri commentatori di
cui sopra, quanto l'impatto diretto col testo di Dostoevskij
che richiama per se stesso altri tipi di lettura. Ma allo
stesso modo sarebbe ingenuo credere che specialmente l'ultimo
romanzo dello scrittore russo sia del tutto estraneo alle
prospettive del giovane filosofo e suo migliore amico. Come
ribadito più volte, è difficile stabilire
il punto di partenza sicuro della creazione artistica di
Dostoevskij, così com'è poco saggio, trattando
di lui, escludere delle ipotesi in partenza, per di più
storicamente fondate come poche altre, quali sono quelle
riguardanti l'influenza di Solov'ëv sul suo ultimo
scritto.
Rimane il fatto che il personaggio Dostoevskij in sé
è talmente complesso che spesso sono i suoi stessi
appunti e gli scritti di pubblicistica ad allontanarsi dal
suo "testo" più di quanto non facciano
le interpretazioni altrui. Un testo che, non c'è
bisogno di dirlo, implacabilmente rifiuta, con la stessa
caparbia ostinazione del "no" pronunciato dall'uomo
del sottosuolo, di farsi inquadrare in questa o quella teoria
positiva.
Ma tornando a Rozanov, vera e propria controparte di Solov'ëv
e precursore di un tipo di lettura filosofica di Dostoevskij
nel segno del tragico, lettura che in Lev estòv
(a partire dal suo lavoro Dostoevskij e Nietzsche. La filosofia
della tragedia, 1903) troverà il massimo rappresentante,
egli era per altri e differenti aspetti non meno lontano
di Solov'ëv dall'animo del romanziere russo. Nel suo
saggio sul Grande Inquisitore, contrariamente a Solov'ëv
che nell'ideale di salvezza cristiana vedeva la riconciliazione
e la sintesi armoniosa finale degli opposti ("Ed esso
vincerà il mondo!"), Rozanov sottolinea l'irriducibilità
della tragedia umana. Non c'è conciliazione né
salvezza in un destino che offre all'uomo la più
alta e nobile opportunità d'essere libero, e autentico
figlio di Dio, ma allo stesso tempo gli toglie la capacità
di sopportare il peso di un simile ruolo. L'Inquisitore
non nega la grandiosità del progetto divino, nega
che esso sia a misura d'uomo.
Ma Rozanov, pur ribadendo (o forse sarebbe meglio dire "annunciando",
visto che la sua è la prima interpretazione in quel
segno) la centralità del tema della libertà
in Dostoevskij, si spinge ancora più in là
nella sua analisi. In questo senso, egli mette in rilievo
la differenza di prospettiva tra la visione tragica inaugurata
dalle Memorie dal sottosuolo e quella della Leggenda. Nella
prima - in un'ottica associabile, farà notare poi
estòv, all'amoralismo nietzschiano - la libertà
della volontà è difesa e approvata come l'esperienza
più preziosa dell'uomo. La tragedia in questo caso
è un dato, una sofferenza reale, un "grido di
dolore", e la lotta per libertà - quantunque
difficile e piena di ostacoli o forse impossibile - è
il senso del destino umano. Col tempo, dice Rozanov, anche
per Dostoevskij le cose cambiano. Scrivendo i Fratelli Karamazov,
e in particolare la Leggenda all'interno di quel romanzo,
egli scruta e riconosce il tema della libertà, non
in quanto semplice "liberazione", ma come qualcosa
di più ambiguo e complesso.
L'intuizione di Rozanov - per la verità mai espressa
in modo compiuto - di una differenza essenziale tra il primo
sottosuolo dostoevskiano, quello delle Memorie, e la concezione
di fondo presente nei Karamazov, è riconducibile
a un tema antico della tradizione filosofico-religiosa della
Russia.
***
Gli intellettuali russi sono dominati
da un'"idea" e sulla reale esistenza in Russia
di quest'idea vi è ormai generale accordo anche in
Occidente, almeno a partire da Hegel e dai Romantici. L'importante
saggio di Berdjaev, L'idea russa, è solo l'ultimo
di una lunga serie con lo stesso titolo iniziata proprio
da Solov'ëv (1888).
L'"idea russa", come spiega Roberto Salizzoni
nel suo studio a riguardo, è articolata su due punti:
"Il primo è quello di un destino, di una vocazione
e di una missione per la Russia. Il secondo, che determina
il primo, è nel carattere universale della missione
alla quale la Russia è chiamata. Non si tratta di
una missione storica fra le altre, si tratta di porre fine
alla storia" [26]. Secondo Berdjaev, la contraddizione
che vive alla base di quest'idea è la lacerazione
di due elementi presenti in essa: un elemento dionisiaco
- inteso come senso della terra, della maternità,
della forza elementare creatrice - e un elemento escatologico.
Scrive a proposito Berdjaev: "La religione della Terra
è molto forte presso il popolo russo, è radicata
nel più profondo della sua anima [...] La categoria
fondamentale è la maternità. La Madre di Dio
precede la Trinità e s'identifica quasi in Essa"
[27]. Allo stesso modo, prosegue il filosofo, "[...]
l'idea russa è escatologica, essa è orientata
verso la fine. Di là proviene il massimalismo russo.
Ma nella coscienza russa l'idea escatologica prende la forma
di un'aspirazione alla salvezza di tutti gli uomini"
[28]. Da un lato la "stichija", parola difficilmente
traducibile in altre lingue dice Berdjaev, che richiama
l'idea di forze elementari e caotiche, la sorgente, il passato,
la forza vitale; dall'altro l'escatologismo come aspirazione
verso il futuro, missione e senso delle cose.
Questi due elementi in apparenza opposti trovano in realtà
la loro conciliazione nell'idea di compimento della storia
e la loro è una composizione vitale. L'idea russa
vede il suo compimento nella risposta antimodernista della
Russia all'Occidente e al problema della modernizzazione,
il quale può avvenire grazie al fatto che i principi
dello sviluppo storico sono resi immanenti in una facoltà
dell'uomo. E al contempo possiede una finalità di
tipo trascendente e religioso. L'estetica di quest'idea
è riconosciuta in quel crocevia alla base della cultura
russa in generale che è Bisanzio. Bisanzio significa
per la Russia l'acquisizione di un'estetica basata su due
cardini che segnano anche la rottura col mondo ellenistico:
il primo consiste nella neutralizzazione della storia da
parte del cosmo e dello spazio. Il secondo è dato
dal modo in cui si rende abitabile quello spazio. Al di
là delle forme, ma attraverso la loro osservazione,
nasce l'idea di una contemplazione dell'essere, dove la
cosa "semplicemente è". Lo spazio bizantino
non è più il cosmo greco: le cose non sono
più soltanto eidos, bellezza, "forme fiorite"
in un cosmo inteso come spettacolo dell'essere, ma sono
apertura, provocazione, spazi al di là della figura
e della forma. L'estetica bizantina annulla il segreto e
il mistero, ma anche il miracolo del potere sulle forme,
tutto ciò che la cultura ellenica poneva a fondamento
del proprio esistere. Così, fuori da un percorso
obbligato che aspirava all'apparenza, all'eidos e alla penetrazione
nel segreto dell'essere, l'eredità di Bisanzio produce
in Russia una nuova apertura senza forma, e la dominanza
dello spazio.
In questo contesto si colloca l'idea di libertà nell'orizzonte
russo: è la dottrina della Sofia, luogo del contatto
tra divino ed extradivino, bene rappresentata proprio da
Solov'ëv e dagli altri pensatori sofianici come lui.
Se Dio crea il mondo dal nulla, direbbe Solov'ëv, questo
significa che occorre ammettere un nulla del mondo, che
è un nulla di Dio, esistente prima della creazione.
Il nulla creato del mondo è per Solov'ëv la
Sofia.
Apertura dello spazio e della forma, neutralizzazione della
storia ma anche religione della terra, sorgente creativa
dionisiaca immanente, e, da ultimo, finalità universale.
Sofia e Apocalisse rappresentano le categorie più
propriamente russe in cui inscrivere l'esistenza dell'"idea".
L'esito antimodernista è tanto più evidente
quanto più si procede nel "luogo della crisi".
La differenza fondamentale con la storia occidentale si
vede bene soprattutto alla fine del percorso e mostra in
tutta chiarezza quanto le categorie di questo mondo siano
inadatte a leggere l'esperienza della Russia.
Al culmine del percorso della crisi e fine della modernità,
nel mondo occidentale, nella triade Kafka-Proust-Beckett
si legge infine lo "stare nell'impossibilità"
come esito ultimo del tragico e dell'assurdo. Nella frase
testamentaria di Beckett, "I can't go on, I'll go on",
è espresso il destino della definitiva scomparsa
del significato: scomparsa resa paradossale dalla persistenza,
in maniera più accentuata che mai dalla forma. E
se forma-significato è la dicotomia fondante dell'Occidente
moderno, con tutte le relative e possibili problematiche
che da essa derivano, l'idea russa si muove su altri binari.
È il concetto di forma, proprio quello che nell'Occidente
moderno non farebbe più problema, a rappresentare
il punto della crisi e della dipartita. Sofia ed Apocalisse
si accordano nella neutralizzazione della forma del nuovo,
e disegnano un mondo in cui il tempo perde l'irreversibilità
e acquista invece la propria spazialità. La forma
è un prodotto a venire, non è un dato della
storia: questa è la risposta del popolo russo alle
riforme di Pietro il Grande e a uno Stato, un popolo, che
da Pukin in avanti, nasce moderno, a differenza dell'Occidente
che lo è dovuto diventare. Il significato è
invece il nulla negativo, l'abisso oscuro che precede il
creato, e da cui la Sofia discende, ma che è pure
il nulla di Dio che crea e creerà forme sempre nuove.
Su queste linee si muove l'anima russa, e la sua dimensione
tragica non è e non si troverà nella contraddizione
del soggetto/forma di fronte all'impossibilità del
significato, quanto piuttosto del soggetto/sorgente vitale
di fronte all'eccessiva, insostenibile, possibilità
del nulla.
L'eccesso di possibilità, e la piena consapevolezza
di questo, è il luogo della tragedia nell'estetica
russa. In altre parole, la tragedia della libertà,
come incontro, non opposizione, dei due elementi dell'idea
russa. Non si tratta quindi di uno "scontro" che
genera un assurdo, quanto di un "passaggio" che
produce un'insostenibile possibilità. Non per questo
meno tragico del primo.
Questa, secondo Rozanov, è la corretta chiave di
lettura della filosofia del sottosuolo di Dostoevskij: dalla
sua rivelazione nelle Memorie, come energia ribelle, caos,
urlo primordiale e, appunto, "stichija", al suo
completamento nell'apertura universale ed escatologica operata
nei Karamazov.
Il pensiero tragico di Dostoevskij è sì, quello
visto da estòv, nell'uomo del sottosuolo che
reclama i propri diritti davanti al palazzo di cristallo,
e non può annientare né questo né se
stesso, e nondimeno rivendica il suo "no", l'assurda
possibilità del rifiuto di ciò che rifiutabile
non è, ma è soprattutto, infine, il superamento
del mondo occidentale svuotato dalle forme caduche del nuovo
e il senso finalistico della missione della Russia, grazie
alla sua innocenza e alla vocazione universale che la contraddistingue.
In altre parole, l'orrore di Dostoevskij è il baratro
stesso della libertà: la capacità di riconoscerla
e guardarla fino in fondo. Vedere che l'essere umano non
è in piedi su una rupe di fronte all'abisso, ma nell'abisso
vive-da-sempre, con la possibilità di generarlo egli
stesso ogni istante.
Allo stesso modo, la "bellezza che salverà il
mondo" non può essere altro che un luogo mai
presente, la profezia distante che null'altro richiama se
non il suo stesso annuncio: il principe Mikin nomina
soltanto la bellezza, non la indica. E questa può
rivelarsi unicamente come qualcosa di non "già
dato"; qualcosa che vive in quella zona di mezzo, in
quella lontananza esistente tra la "chiamata"
e l'apertura dell'ente da sempre atteso.
La "crudeltà" di Dostoevskij non consiste
nell'aver dipinto i suoi personaggi nel ruolo di Sisifo:
ma nell'aver tolto loro sia la montagna che il masso da
spingere. Nell'averli restituiti alla propria totale, libera,
possibilità dialogica. Nell'aver messo tutti noi,
e Dio stesso, in questa condizione.
Atei o cristiani, siamo liberi, assolutamente liberi. Per
il dono più grande che può fare il Creatore
alle sue creature, o perché nessuno ha creato un
bel niente: siamo noi i protagonisti. È questo il
guaio.
Oltre la "polifonia" della sua arte e le mille
manifestazioni del suo pensiero, un'idea saldamente dostoevskiana
questa. Un'idea crudele.
[1] I brani delle lettere di Dostoevskij
qui riportati sono tratti da: G. Pacini, F. M. Dostoevskij,
Milano, Bruno Mondadori Editore, 2002, p. 95.
[2] Ivi, p. 96.
[3]Basti citare Fëdor Stepùn, "I Demòni e la rivoluzione bolscevica"; Jurij Karjakin, "Dostoevskij
e la vigilia del XXI secolo" e infine il celebre volume
di Ljudmila Saraskina, "I Demòni romanzo
premonitore".
[4] G. Pacini, op. cit., p. 96.
[5]D. P. Mirskij, "Storia della letteratura russa",
tr. it. di Silvio Bernardini, Milano, Garzanti, 1995, p. 243.
[6] G. Pacini, op. cit., p. 96.
[7] F. M. Dostoevskij, "I fratelli Karamazov" in
"Romanzi e taccuini" a cura di Ettore Lo Gatto,
Milano, Sansoni, 1963, vol. II, 5, p. 174.
[8] Nell'"Idiota", a proposito del Cristo di Holbein, Dostoevskij farà dire a Ippolit: "Gli
uomini che circondavano il morto, ma dei quali nessuno appariva
nel quadro, dovettero provare un'angoscia e una costernazione
terribile in quella sera che aveva frantumato di colpo tutte
le loro speranze e quasi la loro fede" (F. M. Dostoevskij,
"L'Idiota" in "Romanzi e taccuini" cit.,
p. 502).
[9] P. Citati, "Il Male Assoluto. Nel cuore del romanzo
dell'Ottocento", Milano, Arnoldo Mondadori, 2000, p.
316.
[10] F. M. Dostoevskij, "I Demòni", tr. it
di Rinaldo Küfferle, Milano, Arnoldo Mondadori, 2002,
pp. 633-34.
[11] P. Citati, op. cit., p. 323.
[12] M. Bachtin, "Dostoevskij. Poetica e stilistica",
tr. it. di Giuseppe Garritano, Torino, Einaudi, 2002, p. 127.
[13] F. M. Dostoevskij, "I Demòni" cit.,
p. 668.
[14] "Quei demoni che escono dal malato ed entrano nei
porci, sono tutte le piaghe, tutti i miasmi, tutte le immondizie,
tutti i demoni e i demonietti che si sono raccolti nella grande
e cara malata, nella nostra Russia [...] I porci siamo noi
[...] ed io primo forse in testa agli altri, e ci precipiteremo,
folli e indemoniati, giù dalla rupe nel mare e affogheremo
tutti" (Ivi, p. 670).
[15] Cfr. P. Citati, op. cit., p. 326.
[16] Si veda il saggio di Thomas Mann, "Dostoevskij -
con misura" in "Nobiltà dello spirito e altri
saggi", a cura di Andrea Landolfi, Milano, Mondadori
"I Meridiani", 1997, pp. 861-880.
[17] P. Citati, op. cit., p. 316.
[18] F. M. Dostoevskij, "I Demòni" cit.,
pp. 429-430.
[19] Ivi, p. 632.
[20] Ibidem.
[21] Ibidem.
[22] S. Givone, "Dostoevskij e la filosofia", Bari,
Laterza, 1984, p. 90.
[23] Ivi, p. 96.
[24] Ibidem.
[25] Si veda F. M. Dostoevskij, "I Demòni"
cit., p. 430.
[26] Ivi, pp. 43-44.
[27] Ivi, p. 48.
[28] Ivi, p. 690.
[29] Ivi, pp. 690-691.
[30] Ivi, p. 691.
[31] Si veda in special modo il capitolo "Il male"
in L. Pareyson, "Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza
religiosa", Torino, Einaudi, 1993, pp. 26-70.
[32] E nello stesso senso potremmo collocare, anche se sotto
una veste ancor più teorica, l'esperienza di Kirillov.
[33] Ipotesi - questa del "peccato più grave"
per Dostoevskij - confermata da Ivan Karamazov nel suo celebre
dialogo col fratello Alësa, nel quale non accetta un
mondo in cui esiste la "sofferenza dei bambini".
[34] F. M. Dostoevskij, "I Demòni" cit.,
p. 711.
[35] Ivi, p. 719.
[36] Ivi, p. 703.
[37] Ivi, p. 701.
[38] M. Bachtin, "Dostoevskij" cit., p. 343.
[39] F. M. Dostoevskij, "I Demòni" cit.,
p. 722.
[40] Ivi, p. 724.
[41] Ivi, p. 703.
[42] P. Evdokimov, "Dostoevkij e il problema del male",
tr. it di Elisabetta Confaloni, Roma, Città Nuova Editrice,
1995, p. 127.
[43] Ibidem.
Andrea Oppo, Dostoevskij: La Bellezza, il Male, la Libertà.
3. La vera anima del genio crudele. Scavando al fondo
dei Karamazov,
in "XÁOS. Giornale
di confine", Anno II, N.3 Novembre-Febbraio
2003/2004, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_3/4.htm
Leggi anche:
1. Quale
Bellezza salverà il mondo? L'Idiota di Dostoevskij
e un difficile enigma
2. L'idea di male assoluto nei "Demoni" di
Dostoevskij