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Francesco Pala, Il labirinto Moro in un'epoca al tramonto

 

F. Pala, Il Labirinto Moro in un epoca al tramonto, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno II, N.3 Novembre-Febbraio 2003/2004, URL: http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_3/7.htm

 

Premessa

Il lavoro degli storici ha un compito fondamentale nel tracciare la fisionomia delle epoche passate, creando relazioni tra esse e scandendo tappe e percorsi temporali. Tuttavia è di non minore rilievo la funzione "terapeutica" di tale attività. Infatti vi sono eventi che segnano la coscienza collettiva con la forza del trauma, fatti impossibili da metabolizzare, distendere, senza l'aiuto di uno sforzo ermeneutico che serva a sottrarli all'oscurità in cui sono piombati. In alcuni casi però, i tentativi di razionalizzare il passato non riescono, e gli eventi si trasformano in fascinosi labirinti, penombre in cui diventa impossibile orientarsi.
Uno dei più intricati labirinti della storia italiana inizia il 16 Marzo 1978 per finire il 9 Maggio dello stesso anno, cinquantacinque giorni, in cui si dispiega il sequestro e l'uccisione di Aldo Moro [1]. I venticinque anni che ci separano dalla primavera di quell'anno non sono serviti a tracciare un profilo netto di una vicenda che tutt'oggi strazia la coscienza dei protagonisti, e di chiunque vi si accosti. Può allora risultare utile non tanto l'ennesima ricostruzione dei fatti, quanto un tentativo di capire il perché del muro ermeneutico che negli anni è progressivamente cresciuto intorno a tale evento.

Le premesse

A partire dal dopoguerra il sistema dei partiti, strutturatosi in sostanziale continuità, dal punto di vista organizzativo, con il partito fascista, ha visto progressivamente venir meno il proprio ruolo di mediazione tra collettività ed istituzioni, a favore dell'irresistibile identificazione tra partito e Stato, che la Democrazia Cristiana, dal dopo De Gasperi, ha coltivato con costanza e decisione, e a beneficio della tendenza del partito comunista a configurarsi come grande e potente fonte di senso, non solo politico, ma culturale ed esistenziale. Il partito-stato ha modellato per due decenni la società, facendo leva sul potere statale e sulla sua forza rassicurante e identificante. Lo svilupparsi dell'industria di Stato, la nazionalizzazione dell'energia elettrica, l'emergere di uno stato sociale con spiccata natura concessiva, sorretto dall'esplosione della spesa pubblica, hanno accompagnato il forte processo d'espansione economica e la contemporanea diffusione dei consumi. Forte è stato anche il ruolo socializzante svolto dalle stutture di partito e dalle associazioni collaterali, che hanno alimentato il processo d'identificazione tra Stato e partito.
L'europeismo dopo la fine del centrismo è stato progressivamente messo a tacere, nel timore che istanze sovrastatuali potessero sottrarre lembi di sovranità nazionale.
D'altro lato, il maggior partito d'opposizione, ha sempre marcato la propria differenza, nella teoria e nella prassi, rispetto al comunismo internazionale, tanto da proporsi quale esempio di comunismo occidentale alternativo al modello sovietico, subordinando l'internazionalismo alla fedeltà nei confronti dello Stato repubblicano. Le due principali forze politiche del dopoguerra hanno perciò contribuito in pari modo a far si che in Italia si sviluppasse uno dei modelli più pervasivi di Stato-nazione, con un profondo equilibrio tra modernità, progresso e interventismo pubblico, che ha garantito ai cittadini, seppur con alcune storture, protezione, identità, ruoli sociali, e una storia comune [2].
Gli anni settanta però, configurano alcuni dati di novità, <<il primo è costituito dallo sviluppo di movimenti collettivi ampi e radicali, che in alcune realtà giungono a esprimere fenomeni di insubordinazione sociale. Tali movimenti coinvolgono profondamente le realtà europee occidentali e quella statunitense, innestano problematiche e orientamenti culturali non più reversibili. A una prima e generale valutazione sono il segnale, dell'esaurimento, o per lo meno dell'erosione, delle forme di consenso che avevano garantito la, ed erano state una delle condizione della, stabilità di queste società nel ventennio precedente. Il secondo dato è costituito dalla fine della fase espansiva che aveva assicurato la crescita e la diffusione di un benessere senza precedenti e l'inizio di un periodo molto più travagliato>> [3]. Si tratta dunque di elementi di crisi a carattere sovranazionale, che accompagnati dalla fine dell'era industriale a favore del terziario informatizzato, annunciano la fine dello Stato-nazione, investendo l'Italia con un un'intensità resa esplosiva dal diffondersi di un'ondata terroristica tra le peggiori che l'Europa abbia mai conosciuto [4]. La classe politica italiana reagisce a tale terremoto, che scuote non solo le istituzioni, ma anche l'immaginario collettivo, attraverso il compromesso storico, che vede DC e PCI ergersi a difesa del sistema in difficoltà con le armi dell' austerità economica, della lotta al terrorismo e della forte propaganda culturale democratica [5]. Tale esperimento difensivo finisce con l'uccisione di Aldo Moro.

Il sequestro Moro

Il sequestro dell'esponente di spicco della DC segna un passaggio epocale, provoca la fine del compromesso storico, anticipa la crisi dei governi a guida DC, folgora sul nascere ogni ambizione di governo del PCI , avvia il declino delle Brigate Rosse, chiude un'epoca in maniera netta ed inequivocabile portando a compimento il processo di evaporazione dello Stato, inteso come grande matrice identitaria ed economica, iniziato al principio dei settanta.
Durante il sequestro si sviluppa un gioco dialettico di reciproco riconoscimento tra istituzioni e terroristi, che ha sullo sfondo il fantasma dello Stato-nazione che si frantuma progressivamente.
L' attacco delle BR infatti, inquadrandosi in una strategia complessiva di lotta contro le istituzioni, ha il paradossale effetto di offrire allo Stato una ragione d'esistenza, in un momento di transizione e tramonto che mina la capacità della ragione di Stato di diventare fattore di coesione e d'identificazione com'era accaduto nei decenni precedenti. Moro, in una delle sue lettere dalla prigionia, mostra un disperato stupore per l'emergere di un cosi forte ed improvviso senso dello Stato, in un paese da sempre avvezzo alle mediazioni e agli aggiustamenti e pare avvertire la sproporzione tra il rischio che le istituzioni corrono da parte dei terroristi e la dimensione che tale pericolo assume per chi detiene il potere. Non coglie però appieno il ruolo drammatico che la sua vita e la sua morte giocano rispetto alle residue speranze dello Stato di conservare il proprio potere sulla società.
Le BR, d'altro canto, decidono di rapire Moro in un momento di crisi strategica, i fumi del settantasette sono ancora vivi, con la loro forza libertaria, il movimentismo anarchicheggiante, che niente ha a che vedere con la compartimentazione centralistica, soffia sulla società, come un vento che rischia di spalancare le finestre della prigione ideologica brigatista, nata, non a caso, nel post-sessantotto, subito dopo il primo grande movimento di protesta. La lotta contro lo Stato diventa allora bisogno di riconoscimento da parte di esso, ansia di legittimazione, e Moro strumento di tale disegno: << lo scambio di prigionieri è l'unico terreno su cui Stato e Brigate Rosse sono interlocutori politici alla pari. Prendere in esame la richiesta, indipendentemente dalla sua attuazione, è il riconoscimento politico che le Br si aspettano>> [6]. Il segno della fine delle Br è tutto in tale disperante necessità di riconoscimento da parte di un nemico che vorrebbero abbattere e che muore progressivamente davanti ai loro occhi ignari.
Moro è al centro di una morsa, di un rapporto ambiguo, dialettico, sulla superficie di un arcipelago che è già sommerso dalle acque della storia, ingiustamente vittima di un rito funebre tra nemici su cui pesa un'opaca patina che li relega irrimediabilmente nel passato.
La difesa del prigioniero, affidata alla ragionevole pretesa che lo Stato sappia contemperare rigore ed umanità, è inascoltata da entrambe le parti, perché parla la lingua del futuro a chi stenta ad avere luogo nel presente. Moro fallisce nel compito che gli era più congeniale: mediare. Ma fallisce perché non è in atto alcuna mediazione, non c'è alcuna possibilità di salvargli la vita, perché la sua esistenza confligge radicalmente con le correnti profonde della storia.

Il labirinto

I venticinque anni che ci separano dai cinquantacinque giorni del sequestro, non sono bastati a schiere di interpreti, per venire a capo della vicenda, non solo giudiziariamente, ma anche politicamente ed emotivamente. Si stenta a comprenderne le profonde ragioni, le dinamiche e anche l'esito tragico per l'ostaggio. Con il passare degli anni, inoltre, è maturata una tendenza a lasciare nell'ombra i contenuti marcatamente politici del sequestro, per far emergere le dinamiche emotive, esistenziali. I terroristi sono preda di uno spaesamento schizofrenico, dovuto all'impossibilità di riconoscere se stessi negli autori di quell'orribile delitto, i politici che incarnarono la linea della fermezza appaiono logorati dal rimorso per una scelta di cui faticano a trovare le ragioni giustificanti.
Si deve constatare la concreta impossibilità di ricomporre in modo condiviso e utile per il bene comune il mosaico di passioni, riflessioni e umane sofferenze, che hanno segnato la primavera più lunga che il nostro paese abbia vissuto. Il caso Moro è un labirinto perché affidato alla memoria dei protagonisti e ai loro labirinti interiori, da esso scaturiti. Specchio fedele di tale situazione è il recente film che Marco Bellocchio ha voluto dedicare ai 55 giorni , prescindendo esplicitamente da ogni ricostruzione cronachistica, e affidando la sua prospettiva sulla vicenda a Laura Braghetti e al suo libro rievocativo "Il prigioniero", posto a base della sceneggiatura. Il film, di rara intensità emotiva, è un lungo straziante, sommesso, grido di rimpianto e dolore, per come le cose sono andate, oltre ogni dato politico e razionale.
La ragione di tale irriducibilità della vicenda Moro è da ravvisarsi nel suo collocarsi al limite di un'epoca al tramonto, le Br, il PCI, la DC e lo Stato stesso nella sua forma pervasiva, il 16 Marzo 1978 avevano già cessato di esistere, la loro ombra cercava di trarre alimento dalla prigionia di Aldo Moro, come prima s'era alimentata della sua libertà. Da ciò origina lo spaesamento di chi non riesce a darsi ragione, né a livello politico né a livello personale, di azioni, passioni, che già nel loro accadere popolavano una delle tante regioni della storia.
Per quanto paradossale possa sembrare, neanche un buon lavoro storico potrà mai restituire il profilo completo di quei giorni, che ci parlano dal non luogo che da sempre occupano.


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[1] Il 16 Marzo 1978 le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro e uccidono gli uomini della scorta. Il sequestro, durato cinquantacinque giorni, termina con l'uccisione dell'ostaggio, dopo un lungo braccio di ferro tra le Br che chiedono la liberazione di alcuni terroristi detenuti, come forma di riconoscimento politico da parte dello Stato, e gli esponenti politici dei maggiori partiti, salvo il Psi e il Pr, che rifiutano ogni trattativa, incarnando la linea della fermezza contro i brigatisti, a difesa della sovranità statale.
[2] A tal proposito, si veda Giorgio Galli, I partiti politici italiani (1943-1991), Rizzoli, Milano, 1991.
[3] Franco De Felice, Storia d'Italia, Einaudi, 1998, pag.7.
[4] All'inizio degli anni settanta comincia il tramonto del settore secondario, l'industria, a favore del terziario informatizzato, secondo due modelli: da un lato paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada affrontano tale passaggio in modo radicale, d'altro lato Germania, Gaippone, Francia, sviluppano un modello informatico industriale che consente una transizione più morbida da un sistema all'altro. In Italia al fenomeno dell'informatizzazione industriale si accompagna la forte espansione della piccola-media impresa. Sotto il profilo politico a tale fenomeno economico corrisponde lo svilupparsi di esperienze di governo caratterizzate da uno sfrenato liberismo che tende allo smantellamento dello Stato. In Italia i governi a guida socialista pur non dismettendo le strutture dello stato sociale ne minano le fondamenta attraverso la spesa pubblica.
[5] Per un quadro incisivo circa la situazione critica dell'Italia negli anni settanta si veda Paul Ginsborg, Berlinguer tra passato e presente, in Massimo D'Alema-Paul Ginsborg, dialogo su Berlinguer, Giunti, 1994.
[6] Adriana Faranda e Silvana Mazzocchi, L'anno della tigre, Baldini e Castoldi, 1994, p.132.

Bibliografia al testo

- Bianconi Giovanni, Mi dichiaro prigioniero politico, Einaudi, 2003.
- Braghetti Anna Laura e Tavella Paola, Il prigioniero, Feltrinelli, 2002.
- Faranda Adriana e Mazzocchi Silvana, L'anno della tigre, Baldini e Castoldi, 1994.
- Flamigni Sergio, La tela del ragno, Kaos, 2002.
- Galli Giorgio, Il partito armato, Kaos, 1990.
- Sofri Adriano, L'ombra di Moro, Sellerio,1991.
- Sciascia Leonardo, L'affaire Moro, Sellerio, 1988.