Premessa
Il
lavoro degli storici ha un compito fondamentale nel tracciare
la fisionomia delle epoche passate, creando relazioni tra
esse e scandendo tappe e percorsi temporali. Tuttavia è
di non minore rilievo la funzione "terapeutica"
di tale attività. Infatti vi sono eventi che segnano
la coscienza collettiva con la forza del trauma, fatti impossibili
da metabolizzare, distendere, senza l'aiuto di uno sforzo
ermeneutico che serva a sottrarli all'oscurità in
cui sono piombati. In alcuni casi però, i tentativi
di razionalizzare il passato non riescono, e gli eventi
si trasformano in fascinosi labirinti, penombre in cui diventa
impossibile orientarsi.
Uno dei più intricati labirinti della storia italiana
inizia il 16 Marzo 1978 per finire il 9 Maggio dello stesso
anno, cinquantacinque giorni, in cui si dispiega il sequestro
e l'uccisione di Aldo Moro [1]. I venticinque anni che ci
separano dalla primavera di quell'anno non sono serviti
a tracciare un profilo netto di una vicenda che tutt'oggi
strazia la coscienza dei protagonisti, e di chiunque vi
si accosti. Può allora risultare utile non tanto
l'ennesima ricostruzione dei fatti, quanto un tentativo
di capire il perché del muro ermeneutico che negli
anni è progressivamente cresciuto intorno a tale
evento.
Le
premesse
A
partire dal dopoguerra il sistema dei partiti, strutturatosi
in sostanziale continuità, dal punto di vista organizzativo,
con il partito fascista, ha visto progressivamente venir
meno il proprio ruolo di mediazione tra collettività
ed istituzioni, a favore dell'irresistibile identificazione
tra partito e Stato, che la Democrazia Cristiana, dal dopo
De Gasperi, ha coltivato con costanza e decisione, e a beneficio
della tendenza del partito comunista a configurarsi come
grande e potente fonte di senso, non solo politico, ma culturale
ed esistenziale. Il partito-stato ha modellato per due decenni
la società, facendo leva sul potere statale e sulla
sua forza rassicurante e identificante. Lo svilupparsi dell'industria
di Stato, la nazionalizzazione dell'energia elettrica, l'emergere
di uno stato sociale con spiccata natura concessiva, sorretto
dall'esplosione della spesa pubblica, hanno accompagnato
il forte processo d'espansione economica e la contemporanea
diffusione dei consumi. Forte è stato anche il ruolo
socializzante svolto dalle stutture di partito e dalle associazioni
collaterali, che hanno alimentato il processo d'identificazione
tra Stato e partito.
L'europeismo dopo la fine del centrismo è stato progressivamente
messo a tacere, nel timore che istanze sovrastatuali potessero
sottrarre lembi di sovranità nazionale.
D'altro lato, il maggior partito d'opposizione, ha sempre
marcato la propria differenza, nella teoria e nella prassi,
rispetto al comunismo internazionale, tanto da proporsi
quale esempio di comunismo occidentale alternativo al modello
sovietico, subordinando l'internazionalismo alla fedeltà
nei confronti dello Stato repubblicano. Le due principali
forze politiche del dopoguerra hanno perciò contribuito
in pari modo a far si che in Italia si sviluppasse uno dei
modelli più pervasivi di Stato-nazione, con un profondo
equilibrio tra modernità, progresso e interventismo
pubblico, che ha garantito ai cittadini, seppur con alcune
storture, protezione, identità, ruoli sociali, e
una storia comune [2].
Gli anni settanta però, configurano alcuni dati di
novità, <<il primo è costituito dallo
sviluppo di movimenti collettivi ampi e radicali, che in
alcune realtà giungono a esprimere fenomeni di insubordinazione
sociale. Tali movimenti coinvolgono profondamente le realtà
europee occidentali e quella statunitense, innestano problematiche
e orientamenti culturali non più reversibili. A una
prima e generale valutazione sono il segnale, dell'esaurimento,
o per lo meno dell'erosione, delle forme di consenso che
avevano garantito la, ed erano state una delle condizione
della, stabilità di queste società nel ventennio
precedente. Il secondo dato è costituito dalla fine
della fase espansiva che aveva assicurato la crescita e
la diffusione di un benessere senza precedenti e l'inizio
di un periodo molto più travagliato>> [3].
Si tratta dunque di elementi di crisi a carattere sovranazionale,
che accompagnati dalla fine dell'era industriale a favore
del terziario informatizzato, annunciano la fine dello Stato-nazione,
investendo l'Italia con un un'intensità resa esplosiva
dal diffondersi di un'ondata terroristica tra le peggiori
che l'Europa abbia mai conosciuto [4]. La classe politica
italiana reagisce a tale terremoto, che scuote non solo
le istituzioni, ma anche l'immaginario collettivo, attraverso
il compromesso storico, che vede DC e PCI ergersi a difesa
del sistema in difficoltà con le armi dell' austerità
economica, della lotta al terrorismo e della forte propaganda
culturale democratica [5]. Tale esperimento difensivo finisce
con l'uccisione di Aldo Moro.
Il
sequestro Moro
Il
sequestro dell'esponente di spicco della DC segna un passaggio
epocale, provoca la fine del compromesso storico, anticipa
la crisi dei governi a guida DC, folgora sul nascere ogni
ambizione di governo del PCI , avvia il declino delle Brigate
Rosse, chiude un'epoca in maniera netta ed inequivocabile
portando a compimento il processo di evaporazione dello
Stato, inteso come grande matrice identitaria ed economica,
iniziato al principio dei settanta.
Durante il sequestro si sviluppa un gioco dialettico di
reciproco riconoscimento tra istituzioni e terroristi, che
ha sullo sfondo il fantasma dello Stato-nazione che si frantuma
progressivamente.
L' attacco delle BR infatti, inquadrandosi in una strategia
complessiva di lotta contro le istituzioni, ha il paradossale
effetto di offrire allo Stato una ragione d'esistenza, in
un momento di transizione e tramonto che mina la capacità
della ragione di Stato di diventare fattore di coesione
e d'identificazione com'era accaduto nei decenni precedenti.
Moro, in una delle sue lettere dalla prigionia, mostra un
disperato stupore per l'emergere di un cosi forte ed improvviso
senso dello Stato, in un paese da sempre avvezzo alle mediazioni
e agli aggiustamenti e pare avvertire la sproporzione tra
il rischio che le istituzioni corrono da parte dei terroristi
e la dimensione che tale pericolo assume per chi detiene
il potere. Non coglie però appieno il ruolo drammatico
che la sua vita e la sua morte giocano rispetto alle residue
speranze dello Stato di conservare il proprio potere sulla
società.
Le BR, d'altro canto, decidono di rapire Moro in un momento
di crisi strategica, i fumi del settantasette sono ancora
vivi, con la loro forza libertaria, il movimentismo anarchicheggiante,
che niente ha a che vedere con la compartimentazione centralistica,
soffia sulla società, come un vento che rischia di
spalancare le finestre della prigione ideologica brigatista,
nata, non a caso, nel post-sessantotto, subito dopo il primo
grande movimento di protesta. La lotta contro lo Stato diventa
allora bisogno di riconoscimento da parte di esso, ansia
di legittimazione, e Moro strumento di tale disegno: <<
lo scambio di prigionieri è l'unico terreno su cui
Stato e Brigate Rosse sono interlocutori politici alla pari.
Prendere in esame la richiesta, indipendentemente dalla
sua attuazione, è il riconoscimento politico che
le Br si aspettano>> [6]. Il segno della fine delle
Br è tutto in tale disperante necessità di
riconoscimento da parte di un nemico che vorrebbero abbattere
e che muore progressivamente davanti ai loro occhi ignari.
Moro è al centro di una morsa, di un rapporto ambiguo,
dialettico, sulla superficie di un arcipelago che è
già sommerso dalle acque della storia, ingiustamente
vittima di un rito funebre tra nemici su cui pesa un'opaca
patina che li relega irrimediabilmente nel passato.
La difesa del prigioniero, affidata alla ragionevole pretesa
che lo Stato sappia contemperare rigore ed umanità,
è inascoltata da entrambe le parti, perché
parla la lingua del futuro a chi stenta ad avere luogo nel
presente. Moro fallisce nel compito che gli era più
congeniale: mediare. Ma fallisce perché non è
in atto alcuna mediazione, non c'è alcuna possibilità
di salvargli la vita, perché la sua esistenza confligge
radicalmente con le correnti profonde della storia.
Il
labirinto
I
venticinque anni che ci separano dai cinquantacinque giorni
del sequestro, non sono bastati a schiere di interpreti,
per venire a capo della vicenda, non solo giudiziariamente,
ma anche politicamente ed emotivamente. Si stenta a comprenderne
le profonde ragioni, le dinamiche e anche l'esito tragico
per l'ostaggio. Con il passare degli anni, inoltre, è
maturata una tendenza a lasciare nell'ombra i contenuti
marcatamente politici del sequestro, per far emergere le
dinamiche emotive, esistenziali. I terroristi sono preda
di uno spaesamento schizofrenico, dovuto all'impossibilità
di riconoscere se stessi negli autori di quell'orribile
delitto, i politici che incarnarono la linea della fermezza
appaiono logorati dal rimorso per una scelta di cui faticano
a trovare le ragioni giustificanti.
Si deve constatare la concreta impossibilità di ricomporre
in modo condiviso e utile per il bene comune il mosaico
di passioni, riflessioni e umane sofferenze, che hanno segnato
la primavera più lunga che il nostro paese abbia
vissuto. Il caso Moro è un labirinto perché
affidato alla memoria dei protagonisti e ai loro labirinti
interiori, da esso scaturiti. Specchio fedele di tale situazione
è il recente film che Marco Bellocchio ha voluto
dedicare ai 55 giorni , prescindendo esplicitamente da ogni
ricostruzione cronachistica, e affidando la sua prospettiva
sulla vicenda a Laura Braghetti e al suo libro rievocativo
"Il prigioniero", posto a base della sceneggiatura.
Il film, di rara intensità emotiva, è un lungo
straziante, sommesso, grido di rimpianto e dolore, per come
le cose sono andate, oltre ogni dato politico e razionale.
La ragione di tale irriducibilità della vicenda Moro
è da ravvisarsi nel suo collocarsi al limite di un'epoca
al tramonto, le Br, il PCI, la DC e lo Stato stesso nella
sua forma pervasiva, il 16 Marzo 1978 avevano già
cessato di esistere, la loro ombra cercava di trarre alimento
dalla prigionia di Aldo Moro, come prima s'era alimentata
della sua libertà. Da ciò origina lo spaesamento
di chi non riesce a darsi ragione, né a livello politico
né a livello personale, di azioni, passioni, che
già nel loro accadere popolavano una delle tante
regioni della storia.
Per quanto paradossale possa sembrare, neanche un buon lavoro
storico potrà mai restituire il profilo completo
di quei giorni, che ci parlano dal non luogo che da sempre
occupano.
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[1] Il 16 Marzo 1978 le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro
e uccidono gli uomini della scorta. Il sequestro, durato
cinquantacinque giorni, termina con l'uccisione dell'ostaggio,
dopo un lungo braccio di ferro tra le Br che chiedono la
liberazione di alcuni terroristi detenuti, come forma di
riconoscimento politico da parte dello Stato, e gli esponenti
politici dei maggiori partiti, salvo il Psi e il Pr, che
rifiutano ogni trattativa, incarnando la linea della fermezza
contro i brigatisti, a difesa della sovranità statale.
[2] A tal proposito, si veda Giorgio Galli, I partiti politici
italiani (1943-1991), Rizzoli, Milano, 1991.
[3] Franco De Felice, Storia d'Italia, Einaudi, 1998, pag.7.
[4] All'inizio degli anni settanta comincia il tramonto
del settore secondario, l'industria, a favore del terziario
informatizzato, secondo due modelli: da un lato paesi come
Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada affrontano tale passaggio
in modo radicale, d'altro lato Germania, Gaippone, Francia,
sviluppano un modello informatico industriale che consente
una transizione più morbida da un sistema all'altro.
In Italia al fenomeno dell'informatizzazione industriale
si accompagna la forte espansione della piccola-media impresa.
Sotto il profilo politico a tale fenomeno economico corrisponde
lo svilupparsi di esperienze di governo caratterizzate da
uno sfrenato liberismo che tende allo smantellamento dello
Stato. In Italia i governi a guida socialista pur non dismettendo
le strutture dello stato sociale ne minano le fondamenta
attraverso la spesa pubblica.
[5] Per un quadro incisivo circa la situazione critica dell'Italia
negli anni settanta si veda Paul Ginsborg, Berlinguer tra
passato e presente, in Massimo D'Alema-Paul Ginsborg, dialogo
su Berlinguer, Giunti, 1994.
[6] Adriana Faranda e Silvana Mazzocchi, L'anno della tigre,
Baldini e Castoldi, 1994, p.132.
Bibliografia al testo
- Bianconi Giovanni, Mi dichiaro prigioniero
politico, Einaudi, 2003.
- Braghetti Anna Laura e Tavella Paola, Il prigioniero,
Feltrinelli, 2002.
- Faranda Adriana e Mazzocchi Silvana, L'anno della tigre,
Baldini e Castoldi, 1994.
- Flamigni Sergio, La tela del ragno, Kaos, 2002.
- Galli Giorgio, Il partito armato, Kaos, 1990.
- Sofri Adriano, L'ombra di Moro, Sellerio,1991.
- Sciascia Leonardo, L'affaire Moro, Sellerio, 1988.
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