Heidegger, sin dalle prime battute
della sua conferenza (tenuta a Zurigo nel 1936), nota che
nella domanda sull'origine dell'opera d'arte emerge una
circolarità - un circolo vizioso. Innanzitutto constata
che "la domanda sull'origine dell'opera d'arte diviene
la domanda sull'essenza dell'arte" (2) [M.
Heidegger, 'Der Ursprung des Kunsterkes' in: 'Holzwege'.
Klostermann, Frankufurt/M, 1994. I numeri che seguono le
citazioni indicano le pagine di quest'edizione. La traduzione
è mia]. Tuttavia "cercheremo di ritrovare
l'essenza dell'arte laddove l'arte senza dubbio agisce realmente.
L'arte ha la sua dimora essenziale nell'opera d'arte"
(2).
Per sapere cos'è l'arte dovremmo rifarci all'opera
d'arte. Ma per poterci rifare all'opera d'arte, per poter
semplicemente individuarla nell'oceano di oggetti che ci
circondano e ci assediano, dovremmo già sapere cos'è
l'arte. La domanda implica la risposta. "Ciascuno nota
con facilità che ci muoviamo in un circolo"
(2). Ma "l'intelletto abituale pretende che un tale
circolo
venga evitato" (2). Heidegger intende
invece operare in questa circolarità, completarla
(cfr. 2). Infatti, a suo parere, "raccogliere delle
caratteristiche
dal sussistente e dedurre da dei principi
è qui egualmente impossibile e quando lo si fa, si
ha un'autoillusione" (2sg.).
Penso tuttavia che esso venga posto, presentandosi come
inevitabile, se ci si muove nel quadro di un'estetica normativa,
se s'intende cioè arrivare agli oggetti artistici
partendo da una definizione preliminare di arte e non, viceversa,
arrivare ad una definizione di arte partendo dai reali oggetti
artistici, individuati non sulla base di quella definizione
(di una definizione a priori), ma sulla base di tutto ciò
che si è finora manifestato come artistico o che
è stato considerato tale, senza eccezione alcuna.
Operando in tal modo, il circolo stesso risulta essere una
"autoillusione".
Non si tratterebbe di raccogliere o assemblare tutte le
caratteristiche degli oggetti artistici sinora sussistenti
(anche se Heidegger, che pur afferma di ricercare l'essenza
dell'arte "nell'opera vera e propria - im wirklichen
Werk" (45) -, non mostra di tener presenti tutte le
dinamiche dell'arte a lui contemporanea), ma più
semplicemente di individuare la loro differenza specifica,
il loro minimo comun denominatore, quel "minimo"
che li differenzia da tutti gli altri oggetti.
In effetti un'analisi delle loro caratteristiche intrinseche,
della loro cosalità (Dinghaftigkeit) non ci condurrebbe
alla meta: ne risulterebbe davvero una lunga elencazione,
inevitabilmente incompleta.
Io penso piuttosto che si possa rintracciare la differenza
specifica degli oggetti artistici utilizzando la categoria
di "funzione". Vi è infatti una funzione
specifica che l'oggetto artistico svolge rispetto agli altri
oggetti, ed è la seguente: è artistico quell'oggetto
che, a prescindere dalle sue caratteristiche, svolge prevalentemente
o quasi esclusivamente una funzione espositiva. È
l'oggetto che viene esposto (ausgestellt, si direbbe nella
lingua di Heidegger): che viene esposto per venire esposto.
Ogni oggetto è 'potenzialmente' artistico, in quanto
ogni oggetto può venir esposto (ed è quel
che è accaduto nell'arte degli ultimi novant'anni).
Ogni oggetto è, per lo stesso motivo, 'parzialmente'
artistico, per quel tanto di funzionalità espositiva
che comunque esercita. Non esiste un oggetto che svolge
una pura funzione di utilizzo - una pura 'Dienlichkeit',
potremmo anche dire nella terminologia di Heidegger: esso
è comunque esposto allo sguardo, come qualunque suono
è esposto all'ascolto e qualunque scritto alla lettura.
Una penna, un'automobile, un computer, un orinatoio, il
proprio corpo costituiscono in tal senso, parzialmente o
potenzialmente, degli oggetti artistici. D'altra parte un
oggetto artistico, in quanto oggetto, può svolgere
altre funzioni oltre a quella espositiva: una tela può
ben servire a sostituire il vetro di una finestra rotto
dal lancio di una piccola statuetta bronzea. Inoltre, un'opera
d'arte può ben essere oggetto di speculazione finanziaria
(e costituire un bene d'investimento): lo è del resto
proprio in quanto oggetto artistico.
Heidegger si sofferma a lungo
sul celebre quadro di van Gogh raffigurante un paio di vecchie
scarpe. Riprendiamo tale esempio. Ora, tra l'esporre un
quadro che rappresenta un paio di scarpe e l'esporre un
paio di scarpe (per il solo fine d'esporle) non vi è
alcuna differenza: entrambi, 'in quanto esposti', costituiscono
degli oggetti artistici.
Che cosa rende un paio di scarpe un oggetto artistico? Il
fatto che vengano esposte per venire osservate. E vengano
osservate non per venir acquistate, come se stessero nella
vetrina di un negozio di calzature. E se dovessero venir
esposte (in una galleria d'arte, per esempio) per venir
acquistate, non verrebbero esposte per venir indossate,
ma per venir nuovamente esposte. Se poi dovessero venir
indossate - cioè usate in quanto scarpe - allora
cesserebbero di costituire un oggetto artistico, per divenire
oggetto d'uso e quindi, prima o poi, qualcosa come spazzatura.
Ed è proprio questo il destino dell'oggetto, dell'oggetto
come strumento ('Zeug') o opera ('Werk') dell'uomo: diventar
opera d'arte, preservarsi dalla dissoluzione (e lo sguardo
estetico, qui ha ragione Heidegger, è uno sguardo
che preserva) oppure divenire spazzatura e cessare di essere.
Ciò che Heidegger trascura
nella sua teoria dell'arte - e in particolare in questa
conferenza - è proprio la potenzialità estetica
di qualunque oggetto, direi dell'oggetto in quanto tale.
Egli, nonostante le dinamiche messe in moto già vent'anni
prima dal movimento Dada, continua a ricercare l'artisticità
dell'opera d'arte nelle sue caratteristiche intrinseche
(e non nell'uso che se ne fa).
La stessa distinzione che egli pone tra opera e strumento
(cfr. 52sg.) non appare adeguata a rendere conto del massiccio
processo di estetizzazione subito dall'oggettualità
quotidiana, cioè l'esaltazione della sua funzionalità
espositiva, non a scapito, ma in accordo con il potenziamento
della sua praticità ed efficacia.
Heidegger distingue tra "la produzione come creazione"
dalla "produzione nel modo della fabbricazione"
(52). Egli scrive che "il completamento dello strumento
significa che esso, al di là di se stesso, è
rilasciato per concedersi completamente all'utilizzabilità"
(52). Dunque "quanto più maneggevole è
uno strumento, tanto meno salta agli occhi il fatto che
esso sia, ad esempio, un martello, e tanto più lo
strumento si conserva in maniera esclusiva nel suo essere
strumento" (53). L'utensile resta dimenticato nell'abituale.
Io penso al contrario che nel mondo attuale l'utensile,
il prodotto - forse meno il martello, ma non poco, poniamo,
una posata, una penna, un tavolo, un abito, una sedia -
è destinato a scomparire sempre meno nella propria
utilità ('Dienlichkeit'): è il suo design,
quel tanto di funzionalità espositiva - quel tanto
di arte che comunque esercita - a impedirne la scomparsa.
Sempre meno si può distinguere tra prodotto (qualsiasi)
e opera, almeno nel senso che ogni prodotto aspira a diventare
opera: ed esso infatti dev'essere il meno inosservato (inosservabile)
possibile; la sua superficie visiva la meno abituale possibile.
Certo, alla fine, a furia di maneggiare o percepire vistosità
e eccezioni all'abituale, non si vede più nulla e
ci si abitua a tutto (ed è forse per questo che la
produzione artistica rincorre sempre più gli estremi,
fino alla flagellazione del proprio corpo). La diffusione
integrale dell'arte, ne sancisce la morte? Se tutto è
arte, più niente lo è.
Può darsi.
Ma può anche darsi che si assista - almeno in una
piccola parte di mondo - al trionfo definitivo dell'arte.
Non alla sua morte, ma alla sua vittoria.
Se le cose stanno così, il trionfo (o la morte) dell'arte
significa che non è più possibile distinguere
tra oggetto artistico e oggetto qualunque.
Ma le cose non stanno così.
L'oggetto, infatti, 'aspira' a divenire artistico; la sua
funzionalità espositiva è cresciuta, come
s'è detto, non a scapito (in tal caso non avrebbe
nessuna chance di sopravvivenza se non come oggetto artistico),
ma 'congiuntamente' alle altre funzionalità che esso
esercita. La sua aspirazione non viene soddisfatta dal semplice
fatto che esso continua a servire oltre che ad apparire.
Potrebbe divenire pienamente (o quasi pienamente) artistico
qualora cessasse di svolgere quelle funzionalità
per cui è stato prodotto (e cessasse di essere utensile:
un destino riservato soltanto al suo prototipo).
Non si può quindi parlare di diffusione integrale
dell'arte, di una sua morte o di un suo trionfo. A meno
che non si ricerchi l'artisticità dell'oggetto artistico
nelle sue intrinseche caratteristiche e non invece nell'uso
che se ne fa.
Alla definizione che ho fornito
di oggetto artistico si potrà obiettare che esso
non è l'unico a svolgere solamente o prevalentemente
una funzione espositiva. Vorrei fare due esempi estremi:
un vaso di fiori e la fotografia.
Che cosa differenzia un vaso di fiori da un'opera d'arte?
Ricordo innanzi tutto che si tratta di chiarire una convenzione.
Spesso diviene integralmente artistico nella nostra cultura
ciò che in altre aveva carattere decorativo. Non
è quindi da escludere che in futuro la distinzione
che io assumo come ovvia - quella tra un vaso di fiori e
un oggetto artistico - non risulti più tale.
E dunque, dove risiede la differenza? Non ve ne è
nessuna che emerga dalle loro caratteristiche oggettuali.
Se il vaso di fiori fosse esposto adeguatamente in una mostra
d'arte e presentasse magari la firma di un artista, allora
esso costituirebbe un oggetto artistico. D'altra parte,
in un appartamento o in un ufficio si assume come artistico
un quadro, una scultura, ma anche una testa di legno (come
la Testa meccanica di Hausmann) e non il vaso di fiori.
In altri termini si assume come artistico ciò che
è presentato come tale: lo stesso vaso di fiori subisce
questo destino.
Se è così, non basta dire che è artistico
l'oggetto che svolge la sola funzione espositiva: è
artistico l'oggetto che la svolge in un certo modo. L'artisticità
sarebbe data dalle condizioni particolari in cui un oggetto
viene esposto. Sarebbero tali condizioni che gli forniscono
quell'altro di cui parla Heidegger: "
poiché
l'opera d'arte è qualcos'altro al di là della
cosalità. Ed è in questo altro che consiste
l'artistico" (4).
Si tratterebbe allora di individuare le modalità
di esposizione che rendono artistico un oggetto spostando
la domanda da "che cosa rende artistico un oggetto?"
a "che cosa rende artistica un'esposizione?"
A ben pensare, ciò non risulta necessario. Seguirò
dunque un'altra strada, che risponde comunque alla domanda
posta: il vaso di fiori non svolge innanzi tutto una funzione
espositiva, ma una decorativa. Esso serve a decorare; non
viene esposto per venire esposto (e se venisse esposto per
venire esposto verrebbe assunto come opera d'arte).
Resta da precisare la differenza tra funzione decorativa
e funzione espositiva.
Un oggetto artistico può decorare una stanza. Un
vaso di fiori decora una stanza senza essere necessariamente
assunto come oggetto artistico. Entrambi vengono esposti.
Ma il primo è tale in quanto esercita innanzitutto
una funzione espositiva; il secondo, pur svolgendo comunque
una funzione espositiva, ne svolge una decorativa.
I termini si capovolgono. Il primo decora in quanto innanzitutto
svolge una funzione espositiva; il secondo svolge una funzione
espositiva in quanto decora.
Che cosa significa, poi, "decora"? A rigore, tutto
in un ambiente decora, in quanto riempie lo spazio con una
certa forma e un certo colore. Un divano decora, perché
ha comunque una certa forma, un colore etc.
Ma il divano serve anche a sedercisi sopra, come il tavolo
serve a poggiare sopra dei piatti su cui mangiare o dei
quaderni su cui scrivere. È per questo che essi vengono
sistemati là dove si trovano.
In una stanza vi sono poi oggetti che, per l'appunto, non
servono a nient'altro che a decorare, cioè a riempire
lo spazio con delle forme e dei colori.
Ma se è così, anche un oggetto artistico decora?
Serve soltanto a decorare, cioè a riempire lo spazio
con delle forme e dei colori? Direi che esso non viene assunto
come tale quando serve solo a questo, ma viene assunto come
tale quando 'non serve a niente', al di là (o al
di qua) della funzione decorativa che comunque svolge.
Si può dunque concludere affermando che
- qualsiasi oggetto, in quanto
occupante uno spazio, decora;
- vi sono oggetti che svolgono 'innanzitutto' una funzione
decorativa;
- ogni oggetto svolge una funzione espositiva, in quanto
osservabile o percepibile;
- vi sono oggetti che svolgono 'innanzitutto' una funzione
espositiva.
Analizziamo ora la differenza
tra, poniamo, la foto esposta su di un tavolo o una scrivania
e un oggetto artistico. La prima sembrerebbe posta là
per svolgere innanzitutto una funzione espositiva. È
la per venire esposta: a cos'altro serve?
È difficile stabilire che funzione svolga la foto.
Potremmo dire una funzione mnemonica (perché raffigura
ad esempio un paesaggio che si è goduto e di cui
si vuole conservare il ricordo) o emotiva (perché
ritrae i propri cari). Essa non viene tuttavia esposta per
il solo fatto di venir osservata. Se venisse esposta in
quanto tale - senza che ricordi un'esperienza vissuta, senza
che ritragga i propri cari e così via, e comunque
non tanto per questo, ma soprattutto per come essa si presenta
allo sguardo - costituirebbe un oggetto artistico. Piuttosto,
essa viene esposta nel solo senso che rappresenta qualcosa:
svolge in tal senso una sola funzione rappresentazionale.
È chiaro, poi, che per poterla svolgere deve svolgere
anche una funzione espositiva.
Vi sono dunque oggetti che svolgono innanzitutto una funzione
rappresentazionale: le foto dei propri cari, ma anche la
foto di una collisione di particelle mostranti un decadimento
beta positivo (e infatti chi non è in grado di capire
che si tratta della ripresa d'un esperimento di fisica delle
alte energie - vale a dire chi non è in grado di
cogliere la funzione rappresentazionale dell'immagine -
è ben disposto ad assumerla come opera d'arte).
Quel che comunque ci interessa sottolineare è il
fatto che l'opera d'arte per essere assunta come tale non
deve svolgere una funzione rappresentazionale.
L'opera d'arte, innanzitutto, non rappresenta né
descrive, nel senso che ciò che la contraddistingue
non è né la rappresentazione né la
descrizione (e vien qui da chiedersi - senza azzardare una
risposta - se ciò che contraddistingue la letteratura
sia il racconto), ma il solo fatto di esporsi, cioè
di fornire al nostro sguardo la sua superficie visiva.
È il nostro sguardo che legge la superficie visiva,
trattandola come un testo. È il nostro sguardo che
attribuisce ad essa una profondità rappresentazionale,
un significato. Anche qualora, come nella gran parte dei
casi, l'opera d'arte rappresenta (un volto, un paesaggio,
una sedia, un paio di scarpe), ciò che rappresenta
viene assunto come rappresentante qualcos'altro, come segno
di qualcosa. Di un opera astratta si dice comunque che rappresenta...
La nostra cultura ha orrore dell'insignificante. E "insignificante"
non è infatti ciò che non ha significato,
ma ciò che ha un significato banale e poco interessante.
Non vi è niente che non abbia significato: tutto
ciò che è prodotto culturale (cioè
prodotto umano) deve avere un significato, deve rappresentare,
svelare, dire. È qualcosa da decifrare.
A maggior ragione ha significato il prodotto che non serve,
che non possiede alcuna utilità ('Dienlichkeit'),
ma svolge quasi esclusivamente una funzione espositiva.
L'oggetto prodotto che è là solo per esser
là, per manifestarsi, offrirsi allo sguardo. Non
può non significare, per quanto insignificante possa
essere. E non significa ciò che (eventualmente) rappresenta,
ma qualcos'altro. In Heidegger significa la verità
(la bellezza è per lui infatti l'apparire nell'opera
della verità).
L'arte viene assunta come lingua, l'opera come parola. E
la parola dell'arte non può che essere poesia: "l'essenza
dell'arte - scrive Heidegger - è la poesia. Ma l'essenza
della poesia consiste nell'istituire la verità"
(63). E così si chiude il cerchio. L'oggetto artistico,
comunque, parla. E dell'oggetto artistico si parla, si chiacchiera.
È 'das Gerede' di cui (in altro contesto) parla Heidegger
in 'Essere e tempo'.
È il nostro sguardo che chiacchiera. Quello metafisico
di Heidegger non meno (e non più) di quello del critico
d'arte. Ma anche quello dell'artista, che chiacchiera eventualmente
dell'opera di cui è considerato autore, ponendosi
(e rappresentandosi al suo stesso sguardo) come colui che
ha istituito il legame tra la superficie visiva e ciò
di cui essa, nascondendolo, è significante. E anche
questa chiacchiera avviene, non meno che nel fruitore, dentro
lo sguardo e non dentro la produzione (semmai dentro lo
sguardo della produzione).
Come porsi allora di fronte ad un'opera d'arte? Preferisco
il silenzio. Attraversare l'esposizione dell'opera senza
dire e far dire. Senza costringere l'oggetto a parlare.
Lasciarlo nella sua muta esposizione. Sarà possibile?
Oppure vi è uno sguardo che si sofferma sulla superficie
visiva, e ne parla, senza assumerla come segno, senza farla
parlare? È solo un'illusione?
Sebastiano Ghisu insegna filosofia
del linguaggio presso la Facoltà di scienze politiche
dell'Università degli studi di Sassari. Ha svolto attività
di ricerca presso la Freie Universität di Berlino, dove
ha conseguito il dottorato. Ha collaborato alla rivista Das
Argument ed è stato membro della redazione del
Dizionario storico-critico del marxismo (Historisch-kritisches
Wörterbuch des Marxismus) sotto la direzione di W.F.
Haug (per tale dizionario ha redatto la voce Entfremdungsdiskussion).
Le sue ricerche si sono mosse fondamentalmente 1. nell'ambito
della teoria del soggetto, nell'individuazione delle modalità
e dei meccanismi (linguistici e cognitivi) attraverso cui
il soggetto è stato rappresentato al nostro sguardo
come ovvietà o fatto originario; 2. al confine tra
filosofia del linguaggio ed epistemologia, nell'analisi del
rapporto tra meccanismi di funzionamento della lingua (intesa
in senso lato come sistema segnico) e meccanismi di produzione
della conoscenza. Tra i suoi lavori: Georg Simmel: l'ideologia
dell'individualità, Cagliari 1991; Althusser
e la psicanalisi, Cagliari 1991; Ewigkeit des Unbewußten
- Ewigkeit der Ideologie, Hamburg 1995; Gli articoli:
Dialogo, scienze e verità. Una critica alla teoria
della verità di Jürgen Habermas. In: Atque,
Aprile 1997; Il paradosso della soggettività. Il
concetto di discontinuità nell'opera di Michel Foucault.
In: Iride, Agosto 2000. Ha inoltre curato la parte
relativa alla figura di Platone in: Filosofie nel Tempo,
a cura di Giorgio Penzo, Milano, 2001. |