giornalediconfine.net

 

 

 

 

SEBASTIANO GHISU, "Il destino dell'oggetto. Riflessioni intorno al Saggio di Heidegger L'origine dell'opera d'arte"

 

S. Ghisu, "Il destino dell'oggetto. Riflessioni intorno al Saggio di Heidegger L'origine dell'opera d'arte" in "XÁOS. Giornale di confine", Anno I, n.2 luglio - ottobre 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_2/art_1.htm

 

Heidegger, sin dalle prime battute della sua conferenza (tenuta a Zurigo nel 1936), nota che nella domanda sull'origine dell'opera d'arte emerge una circolarità - un circolo vizioso. Innanzitutto constata che "la domanda sull'origine dell'opera d'arte diviene la domanda sull'essenza dell'arte" (2) [M. Heidegger, 'Der Ursprung des Kunsterkes' in: 'Holzwege'. Klostermann, Frankufurt/M, 1994. I numeri che seguono le citazioni indicano le pagine di quest'edizione. La traduzione è mia]. Tuttavia "cercheremo di ritrovare l'essenza dell'arte laddove l'arte senza dubbio agisce realmente. L'arte ha la sua dimora essenziale nell'opera d'arte" (2).
Per sapere cos'è l'arte dovremmo rifarci all'opera d'arte. Ma per poterci rifare all'opera d'arte, per poter semplicemente individuarla nell'oceano di oggetti che ci circondano e ci assediano, dovremmo già sapere cos'è l'arte. La domanda implica la risposta. "Ciascuno nota con facilità che ci muoviamo in un circolo" (2). Ma "l'intelletto abituale pretende che un tale circolo… venga evitato" (2). Heidegger intende invece operare in questa circolarità, completarla (cfr. 2). Infatti, a suo parere, "raccogliere delle caratteristiche… dal sussistente e dedurre da dei principi è qui egualmente impossibile e quando lo si fa, si ha un'autoillusione" (2sg.).
Penso tuttavia che esso venga posto, presentandosi come inevitabile, se ci si muove nel quadro di un'estetica normativa, se s'intende cioè arrivare agli oggetti artistici partendo da una definizione preliminare di arte e non, viceversa, arrivare ad una definizione di arte partendo dai reali oggetti artistici, individuati non sulla base di quella definizione (di una definizione a priori), ma sulla base di tutto ciò che si è finora manifestato come artistico o che è stato considerato tale, senza eccezione alcuna. Operando in tal modo, il circolo stesso risulta essere una "autoillusione".
Non si tratterebbe di raccogliere o assemblare tutte le caratteristiche degli oggetti artistici sinora sussistenti (anche se Heidegger, che pur afferma di ricercare l'essenza dell'arte "nell'opera vera e propria - im wirklichen Werk" (45) -, non mostra di tener presenti tutte le dinamiche dell'arte a lui contemporanea), ma più semplicemente di individuare la loro differenza specifica, il loro minimo comun denominatore, quel "minimo" che li differenzia da tutti gli altri oggetti.
In effetti un'analisi delle loro caratteristiche intrinseche, della loro cosalità (Dinghaftigkeit) non ci condurrebbe alla meta: ne risulterebbe davvero una lunga elencazione, inevitabilmente incompleta.
Io penso piuttosto che si possa rintracciare la differenza specifica degli oggetti artistici utilizzando la categoria di "funzione". Vi è infatti una funzione specifica che l'oggetto artistico svolge rispetto agli altri oggetti, ed è la seguente: è artistico quell'oggetto che, a prescindere dalle sue caratteristiche, svolge prevalentemente o quasi esclusivamente una funzione espositiva. È l'oggetto che viene esposto (ausgestellt, si direbbe nella lingua di Heidegger): che viene esposto per venire esposto.
Ogni oggetto è 'potenzialmente' artistico, in quanto ogni oggetto può venir esposto (ed è quel che è accaduto nell'arte degli ultimi novant'anni). Ogni oggetto è, per lo stesso motivo, 'parzialmente' artistico, per quel tanto di funzionalità espositiva che comunque esercita. Non esiste un oggetto che svolge una pura funzione di utilizzo - una pura 'Dienlichkeit', potremmo anche dire nella terminologia di Heidegger: esso è comunque esposto allo sguardo, come qualunque suono è esposto all'ascolto e qualunque scritto alla lettura. Una penna, un'automobile, un computer, un orinatoio, il proprio corpo costituiscono in tal senso, parzialmente o potenzialmente, degli oggetti artistici. D'altra parte un oggetto artistico, in quanto oggetto, può svolgere altre funzioni oltre a quella espositiva: una tela può ben servire a sostituire il vetro di una finestra rotto dal lancio di una piccola statuetta bronzea. Inoltre, un'opera d'arte può ben essere oggetto di speculazione finanziaria (e costituire un bene d'investimento): lo è del resto proprio in quanto oggetto artistico.

Heidegger si sofferma a lungo sul celebre quadro di van Gogh raffigurante un paio di vecchie scarpe. Riprendiamo tale esempio. Ora, tra l'esporre un quadro che rappresenta un paio di scarpe e l'esporre un paio di scarpe (per il solo fine d'esporle) non vi è alcuna differenza: entrambi, 'in quanto esposti', costituiscono degli oggetti artistici.
Che cosa rende un paio di scarpe un oggetto artistico? Il fatto che vengano esposte per venire osservate. E vengano osservate non per venir acquistate, come se stessero nella vetrina di un negozio di calzature. E se dovessero venir esposte (in una galleria d'arte, per esempio) per venir acquistate, non verrebbero esposte per venir indossate, ma per venir nuovamente esposte. Se poi dovessero venir indossate - cioè usate in quanto scarpe - allora cesserebbero di costituire un oggetto artistico, per divenire oggetto d'uso e quindi, prima o poi, qualcosa come spazzatura.
Ed è proprio questo il destino dell'oggetto, dell'oggetto come strumento ('Zeug') o opera ('Werk') dell'uomo: diventar opera d'arte, preservarsi dalla dissoluzione (e lo sguardo estetico, qui ha ragione Heidegger, è uno sguardo che preserva) oppure divenire spazzatura e cessare di essere.

Ciò che Heidegger trascura nella sua teoria dell'arte - e in particolare in questa conferenza - è proprio la potenzialità estetica di qualunque oggetto, direi dell'oggetto in quanto tale. Egli, nonostante le dinamiche messe in moto già vent'anni prima dal movimento Dada, continua a ricercare l'artisticità dell'opera d'arte nelle sue caratteristiche intrinseche (e non nell'uso che se ne fa).
La stessa distinzione che egli pone tra opera e strumento (cfr. 52sg.) non appare adeguata a rendere conto del massiccio processo di estetizzazione subito dall'oggettualità quotidiana, cioè l'esaltazione della sua funzionalità espositiva, non a scapito, ma in accordo con il potenziamento della sua praticità ed efficacia.
Heidegger distingue tra "la produzione come creazione" dalla "produzione nel modo della fabbricazione" (52). Egli scrive che "il completamento dello strumento significa che esso, al di là di se stesso, è rilasciato per concedersi completamente all'utilizzabilità" (52). Dunque "quanto più maneggevole è uno strumento, tanto meno salta agli occhi il fatto che esso sia, ad esempio, un martello, e tanto più lo strumento si conserva in maniera esclusiva nel suo essere strumento" (53). L'utensile resta dimenticato nell'abituale.
Io penso al contrario che nel mondo attuale l'utensile, il prodotto - forse meno il martello, ma non poco, poniamo, una posata, una penna, un tavolo, un abito, una sedia - è destinato a scomparire sempre meno nella propria utilità ('Dienlichkeit'): è il suo design, quel tanto di funzionalità espositiva - quel tanto di arte che comunque esercita - a impedirne la scomparsa.
Sempre meno si può distinguere tra prodotto (qualsiasi) e opera, almeno nel senso che ogni prodotto aspira a diventare opera: ed esso infatti dev'essere il meno inosservato (inosservabile) possibile; la sua superficie visiva la meno abituale possibile.
Certo, alla fine, a furia di maneggiare o percepire vistosità e eccezioni all'abituale, non si vede più nulla e ci si abitua a tutto (ed è forse per questo che la produzione artistica rincorre sempre più gli estremi, fino alla flagellazione del proprio corpo). La diffusione integrale dell'arte, ne sancisce la morte? Se tutto è arte, più niente lo è.
Può darsi.
Ma può anche darsi che si assista - almeno in una piccola parte di mondo - al trionfo definitivo dell'arte. Non alla sua morte, ma alla sua vittoria.
Se le cose stanno così, il trionfo (o la morte) dell'arte significa che non è più possibile distinguere tra oggetto artistico e oggetto qualunque.
Ma le cose non stanno così.
L'oggetto, infatti, 'aspira' a divenire artistico; la sua funzionalità espositiva è cresciuta, come s'è detto, non a scapito (in tal caso non avrebbe nessuna chance di sopravvivenza se non come oggetto artistico), ma 'congiuntamente' alle altre funzionalità che esso esercita. La sua aspirazione non viene soddisfatta dal semplice fatto che esso continua a servire oltre che ad apparire. Potrebbe divenire pienamente (o quasi pienamente) artistico qualora cessasse di svolgere quelle funzionalità per cui è stato prodotto (e cessasse di essere utensile: un destino riservato soltanto al suo prototipo).
Non si può quindi parlare di diffusione integrale dell'arte, di una sua morte o di un suo trionfo. A meno che non si ricerchi l'artisticità dell'oggetto artistico nelle sue intrinseche caratteristiche e non invece nell'uso che se ne fa.

Alla definizione che ho fornito di oggetto artistico si potrà obiettare che esso non è l'unico a svolgere solamente o prevalentemente una funzione espositiva. Vorrei fare due esempi estremi: un vaso di fiori e la fotografia.
Che cosa differenzia un vaso di fiori da un'opera d'arte?
Ricordo innanzi tutto che si tratta di chiarire una convenzione. Spesso diviene integralmente artistico nella nostra cultura ciò che in altre aveva carattere decorativo. Non è quindi da escludere che in futuro la distinzione che io assumo come ovvia - quella tra un vaso di fiori e un oggetto artistico - non risulti più tale.
E dunque, dove risiede la differenza? Non ve ne è nessuna che emerga dalle loro caratteristiche oggettuali. Se il vaso di fiori fosse esposto adeguatamente in una mostra d'arte e presentasse magari la firma di un artista, allora esso costituirebbe un oggetto artistico. D'altra parte, in un appartamento o in un ufficio si assume come artistico un quadro, una scultura, ma anche una testa di legno (come la Testa meccanica di Hausmann) e non il vaso di fiori. In altri termini si assume come artistico ciò che è presentato come tale: lo stesso vaso di fiori subisce questo destino.
Se è così, non basta dire che è artistico l'oggetto che svolge la sola funzione espositiva: è artistico l'oggetto che la svolge in un certo modo. L'artisticità sarebbe data dalle condizioni particolari in cui un oggetto viene esposto. Sarebbero tali condizioni che gli forniscono quell'altro di cui parla Heidegger: "… poiché l'opera d'arte è qualcos'altro al di là della cosalità. Ed è in questo altro che consiste l'artistico" (4).
Si tratterebbe allora di individuare le modalità di esposizione che rendono artistico un oggetto spostando la domanda da "che cosa rende artistico un oggetto?" a "che cosa rende artistica un'esposizione?"
A ben pensare, ciò non risulta necessario. Seguirò dunque un'altra strada, che risponde comunque alla domanda posta: il vaso di fiori non svolge innanzi tutto una funzione espositiva, ma una decorativa. Esso serve a decorare; non viene esposto per venire esposto (e se venisse esposto per venire esposto verrebbe assunto come opera d'arte).
Resta da precisare la differenza tra funzione decorativa e funzione espositiva.
Un oggetto artistico può decorare una stanza. Un vaso di fiori decora una stanza senza essere necessariamente assunto come oggetto artistico. Entrambi vengono esposti. Ma il primo è tale in quanto esercita innanzitutto una funzione espositiva; il secondo, pur svolgendo comunque una funzione espositiva, ne svolge una decorativa.
I termini si capovolgono. Il primo decora in quanto innanzitutto svolge una funzione espositiva; il secondo svolge una funzione espositiva in quanto decora.
Che cosa significa, poi, "decora"? A rigore, tutto in un ambiente decora, in quanto riempie lo spazio con una certa forma e un certo colore. Un divano decora, perché ha comunque una certa forma, un colore etc.
Ma il divano serve anche a sedercisi sopra, come il tavolo serve a poggiare sopra dei piatti su cui mangiare o dei quaderni su cui scrivere. È per questo che essi vengono sistemati là dove si trovano.
In una stanza vi sono poi oggetti che, per l'appunto, non servono a nient'altro che a decorare, cioè a riempire lo spazio con delle forme e dei colori.
Ma se è così, anche un oggetto artistico decora? Serve soltanto a decorare, cioè a riempire lo spazio con delle forme e dei colori? Direi che esso non viene assunto come tale quando serve solo a questo, ma viene assunto come tale quando 'non serve a niente', al di là (o al di qua) della funzione decorativa che comunque svolge.
Si può dunque concludere affermando che

- qualsiasi oggetto, in quanto occupante uno spazio, decora;
- vi sono oggetti che svolgono 'innanzitutto' una funzione decorativa;
- ogni oggetto svolge una funzione espositiva, in quanto osservabile o percepibile;
- vi sono oggetti che svolgono 'innanzitutto' una funzione espositiva.

Analizziamo ora la differenza tra, poniamo, la foto esposta su di un tavolo o una scrivania e un oggetto artistico. La prima sembrerebbe posta là per svolgere innanzitutto una funzione espositiva. È la per venire esposta: a cos'altro serve?
È difficile stabilire che funzione svolga la foto. Potremmo dire una funzione mnemonica (perché raffigura ad esempio un paesaggio che si è goduto e di cui si vuole conservare il ricordo) o emotiva (perché ritrae i propri cari). Essa non viene tuttavia esposta per il solo fatto di venir osservata. Se venisse esposta in quanto tale - senza che ricordi un'esperienza vissuta, senza che ritragga i propri cari e così via, e comunque non tanto per questo, ma soprattutto per come essa si presenta allo sguardo - costituirebbe un oggetto artistico. Piuttosto, essa viene esposta nel solo senso che rappresenta qualcosa: svolge in tal senso una sola funzione rappresentazionale.
È chiaro, poi, che per poterla svolgere deve svolgere anche una funzione espositiva.
Vi sono dunque oggetti che svolgono innanzitutto una funzione rappresentazionale: le foto dei propri cari, ma anche la foto di una collisione di particelle mostranti un decadimento beta positivo (e infatti chi non è in grado di capire che si tratta della ripresa d'un esperimento di fisica delle alte energie - vale a dire chi non è in grado di cogliere la funzione rappresentazionale dell'immagine - è ben disposto ad assumerla come opera d'arte).
Quel che comunque ci interessa sottolineare è il fatto che l'opera d'arte per essere assunta come tale non deve svolgere una funzione rappresentazionale.
L'opera d'arte, innanzitutto, non rappresenta né descrive, nel senso che ciò che la contraddistingue non è né la rappresentazione né la descrizione (e vien qui da chiedersi - senza azzardare una risposta - se ciò che contraddistingue la letteratura sia il racconto), ma il solo fatto di esporsi, cioè di fornire al nostro sguardo la sua superficie visiva.
È il nostro sguardo che legge la superficie visiva, trattandola come un testo. È il nostro sguardo che attribuisce ad essa una profondità rappresentazionale, un significato. Anche qualora, come nella gran parte dei casi, l'opera d'arte rappresenta (un volto, un paesaggio, una sedia, un paio di scarpe), ciò che rappresenta viene assunto come rappresentante qualcos'altro, come segno di qualcosa. Di un opera astratta si dice comunque che rappresenta...
La nostra cultura ha orrore dell'insignificante. E "insignificante" non è infatti ciò che non ha significato, ma ciò che ha un significato banale e poco interessante. Non vi è niente che non abbia significato: tutto ciò che è prodotto culturale (cioè prodotto umano) deve avere un significato, deve rappresentare, svelare, dire. È qualcosa da decifrare.
A maggior ragione ha significato il prodotto che non serve, che non possiede alcuna utilità ('Dienlichkeit'), ma svolge quasi esclusivamente una funzione espositiva. L'oggetto prodotto che è là solo per esser là, per manifestarsi, offrirsi allo sguardo. Non può non significare, per quanto insignificante possa essere. E non significa ciò che (eventualmente) rappresenta, ma qualcos'altro. In Heidegger significa la verità (la bellezza è per lui infatti l'apparire nell'opera della verità).
L'arte viene assunta come lingua, l'opera come parola. E la parola dell'arte non può che essere poesia: "l'essenza dell'arte - scrive Heidegger - è la poesia. Ma l'essenza della poesia consiste nell'istituire la verità" (63). E così si chiude il cerchio. L'oggetto artistico, comunque, parla. E dell'oggetto artistico si parla, si chiacchiera. È 'das Gerede' di cui (in altro contesto) parla Heidegger in 'Essere e tempo'.
È il nostro sguardo che chiacchiera. Quello metafisico di Heidegger non meno (e non più) di quello del critico d'arte. Ma anche quello dell'artista, che chiacchiera eventualmente dell'opera di cui è considerato autore, ponendosi (e rappresentandosi al suo stesso sguardo) come colui che ha istituito il legame tra la superficie visiva e ciò di cui essa, nascondendolo, è significante. E anche questa chiacchiera avviene, non meno che nel fruitore, dentro lo sguardo e non dentro la produzione (semmai dentro lo sguardo della produzione).
Come porsi allora di fronte ad un'opera d'arte? Preferisco il silenzio. Attraversare l'esposizione dell'opera senza dire e far dire. Senza costringere l'oggetto a parlare. Lasciarlo nella sua muta esposizione. Sarà possibile? Oppure vi è uno sguardo che si sofferma sulla superficie visiva, e ne parla, senza assumerla come segno, senza farla parlare? È solo un'illusione?

 


Sebastiano Ghisu insegna filosofia del linguaggio presso la Facoltà di scienze politiche dell'Università degli studi di Sassari. Ha svolto attività di ricerca presso la Freie Universität di Berlino, dove ha conseguito il dottorato. Ha collaborato alla rivista Das Argument ed è stato membro della redazione del Dizionario storico-critico del marxismo (Historisch-kritisches Wörterbuch des Marxismus) sotto la direzione di W.F. Haug (per tale dizionario ha redatto la voce Entfremdungsdiskussion). Le sue ricerche si sono mosse fondamentalmente 1. nell'ambito della teoria del soggetto, nell'individuazione delle modalità e dei meccanismi (linguistici e cognitivi) attraverso cui il soggetto è stato rappresentato al nostro sguardo come ovvietà o fatto originario; 2. al confine tra filosofia del linguaggio ed epistemologia, nell'analisi del rapporto tra meccanismi di funzionamento della lingua (intesa in senso lato come sistema segnico) e meccanismi di produzione della conoscenza. Tra i suoi lavori: Georg Simmel: l'ideologia dell'individualità, Cagliari 1991; Althusser e la psicanalisi, Cagliari 1991; Ewigkeit des Unbewußten - Ewigkeit der Ideologie, Hamburg 1995; Gli articoli: Dialogo, scienze e verità. Una critica alla teoria della verità di Jürgen Habermas. In: Atque, Aprile 1997; Il paradosso della soggettività. Il concetto di discontinuità nell'opera di Michel Foucault. In: Iride, Agosto 2000. Ha inoltre curato la parte relativa alla figura di Platone in: Filosofie nel Tempo, a cura di Giorgio Penzo, Milano, 2001.