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GIUSEPPE MASCIA, "Genealogia di un sentiero"

 

G. Mascia, Genealogia di un sentiero. Tempo-Storia ed Effettività: appigli forti del Pensiero Debole, in "XÁOS. Giornale di confine", n.2 luglio-ottobre 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_2/art_11.htm

 

Nel primo intervento (G. Mascia, "Genealogia di un sentiero - Nota preliminare", XÁOS. Giornale di confine, n.1 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_precedente/art_7.htm) si è voluto cercar approdo nei lidi dell'ermeneutica, 'koinè' filosofica che ben può descrivere alcuni tratti della contemporaneità; ora, all'interno di essa, abbiam volto lo sguardo soprattutto verso il 'pensiero debole', sospettando - non senza qualche abuso - che questo non possa presentarsi come un definitivo congedo dal 'Grund'.

Nella Nota Preliminare siamo partiti da un'affermazione tanto forte quanto generica, la ripetiamo: la nostra epoca ha, per così dire, il tratto della rarefazione. Ogni inizio è oscuro (diceva Gadamer) e chi scrive ne è consapevole, così si è scelto di iniziare con una tale sentenza poiché sembra render conto di ciò che diverse famiglie filosofiche hanno, nel corso della contemporaneità, assunto - chi nel senso di una progressiva erosione di strutture stabili, chi nel senso di un cambiamento radicale - come paradigma che meglio di altri ha potuto tradurre e riassumere l'esperienza del tempo tardo-moderno (o postmoderno se si vuole); paradigma che nel "costruire un ponte" fra tradizioni di pensiero apparentemente lontane ne ha così determinato un punto di contatto. Fin qui, pertanto, si è cercato di tracciare una mappa che indicasse all'interno di questa vasta 'area geografica' un'isola d'approdo da cui poter ripartire. Si è voluto trovar ancoraggio in quelle proposte filosofiche che hanno pensato il XX secolo come l'epoca dell'oltrepassamento della metafisica, o meglio (e in linea più generale) come l'epoca del tramonto delle pretese ad una razionalità unica e universale. Filosofie della Krisis, filosofie del crepuscolo della civiltà "dell'ousia". Filosofie che segnano il nostro tempo e che per contrappasso sono a loro volta segnate da esso; così, non essendosi dileguato il vecchio tentativo che fa della filosofia un 'voler essere il proprio tempo appreso con il pensiero' e poiché il nostro occhio 'si radica' a partire da ciò che gli è più prossimo, all'interno della curva che ha solcato il 900' abbiamo guardato al pensiero debole, la cui vicinanza a noi è attestata (almeno….) da una 'geofilosofia' dell'Oggi. Qui Heidegger e Nietzsche si guardano l'un l'altro, e il pensiero vi passa attraverso trovando la via che porta dal primo al secondo e viceversa; qui si sente il frastuono di uno dei Frammenti del filosofo dell'eterno ritorno che annuncia:"La novità della nostra attuale posizione verso la filosofia è una convinzione che finora non fu propria di nessuna epoca: cioè che non possediamo la verità!" Ecco, questo pensiero (il debolismo) vuole essere una finestra sulla Storia, uno sguardo che procedendo a ritroso scopre l'età della debolezza come il 'mezzogiorno dell'umanità', l'epoca in cui le 'ombre' sono scomparse, così da poter procedere ad esplorare ciò che ne consegue, sia nel senso del loro superamento, sia nel senso della loro continuazione indebolita. Il nichilismo è pertanto la vicenda dell'ontologia occidentale, regione dell'essere in cui 'dell'essere non ne è più nulla'. 'Forma formante' del pensiero debole, almeno così affermano i suoi teorici, è il non rivendicare nessuna sovranità, il non lasciarsi niente alle spalle, il conservare tutto -ovvero: nulla viene scartato- assumendo il passato nel senso del 'Gewesenes' heideggeriano, un passato che ha a che fare con l'invio e con il destino, dove destino non rinvia alla cieca fatalità, ma vuol dire qualche cosa che non è puro arbitrio: testimonianza di una radice che nel costituire il nostro Oggi scorre nel letto del tempo - storia, e qui rispecchia di se stessa; impossibile non abusare di un'immagine di Hegel che esprime perfettamente il fulcro di questa vicenda concettuale:"(noi..) siamo il fiore più splendente del tempo, nel nostro occhio brilla ciò che ci alimenta". La chiave d'accesso al 'palazzo dei flebili' (così li ha chiamati C.A.Viano nel suo pamphlet "Va' pensiero") assume allora una forma precisa: accogliere questo destino nel senso dell'invio. L'ontologia ermeneutica dell'Oggi può perciò dichiararsi debole proprio perché l'Oggi come effettività è animato dalla Storia come cammino di una costante consumazione. A volte (in ciò sta la nostra arditezza) si ha come l'impressione che il pensiero debole assomigli ad una sorta di sala d'attesa che, ospitando elementi heideggeriani e nietzscheani, ci prepara a ricevere qualcosa, o meglio: avverte che noi accediamo all'essere solo tramite delle condizioni di possibilità che abbiamo ereditato dalla nostra tradizione storica, condizioni che hanno una provenienza e che costituiscono il nostro tempo; noi siamo dentro questa 'Ueberlieferung' (sussurrano i flebili), articolazione del compreso dove conoscente e conosciuto si appartengono già: questa è ermeneutica. Parafrasando Hegel dentro queste premesse si potrebbe dire che nel darsi delle "cose" a noi e nello stare dentro il circolo di questa provenienza restituiamo al sole il calore e la luce con cui illumina e riscalda quest'orizzonte di apertura: animazione di un radicamento in cui vi è un ricevere e un restituire. Qui si riconosce il potente vibrare della dialettica, queste sono le arcinote avventure della differenza: il dire nel detto, il dire dopo il detto; ecco, 'nessuna cosa è dove la parola manca', solo così l'essere ha la sua dimora. Hegel sosteneva che non è il puro caso a determinare il sorgere di nuove filosofie, soprattutto in tempi segnati da una certa 'leggerezza' come i nostri queste sono il segno che alcune "forze" si sono affievolite e che altre si stanno annunciando con vigore: proprio quest'ultime hanno il compito di traghettarci verso nuove epoche di stabilità. La Krisis è un crepuscolo in cui qualcosa perde consistenza e qualcos'altro invece ne acquista. Tutto questo è l'ossigeno di una filosofia che vuole essere un'ontologia del declino, che per dirsi tale - ed è ciò che qui molto brevemente si sostiene - deve, per un verso, radicarsi (individuare, indicare, etc…) con degli appigli che, se osservati da vicino, non hanno dei punti d'appoggio propriamente 'deboli'. Qui la logica (e il buon senso…) di Aristotele ci indica una possibile via: si potrebbe dire infatti, rimescolando il suo linguaggio e rapportandolo al nostro, che nel momento in cui si indica un qualcosa che è soggetto a 'indebolimento' si sta rilevando anche (implicitamente) un punto di forza; di contro, il corretto ragionar debolista non si opporrebbe più di tanto ad una simile logica, poiché nel suo spettro concettuale è proprio questo il 'punctum dolens', ovvero: qualcosa che "governava con monolitica solidità" ora si è dissolto nelle sue stesse "province"; e così si è passati dall'essere di Parmenide alla volontà di potenza di Nietzsche, dall'essere come struttura stabile all'essere come 'Erignis'. Il pensiero della Storia dell'essere come declino è allora pensiero di questo 'continuum', pensiero di una tradizione, pensiero di qualcosa che giunge a noi come tramandamento. Tuttavia, accettare una relazione con una simile intimità tra essere, storia e linguaggio vuol dire disporsi nella condizione per cui tutto è rimesso al 'continuum' del tempo-storia, significa trovarsi in una situazione in cui accediamo alle "cose" solo nell'obbedienza ad esso: nemmeno per un istante possiamo liberarci dal suo "governo", in ogni momento non possiamo che essere in un rapporto di dipendenza , in un rapporto di filialità! In questo scenario l'immagine, e il senso ... del tempo-storia assomiglia più alla 'cometa' di Husserl che all' 'Angelo della Storia' di Klee di cui parla Benjamin: faccenda heideggeriana in uno scheletro hegeliano. Ben si comprende allora che l'ermeneutica dell'effettività di cui parla il filosofo dell''Erignis' lavora e plasma le fondamenta del pensiero debole: l'occhio, per Heideggger, necessita di un radicamento, deve essere annidato in una continuità, per questo sin dal principio siamo presi dall'alterità di qualcosa che ci è preliminare. Quanto delineato finora è , per alcuni versi, rintracciabile seguendo alcune tappe decisive di una certa tradizione continentale che ha segnato interi schieramenti filosofici del 900', per esempio: nel laboratorio teoretico che prepara Essere e Tempo - ci riferiamo allo scritto giovanile intitolato Ontologia ermeneutica dell'effettività - Heidegger delinea (a scapito di qualche lettore…) cosa significhi essere immersi in un'apertura, scrive infatti: "Il concetto non è uno schema ma una possibilità dell'essere, dell'attimo, ovvero costitutivo dell'attimo, un significato attinto……(…) nostra precognizione". Ecco: nell'attimo il concetto è presente, familiare; non c'è attimo senza familiarità col concetto, l'attimo si offre nella possibilità del concetto, possibilità concettuale: il concetto è ciò che è comune agli attimi, nostra precognizione….., un significato attinto….! Qui si rileva il tratto essenziale della nostra fatticità: la nostra vita, i nostri attimi, il nostro tempo sono resi possibili a partire da ciò in cui siamo inscritti, è l'unità di questa continuità che genera la nostre possibilità. Ermeneutica significa perciò esser-già dentro un "grembo", ricevere un punto di vista: nell'attimo in cui diciamo una parola noi la stiamo raccogliendo. Il 'Dasein' heideggeriano, uno dei perni vitali dell'impalcatura debolista, si alimenta di questa stoffa di tempo-storia, vive di una tradizione; volendone fare una sorta di archeologia dovremmo dire che il concetto di 'Dasein' vive di molte stratificazioni in cui l'influenza di Dilthey è tanto presente quanto decisiva, nei Nuovi studi sulle scienze dello spirito si legge: "Da questo mondo dello spirito oggettivo il nostro io trae il suo nutrimento (…) la navicella della nostra vita è trascinata da una continua corrente che la spinge, e il presente è sempre ovunque là dove noi siamo su queste onde". Se il nutrimento dell'io…, la navicella…, la continua corrente… di cui parla Dilthey vengono letti nella direzione di quello che Hegel nell'Enciclopedia indica come il 'principio dell'esperienza dello spirito vivente', principio secondo il quale 'l'uomo, per accettare e tener per vero un contenuto, deve esserci dentro esso stesso', risulterà palmare che l'hegelismo affonda le sue radici ben in profondità nel terreno su cui son germogliate le filosofie post-heideggeriane; lo stesso Heidegger d'altronde, nella piena maturità, ritenne necessario un ripensamento del rapporto della sua filosofia con quella di Hegel. E' chiaro che secondo queste premesse il tempo - storia (cellula del pensiero debole) risuona di una memoria troppo forte per non avere i tratti del 'Grund' che trattiene tutto a sé nella corrente del suo dispiegarsi: proprio per questo certe filosofie dovrebbero guardare ad altre avventure del pensiero, volgersi verso forme di razionalità per cui l'idea di continuità ha il destino di schiacciare e di livellare tutto al suo passaggio. Forse nel cuore del debolismo, più che la possente 'armonia' della differenza ontologica, si dovrebbe poter ascoltare la voce di Benjamin che bisbiglia: l'immagine dialettica è un immagine folgorante…..il ricordo è la reliquia secolarizzata…..la reliquia proviene da un cadavere….ecco il ricordo di un'esperienza defunta.