Il saggio
di Enrica Lisciani-Petrini, "Il suono incrinato. Musica
e filosofia nel primo Novecento" edito da Einaudi e
pubblicato nel 2001, è un percorso storico-filosofico-musicale
che ha per oggetto i rapporti tra filosofia e musica (ma
non solo) tra '800 e '900, un cammino i cui estremi, musicalmente
parlando, sono Richard Wagner da una parte e Anton Webern
all'estremo opposto. Il sottotitolo riporta
la dicitura "musica e filosofia nel primo Novecento":
in realtà il periodo in esame è più
ampio di quello indicato, anche se la "rivoluzione"
a cui tutta l'opera fa riferimento si attua in effetti nei
primi venti-trent'anni del '900.
Anche il binomio "musica e filosofia" risulta
essere riduttivo: la prospettiva dell'autrice è invero
più ampia, e abbraccia il rapporto tra musica da
un lato e arti figurative, architettura, poesia e letteratura,
filosofia dall'altro. Insomma, la Lisciani-Petrini non intende
solo interpretare l'opera dei musicisti in questione tentando
esclusivamente di svelare la "poetica", ossia
il senso estetico ed etico, e quindi filosofico, delle loro
composizioni e del loro fare musica, di indicarci i reciproci
collegamenti tra le due "forme dello spirito umano".
Vuole darci una interpretazione complessiva della cultura
del secolo appena trascorso (o di buona parte di esso),
in alcune sue sfaccettature, relative alle forme d'arte
e alle opere che si sono manifestate con più forza
e potenza innovativa, e che come tali rappresentano degli
snodi essenziali, dei punti nevralgici per capire un'intera
epoca. In questo senso, il libro, oltre a costituire una
vigorosa occasione di approfondimento e di stimolo, è
un utilissimo vademecum per chi voglia "orientarsi"
in periodo spesso caotico e frammentario dell'arte e della
cultura europea.
Il punto di forza dell'opera in questione, più che
nell'interpretazione delle varie correnti musicali e del
loro rapporto con la cultura contemporanea, interpretazione
tutto sommato "classica", se vista, come credo,
nell'ambito della prospettiva fenomenologico-esistenzialistica
in cui l'autrice pare muoversi, sta nella descrizione e
nell'analisi di alcune opere musicali e nella lucidità
con cui tali analisi vengono inserite in un discorso estetico-filosofico
più ampio. Ciò può permettere, ed è
questo il merito più alto del libro, anche al lettore
più profano, di tentare un avvicinamento a brani
musicali di ardua comprensione anche per gli addetti ai
lavori. In effetti le singole sezioni dedicate ai musicisti
sono costituite da una parte introduttiva sulla "poetica"
e sulla concezione musicologia dell'autore, a cui si succede
una sempre precisa indagine delle opere più rappresentative.
La struttura del libro è la seguente: dopo un'introduzione
sull'idea della musica colta occidentale fino a metà
ottocento, troviamo la prima parte intitolata "Il lutto
e la maschera - Debussy, Stravinskij, Ravel", succeduta
dalla seconda parte ("Figure del silenzio - Schönberg,
Berg, Webern"); il tutto si chiude con un "Concludendo
".
Quasi come appendice abbiamo un quadro cronologico che riporta
eventi storici, culturali e artistici e una bibliografia
piuttosto dettagliata.
Prima di addentrarci nelle singole sezioni del libro e di
tentare un'interpretazione complessiva, qualche parola sugli
aspetti "formali" e lessicali dello scritto. Pur
non rinunciando, dove è necessario, alla giusta "tensione
linguistica", che viene sempre poi risolta in proposizioni
e concetti meno densi e più accessibili, la lettura
è piacevole e adatta a un pubblico ampio, anche se
non dotato di specifici prerequisiti filosofici o musicali.
Anche laddove la descrizione delle opere musicali scende
nel dettaglio e si addentra criticamente nell'analisi strutturale
di esse, rimaniamo pur sempre a un livello di "accettabile"
chiarezza anche per chi è digiuno di teoria musicale
o di filosofia. Siamo in ogni caso "al di sotto"
del livello di complessità e di "labirinticità"
a cui i lettori di Adorno o di Schönberg sono abituati.
Le note sono numerose ed esaurienti. Spesso sono approfondimenti
di teoria musicale ed esempi di speculazione filosofica,
ma non appesantiscono eccessivamente il testo; contengono
a volte, anzi, aneddoti e "annotazioni caratteriali"
sugli artisti, il che tende paradossalmente ad "alleggerire"
la lettura. Unico appunto che mi sembra di poter fare è
relativo ai frammenti di partitura qua e là inseriti,
che sembrano un po' isolati e scollegati dalla parola scritta,
e finiscono per diventare quasi un elemento decorativo,
una "pausa per l'occhio", soprattutto per chi
non sa leggere uno spartito. Più pregnanti appaiono
invece le tavole di alcuni prodotti dell'arte figurativa,
che si inseriscono in modo congruente nel discorso.
L'introduzione, come abbiamo già accennato all'inizio,
prende in esame l'evoluzione della musica occidentale dalle
origine greche fino al "grande commiato"[1]di
Richard Wagner e di Gustav Mahler. Qual è, secondo
l'autrice, il filo rosso che attraversa quasi 2500 anni
di storia della musica? E' il tentativo di rappresentare
attraverso i suoni e la loro armonia l'ordine del mondo,
la perfezione insita nella natura e nella divinità.
La musica diviene, grazie alle regole matematico - geometriche
che la sottendono, uno dei modi per alludere al "senso
pieno" della realtà, al suo significato supremamente
intelligibile, cioè razionale. L'autrice, in pagine
bellissime, ricorda nella Repubblica platonica la "messa
al bando" dell'arte basata su "molteplici variazioni"
che non sottenda ad "un'unica armonia e un ritmo uniforme"[2]
; insiste sul significato re-ligioso (nel senso di "re-ligare"
a Dio[3],
di "stringere" l'uomo a Dio) che la musica ha
per Agostino e per la tradizione medievale del canto monodico,
caratterizzato da una sola linea melodica; evidenzia come,
tutto sommato, anche la "rivoluzione polifonica"
del '400 e del '500 tiene fede a questa visione del mondo:
le varie voci, pur differenziandosi e contrapponendosi,
tendono a una soluzione armonicamente "pacificata",
immagine appunto dell' "Harmonia mundi"[4].
E', quella della Lisciani-Petrini, l'interpretazione di
un'intera epoca millenaria. Come tale non può, per
motivi "economici" (di spazio), tener conto delle
eccezioni che pur si manifestarono. Per fare un solo esempio,
Carlo Gesualdo, musicista campano vissuto tra il 1560 e
il 1613, "ultimo dei madrigalisti rinascimentali",
testimonia nelle elaborate e drammatiche vicende melodiche
e armoniche delle sue opere (madrigali, ma anche bellissimi
motteti e responsori), tendenti a un pesante cromatismo,
un atteggiamento cupo e pessimista nei confronti della vita
e dell'uomo, una visione tragica anche nei confronti del
messaggio cristiano, agli antipodi, per certi versi, della
visione apollinea della realtà, paradigma della musica
colta occidentale fino all'800. La progressione degli accordi
è spesso audace, le variazioni di ritmo e di melodia
repentine, ed è insistente una notevole frammentarietà
compositiva che parrebbe preludere addirittura all' "incrinamento
del suono" di cui parla l'autrice, a proposito della
dissoluzione del linguaggio musicale a fine '800.
D'altronde il modello imperante era all'epoca quello della
musica come armonia priva di dissonanze, anche se la condanna
del tritono in sede scolastica (l'intervallo musicale di
tre toni interi, che corrisponde a quello di quinta diminuita,
p.e. fa-si), definito diabolus in musica perché "di
difficile intonazione e considerato dissonante", testimonia
una tendenza sotterranea "eversiva", seppur marginale,
che alcuni tra gli artisti più sensibili sentivano
come propria.
Un'altra grande rivoluzione è quella dovuta al passaggio
al sistema tonale, alla fine del 1600, sancito dall'opera
di Bach[5].
Il grande compositore tedesco si inserisce nella tradizione
apollinea, in quanto ritiene la musica un grande evento
"scientifico", capace di svelare l'essere delle
cose e di poterlo rappresentare attraverso i suoni.
L'ultima parte dell'introduzione è dedicata al "grande
commiato" operato da Wagner e Mahler[6].
Due autori che, da due prospettive radicalmente diverse,
insistono sull'incapacità sopraggiunta di "dare
forma" compiuta a un materiale non più in essa
comprimibile. E' come se si volesse costringere un contenuto
infinito, in quanto indeterminato e non più totalmente
intelligibile, quale è maturato soprattutto dopo
l'esperienza romantica, in una forma chiusa e ordinata,
che è finita, in quanto, appunto, determinata. D'ora
in poi la musica avrà questo problema: l'impossibilità
di dire o rappresentare l'essere. Ed è in base a
questa impossibilità che si può interpretare
lo sviluppo successivo della musica colta in Occidente.
In termini filosofici potremmo dire che accade la frattura
tra linguaggio (sia esso quello delle parole, dei suoni,
delle forme sensibili) e l'essere, o meglio, il pensiero
dell'essere. Nel tentativo di superare tale frattura, ma
più spesso per dissimulare ogni credenza in una sua
consistenza, gli artisti hanno tentato vari percorsi, che
l'autrice individua lucidamente.
E' singolare che Hegel, un filosofo fondamentale per capire
le radici della rottura tra pensiero-linguaggio ed essere
(o forma e contenuto, se si vuole) che si verifica (in musica,
ma non solo) nella seconda metà dell'800 e che raggiunge
la sua più matura espressione nel '900, non venga
mai esplicitamente citato ne Il suono incrinato (se non
in conclusione, come rappresentante del razionalismo occidentale).
Certo, se si intende Hegel esclusivamente come filosofo
del sistema e della compiutezza, della perfetta identità
del reale e del razionale, apice quindi della tradizione
apollinea e razionalistica, fautore dell'ipotesi che la
realtà sia perfettamente e totalmente intelligibile,
appare effettivamente difficile trovare i collegamenti tra
i due paradigmi, quello (neo)scettico e quello razionalistico.
Ma se si prescinde dal tentativo hegeliano (smentito più
volte da lui stesso) di far "incastrare" tutto
in un sistema predeterminato, si vede come, in un'opera
"aperta" quale l'Estetica, i concetti di "insufficienza
della forma rispetto al contenuto"[7],
di "dissoluzione" e di "fine della forma
d'arte romantica"[8]
(la cosiddetta "morte dell'arte"), di "sintesi
non compiuta", siano in realtà centrali nella
sua riflessione estetica. Hegel infatti riteneva che lo
sviluppo dell'arte abbia attraversato storicamente tre momenti:
quello simbolico (tipico delle civiltà non europee
e preclassiche), in cui il contenuto (il pensiero dell'essere)
è ancora ingenuo e indeterminato (non razionale)
affinché un'opera d'arte lo possa rappresentare fedelmente;
quello classico, in cui viene raggiunta la piena identità
tra aspetti formali e il contenuto a cui l'opera allude
(si pensi alla scultura nella Grecia classica); quello romantico,
corrispondente all'epoca cristiana e comprendente la contemporaneità,
in cui il contenuto (il concetto cristiano di Dio), diventando
infinito e privo di determinazioni non può più
essere rappresentato compiutamente in una materia sensibile.
Per Hegel tutta l'arte occidentale ha origine da questa
incompiutezza (tra rappresentazione sensibile e contenuto
ideale) tipica della terza fase, da un'insufficienza di
fondo tra linguaggio e pensiero; il che significa che egli
aveva intuito i pericoli di dissoluzione a cui l'arte sarebbe
potuta andare incontro: la "morte dell'arte",
intesa in senso classico, apollineo, la perdita progressiva
della sua funzione rappresentativa. Perciò il paradigma
fondamentale che caratterizzerebbe tutto il Novecento sarebbe,
in realtà, di matrice hegeliana. Fatto di cui è
ben consapevole il citatissimo Adorno e che la Lisciani-Petrini
omette. Lo stesso Adorno quando intende sottolineare che
l'arte autentica (p.e. quella di Schönberg), deve essere
connessa alla verità, rinnova un concetto tipicamente
hegeliano (e poi heideggeriano), secondo il quale l'arte
svela l'essere, cioè la verità dell'ente,
fosse anche l' "assenza del fondamento". L'arte
non è decorazione, pura forma, ma verità.
Le principali opere di Debussy, Stravinskij, Ravel vengono
lucidamente lette e analizzate dall'autrice in questa prospettiva:
l'arte ha perso la sua funzione rappresentativa e risente
della perdita del senso dell'essere, della scomparsa del
fondamento metafisico dei fenomeni. Diventa così
frammento, invenzione pirotecnica, puro artificio, a seconda
degli specifici modi di sentire degli artisti.
In Debussy la forma si dissolve, il tempo non ha più
uno svolgimento continuo e coerente, ma predomina l'istante,
inteso come punto a se stante e non necessariamente collocabile
in uno svolgimento unitario[9];
pare non esserci più un principio che unifica la
composizione[10]
(p.e. la tonica, cioè la nota principale a cui si
riferisce un brano); non esiste più uno sviluppo
tematico[11],
ma solo giustapposizioni sonore.
In Stravinskij è l' "artificio", ossia
l'abilità dell'artista nel "fare musica",
a prendere il sopravvento e a determinare una modalità
fortemente costruttiva e manipolante del comporre. La crisi
del linguaggio musicale, la sua incapacità di dire
l'essere, determina in Stravinskij un approccio estetico
polisprospettico e dinamicamente ironico. La musica è
un "gioco combinatorio"; "esperienze del
tutto diverse l'una dall'altra, che Stravinskij attraversa
svuotandole completamente del loro significato originario
[
] vengono riplasmate e trasformate [in] tasselli
funzionali al proprio metodo compositivo. Precisa conferma
che il perfetto disincanto poteva realizzarsi solo in un
variegato gioco di maschere"[12].
L'interpretazione di tale dissoluzione si attua pienamente
con Ravel. Scrive lucidamente la Lisciani-Petrini: "Con
Ravel la creazione artistica non è più neppure
- com'era con Stravinskij - un gioco combinatorio, ancorché
sospeso esclusivamente a se stesso (senza un Fondamento
che lo giustifichi a priori o nella realtà data),
altamente "speculativo" e insieme "operativo",
nel quale si manifesta la capacità organizzativa
di una "mente che ordina, vivifica e crea", e
al quale è affidato perciò il senso, ancora
perdurante, della partecipazione dell'uomo "faber"
al mondo, ma diventa mero artificio, combinazione meccanica,
gioco di superficie dove si mescolano sobrietà e
severità formale, arguzia e perizia costruttive,
eleganza e pudore estremo"[13].
La seconda parte dell'opera è dedicata alla Scuola
di Vienna, fondata da Arnold Schönberg, Alban Berg
e Anton Webern.
Il tentativo di Schönberg consistette non nel dissimulare
un atteggiamento di sfiducia nei confronti della dissoluzione
del linguaggio della musica colta occidentale attraverso
maschere, figure, gesti pirotecnici, ma nel rifondare, coerentemente
con le mutate condizioni del tempo, un linguaggio radicalmente
nuovo. "Infatti, se il vecchio linguaggio tonale si
articolava attorno alla tonica, come simbolo, o metafora,
del Centro univoco intorno a cui si credeva ruotasse l'intero
linguaggio umano, ora l'eliminazione della tonica e l'ingresso
del contrappunto stanno a significare [l'adozione di] [
]
una Legge invisibile che tiene in perfetto equilibrio reciproco
i suoni e fa essere l'organismo musicale"[14].
Il procedimento dodecafonico ideato da Schönberg (che,
come si sa, prescrive l'assoluta equivalenza delle 12 note,
tale per cui una di esse non possa essere ripetuta prima
di eseguire le altre, all'interno di una serie predeterminata
e variabile con processi rigidamente definiti) rappresentava
il tentativo di "non precipitare nel silenzio"[15]
dopo la dissoluzione della tonalità.
Schönberg era vividamente consapevole dei problemi
che l'arte e la musica contemporanea dovevano affrontare
in un contesto, come quello novecentesco, tragicamente caratterizzato
dalla perdita del senso ultimo, del fondamento metafisico
della realtà. Per mostrare la sua estrema lucidità
filosofica nell'affrontare questo problema vorrei tentare
una piccola digressione, riferendomi alla grandiosa opera
incompiuta dell'autore viennese: Moses und Aron. In questa
opera (descritta magistralmente dalla Lisciani-Petrini,
a cui rimando per i particolari), i due protagonisti, Mosè
e Aronne, rappresentano le due principali modalità
conoscitive che confliggono nel '900. Aronne rappresenta,
direi ingenuamente, con il suo canto, l'ottimismo nei confronti
dell'uomo, l'illusione di poter parlare di Dio, di poter
spiegare il senso ultimo del mondo; egli rischia però
di cadere in un paradigma idolatrico, pagano, quindi inattuale.
Mosè, invece, può solo tragicamente parlare
(e non canta a differenza di Aronne), e rappresenta la consapevolezza
che l'ottimismo del fratello è ormai definitivamente
ingiustificato.
Nell'Einleitung (introduzione) della sublime scena prima
("La vocazione di Mosè"), esempio altissimo
di come la ferrea legge della serie dodecafonica non sembra
ostacolare per nulla la capacità espressiva dell'artista,
ma anzi è capace di potenziarla, Mosè si rivolge
a Dio con la seguente frase: "Einziger, ewiger, allgegenwärtiger,
unsichbarer und unvorstellbarer Gott!"[16].
Dio è unico, eterno, onnipresente, ma soprattutto
invisibile e irraffigurabile. Il Dio, o se si vuole, il
senso del mondo, la verità, l'essere (in senso heideggeriano
come significato velato dell'ente), è invisibile
e irraffigurabile, cioè inaccessibile alla comprensione
e al linguaggio umano. Questo è il tragico destino
di Mosè: adorare un Dio che non è "presente",
che "non si vede" in quanto totalmente trascendente,
infinitamente Altro. E' lo stesso tragico destino dell'arte
e della filosofia contemporanea: alludere a un significato
che non si dà più, e che appare ormai definitivamente
nascosto. Poco più avanti, inoltre, Mosè compie
un'affermazione capitale nell'economia della nostra analisi:
"Meine Zunge ist ungelenk: ich kann denken, aber nicht
reden"[17]
(La mia lingua è impacciata: posso pensare, ma non
posso parlare). Il senso di tale attestazione è ormai
chiaro: il pensiero non è più esprimibile
tramite il linguaggio, né quello parlato, né
quello dell'arte. Quest'ultima è destinata a vivere
di un'insanabile frattura tra i due poli: metafora e simbolo
delle più importanti vicende artistiche del secolo
appena trascorso. Mosè è forse un emblema
del '900 filosofico, artistico e musicale, esattamente come
Adrian Leverkühn (il protagonista del Doctor Faustus),
nelle intenzioni di Thomas Mann, doveva alludere al disfacimento
di un'intera civiltà.
L'opera di Alban Berg è tesa alla piena "assunzione
del possente, capillare costruttivismo schönberghiano.
Ma [
] piegato e attraversato da un'intonazione lirica,
da un pathos sottilmente dolente, che è la "stupefacente
qualità" dell'arte berghiana e [
] conferisce
al suono di questo compositore un "tono" inconfondibile.
Un'intonazione che segna così il ritorno di una rinnovata
espressività"[18].
La ricercata tecnica compositiva, la regole strutturali
a cui devono obbedire i suoni, non sono quindi in antitesi
rispetto alla "libera" espressione dell'artista,
come abbiamo del resto già visto nel Moses und Aron
di Schönberg.
Arriviamo così a Webern, epilogo della dissoluzione
e del "grande commiato" iniziato da Wagner e Mahler,
ma anche iniziatore di un "nuovo costruttivismo, di
cui [
] è il geniale anticipatore. Ciò
che lo renderà, non a caso, a partire dagli anni
Cinquanta il punto di riferimento quasi carismatico delle
nuove generazioni musicali di questo secolo"[19].
Webern era convinto che la rivoluzione dodecafonica fosse
un accadimento necessario, non frutto di un arbitrio soggettivo
o di un banale sforzo di innovazione, e quindi sosteneva
la necessità di abbandonarvisi completamente. E'
una rivoluzione che tuttavia riprende motivi del passato,
in primis la polifonia fiamminga e la musica dell'ultimo
Bach (in particolare L'Arte della fuga), sostiene lo stesso
Webern. E' un'impressione condivisa da un altro grande artista
contemporaneo, il pianista Glenn Gould, il quale sostiene,
a proposito di Bach, che non si può parlare di un
modo di comporre tonale, per cui il compositore si ferma
in un brano per un certo lasso di tempo sulla tonalità
x, per poi passare alla y, alla z e così via, secondo
uno schema prestabilito. Bach aveva una dote che gli altri
non possedevano: le sue variazioni armoniche venivano dirette
da una "percezione di tonalità"[20],
da un sentire le singole "qualità" di ogni
accordo e passarvi attraverso, e non da una progressione
armonica convenzionalmente pensata.
Per parafrasare il tentativo di Webern, in conclusione,
occorre ripartire da quella assoluta mancanza di fondamento
a cui il '900 ci ha consegnato e costruire impalcature tanto
maggiormente inflessibili e rigorose quanto più instabili
e infondate[21]:
"ideare un organismo sonoro massimamente in sé
fondato proprio perché, in effetti, assolutamente
infondato"[22].
[1]
E. Lisciani-Petrini, Il suono incrinato. Musica e filosofia
nel primo Novecento, Einaudi, Torino 2001, pg.22-34
[2]
Ibid., pg. 7
[3]
Ibid., pg. 13
[4]
Ibid., pg. 16-17
[5]
Ibid., pg. 17-22
[6]
Ibid., pg. 22-34
[7]
Hegel, Estetica, Einaudi, Torino 1997, pg. 589 e seguenti
[8]
Ibid., pg. 664 e seguenti
[9]
E. Lisciani-Petrini, cit., pg. 48
[10]
Ibid., pg. 48
[11]
Ibid., pg. 60
[12]
Ibid., pg. 84
[13]
Ibid., pg. 91
[14]
Ibid., pg. 116
[15]
Ibid., pg. 126
[16]
Le citazione dall'opera sono tratte dal libretto che accompagna
l'edizione del Moses und Aron diretta da Pierre Boulez per
la Deutsche Grammophon. La frase è a pagina 6.
[17]
Ibidem, pg. 8
[18]
E. Lisciani-Petrini, cit., pg. 138
[19]
Ibidem, pg. 161
[20]Traggo
la citazione da un serie di contributi televisivi dedicati
al pianista, ideati e presentati da P. Rattalino per Raitre.
[21]
E. Lisciani-Petrini, cit., pg. 191
[22]
Ibidem, pg. 191
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