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L'intervista impossibile di Nicola Marotta


Un ritratto in bronzo dello scultore Gavino Tilocca

 

Gavino Tilocca è stato soprattutto scultore. La scultura, il cui fare nasce insieme all'uomo, sia identificando cose nei sassi, o imitando con la l'argilla forme riconducibili al senso comune delle cose, ancora oggi non si capisce se è l'uomo che sceglie la scultura o il perpetuarsi di questa pratica a scegliere il suo artefice. Si direbbe che quest'arte che si articola lungo millenni, ogni tanto partorisce stili e grandi artisti, mentre i molti residui di queste vocazioni si frammentano andando a costituire un universo espressivo, che formerà la base per la sua rinascita dopo il naturale invecchiamento.
Un mestiere che definiamo improbabile e che diventa qualcosa in più, quando lo scultore, non si sa sotto quale influsso, si adopererà a far contenere alla materia inerte qualcosa di inspiegabile, che l'uomo chiama arte.
Pochi anni fa andammo all'EXMA'di Cagliari a vedere una bella mostra antologica che il comune aveva dedicato a Gavino Tilocca.
Partimmo di mattino presto in macchina da Sassari, a fianco ad Angelo alla guida, c'era Gavino Tilocca, silenzioso, e forse stanco; dietro vicino a me sedeva il pittore Salvatore Fara che mi disse che il pensiero di fare questo viaggio non gli aveva fatto chiudere gli occhi per tutta la nottata. Le persone grandi di età, non devono prendere appuntamenti: è troppo stressante e crea ansia l'attesa della partenza e del viaggio.
In questa occasione vidi, per la prima volta, il bronzo "La ragazza con i capelli alla garconne"
Davanti all'opera Tilocca ed io ci scambiammo intensi messaggi con lo sguardo, con una ripetuta serie di cenni e di assensi, come si dice oggi "zippati"; a distanza di tempo i dati contenuti in memoria vengono giù a cascata. Quella scultura era la porta d'accesso del nostro intenderci, il cui contenuto, oggi, mentre scrivo sto ancora decifrando. Ritrovo mentalmente lo studio-laboratorio dello scultore, mentre esegue il ritratto in argilla: di fronte la ragazza in posa. Insieme a me presente sulla scena altre due persone: lo scultore con le sembianze di qualche anno fa, poi la gentile signora che allora aveva posato; una riunione per cercare di ricostruire, per quanto sia possibile, la spinta che ha consentito la creazione di questo bel ritratto.
Parla lo scultore che osserva insieme a me, e sentenzia: l'artista ha un unico rapporto ed è con se stesso ma è conflittuale: è un rapporto con il suo Demone, che lo rende dubbioso, insoddisfatto; in questi momenti è il censore, il critico e creatore della propria opera.
La modella è già un ricordo passato dopo che è stata scelta, e il guardarla è solo una chiave di accesso, per far sì che la memoria ritorni in quello spazio dell'intuizione che è la scintilla iniziale.
L'elaborazione ha un'altra funzione, ed è quella di sciogliere quel groviglio di forze che compongono il linguaggio artistico, per distenderlo, per orientarlo, per fare in modo che il modellato esprima il concetto che tu hai intravisto nel pensiero.
Desideri che il tuo lavoro somigli a ciò che tu credi di avere in mente, perché il tuo modello mentale non ha contorni definiti, perciò è un credo.
Alla signora che stava insieme a me come su un set cinematografico, chiesi:


D. Signora, quella ragazza allora chi era?
R. Papà mi chiese di posare per un ritratto per lo scultore Tilocca: capii solo che era un onore. Si era nel primo dopoguerra nel quarantanove: era primavera, e per me era il primo ingresso nella mia coscienza. Da poco mi avevano portata da un'estrosa parrucchiera cittadina, e ne ero uscita con questo taglio di capelli: li chiamavano alla garconne; vedevo però intorno a me che c'era una certa compiacenza; mi guardavano come per comunicarmi che piacevo, che stavo bene con quel taglio, e così mi accettai anch'io quando mi guardai allo specchio.
La mia posa fu esemplare; il sentirmi guardata, osservata da occhi che si posavano sul mio viso, sui miei capelli, non mi infastidiva, soprattutto perché non mi guardava negli occhi e non mi sentivo in imbarazzo.
Ma quello che ricordo con passione era quando lo scultore, ritirando lo sguardo dal mio viso, mi dava la sensazione che lo proiettasse sul modellato e lo condensasse sulle mie sembianze.
A volte il maestro, mentre lavorava mi spostava la testa, prendendomi il mento tra il pollice e l'indice, esattamente come faceva qualche giorno prima la parrucchiera.
Ora vedendomi in posa di fronte allo scultore, mi sembra di vedere un quadro con il soggetto "il pittore e la modella". Però sento, che questa scena mi è estranea, come se il tempo e le vicissitudini della vita mi avessero tradito. Sono un'altra, mi lega solo un tenue filo ad una stagione felice della mia vita, vista da qui naturalmente; e poi quella banda di capelli: mentre ero in posa era meno accentuata rispetto a quella che poi sarà il bronzo, ricordavo bene? Vede, come ero, quando posavo?
Che strana situazione questa visita nello studio dello scultore Tilocca: è tutto fermo l'opera è già conclusa; il maestro lavora senza aggiungere o togliere nulla, io sono in posa e sembro una fotografia e poi noi tre alle spalle della scena, eppure sembriamo non esserci, che cosa strana!
Gavino Tilocca dice: guardate che noi siamo nella mente di chi vuole trasmettere questo fatto ad altre persone; é un racconto e questo meccanismo mi sembra una cosa già vista ; mi sembra che abbia delle analogie con uno dei quadri più belli in assoluto, "Las Meninas" di Velàzquez .
Il pittore dipinge il quadro che noi vediamo, ma, a ben osservare, siamo in un labirintico giochi di rimandi: 1° l'artista che si autoritrae, 2° i visitatori dello studio, "Las Meninas", 3° scorgiamo al centro dell'opera lo specchio che riflette i veri modelli che sta ritraendo il pittore al cavalletto, il che ci fa capire che i modelli riflessi si trovano al di qua del quadro, dove siamo noi a guardare l'opera.
Il modello di questa pittura che gioca a duplicare gli spazi virtuali, con gli specchi, era praticato già dalla cultura greco romano, come l'encausto ritrovato a Pompei, in cui Teti si specchia nello scudo che lei stessa aveva ordinato a Efesto (il famoso zoppo divino) per donarlo a suo figlio Achille. C'è veramente da commuoversi per queste cose che non mutano nel tempo.
Dopo questa lunga prolusione con due interventi spontanei da parte dei due protagonisti, decido di orientare a modo mio quest'indagine per conoscere alcuni dati su questo ritratto.


D. Maestro, in quasi ogni ritratto lei imprime un segno particolare come se fosse un preludio all'opera, come nel caso della ragazza dai capelli alla garconne, cosa mi può dire?
R. Inizio ogni nuova opera solo quando ho questo segnale, che mi si rivela attraverso la scelta del modello. Mi stuzzica dipanare il gomitolo imbrogliato, governare il fascino dell'intrigo, il dubbio da superare e vincere: queste sono le problematiche, sostanziali del mio lavoro.


D. Come il ritratto di Stefano?: si ha l'idea che sia un viso antico.
R. E' vero dà l'impressione di un ritratto dell'arte romana del basso impero; (per
intenderci la Roma delle grandi famiglie, non quella dei miti, Cesare, Pompeo).
Vedi i ragazzi nostri contemporanei, vivendo sotto i nostri occhi, sfuggono alla nostra analisi fisionomica, quando sono ritratti in scultura, come se li spostassimo da una zona consueta e allora Stefano riprende le sembianze astoriche. I nostri visi ritornano di continuo e si collocano fuori dal tempo.


D. Fu questa la motivazione che la spinse a modellare quella testa con i capelli alla maschietta?
R. E' stato un esercizio laborioso; ho adoperato poco gli attrezzi consueti, le chiavi e le stecche, sempre una modellazione di pollice o con il palmo della mano di taglio, per abbassare i piani, per tendere le tempie, per tirare la pelle intorno alle labbra e stirare gli occhi.


D.Certamente l'affascinò quella estrosa banda di capelli che copriva la destra del viso sbilanciando fortemente la composizione. Cosa cercava?
R. La ragazza posò di mattino, sapeva di fresco, di sveglio, come solo a quell'età accade. Oggi questo ritratto con questi capelli così mi fa pensare a Pericle Fazzini, lo scultore del vento; ma non lo conoscevo.


D. E Dazzi, il suo maestro?
R. I maestri si hanno solo nei primi anni della formazione; i migliori non si propongono, ma ti fanno capire che devi prendere se ne sei capace; poi lungo la strada si incontrano i compagni della vita che sanno darti più di un maestro, la competizione, la gioia dell'amicizia, incoscienza, e l'amore per l'arte. Il maestro ha già fatto tutto e, se non sai cominciare da dove lui è arrivato, è inutile proseguire su quella strada.
D. E lei deve molto al suo maestro?
R. Al maestro si deve solo ingratitudine.


D. Come?
R. Più è grande il peso che il maestro ha avuto su di te e più è grande l'ingratitudine che l'allievo sente per lui e che vuole scrollarsi di dosso; per questo motivo si entra in conflitto, e dopo può sfociare in odio. Ma non è colpa del maestro, sei tu che non lo hai eguagliato e tantomeno superato.
L'artista segue l'utopia. Monet ( nelle cattedrali di Rouen 1894 ) ritornava sempre alla solita ora sul balcone per dipingere lo stesso soggetto.
Io ero certo che la ragazza in posa fosse la stessa della mia idea.


D. Quelle cose ineffabili dell'arte?
R. L'arte è come il sogno, lo si può vivere ma non raccontare, ti è consentito solo di viverlo in antitesi alla realtà.


D. Parlare d'arte è come dialogare con un interlecutore?
R. L'arte non ha una dimensione unica, oltre ad avere vari livelli di lettura, ha anche la prerogativa di mettere in moto il suo lettore. Vedi due persone vivono un'unica storia; la differenza si esplicita quando la si racconta, se a raccontarla è uno scrittore ha un percorso, se la canta il poeta evoca il mito.


D. L'arte non è verità assoluta, a volte, l'antico è datato, allora perché ammiriamo l'arte del passato?
R. La scienza sì supera. L'uomo invecchia e poi procede verso la morte!
L'arte no, l'arte non si supera; quella che vive attraverso l'uomo si perpetua attraverso il suo pensiero.


D. Compreso l'arte contemporanea?
R. Oggi l'arte moderna si affida solo alla grande intuizione, l'opera moderna cura poco la forma, non racconta in prima persona, paradossalmente però, il racconto non è assente e non è secondario. E' innegabile però che la citazione diretta o indiretta di ciò che é stato fatto e detto nell'arte passata è parte integrante dell'opera d'arte moderna, come una sua naturale evoluzione nel tempo. L'arte produce arte.
Con parole cocenti e accorate, Gavino Tilocca si rivolge al figlio: "Angelo fa che il mio studio di modellazione possa ancora continuare a vivere ed a conservare la memoria degli accadimenti di cui sono stato ideatore e testimone; sappi che anche lo studio è un'opera, o almeno è un grande documento".
Quando hai chiuso la porta alle tue spalle sospendi tutte le attività iniziate o concluse, insieme ai nuovi progetti, (pure questi hanno una vita già concepita). Nulla si muove, lo studio chiuso, l'entropia ferma la sua azione, questa apparente quiete di forze tese dietro di noi rimangono in vigile attesa, affinché altri occhi ne innescano il risveglio:
esattamente come accade per la grande arte.


Gavino Tilocca è tra i maggiori scultori sardo. Nasce a Sassari 1911. Nel 1930 è allievo di Arturo Dazzi. Ha eseguito numerose sculture per opere pubbliche, ha vinto numerosi premi e riconoscimenti nazionali, ha tenute numerosissime mostre personali, è stato pittore eccellente, e straordinario ceramista. Nel 1940 espone alla biennale di Venezia, nel 1952 espone alla quadriennale di Roma. Opere sue si trovano in musei, in raccolte pubbliche e private. Ha insegnato materie artistiche presso l'Istituto d'arte di Sassari. E' morto a Sassari il 1 dicembre del 1999.


 

 


Nicola Marotta, Un ritratto in bronzo dello scultore Gavino Tilocca,
in "XÁOS. Giornale di confine", Anno I, n.2 luglio - ottobre 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_2/art_3.htm

 

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