Nel quadro del dibattito contemporaneo,
che si configura come un'opposizione o, per usare la formula
di Paolo Rossi, - come un 'Paragone degli ingegni 'moderni'
e 'postmoderni'[1]-
l'opera di Guardini "contro" la modernità
si svolge in prevalenza all'interno di una prospettiva teologica.
L'uomo moderno è un dio fallito e sconfitto dagli
eventi storici ch'egli stesso ha prodotto, perché
si è staccato dalla sua radice che è Dio:
questa la sua diagnosi, lucidamente protocollata e descritta
nell'opera breve ma densa e intensa del 1950 'Das
Ende der Neuzeit. Ein Versuch zur Orientierung' ('La
fine della modernità. Saggio per un orientamento').
L'idea di Dio lungi dall'essere generata dalla paura - come
sostiene la critica razionalistica tradizionale delle religioni
- una volta cancellata dalla cultura e dalla vita, lascia
l'uomo in una solitudine (ontologica) radicale che produce
paura e angoscia. Non è dunque la paura che induce
l'uomo a creare (la presenza di) Dio, ma è l'assenza
e l'eclissi di Dio nella modernità a creare la condizione
umana della paura esistenziale.
Guardini, dunque, non fa parte della maggioranza dei filosofi
postmoderni del nostro secolo che - a giudizio di Paolo
Rossi "stanno svolgendo un processo a carico di Galileo
(e della scienza moderna) assai più radicale di quello
a cui egli fu sottoposto in vita".
Guardini non mette in discussione la natura e il valore
conoscitivi della ragione umana, sia essa filosofica, sia
essa scientifica, politica o tecnologica. Ma avverte che
la ragione non è la ragione strumentale, ma è
"il lume della ragione", finalisticamente orientata,
comune a tutti gli uomini; e inoltre che essa è un
potere conoscitivo: finito, non-assoluto, non-individualistico,
dialogico, contemplativo e non puramente utilitaristico,
necessario ma non sufficiente a capire il mondo, la vita
e noi stessi.
L'antecedente tematico di queste idee è Pascal: l'uomo
senza Dio è infinitamente piccolo e misero; l'uomo
con Dio ritrova l'autenticità di se stesso. Pascal
è senza dubbio un "moderno": egli rappresenta
quella dimensione della modernità che non si è
staccata dalle sue radici cristiane. Guardini direbbe che
questa è la "buona" modernità, mentre
la modernità razionalistica e immanentistica, con
i suoi effetti distruttivi sulla cultura e sulla prassi,
è la modernità tradita, o la perversione della
modernità, disseccatasi perché si è
voluta costituire come un "albero" (l'immagine
è già in Cartesio) sradicato dal terreno del
cristianesimo e trapiantato nel terreno della pura immanenza
nella realtà sensibile e sperimentabile. Parlerei
a questo proposito per Guardini di una forma di pensiero
negativo, cioè rivolto e teoreticamente impegnato
a negare, evocando Sant'Agostino, S. Tommaso, Pascal, che
il mondo sensibile e sperimentabile, o il mondo della vita
terrena, esaurisca la totalità dell'essere e dell'esistenza
dell'uomo. Guardini, insieme ad altri filosofi contemporanei,
sia di ispirazione cristiana (Gilson, Del Noce, Fabro, Rahner,
ecc.), sia di provenienza ebraica (Rosenzweig, Simon Weil,
Levinas), individua acutamente uno dei tratti dei tratti
essenziali e negativi della modernità nel postulato
implicito e non dimostrato della chiusura al "soprannaturale".
Può la ragione umana, consapevole dei propri limiti
conoscitivi, identificare la totalità dell'essere
con l'essere immanente alla coscienza? Si può escludere
a priori la possibilità del "soprannaturale",
magari in nome di quella che Nietzsche chiama "la fedeltà
alla terra"?
Contro gli ideali moderni dell'autosufficienza e dell'"autoredenzione"
(S.Weil), dell'identificazione dell'empirico con la totalità
dell'essere, proprio a partire dal punto di vista empirico,
concorda con Guardini anche Wittgenstein: "Noi sentiamo
che se pure tutte le possibili questioni della scienza ricevessero
una risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero
nemmeno sfiorati". (Tract., prop. 652).
Concorda anche Levinas sull'incompiutezza strutturale della
coscienza empirica: "I modi della coscienza che accede
agli oggetti sono essenzialmente dipendenti dall'assenza
degli oggetti. Dio stesso non può conoscere una cosa
materiale se non girando intorno ad essa. L'essere guida
l'accesso all'essere. L'accesso all'essere appartiene alla
descrizione dell'essere"[2].
Descrivere l'essere è aprirsi all'ulteriorità.
Il riferimento, come si vede, è a Husserl; ed è
importante perché segnala da una prospettiva ontologica
i limiti della conoscenza.
Il conoscere, in qualche maniera, si esaurisce nel 'descrivere';
e il descrivere è un 'trascrivere' le cose in segni
linguistici i cui referti immediati sono le proprietà
esteriori (qualità secondarie e primarie) dell'oggetto
'intenzionato' dalla coscienza. Ciò equivale ad affermare
che il conoscere è come un "navigare" attorno
ad un'isola coperta di nebbia - secondo la metafora kantiana
-, senza mai approdarvi.
Dunque è diffusa nella filosofia contemporanea, in
dipendenza dall'antecedente epistemologico del criticismo
kantiano, la convinzione che conosciamo gli oggetti in 'absentia',
attraverso la mediazione del segno descrittivo, vincolato
ai criteri di visibilità e di similarità reciproca
degli oggetti stessi. L'essenza delle cose sfugge e si assenta
dalla descrizione: come, ad esempio, la socialità
di Durkheim e la spiritualità degli abitanti di una
città, che realmente sono assenti dalla più
esatta descrizione topografica e topologica di esse. Ai
suoi studenti, Wittgenstein non si stancava di "vietare"
- per così dire - le essenze: "Chiedetemi l'uso
delle parole, non l'essenza" dell'oggetto a cui esse
si riferiscono. Vorrei sottolineare un dettaglio anche nel
testo di Levinas: il riferimento all'estensione e alle modalità
dell'intelligenza di Dio nel conoscere le cose: "Dio
stesso non può conoscere una cosa materiale se non
girando intorno ad essa".
Non è un paradosso, se già Tommaso d'Aquino,
sosteneva che "scientia Dei non est de singularibus",
cioè non termina alla singolarità dell'oggetto
individuato dalla sua materia quantitativamente misurabile.
Termina invece alla forma esteriore: come se si dicesse
che Dio conosce la figura dello status, ma non il marmo
(materia) di cui essa è fatta. Infatti ciò
che interessa ed è rilevante per l'atto conoscitivo
è il significato che esso assume per la coscienza
"che lo intenziona". L'idea e il principio medievale,
elaborato da S. Tommaso, dell'intenzionalità della
coscienza, cioè del fatto che la coscienza è
tale perché è sempre "coscienza"-di:
di un oggetto o di una cosa o di un valore (coscienza assiologia),
lo si scopre all'opera negli strati più profondi
della filosofia moderna e contemporanea.
L'errore di Cartesio - contro il quale è rivolta
tutta la filosofia di Guardini e di Wittgenstein, e anche
di Levinas, consiste nell'aver scisso la coscienza (il "cogito")
dalle cose e averla isolata in se stessa in un solipsismo
mentalistico e in un formalismo vuoto. Il pensiero e la
coscienza sono tali perché sono pensieri di cose
"in carne ed ossa", di enti ontologicamente e
corposamente densi di qualità e di significati (trascendenti)
per l'uomo. Dunque: la materialità stessa del mondo
scientificamente conosciuto "mostra" la propria
insufficienza; e la coscienza, satura e appagata sul piano
conoscitivo "orizzontale", percepisce la propria
incompiutezza rispetto alla conoscenza di ciò che
è più importante per l'uomo. Nel 'La
crisi delle scienze europee' Husserl dichiara: "nella
miseria della nostra vita
la scienza non ha niente
da dirci. Essa esclude di principio quei problemi che sono
i più scottanti per l'uomo
; i problemi del
senso e del non-senso dell'esistenza umana"[3].
Il tema del silenzio della ragione, intravisto da Husserl,
inteso in senso molto affine a quello wittgensteiniano,
è presente anche nel "richiamo" di Levinas
"alle intenzioni oscure del pensiero". Secondo
Levinas, il pensiero razionale, distinto, chiaro, ordinato
in classi e in sistemi di concetti, è la parte determinata
ed esplicita, di una dimensione tacita, implicita e piena
di silenzio, del pensiero stesso. Questa dimensione è
come la parte notturna o umbratile del pensiero, quasi una
"radix (non solo "ratio") seminalis"
della razionalità che affonda il proprio essere nel
"Deus abcsonditus". Giova richiamare, ad integrazione
e a chiarimento di punti profondi del pensiero contemporaneo
ancora da sondare, la teoria della "conoscenza implicita"
di Michael Polanyi. Questo filosofo anglo-ungherese, movendosi
sul terreno dell'epistemologia contemporanea dominata dalla
razionalità critica e fallibilista di Popper, ne
va a rintracciare le falde più recondite, dove le
figure e le formazioni concettuali aperte all'ulteriorità
del senso della vita, persistono allo stato informe ma reale,
come le gardenie sotto le zolle e negli elementi chimici
di un terreno adatto. Forse a questo punto sarebbe opportuno
aprire una pista di ricerca dalla gnoseologia dell' "implicito"
di Polanyi alla biologia, il biologo e filosofo Giorgio
Prodi, a incominciare dal suo studio su 'Le
basi materiali della significazione'[4].
ma ciò esula dai limiti del presente lavoro, non
solo per convenzione, ma per una diversa intenzionalità
oggettiva che attraversa e guida l'epistemologia biologica
vincolata allo studio della comunicazione a livello intercellulare
e intracellulare. In ogni caso è ineludibile, oggi,
per il filosofo sondare il terreno della biologia per cercarvi
le modalità implicite dell'attività conoscitiva.
Se ho capito bene la tesi di G. Prodi, la comunicazione
logica non è che la traduzione del rapporto "comunicativo"
senza segni formali che si verifica tra le cellule. La comunicazione
silenziosa, che precede la logica, si ripresenta come istituzione
- mistica per dirla con Berson - dopo aver raggiunto il
massimo della formalizzazione segnica.
Ci si avvicina al tema del "silenzio metafisico"
o "del silenzio del Deus absconditus"; Wittgenstein
e Levinas non ignorano le radici biologiche della logica,
e l'inidoneità della scienza a "dire" la
vita. Entrambi sono indotti dall'irriducibilità degli
eventi decisivi della vita alle forme della razionalità
scientifica, a limitare la conoscenza a una ricerca non
della identità e della totalità delle cose,
ma della loro specificità inconfondibile e della
loro alterità e ulteriorità di senso e di
apertura verso (un) Dio. Wittgenstein cerca negli usi del
linguaggio comune, parlato dalle differenti comunità,
la traccia della loro umanità più profonda;
Levinas cerca nel "volto dell'Altro" la traccia
dell'Infinito che ne garantisce l'alterità quasi
divina e ne chiede irrevocabilmente il rispetto. Entrambi
sono catturati dalla dimensione segnica[5]
e simbolica[6]
dell'esistenza: Levinas la scopre nel volto, essenza e segno
dell'alterità inviolabile del mio prossimo, in cui
si riflette mediatrice l'infinità e la totale alterità
di Dio; Wittgenstein la cerca nel labirinto del linguaggio
anche fisico-biologico, dove si svolge e si rivela nell'intercomunicazione
la differenza e l'identità degli uomini, i tratti
e le "forme di vita" negli "usi" e nei
"giochi" diversi delle parole. Si intravede in
nuce una ontologia semantica o dei gesti comuni cattivi:
della rivelazione del volto e della rivelazione dei significati
ulteriori del parlare, tipico della cronaca familiare di
ogni giorno. Ora il volto e il linguaggio rivelano una parte
di quella realtà "ulteriore", di quel versante
invisibile e inosservabile dell'essere, biologico o spirituale
che la ragione moderna, soprattutto nella sua versione razionalistica,
positivistica, storicistica, ha escluso per principio dal
proprio orizzonte conoscitivo. Ma la conclusione più
arbitraria del pensiero moderno radicalmente empirica di
E. Mach "quod non est in actis, non est in mundo".
Dunque: non è possibile una dimensione teologica
dell'esistenza, non è possibile il soprannaturale,
solo perché supera i contenuti della nostra ragione
e della nostra coscienza, perché eccede la capacità
del linguaggio scientifico?
La risposta di Wittgenstein è esplicita: la dimensione
etico-teologica è inesprimibile ("mistica"),
ma reale; proprio nel constatare i limiti ontologici del
mondo e i limiti conoscitivi di se stesso, il pensiero vive
in sé il dramma dell'impossibilità della parola
e della necessità del silenzio intorno a quello spazio
di realtà e a quella costellazione di domande che
proiettano la loro ombra metafisica e trascendente sulla
realtà empirica. La scienza domina una parte minima
della realtà[7];
sul resto - che è il Maximum - domina il silenzio
del "mistico".
Ecco il testo di Wittgenstein:"Il senso del mondo deve
essere fuori di esso. Nel tutto è come è,
tutto avviene come avviene; non v'è in esso alcun
valore - né, se vi fosse, sarebbe un valore.
Se un valore che ha valore v'è, dev'essere fuori
di ogni accadere e essere - così. Infatti ogni accadere
e essere così è accidentale
Ciò che li rende non-accidentali non può essere
nel mondo, perché altrimenti sarebbe, a sua volta,
accidentale" ('Tract.', 6.41).
In parole semplici: il mondo e le sue leggi, indagato e
perquisito fin nei suoi angoli più oscuri con i metodi
e con le procedure descrittive, misurate e calcolanti delle
varie scienze, dimostra di essere costruito o strutturato
in un determinato (cioè: terminato tutto all'intorno
e, quindi, finito) modo. E', cioè, fatto così
e così; e tutti gli eventi vi accadono così
e così.
La scienza ci dice come il mondo è fatto: lo "rappresenta"
nella sua effettualità empirica.
Ma "perché c'è il mondo"? può
esso avere un senso globale, un senso di valore etico?
In sé e nella sua materialità, il mondo è
una "macchina perfetta"; ma non esibisce un senso
o una dimensione di valore al suo interno. Il mondo è
così; ma secondo l'immaginazione produttiva del pensiero
- secondo il gioco linguistico - esso potrebbe essere diverso.
Questa è la sua accidentalità; o - come direbbero
Sant Agostino e S. Tommaso - questa è la "contingenza
mundi": il mondo c'è, è così,
ma potrebbe essere molto diverso e potrebbe perfino non
esistere. Un razionalista radicale come Leibniz è,
invece, costretto a concludere che: "questo è
il migliore dei mondi possibili". Per Wittgenstein,
all'opposto, la casualità, l'accidentalità,
la non-osservabilità di un fine interno o di un disegno
finalistico esplicito negli esseri viventi; nel mondo e
nell'universo, è il segno flagrante della loro povertà
di senso compiuto e autonomo.
E, dunque, il pensiero avanza, nel silenzio e nella riflessione,
una richiesta supplementare, complementare e integrale di
senso: "perché il mondo?".
Il "perché" del mondo, il "senso"del
mondo, non può non costituirsi "fuori del mondo".
E' lo spazio possibile, coperto di silenzio, del valore
morale di tutta la nostra esistenza. Ma è anche -
per conseguenza - lo spazio possibile dell'esistenza di
Dio, "postulato" nello spirito della 'Dialettica
trascendentale' di Kant e della 'Critica
della ragione pratica'[8].
la filosofia, riflettendo sul "corpus" delle conoscenze
scientifiche, pone domande etiche, ma è incapace
di dare le risposte. Dice Wittgenstein: "I fatti appartengono
tutti soltanto al problema, non alla risoluzione" ('Tract.',
prop. 6.4321).
I fatti del mondo e della vita, delle opere e dei giorni
dell'uomo, della storia universale, sono tutti dei giganteschi
punti interrogativi, di cui la ragione "pura"
non può toccare il fondo. Kant ha indicato una via
d'accesso: i giudizi "riflettenti". Sui fatti
casualmente determinati e concatenati, sullo splendore di
bellezza che talvolta da essi promana, lo spirito umano
"riflette" e formula giudizi estetici e teleologici,
alla ricerca di uno spiraglio o di un indizio di quella
trascendenza che è necessaria alla vita, ma è
inaccessibile alla ragione limitativa che opera nei giudizi
scientifici (sintetici a priori). In questo contesto di
fondo va interpretato "l'assioma (o la regola) del
silenzio" di Wittgenstein, posto a conclusione del
'Tractatus': "Su ciò di
cui non si può parlare, si deve (muss man) tacere
(schweigen)".
I problemi e le domande che eccedono le categorie e i paradigmi
delle scienze, non per questo sono, dunque irreali, come
presume l'iper-razionalismo moderno. Essi sono, anzi, i
più importanti: sono i problemi decisivi del destino
dell'uomo, sui quali il discorso sperimentale non ha "definitiva"competenza.
Il silenzio, allora, si costituisce, come autentico "paradigma"
conoscitivo di contemplazione libera, tendenzialmente aperta
allo scambio della comunicazione inter-personale mediante
l'arte, la poesia, i gesti morali in favore dell'altro,
la religione, la fede in (un) Dio. "Il senso della
vita, cioè il senso del mondo - conclude Wittgenstein
- possiamo chiamarlo Dio"[9].
La via dal mondo e dall'io a Dio non è percorribile
(totalmente) con la ragione determinante; con essa si resta
smarriti -agostinianamente perduti, secondo il (libro XI)
'De Trinitate' - nel labirinto delle
cose sensibili. Wittgenstein, lettore reticente di Agostino,
quanto Guardini ne è un lettore dichiarato, scopre
al di là della "scientia", la "sapientia",
oltre la "ratio inferior", la "ratio superior".
L'espressione "ratio superior" di Sant Agostino,
che rende l'uomo idoneo a varcare la soglia del mondo divino
liberandosi dalla "caverna" del mondo sensibile,
è certamente estranea al lessico filosofico di Wittgenstein.
Ma la capacità "mistica" di apertura al
divino ne traduce il pensiero implicito. Uno degli elementi
del misticismo di Wittgenstein emerge infatti, come abbiamo
accennato, da una dimensione implicita nella sua ontologia.
L'essere del mondo e della storia appaiono, a una lettura
"lenta e ritmica" (come egli la esige!) del 'Tractatus',
intessuti di possibilità e di contingenza. "Il
mondo è tutto ciò che accade" tra gli
infiniti mondi possibili che potrebbero accadere. Gli oggetti
spaziali ('raumliche Gegenstande') e temporali si profilano
situati in uno spazio e in un tempo talmente evanescenti,
intessuti come sono di caso e di possibilità di essere
diversi, da apparire irreali o puramente ideali. Non li
stringe nessun legame causale; sembrano atomi senza relazioni
reciproche; fluttuano nello spazio della possibilità,
così come gli eventi storici fluttuano senza importanza
sulla linea del tempo, senza una ragione per cui sono così
e non altrimenti; cioè: a tal punto irrelati gli
uni con gli altri da apparire come sospesi al puro caso
o alla pura e misteriosa libertà di un "Dio
nascosto". Forse un Dio che gioca sapientemente sulla
tastiera della possibilità logiche degli oggetti,
dei fatti, degli stati di cose e li trascrive sul registro
e sullo spartito della realtà come una rapsodia ispirata
a una pluralità di significati e di altrettante interpretazioni.
"Al di fuori della logica tutto è casuale"
('Tract.', 6,3).
"Der Zufall", il caso appunto, sembra a tratti,
il regista occulto del mondo e della storia dietro il legame
apparente che connette gli eventi ai programmi e alle decisioni
degli uomini. Che il mondo ci sia, che sia dato, gratuitamente
come si da un regalo ("es gibt") c'è, è
legato al senso originario di "Geben", donare;
e di "Gabe", dono), che si svolga in una irreciprocità
di relazioni con la storia, è appunto il "mistico".
Ora, il termine "mistico" sembra articolarsi secondo
un duplice senso: da una parte, il "mistico" sembra
essere una realtà "mistica", e quindi l'aggettivo
sostantivato "mistico" sarebbe usato in senso
ontologico, secondo una prospettiva di metafisiche assonanze
agostiniane; dall'altra, sembra esprimere solo la condizione
conoscitiva dell'uomo rispetto alla ragion d'essere del
mondo, secondo una prospettiva di stupore "mistico".
La ragione descrittiva, o, comunque inquisitiva, si sente
come "afferrata" ("ergreifen": è
il termine di Wittgenstein) e sopraffatta dall'inspiegabilità
e dall'eccedenza di senso del "perché"
c'è il mondo. In questa seconda ipotesi, l'aggettivo
"mistico" sarebbe usato secondo le regole proprie
del discorso religioso. La situazione mistica infatti è
una situazione passiva: essa è l'effetto non di una
iniziativa del soggetto, ma di un'alterità, mondana
o di natura religiosa (ad esempio: Dio), che viene subita
e accolta senza poter opporre resistenza.
Credo sia stato S. Tommaso a definire la situazione mistica
come un "pati divina": un subire, dunque, l'iniziativa
di Dio, o più razionalmente: un sentire la densità
ontologica e l'inesauribilità dei sensi dell'essere
nel suo articolarsi imprevedibile di eventi naturali e storici.
Wittgenstein non darebbe al suo discorso questa valenza
o questi sviluppi? Il senso del limite interno alla conoscenza,
il "muro epistemologico", lo impedisce? Forse.
C'è da credere, però, che la ragione e le
interpretazioni possibili siano (anche) altre.
Una potrebbe essere la sua "ebraicità"
inespressa: il mistico è il sacro o il divino circondato
di ontologica oscurità (di "mistero"),
che lo protegge dalla banalità quotidiana allontanandolo,
come accadde a Mosè il legislatore, nella zona della
inviolabilità e della invisibilità: Dio "paria"
circondato di nubi; dalla tenebra delle nubi nasce la luce
della sua "parola" legislativa. Si, perché
il limite del linguaggio e della conoscenza riguarda il
linguaggio scientifico: cioè pubblico, intersoggettivo,
da controllare in base a regole di sensatezza e di funzione
di vero-falso, di prova di verità o falsità,
che sono appunto accettate e praticate da tutti. Ma "l'uomo"
Wittgenstein, dimessa la veste pubblica di scienziato o
di filosofo della matematica, ha il diritto di ritrovarsi
nel proprio silenzio, nella zona etico-mistica, nel baricentro
del più profondo se stesso, per ascoltare la voce
del silenzio e per guardare il buio o l'assenza del razionale
nella realtà profonda dell'uomo. L'assenza coincide
con una ineliminabile presenza che inabita l'uomo: l'indicibile
('das Unsagbare') o l'inesprimibile ('das Unausprachliche'),
forse il "Deus absconditus".
Ch'egli sia affascinato dagli spazi della possibilità
dell'"homo ineditus"[10],
di un altro se stesso "non-scritto" e non descrivibile;
e di tutto ciò che è al di là del descrivibile
(della scienze naturali, e poi, a partire dall'inizio degli
anni '30, anche delle scienze cosiddette "umane")
è un dato acquisito dagli studiosi. Il conflitto
nasce, poi, ovviamente, e credo sia incomponibile per ragioni
di oggettività, sul terreno del che cosa sia l'indicibile,
infinitamente più importante del "dicibile"(delle
scienze). Per apportare qualche elemento chiarificatore
alla oscura e resistente difficoltà di questi problemi
del 'Tractatus', richiamerei due testi
semplici dai Quaderni:
a) "Si, il mio lavoro si è esteso dai fondamenti
della logica fino all'essenza del mondo"[11];
b) "Ecco il grande problema, attorno al quale ruota
tutto ciò che scrivo: c'è, a priori, un ordine
del mondo? e, se si, in che consiste?"[12].
Sembra da questi testi che Wittgenstein, in opposizione
ai programmi iconoclasti della sua filosofìa, si
muova ancora sul terreno della ontologia classica: Qual
è l'essenza del mondo? E si avverte l'eco dell' Etica
spinoziana nella domanda sull'ordine a priori del mondo[13].
Secondo Bouveresse, il 'Tractatus' "è un'opera
di metafìsica dogmatica"[14].
In questa prospettiva "il mistico" (il misticismo?)
acquisterebbe un profilo più netto, in ipotesi anche
teologico. Ma le interpretazioni del 'Tractatus', diverse,
rivali, opposte, tutte fondate o indiziabili dal testo o
da testimonianze su Wittgenstein, diventano ancora più
discordi sui possibili sensi della parola "mistico".
Molto vicina a quella di Bouveresse, è l'interpretazione
del teologo spagnolo J. Alfaro: il 'Tractatus' "è
un'opera di cosmologia"[15];
ma non di cosmologia fisico-scientifica, come la si concepisce
oggi, in particolare nelle Università americane;
ma di cosmologia fìlosofìco-metafìsica,
di ontologia generale del mondo. Anche questa lettura consente
un'esplorazione del "mistico" in dirczione metafìsico-religiosa,
di tipo agostiniano e tomistico. Affinità con S.
Tommaso rilevò A. Kenny già nel 1959.
"Mistico" è, anche lo stato di quieta unione
(o confine o limite) dell'impresa gnoseologica condotta
tra le irrequietezze e le contraddizioni insolubili del
divenire del mondo e della storia. Il passaggio, in questo
caso, è graduale; è discontinuo; è
un "transito" o un "salto", come direbbero
Lessing e Kierkegaard. Dalla scienza si salta nella teologia,
dal tempo nell'eternità, dalla ragione nella fede.
Ma le interpretazioni più comuni, ipotecate anch'esse
dalla indecibilità della "questione wittgensteiniana",
indeboliscono notevolmente il significato da attribuire
alla nozione di "mistico". Lo riducono, a mio
avviso non correttamente, a dimensioni linguistiche: "mistica"
è quella conoscenza linguisticamente non strutturabile
con sostantivi, verbi, aggettivi; insomma: in proposizioni
in cui il soggetto e il predicato non abbiano referenti
immediatamente osservabili. A ben vedere, questa valutazione
è una tautologia in piena regola. Ma anche la scienza,
come oggi amano dire alcuni, non è tutta "un'immensa
tautologia"?.
Con un'operazione a sorpresa, di quelle con cui spesso spiazza
il lettore pur attento al ritmo lento imposto dai suoi testi,
(in parte) sarebbe forse d'accordo anche Wittgenstein. Il
'Tractatus', secondo la maggioranza degli studiosi ormai
noti, dai filosofi analisti inglesi, allievi in linea diretta
di Wittgenstein, a quelli più giovani, come Antiseri,
Gargani, Marconi (e altri, da richiamare per questioni anche
più specifiche), è un'opera sulle strutture
logiche del linguaggio. Marconi[16],
sulla scia di altri, anche suoi colleghi americani, forte
delle parole stesse (ripetute) di Wittgenstein, è
il più immediato: "II Tractatus è un
libro di logica"; ma poi, si sente subito obbligato
a distinguere e a precisare "(un libro) sulla logica;
noi diremmo, di filosofia della logica". E con questa
messa a punto, la "vexata quaestio" sul 'Tractatus'
(e su, quasi tutta la filosofìa di Wittgenstein)
si apre su uno scacchiere di domande e di risposte di grande
finezza tecnica e di profondo significato globale. Gli studi
di Gargani[17]
sono il documento più evidente di questa complessità:
dal descrittivismo del 'Tractatus', al costruttivismo delle
Ricerche, Wittgenstein è visto come l'autore di modelli
o di stili d'interpretazione e di analisi di ogni forma
del sapere e della cultura, dalla matematica fino alla musica
(si veda il suggestivo raffronto con Schonberg). Dunque:
non solo opera di logica, quella di Wittgenstein; ma opera
di gnoseologia generale (direbbe V. Kraft), di epistemologia,
e anche di "ontologia degli oggetti semplici",
aggiunge Antiseri; e forse di una implicita teologia negativa
o mistica del silenzio - come pensa M. Baldini - col quale
mi trovo in sintonia ermeneutica. Del resto, la "mens"
del logico, non vela a D. Marconi la dimensione di una "ontologia
ipotetica" che sembra costituire l'impianto generale,
appunto ipotetico, del Tractatus: esso "dice come deve
essere fatto il mondo se devono esserci - come ci sono -
proposizioni munite di un senso determinato"[18].
Dunque: un "logos" che struttura e imprime "un
ordine a priori" al mondo? Il 'Tractatus', oltre il
senso etico, ha un senso logico?
Wittgenstein non lo esclude mai esplicitamente: l'ordine
ontologico (Spinosa docet), come l'ordine matematico (qui
perfino l'ateo Russel docet, non solo Fiatone, Plotino,
Agostino e Tommaso d'Aquino), sono una sorta di piano aperto
verso l'ordine mistico, in senso, almeno genericamente,
teologico. Del resto la teologia platonica, riletta alla
luce della teologia trasfigurata da quella biblica (Dio
autore anche del libro della creazione) è la premessa
teorica l'antecedente logico della scienza galileiana: l'universo
è strutturato come un discorso fatto di idee e di
simboli: triangoli, cerchi, e altre figure geometriche:
la razionalità euclidea lo "permea" dall'interno
- rileva Cassier. Certo, il "secondo" Wittgenstein
sembra lontano dal concepire l'ordine del discorso, del
mondo e della storia, dello "spirito oggettivo"
di Hegel o "del mondo" di Popper, cioè
della natura e della cultura, come un ordine di enti o di
eventi già dati e dunque immediatamente descrivibili.
Ma il "primo" Wittgenstein, l'autore del Tractatus,
è colui che apre la strada di transito e invita l'interprete
ad oltrepassare - dopo averla acquisita - l'effettualità
del testo, costruita su tré livelli espliciti: ontologico,
logico, epistemologico, per contemplare nel segreto il versante
nascosto: etico, mistico, teologico.
Va ribadito: è alla parte "non-scritta"
'del Tractatus, che Wittgeinstein ha affidato l'intenzionalità
etica fondamentale e finale, che pervade poi tutta la sua
opera e le conferisce il significato definitivo: essa è
dunque anche e soprattutto un "opera di etica";
fatta salva, ovviamente, la sua polivalente effettualità
testuale. La dimensione etica è implicita e inespressa,
perché la struttura etica della vita che vi si rispecchia
è una struttura "trascendentale": è,
cioè, la condizione, a priori che rende possibile
l'articolarsi dell'esistenza nelle sue modalità operative
e che conferisce loro un valore, oltre che tecnico e professionale,
originariamente morale. Ecco la spiegazione, o meglio, la
delucidazione di Wittgenstein, rilevata opportunamente anche
da Gargani e da altri studiosi (Bouveresse, in particolare):
"Come posso essere un buon logico, se non sono un uomo
moralmente decente (anstandiger Mensch)"?
La verità della propria condizione morale è
per Wittgenstein il presupposto anche per ottenere l'acutezza
e la luminosità ('Klarheit') d'intelletto, necessaria
a guadagnarsi il pane della verità scientifica e
fìlosofìca. Credo di aver già rilevato
il gusto agostiniano e anche tomistico di questa valenza
epistemologica della qualità morale della vita. Sant
Agostino e S. Tommaso erano convinti che la "obnubilatio
intellectus" e la "debilitas rationis", dovute
in radice al peccato originale, si erano storicamente aggravate,
("senescente mundo") al punto da renderci inadatti
alla "inquisitio veritatis". Ciò - ripeto
- a causa della condizione di colpa attuale del ricercatore.
Lo splendore della forma della verità stride con
(e si allontana invisibile da) la materia oscura del peccato
personale. Dal male, la verità è assente.
Ecco un altro testo chiarificatore sulla verità morale
come predisposizione all'esercizio delle capacità
intellettuali: "Non si può dire la verità,
se non si è ancora dominato se stessi. Non la si
può dire; ma non perché non si è abbastanza
intelligenti.
Può dirla soltanto colui, il quale già riposa
in essa; non colui il quale riposa nella non-verità,
e soltanto una volta liberato dalla non verità allunga
una mano verso di essa"[19].
Dunque: la verità della scienza è inaccessibile
a chi è privo della verità (morale) della
vita? Tecnicamente, certo no. Tecnicamente si può
essere ottimi chirurghi, almeno in determinate circostanze,
e, insieme, uomini moralmente "indecenti".
Ma può una tecnica chirurgica raggiungere il vertice
della sua perfettibilità senza essere innervata da
una profonda intenzionalità di "decenza"
morale? La parola "decenza" indica la congruità
e la commisurabilità di uno status o di un atto rispetto
all'uomo come fine. Vi si coglie una risonanza della filosofìa
morale di Kant, ma credo anche della poesia di Hoffmannsthal
('Lord Chandos'): "l'indecenza"
delle parole, come atti linguistici dell'uomo, a esprimere
la verità (morale) dell'uomo. Dunque ancora la inidoneità
del linguaggio - il teorema della sua incommensurabilità
rispetto all'eccedenza e alla trascendenza della verità
della vita. E' la verità che inabita nel linguaggio
o è il linguaggio che abita nella verità?
Certo nessun tipo di linguaggio possiede la verità,
tanto meno quello tecnico-scientifico; forse è la
verità che possiede l'uomo o lo scienziato: o perché
lo costituisce dal di dentro come pensa Agostino ('in interiore
habitat Veritas'), e come sembra pensare Wittgenstein (l'uomo
è uomo e poi scienziato perché "riposa"
nella verità); oppure, perché lo guida dal
di fuori, come irraggiungibile ideale regolativo, secondo
la prospettiva di Tommaso d'Aquino, di Kant e di Popper.
Cade la pretesa di appropriarsi della verità come
puro strumento; per coltivare "l'aspirazione"
(parola di Wittgenstein) a essere posseduti e a inabitare
nella verità.
[1]
Il Mulino, Bologna 1989. Sulla fine della modernità
in generale e dal punto di vista delle prospettive geopolitiche
anche future, cfr. S. TOULMIN, Cosmopolis, Rizzoli,
Milano 1991. Secondo Toulmin, "le idee scientifiche
e filosofiche "moderne"
(l'idea di) stato-nazione
,
i metodi razionali di verificare le nostre (europee) procedure
e le nostre istituzioni, metodi non disponibili alle società
tiranniche e alle culture superstiziose che hanno preceduto
l'epoca delle modernità" (p. 13), che sono la
sostanza dell'uomo moderno, europeo e occidentale, hanno
esaurito la loro forza di orientamento e di guida universale
della civiltà mondiale. La fine della modernità
coincide col tramonto "della supremazia politica dell'Europa".
[2]E.
LEVINAS, Etica e Infinito. Il volto dell'Altro come alterità
etica e traccia dell'Infinito, Città Nuova Editrice,
Roma 1984, p. 54.
[3]
E. HUSSERL, La crisi delle scienze
europee, ( trad. it., Il Saggiatore, Milano 1961, p.
35). Per il significato anticartesiano della filosofia di
Wittgenstein, cfr. F. KERR, Theology after Wittgenstein,
Blakwell, Oxford - New York 1986 (trad. it., La teologia
dopo Wittgenstein, Ed. Queriniana, Brescia 1992). Wittgenstein,
soprattutto negli "ultimi scritti
vuole cambiare
posto al soggetto" (p. 5) contro "La moderna filosofia
dell'io" (pp. 13-51) e contro le "trappole del
solipsismo moderno" (pp.93-128).
[4]Ed.
Bompiani, Milano 1977. Rimando in particolare a: 5. Logica
materiale 8pp.41-45); 9. Situazioni biologiche reali
(pp. 56-60); 27. Genesi e anatomia del segno (pp.
142-144). Dello stesso Autore sono pertinenti a questi temi:
Storia naturale della logica, Bompiani, Milano 1982;
Gli artifici della ragione, ed. del Sole 24 Ore, Milano
1987 (in part.: cap. 3 sulle origini biologiche del linguaggio;
cap. 17 sul modo in cui "gli esseri viventi leggono
il mondo" (pp.139-148).
[5]
L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus
e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1964.
[6]
L. WITTGENSTEIN, Osservazioni filosofiche,
Introduzione e traduzione di M. Rosso, Einaudi, Torino 1976,
p. X.
[7]
Ivi, p. XI. Per una genesi testuale
e teoricamente approfondita è indispensabile: M.
B. HINTIKKA, Indagine su Wittgenstein, trad. it.,
Il Mulino, Bologna 1990; sulle prime proposizioni del Tractatus,
cfr. i capp. II e III, dedicati all'analisi "della
categoria degli oggetti" , di G: H. VON WRIGHT, Wittgenstein,
trad. it., Il mulino, Bologna 1982 (in part. I, capp. III
e IV sulle origini del Tractatus e delle Ricerche
filosofiche); sempre attuali gli studi pioneristici
di D. ANTISERI, Dopo Wittgenstein: dove va la filosofia
analitica, Roma 1968.
[8]
La tesi della dipendenza di Wittgenstein
da Kant, soprattutto nel Tractatus e negli scritti
che trattano di filosofia della matematica, è stat
sostenuta, tra gli altri, con buone e documentate ragioni
da D. S. SHWYDER, Wittgenstein on Mathematics, in
Studies in the Philosophy of Wittgenstein a cura
di P. Winch, Routledge e Kegan Paul, London 1969. Ecco la
sua tesi: "La filosofia di Wittgenstein è stata
kantiana dall'inizio alla fine" (p. 66). Alla luce
di alcuni motivi di fondo dell'etica kantiana è interpretata
- a mio avviso in maniera convincente - l'opera di Wittgenstein
da parte di J. JANIK - S. TOULMIN, La grande Vienna,
trad. it., Garzanti, Milano 1984, (in particolare, il cap.
6 "Il Tractatus riesaminato: un atto etico", pp.
169-204).
[9]
Tractatus logico-philosophicus
e Quaderni 1914-1916, trad. it., Einaudi, Torino
1968, p. 173
[10]
Cfr. G. GREWENDORF, Ist
Wittgenstein Privatsprachenargument trivial?, in "Ratio",
2 (1979), 21. Bd, pp. 151-160.
[11]
Quaderni,
p. 181.
[12]
Ivi, p. 49.
[13]
Sulle affinità del Tractatus
con l'Etica di Spinosa, allo studio originale, ma
non immune da forzature, di M. AENISHAENSLIN, "Le
Tractatus" de Wittgenstein et "l'Etique"
de Spinosa. Etude de comparaison structuraille, Birkhauser,
Basel 1994.
[14]
Wittgenstein, scienza etica estetica,
(trad. it. cit., p. 41).
[15]
De la cuestiòn
del ombre a la cuestiòn de Dios,
Ediciones Sigueme, S. A., Salamanca 1988; trad. it., Dal
problema dell'uomo al problema di Dio, Queriniana, Brescia
1991; la formula ritorna insistente nel cap. IV (p. 109-157),
esame profondo, critico, chiarissimo, del significato globale
dell'opera di Wittgenstein; s'intitola significativamente
"L. Wittgenstein di fronte al problema del senso della
vita".
[16]
L'eredità di Wittgenstein,
Laterza, Roma-Bari, p. 4.
[17]
Essendo gli altri studi di Gargani troppo noti e citati,
limito il rinvio a quel micromodello di analisi che è
il prezioso libretto (un vero colpo di sonda in profondità),
A. GARGANI, Stili di analisi, Feltrinelli, Milano
1980
[18]
Op. cit., pp. 4-5.
[19]
L. WITTGENSTEIN, Vermischte Bemerkungen,
a cura di G. H. von Writt, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1977,
p. 73; trad. it., Pensieri diversi, a cura di Michele
Ranchetti, Adelfi, Milano 1980; traggo però questa
citazione da A. GARGANI, Il coraggio di essere, Introduzione
a WITTGENSTEIN, Diari segreti, Laterza, Roma-Bari
1987, p. 24.
Martino Cambula
è professore di prima fascia di Storia della Filosofia
(Concorso nel 2000) nell'Università di Sassari, proveniente
dal ruolo dei professori associati (1981). Dal 2001 è
presidente del Corso di Laurea in Filosofia. Ha ricoperto
per supplenza l'insegnamento di Storia della Filosofia medievale
(1984-1992) e attualmente (dal 1998) ricopre quello di Logica
e filosofia della scienza. Collabora alla "Rivista
di Ascetica e Mistica" di Firenze; e alla pagina "Cultura"
del Settimanale "Libertà" di Sassari. I
temi della sua ricerca vertono su : Crisi della ragione
moderna: R. Guardini e L. Wittgenstein; Figure della ragione
tra filosofia e scienza; Fede e ragione, con particolare
riferimento al pensiero e l'opera di S. Tommaso d'Aquino;
Esperienza e conoscenza nel neopositivismo
I suoi lavori: Eclissi o tramonto della razionalità
moderna? Su R. Guardini e L. Wittgenstein, Edizioni
La Scala, Noci (BA)1994; Forme del vivere e forme del
sapere. Figure della ragione tra filosofia e scienza,
Editrice Democratica Sarda, Sassari 1996; Sapere e credere.
Domande sull'Enciclica "Fides et Ratio" di Giovanni
Paolo II, Edizioni La Scala, Noci (BA)1998; Moritz
Schlick, Il futuro della filosofia. Esperire, Conoscere,
Metafisica, a cura di Martino Cambula, Edizioni La Scala,
Noci (BA)1999; "De docta ignorantia": la via
apofantica alla conoscenza di Dio in Tommaso d'Aquino
in "Rivista di Ascetica e Mistica", 1, Firenze
2000, pp. 139-165; L' "ultimo" Popper,
in "Il volo", Cagliari 2000; Verità
di ragione e verità di fatto, in M. Schlick,
L'essenza della verità secondo la logica moderna
(edizione italiana integrale), Rubbettino, Soveria Monnelli
2001.
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