giornalediconfine.ne
t

 

 

 

LUISELLA PISCIOTTU, "Decostruzione e Architettura"

 

L. Pisciottu, Decostruzione e Architettura. Postmodernismo? Ennesima 'gettata teorica' in un campo di forze plurali, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno I, n.2 luglio-ottobre 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_2/art_6.htm

 

Attenzione! Non lasciatevi ingannare dal titolo, perché qui non troverete una trattazione tematica del postmoderno, di questa nostra epoca dai contorni fortemente scardinati e scardinanti che ancora si sta svolgendo e tuttavia è già stata riavvolta dai suoi stessi attori in una sceneggiatura. Più che un film è per il momento un cortometraggio in onda.
Ciò che vi viene proposto in questa sede non è la visione di una storia o di una parte di essa, tutt'altro: è la lettura di una "scrittura" che si impone contro i grandi racconti, contro le "storie" ben definite, contro ogni parcellizzazione della storia.
La "scrittura" in questione è la decostruzione che il filosofo francese Jacques Derrida opera sui testi della tradizione.
Decostruzione da cui deriva "decostruzionismo", come teoria generale, metodo del decostruire; "decostruzionismo" come deriva del postmodernismo.
Ma non lasciamoci trascinare dai luoghi comuni, dalla tentazione di porre etichette facili e rassicuranti, poiché ci troviamo di fronte ad una pratica filosofica che rifiuta, per sua stessa natura, di essere raccolta in un "ismo"; "estranea al postmodernismo e al decostruzionismo, la decostruzione anzi serve a mettere in questione la stessa logica che presiede alla formazione degli <ismi> e dei <post>"[1]. È Derrida stesso a sottoscrivere tale dichiarazione, affermando che "la decostruzione non è una teoria, né una filosofia. Né una scuola, né un metodo. Neanche un discorso, un atto o una pratica. È ciò che accade, che sta accadendo oggi (…). La decostruzione è l'evento."[2] ; è la legge strutturale che presiede la formazione delle teorie, dei teoremi, delle teorizzazioni, le quali si "gettano" in questo campo di forze non unificabile e di conseguenza non identificabile.
La possibilità della decostruzione nasce dal fatto che tutto è già da sempre decostruito, mescolato, contaminato; non c'è dimora né collocazione se non nel movimento tracciante della dif-ferenza.
Evento come movimento di forze in uno spazio i cui confini sono sempre stati attraversati, cancellati e ridisegnati, ritracciati nell'esser cancellati; magma vulcanico.
Ribadiamolo: le teorie si "gettano"in questo campo di forze, "gettate teoriche" per l'appunto.
In francese jetée, gettata, indica il pontile che si allunga verso l'acqua per accogliere le imbarcazioni; e Derrida utilizza questo termine così bizzarro per figurare quel movimento di esposizione e di successiva ritrazione, di avanzata verso l'ignoto e di necessaria ritirata in un luogo di senso, quel doppio movimento che caratterizza il costituirsi di ogni istanza teorica[3].
Ogni "gettata teorica" si colloca fin da principio in un contesto conflittuale e competitivo.
Con ciò non ci si riferisce semplicemente all'antagonismo, all'opposizione che può esistere tra due teorie differenti, ma ad una situazione più originaria che affonda le sue radici nella pretesa della gettata stessa di legittimare, di comprendere in sé tutte le altre gettate (passate, presenti e future). Perciò ciascuna gettata non deve essere considerata come una parte accanto ad altre parti che insieme vanno a costituire un tutto, ma piuttosto come una posizione (perché è anche questo) che trae la sua identità dall'inclusione delle altre identità, "per contaminazione, parassitismo, innesto, trapianti d'organo, incorporazione ecc."[4]
Viene così a configurarsi uno "stato" che non ha totalità e di conseguenza non ha frontiere, la cui eterogeneità introiettiva non trova assolutamente riscontro né in una concezione diacronica del tempo, ma neppure in una concezione sincronica: nel senso che le diverse gettate teoriche non si succedono ordinatamente nel tempo, ma non accade neanche che si giustappongano simultaneamente.
Titolare i vari "stati" all'interno dello "stato" servendosi della particella "neo" o della particella "post" è soltanto un espediente culturale di natura storicista. Il fatto paradossale è che a volte (come nel caso del postmodernismo) i sostenitori di tali "neo-ismi" e "post-ismi" dichiarano di essere antistoricisti ed esigono che anche i movimenti così titolati lo siano.
Di fronte a tale pluralizzazione delle gettate della teoria, Derrida sostiene che siano possibili due interpretazioni generali.
Da una parte si può spiegare il conflitto tra le varie teorie come un conflitto di interpretazioni, lotta in cui ogni interpretazione vorrebbe prevalere sull'altra. Ma si può anche interpretare questa molteplicità "come una legge del campo, una clausola di non chiusura che non…permetterebbe mai di essere ordinata e inscritta (…) un mezzo di alterità o alterazione disseminata che renderebbe impossibile la pura identità, la pura identificazione di ciò che esso simultaneamente rende possibile; il che delimiterebbe e destabilizzerebbe lo stato o il sistema al quale dà origine, in modo che questo stato o sistema accada. Ma ciò che così permette loro di aver luogo non ha un luogo stabile e teorizzabile"[5],ciò che permette loro di aver luogo è il movimento della "differance", della dif-ferenza, legge strutturale e celata che sta alla base di ogni produzione di significato. È impossibile rintracciarla in qualche luogo poiché il suo tracciarsi è allo stesso tempo un cancellarsi; non si avrà mai una presentificazione della traccia, essa si dà in una forma che non è quella del presente, si dà sottraendosi, nella cancellatura di sé "una traccia incancellabile non è una traccia"[6].
Il darsi della dif-ferenza è un non-darsi, un infinito differirsi, è la condizione di possibilità di ogni altra differenza, l'orizzonte stesso del senso.
Il monito di Derrida è allora quello di porre fine a quel gioco ormai consolidato consistente nell'applicare gli schemi più vetusti della storia delle idee alla storia presente, e occuparsi invece dei "mostri teorici,… mostruosità che si annunciano nella teoria,… mostri che, preventivamente, rendono obsolete e comiche tutte le classificazioni o le successioni…. Una mostruosità non compare mai, o, se preferite, essa si presenta, cioè si fa riconoscere, solo permettendo di essere ricondotta a ciò che è riconoscibile, cioè una normalità, una legittimazione che essa non è; quindi si mostra non lasciandosi riconoscere per ciò che è - una mostruosità appunto"[7].
"Mostruosità": altro termine per riferirsi ancora alla "differance", alla "supplementarietà", al movimento della traccia .
E la decostruzione è per l'appunto una forma del tutto particolare di analisi dei testi della metafisica tradizionale (e non solo) che mira a denunciare la presenza-assenza di tale "mostruosità"; è una pratica (ma, ribadiamolo, non come metodo) di lettura che non protegge i testi ma li percorre sotteraneamente aprendoli dall'interno per far emergere ciò che in essi è in-scritto; è un'analisi di "scritture" che si propone di smascherare il movimento differenziale che si nasconde in ogni testo e che produce il testo stesso.
Per Derrida non si tratta di risalire dal significante al significato, ossia ad una dimensione pura del senso nella sua immediata presenza a sé, ma al contrario egli intende "dimostrare" che non esiste nessuna presenza originaria, nessun senso puro che verrebbe a contaminarsi esteriorizzandosi, materializzandosi nel corpo del significante.
Tutto è fin dall'origine ripetizione, contaminazione, sdoppiamento, differenza, iscrizione e cancellature, cancellature di cancellature…
La sua posizione si configura come una lotta al logocentrismo, a quel privilegio che la tradizione della metafisica occidentale ha sempre accordato alla "foné", alla voce come luogo della vicinanza assoluta tra significato e significante: nella voce il corpo sensibile del significante sembra cancellarsi nel momento stesso in cui viene espresso; l'atto che anima l'intenzione è immediatamente presente a sé.
L'epoca della fonè è l'epoca dell'essere nella forma della presenza. Ciò ha comportato inevitabilmente una condanna della "grammé", della scrittura come deriva e perdita del senso.
La critica di Derrida (condotta sulle orme di Heidegger) alla metafisica e alla presenza va dunque in direzione di una rivalutazione della scrittura, che, si badi bene, non è da intendersi esclusivamente come grafia ma come "spazio di iscrizione"[8].
Leggiamo ora un passo tratto da una delle opere più importanti del filosofo francese, dedicata al problema del segno nella filosofia di Husserl:
"Tutto è forse cominciato così: <Un nome pronunciato davanti a noi ci fa pensare alla galleria di Dresda…Giriamo per le sale…Un quadro di Téniers…rappresenta una galleria di quadri…I quadri di questa galleria, a loro volta, rappresentano dei quadri, che a loro volta rappresentano delle descrizioni decifrabili,ecc…>. Nulla ha probabilmente preceduto questa situazione. Nulla certamente la sospenderà. … Del pieno giorno della presenza, fuori dalla galleria nessuna percezione ci è data né sicuramente promessa. La galleria è il labirinto che comprende in sé le sue uscite: non vi si è mai caduti come in un caso particolare dell'esperienza…"[9].
La galleria è il luogo degli infiniti rimandi; ogni quadro rinvia ad altri quadri in un movimento senza fine; ciò che appare è solo un susseguirsi di specchi che sdoppiano in se stessi ciò che riflettono disperdendo la semplicità della sorgente… ma è davvero possibile il darsi di una sorgente, di un'origine pura?
La risposta di Derrida è negativa: si permane sempre all'interno della galleria, non perché non si diano le condizioni per evadere da essa e contemplare così la luce della presenza, ma perché ogni possibilità di presenza, di pienezza di significato appartiene da sempre al movimento della significazione che lega costitutivamente ogni presenza all'assenza, ogni vita alla morte, ogni dentro ad un fuori.
Questi ultimi termini non vanno intesi come semplici opposizioni ricomprese all'interno di una logica dell'identità, ma come coppie che si ergono su quel fondo costituito dal modo di accadere della traccia (sempre eccedente).
Si è ricorsi ad un linguaggio metaforico per cercare di raffigurare i tortuosi percorsi del pensiero, il movimento di scritture presente in ogni "testo", quel gioco che si crea tra i segni di un testo e che corrisponde al lavoro attivo della "dif-ferenza".
Al mito della foné, della presenza, della certezza, dell'evidenza immediata del senso di cui si è nutrita l'intera civiltà occidentale, Derrida contrappone la realtà della scrittura che si "presenta" come traccia o supplemento.
Scrive Derrida: "La supplementarietà è proprio la differenza, l'operazione del differire che, nello stesso tempo, fonde e ritarda la presenza, sottomettendola di conseguenza alla divisione e al ritardo originario"[10]; e ancora in Della grammatologia: "La traccia non è solamente la sparizione dell'origine, qui essa vuol dire (…) che l'origine non è affatto scomparsa, che essa non è mai stata costituita che, come effetto retroattivo, da una non-origine, la traccia, che diviene così l'origine dell'origine"[11].
Non c'è origine, non si dà un prima e dopo l'origine, perché il prima e il dopo, l'origine e la non origine, la presenza e l'assenza sono già da "sempre" ricompresi nella "supplementarietà" ossia nel movimento differenziale.
La scrittura, o meglio archi-scrittura, come luogo-non luog[12] del gioco infinito tra iscrizione e cancellazione, del gioco della traccia.
La traccia non è l'impronta di una presenza che fu e che si può ripristinare, ma "è" "un resto che è d'obbligo che non resti più"[13], "cenere (ciò che resta, senza restare, dell'olocausto, del brucia-tutto, dell'incendio: l'incenso)"[14]. Decostruzione quindi come cancellazione e apertura dei confini imposti, demolizione di qualsiasi struttura gerarchizzante che raccoglie e ordina la molteplicità dei discorsi, "gettata destabilizzante" che intende scuotere la "teoria" per far emergere la contaminazione "originaria".

Decostruzione e architettura

Abbiamo visto che una delle caratteristiche principali della decostruzione è la sua non-univocità e multilateralità la quale ci impedisce di assimilarla ad un sistema o metodo. A questa caratteristica aggiungiamo "una delle principali non solo strategie ma necessità della decostruzione"[15], ossia la sua trasversalità disciplinare.
E un esempio del carattere multidisciplinare della decostruzione ci è fornito dall'architettura.
In questo campo infatti si è affermata negli anni ottanta una tendenza progettista meglio nota come decostruttivismo.
Bisogna, prima di proseguire, mettere in rilievo una strana aporia che distingue la storia dell'architettura da quella di altre discipline. Infatti, mentre in filosofia o in letteratura la decostruzione si è configurata comunque (cioè al di là delle dovute precisazioni che abbiamo fatto in precedenza) come un pensiero tipicamente post-moderno, in architettura essa sembra che recuperi l'eredità del moderno. Ciò che distingue la decostruzione dal postmoderno è sostanzialmente una diversa considerazione dello spazio, differenza che è insita nelle loro stesse denominazioni: infatti, mentre la metafora della parola decostruzione richiama una struttura spaziale, il termine postmoderno evoca una successione temporale e il tentativo di prendere le distanze da un "moderno" che per i decostruttivisti al contrario costituisce un interessante oggetto di studio nonché, appunto, di decostruzione.
La decostruzione in architettura non è in realtà un nuovo stile ma una tendenza che aveva cominciato a imporsi già negli anni trenta.
Secondo alcuni il decostruttivismo andrebbe a designare il lavoro di quegli architetti impegnati nella celebrazione delle "differenze" che ha il suo momento fondativo nelle avanguardie russe degli anni '20. Per altri invece esso si riferisce in maniera specifica alla decostruzione di Derrida.
Non a caso quest'ultimo si è a lungo occupato di architettura, collaborando con gli architetti Peter Eisnman e Bernard Tschumi al progetto Choral Work, un giardino incluso nel Parco della Villette a Parigi, e applicando ad esso le teorie decostruzioniste. Inoltre una delle sue opere più importanti, Psiché, comprende tre testi riguardanti i sopraccitati architetti e i rapporti tra architettura e filosofia.
Ma come è possibile parlare di rapporti, di un dialogo tra discipline così eterogenee? E inoltre, perché tale contatto si è stabilito proprio nel 900?
In passato porre l'architettura sullo stesso piano della filosofia sarebbe stato un oltraggio alla "verità"; ma a quale concezione della verità? Alla verità intesa come pura forma spirituale, come pura presenza, lontana da qualsiasi forma di materialità. Hegel, ad esempio, all'interno della sua teoria dell'arte considerava l'architettura pura forma materiale priva di spirito, definendola la quintessenza dell'arte simbolica, quella forma d'arte cioè che si colloca sul gradino più basso rispetto alla poesia, più vicina invece al puro spirito del logos.
È nel Novecento che assistiamo ad una rivalutazione filosofica dell'architettura; ma ciò non avviene per una sorta di intellettualizzazione dell'architettura medesima ma, come ci dice M.Ferraris, per "un peggioramento o umiliazione della filosofia"[16]. Man mano, infatti, la filosofia ha avuto il coraggio di smascherare il carattere illusorio di quel riferimento alla coscienza, intesa come origine semplice, che aveva dominato l'intera storia della metafisica.
A compiere la svolta sono Heidegger e la scuola ermeneutica, e all'interno di essa decisivi sono stati Gadamer, Habermas e Ricoeur fino al più 'stravagante' Derrida.
L'ermeneutica ha riabilitato l'aspetto materiale che va a costituire un'opera d'arte, ma ha soprattutto voluto sottolineare che l'opera non si chiude mai, non esaurisce mai la sua produzione di significati: ogni testo è infatti uno spazio, metaforico o reale, aperto, percorribile da chiunque e in ogni tempo. L'artista genera un eterno dispositivo "disseminante" sul quale ha già da sempre perso qualsiasi forma di controllo.
E così come l'arte in generale non è semplicemente identificabile con l'attività dell'artista, allo stesso modo l'architettura non coincide esclusivamente con l'impegno dell'architetto; e tutto questo perché l'architettura, come dice Derrida, "è anche un'attività o un impegno della gente che legge, guarda questi edifici, entra nel loro spazio, si muove nello spazio, sperimenta lo spazio in modo diverso. Da questo punto di vista credo che ciò che offre l'esperienza architettonica …è precisamente l'occasione di sperimentare la possibilità di queste invenzioni di una diversa architettura, di un'architettura per così dire non heideggeriana…"[17].
Un'architettura "non-heideggeriana", "decostruita" è un'architettura che scardina le strutture portanti della tradizione e cerca di liberarsi dalla subordinazione ad altro - per esempio al valore del bello, dell'utile o dell'abitabile.
Ciò non significa dar vita a forme architettoniche inutili, brutte o inabitabili, ma significa solo voler mettere l'architettura in comunicazione con altre arti, significa "contaminare l'architettura".
Derrida la definisce "architettura non-heideggeriana" proprio perché in Heidegger, al contrario, la questione del costruire è strettamente legata ai valori dell'abitare, del "tenere", dell' "aver-cura-di", ossia del conservare, del custodire.
L'interrogativo sollevato da Derrida, e che ci poniamo anche noi, è se un'architettura decostruttivista è concretamente realizzabile, ma soprattutto se sia possibile definirla ancora architettura. Secondo Derrida, Eisenman e Tschumi hanno dato prova che quella decostruttivista è una strada percorribile; anche le loro creazioni sono fatte per essere abitate, per dare riparo, tuttavia, dietro consiglio di Derrida, quello che bisogna chiedersi "non è soltanto ciò che costruiscono, ma come noi interpretiamo ciò che essi costruiscono"[18], ovvero: quali "aperture" scaturiscono dagli spazi che materialmente vengono racchiusi.

 


 

[1] G.Leghissa, Derrida e la questione della radicalità, in J. Derida, Come non essere postmoderni, Edizioni Medusa 2002, p.7.
[2] J.Derrida, Come non essere postmoderni, cit., p.45.
[3] "… <gettata> …la forza del movimento che getta qualcosa o se stesso (jette o se jette) - avanti e indietro allo stesso tempo, anteriore a ogni soggetto, oggetto, o progetto, a ogni rigetto e abiezione - e dall'altro, il suo consolidamento istituzionale e protettivo, che può essere paragonato al molo (…). Naturalmente queste due funzioni della gettata sono idealmente distinte, ma di fatto sono difficili da separare, se non inseparabili.", Ibidem, p.44.
[4] Ibidem, p.24.
[5] Ibidem, p.31.
[6] J.Derrida, L'écriture e la différence, Le Seuil, Paris 1967, trad. It. di G.Pozzi, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, p.344.
[7] J.Derrida, Come non essere postmoderni, cit., pp. 38,39.
[8] "Occorre pensare ora che la scrittura è a un sol tempo più esterna alla parola non essendo la sua < immagine> o il suo <simbolo>, e più interna alla parola che è già in se stessa una scrittura. Ancor prima di essere legato all'incisione, all'impressione, al disegno o alla lettera, ad un significante che rinvia in generale ad un significante da esso significato, il concetto di grafia implica come possibilità comune a tutti i sistemi di significazione, l'istanza della traccia istituita.", J.Derrida, De la grammatologie, Les éditions de Minuit, Paris 1969, trad. It. di R.Balzarotti, F.Bonicalzi, G.Contri, G.Dalmasso, A.C.Loaldi, Della grammatologia, Jaca Book, Milano, 2ed. 1998, p.72.
[9] J.Derrida, La voix e le phénomène, Paris 1967, trad. It. di G. Dalmasso, La voce e il fenomeno. Il problema del segno nella filosofia di Husserl, introduzione di C. Sini, Jaca Book, Milano, ed. 1997, pp. 144,145.
[10] Ibidem, p.127.
[11] J.Derrida, De la grammatologie, cit., p.92.
[12] "La traccia, non essendo una presenza, bensì il simulacro di una presenza che si disloca, si sposta, si rinvia,non ha propriamente luogo…", J. Derida, Marges - de la philosophie, Minuit, Paris 1972, trad. It. di M.Iofrida, Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997, p.53.
[13] J.Derrida, Ciò che resta del fuoco, trad, It. di Agosti S., Sansoni, Firenze 1984, p.11.
[14] Ibidem, p.15.
[15] Da un' intervista rilasciata a Christopher Norris (1988) e pubblicata poi in Architectural Design n. 1-2 1989, p.9.
[16] M. Ferraris, In cammino verso l'architettura, in AA.VV., Decostruzione in architettura e in filosofia, a cura di B.Bottero, Città Studi, Milano 1991, p.23.
[17] Passo tratto da un'intervista rilasciata a Christopher Norris (1988) e pubblicata poi in Architectural Design n. 1-2 1989, p.10.
[18] Ibidem, p.10.