Attenzione! Non lasciatevi ingannare
dal titolo, perché qui non troverete una trattazione
tematica del postmoderno, di questa nostra epoca dai contorni
fortemente scardinati e scardinanti che ancora si sta svolgendo
e tuttavia è già stata riavvolta dai suoi
stessi attori in una sceneggiatura. Più che un film
è per il momento un cortometraggio in onda.
Ciò che vi viene proposto in questa sede non è
la visione di una storia o di una parte di essa, tutt'altro:
è la lettura di una "scrittura" che si
impone contro i grandi racconti, contro le "storie"
ben definite, contro ogni parcellizzazione della storia.
La "scrittura" in questione è la decostruzione
che il filosofo francese Jacques Derrida opera sui testi
della tradizione.
Decostruzione da cui deriva "decostruzionismo",
come teoria generale, metodo del decostruire; "decostruzionismo"
come deriva del postmodernismo.
Ma non lasciamoci trascinare dai luoghi comuni, dalla tentazione
di porre etichette facili e rassicuranti, poiché
ci troviamo di fronte ad una pratica filosofica che rifiuta,
per sua stessa natura, di essere raccolta in un "ismo";
"estranea al postmodernismo e al decostruzionismo,
la decostruzione anzi serve a mettere in questione la stessa
logica che presiede alla formazione degli <ismi> e
dei <post>"[1].
È Derrida stesso a sottoscrivere tale dichiarazione,
affermando che "la decostruzione non è una teoria,
né una filosofia. Né una scuola, né
un metodo. Neanche un discorso, un atto o una pratica. È
ciò che accade, che sta accadendo oggi (
).
La decostruzione è l'evento."[2]
; è la legge strutturale che presiede la formazione
delle teorie, dei teoremi, delle teorizzazioni, le quali
si "gettano" in questo campo di forze non unificabile
e di conseguenza non identificabile.
La possibilità della decostruzione nasce dal fatto
che tutto è già da sempre decostruito, mescolato,
contaminato; non c'è dimora né collocazione
se non nel movimento tracciante della dif-ferenza.
Evento come movimento di forze in uno spazio i cui confini
sono sempre stati attraversati, cancellati e ridisegnati,
ritracciati nell'esser cancellati; magma vulcanico.
Ribadiamolo: le teorie si "gettano"in questo campo
di forze, "gettate teoriche" per l'appunto.
In francese jetée, gettata, indica il pontile
che si allunga verso l'acqua per accogliere le imbarcazioni;
e Derrida utilizza questo termine così bizzarro per
figurare quel movimento di esposizione e di successiva ritrazione,
di avanzata verso l'ignoto e di necessaria ritirata in un
luogo di senso, quel doppio movimento che caratterizza il
costituirsi di ogni istanza teorica[3].
Ogni "gettata teorica" si colloca fin da principio
in un contesto conflittuale e competitivo.
Con ciò non ci si riferisce semplicemente all'antagonismo,
all'opposizione che può esistere tra due teorie differenti,
ma ad una situazione più originaria che affonda le
sue radici nella pretesa della gettata stessa di legittimare,
di comprendere in sé tutte le altre gettate (passate,
presenti e future). Perciò ciascuna gettata non deve
essere considerata come una parte accanto ad altre parti
che insieme vanno a costituire un tutto, ma piuttosto come
una posizione (perché è anche questo) che
trae la sua identità dall'inclusione delle altre
identità, "per contaminazione, parassitismo,
innesto, trapianti d'organo, incorporazione ecc."[4]
Viene così a configurarsi uno "stato" che
non ha totalità e di conseguenza non ha frontiere,
la cui eterogeneità introiettiva non trova assolutamente
riscontro né in una concezione diacronica del tempo,
ma neppure in una concezione sincronica: nel senso che le
diverse gettate teoriche non si succedono ordinatamente
nel tempo, ma non accade neanche che si giustappongano simultaneamente.
Titolare i vari "stati" all'interno dello "stato"
servendosi della particella "neo" o della particella
"post" è soltanto un espediente culturale
di natura storicista. Il fatto paradossale è che
a volte (come nel caso del postmodernismo) i sostenitori
di tali "neo-ismi" e "post-ismi" dichiarano
di essere antistoricisti ed esigono che anche i movimenti
così titolati lo siano.
Di fronte a tale pluralizzazione delle gettate della teoria,
Derrida sostiene che siano possibili due interpretazioni
generali.
Da una parte si può spiegare il conflitto tra le
varie teorie come un conflitto di interpretazioni, lotta
in cui ogni interpretazione vorrebbe prevalere sull'altra.
Ma si può anche interpretare questa molteplicità
"come una legge del campo, una clausola di non chiusura
che non
permetterebbe mai di essere ordinata e inscritta
(
) un mezzo di alterità o alterazione disseminata
che renderebbe impossibile la pura identità, la pura
identificazione di ciò che esso simultaneamente rende
possibile; il che delimiterebbe e destabilizzerebbe lo stato
o il sistema al quale dà origine, in modo che questo
stato o sistema accada. Ma ciò che così permette
loro di aver luogo non ha un luogo stabile e teorizzabile"[5],ciò
che permette loro di aver luogo è il movimento della
"differance", della dif-ferenza, legge strutturale
e celata che sta alla base di ogni produzione di significato.
È impossibile rintracciarla in qualche luogo poiché
il suo tracciarsi è allo stesso tempo un cancellarsi;
non si avrà mai una presentificazione della traccia,
essa si dà in una forma che non è quella del
presente, si dà sottraendosi, nella cancellatura
di sé "una traccia incancellabile non è
una traccia"[6].
Il darsi della dif-ferenza è un non-darsi, un infinito
differirsi, è la condizione di possibilità
di ogni altra differenza, l'orizzonte stesso del senso.
Il monito di Derrida è allora quello di porre fine
a quel gioco ormai consolidato consistente nell'applicare
gli schemi più vetusti della storia delle idee alla
storia presente, e occuparsi invece dei "mostri teorici,
mostruosità che si annunciano nella teoria,
mostri che, preventivamente, rendono obsolete e comiche
tutte le classificazioni o le successioni
. Una mostruosità
non compare mai, o, se preferite, essa si presenta, cioè
si fa riconoscere, solo permettendo di essere ricondotta
a ciò che è riconoscibile, cioè una
normalità, una legittimazione che essa non è;
quindi si mostra non lasciandosi riconoscere per ciò
che è - una mostruosità appunto"[7].
"Mostruosità": altro termine per riferirsi
ancora alla "differance", alla "supplementarietà",
al movimento della traccia .
E la decostruzione è per l'appunto una forma del
tutto particolare di analisi dei testi della metafisica
tradizionale (e non solo) che mira a denunciare la presenza-assenza
di tale "mostruosità"; è una pratica
(ma, ribadiamolo, non come metodo) di lettura che non protegge
i testi ma li percorre sotteraneamente aprendoli dall'interno
per far emergere ciò che in essi è in-scritto;
è un'analisi di "scritture" che si propone
di smascherare il movimento differenziale che si nasconde
in ogni testo e che produce il testo stesso.
Per Derrida non si tratta di risalire dal significante al
significato, ossia ad una dimensione pura del senso nella
sua immediata presenza a sé, ma al contrario egli
intende "dimostrare" che non esiste nessuna presenza
originaria, nessun senso puro che verrebbe a contaminarsi
esteriorizzandosi, materializzandosi nel corpo del significante.
Tutto è fin dall'origine ripetizione, contaminazione,
sdoppiamento, differenza, iscrizione e cancellature, cancellature
di cancellature
La sua posizione si configura come una lotta al logocentrismo,
a quel privilegio che la tradizione della metafisica occidentale
ha sempre accordato alla "foné", alla voce
come luogo della vicinanza assoluta tra significato e significante:
nella voce il corpo sensibile del significante sembra cancellarsi
nel momento stesso in cui viene espresso; l'atto che anima
l'intenzione è immediatamente presente a sé.
L'epoca della fonè è l'epoca dell'essere nella
forma della presenza. Ciò ha comportato inevitabilmente
una condanna della "grammé", della scrittura
come deriva e perdita del senso.
La critica di Derrida (condotta sulle orme di Heidegger)
alla metafisica e alla presenza va dunque in direzione di
una rivalutazione della scrittura, che, si badi bene, non
è da intendersi esclusivamente come grafia ma come
"spazio di iscrizione"[8].
Leggiamo ora un passo tratto da una delle opere più
importanti del filosofo francese, dedicata al problema del
segno nella filosofia di Husserl:
"Tutto è forse cominciato così: <Un
nome pronunciato davanti a noi ci fa pensare alla galleria
di Dresda
Giriamo per le sale
Un quadro di Téniers
rappresenta
una galleria di quadri
I quadri di questa galleria,
a loro volta, rappresentano dei quadri, che a loro volta
rappresentano delle descrizioni decifrabili,ecc
>.
Nulla ha probabilmente preceduto questa situazione. Nulla
certamente la sospenderà.
Del pieno giorno
della presenza, fuori dalla galleria nessuna percezione
ci è data né sicuramente promessa. La galleria
è il labirinto che comprende in sé le sue
uscite: non vi si è mai caduti come in un caso particolare
dell'esperienza
"[9].
La galleria è il luogo degli infiniti rimandi; ogni
quadro rinvia ad altri quadri in un movimento senza fine;
ciò che appare è solo un susseguirsi di specchi
che sdoppiano in se stessi ciò che riflettono disperdendo
la semplicità della sorgente
ma è davvero
possibile il darsi di una sorgente, di un'origine pura?
La risposta di Derrida è negativa: si permane sempre
all'interno della galleria, non perché non si diano
le condizioni per evadere da essa e contemplare così
la luce della presenza, ma perché ogni possibilità
di presenza, di pienezza di significato appartiene da sempre
al movimento della significazione che lega costitutivamente
ogni presenza all'assenza, ogni vita alla morte, ogni dentro
ad un fuori.
Questi ultimi termini non vanno intesi come semplici opposizioni
ricomprese all'interno di una logica dell'identità,
ma come coppie che si ergono su quel fondo costituito dal
modo di accadere della traccia (sempre eccedente).
Si è ricorsi ad un linguaggio metaforico per cercare
di raffigurare i tortuosi percorsi del pensiero, il movimento
di scritture presente in ogni "testo", quel gioco
che si crea tra i segni di un testo e che corrisponde al
lavoro attivo della "dif-ferenza".
Al mito della foné, della presenza, della certezza,
dell'evidenza immediata del senso di cui si è nutrita
l'intera civiltà occidentale, Derrida contrappone
la realtà della scrittura che si "presenta"
come traccia o supplemento.
Scrive Derrida: "La supplementarietà è
proprio la differenza, l'operazione del differire che, nello
stesso tempo, fonde e ritarda la presenza, sottomettendola
di conseguenza alla divisione e al ritardo originario"[10];
e ancora in Della grammatologia: "La traccia non è
solamente la sparizione dell'origine, qui essa vuol dire
(
) che l'origine non è affatto scomparsa, che
essa non è mai stata costituita che, come effetto
retroattivo, da una non-origine, la traccia, che diviene
così l'origine dell'origine"[11].
Non c'è origine, non si dà un prima e dopo
l'origine, perché il prima e il dopo, l'origine e
la non origine, la presenza e l'assenza sono già
da "sempre" ricompresi nella "supplementarietà"
ossia nel movimento differenziale.
La scrittura, o meglio archi-scrittura, come luogo-non luog[12]
del gioco infinito tra iscrizione e cancellazione, del gioco
della traccia.
La traccia non è l'impronta di una presenza che fu
e che si può ripristinare, ma "è"
"un resto che è d'obbligo che non resti più"[13],
"cenere (ciò che resta, senza restare, dell'olocausto,
del brucia-tutto, dell'incendio: l'incenso)"[14].
Decostruzione quindi come cancellazione e apertura dei confini
imposti, demolizione di qualsiasi struttura gerarchizzante
che raccoglie e ordina la molteplicità dei discorsi,
"gettata destabilizzante" che intende scuotere
la "teoria" per far emergere la contaminazione
"originaria".
Decostruzione e architettura
Abbiamo visto che una delle
caratteristiche principali della decostruzione è
la sua non-univocità e multilateralità la
quale ci impedisce di assimilarla ad un sistema o metodo.
A questa caratteristica aggiungiamo "una delle principali
non solo strategie ma necessità della decostruzione"[15],
ossia la sua trasversalità disciplinare.
E un esempio del carattere multidisciplinare della decostruzione
ci è fornito dall'architettura.
In questo campo infatti si è affermata negli anni
ottanta una tendenza progettista meglio nota come decostruttivismo.
Bisogna, prima di proseguire, mettere in rilievo una strana
aporia che distingue la storia dell'architettura da quella
di altre discipline. Infatti, mentre in filosofia o in letteratura
la decostruzione si è configurata comunque (cioè
al di là delle dovute precisazioni che abbiamo fatto
in precedenza) come un pensiero tipicamente post-moderno,
in architettura essa sembra che recuperi l'eredità
del moderno. Ciò che distingue la decostruzione dal
postmoderno è sostanzialmente una diversa considerazione
dello spazio, differenza che è insita nelle loro
stesse denominazioni: infatti, mentre la metafora della
parola decostruzione richiama una struttura spaziale, il
termine postmoderno evoca una successione temporale e il
tentativo di prendere le distanze da un "moderno"
che per i decostruttivisti al contrario costituisce un interessante
oggetto di studio nonché, appunto, di decostruzione.
La decostruzione in architettura non è in realtà
un nuovo stile ma una tendenza che aveva cominciato a imporsi
già negli anni trenta.
Secondo alcuni il decostruttivismo andrebbe a designare
il lavoro di quegli architetti impegnati nella celebrazione
delle "differenze" che ha il suo momento fondativo
nelle avanguardie russe degli anni '20. Per altri invece
esso si riferisce in maniera specifica alla decostruzione
di Derrida.
Non a caso quest'ultimo si è a lungo occupato di
architettura, collaborando con gli architetti Peter Eisnman
e Bernard Tschumi al progetto Choral Work, un giardino incluso
nel Parco della Villette a Parigi, e applicando ad esso
le teorie decostruzioniste. Inoltre una delle sue opere
più importanti, Psiché, comprende tre testi
riguardanti i sopraccitati architetti e i rapporti tra architettura
e filosofia.
Ma come è possibile parlare di rapporti, di un dialogo
tra discipline così eterogenee? E inoltre, perché
tale contatto si è stabilito proprio nel 900?
In passato porre l'architettura sullo stesso piano della
filosofia sarebbe stato un oltraggio alla "verità";
ma a quale concezione della verità? Alla verità
intesa come pura forma spirituale, come pura presenza, lontana
da qualsiasi forma di materialità. Hegel, ad esempio,
all'interno della sua teoria dell'arte considerava l'architettura
pura forma materiale priva di spirito, definendola la quintessenza
dell'arte simbolica, quella forma d'arte cioè che
si colloca sul gradino più basso rispetto alla poesia,
più vicina invece al puro spirito del logos.
È nel Novecento che assistiamo ad una rivalutazione
filosofica dell'architettura; ma ciò non avviene
per una sorta di intellettualizzazione dell'architettura
medesima ma, come ci dice M.Ferraris, per "un peggioramento
o umiliazione della filosofia"[16].
Man mano, infatti, la filosofia ha avuto il coraggio di
smascherare il carattere illusorio di quel riferimento alla
coscienza, intesa come origine semplice, che aveva dominato
l'intera storia della metafisica.
A compiere la svolta sono Heidegger e la scuola ermeneutica,
e all'interno di essa decisivi sono stati Gadamer, Habermas
e Ricoeur fino al più 'stravagante' Derrida.
L'ermeneutica ha riabilitato l'aspetto materiale che va
a costituire un'opera d'arte, ma ha soprattutto voluto sottolineare
che l'opera non si chiude mai, non esaurisce mai la sua
produzione di significati: ogni testo è infatti uno
spazio, metaforico o reale, aperto, percorribile da chiunque
e in ogni tempo. L'artista genera un eterno dispositivo
"disseminante" sul quale ha già da sempre
perso qualsiasi forma di controllo.
E così come l'arte in generale non è semplicemente
identificabile con l'attività dell'artista, allo
stesso modo l'architettura non coincide esclusivamente con
l'impegno dell'architetto; e tutto questo perché
l'architettura, come dice Derrida, "è anche
un'attività o un impegno della gente che legge, guarda
questi edifici, entra nel loro spazio, si muove nello spazio,
sperimenta lo spazio in modo diverso. Da questo punto di
vista credo che ciò che offre l'esperienza architettonica
è precisamente l'occasione di sperimentare
la possibilità di queste invenzioni di una diversa
architettura, di un'architettura per così dire non
heideggeriana
"[17].
Un'architettura "non-heideggeriana", "decostruita"
è un'architettura che scardina le strutture portanti
della tradizione e cerca di liberarsi dalla subordinazione
ad altro - per esempio al valore del bello, dell'utile o
dell'abitabile.
Ciò non significa dar vita a forme architettoniche
inutili, brutte o inabitabili, ma significa solo voler mettere
l'architettura in comunicazione con altre arti, significa
"contaminare l'architettura".
Derrida la definisce "architettura non-heideggeriana"
proprio perché in Heidegger, al contrario, la questione
del costruire è strettamente legata ai valori dell'abitare,
del "tenere", dell' "aver-cura-di",
ossia del conservare, del custodire.
L'interrogativo sollevato da Derrida, e che ci poniamo anche
noi, è se un'architettura decostruttivista è
concretamente realizzabile, ma soprattutto se sia possibile
definirla ancora architettura. Secondo Derrida, Eisenman
e Tschumi hanno dato prova che quella decostruttivista è
una strada percorribile; anche le loro creazioni sono fatte
per essere abitate, per dare riparo, tuttavia, dietro consiglio
di Derrida, quello che bisogna chiedersi "non è
soltanto ciò che costruiscono, ma come noi interpretiamo
ciò che essi costruiscono"[18],
ovvero: quali "aperture" scaturiscono dagli spazi
che materialmente vengono racchiusi.
[1]
G.Leghissa, Derrida e la questione della radicalità,
in J. Derida, Come non essere postmoderni, Edizioni
Medusa 2002, p.7.
[2]
J.Derrida, Come non essere postmoderni, cit.,
p.45.
[3]
"
<gettata>
la forza del movimento
che getta qualcosa o se stesso (jette o se jette) - avanti
e indietro allo stesso tempo, anteriore a ogni soggetto,
oggetto, o progetto, a ogni rigetto e abiezione - e dall'altro,
il suo consolidamento istituzionale e protettivo, che può
essere paragonato al molo (
). Naturalmente queste
due funzioni della gettata sono idealmente distinte, ma
di fatto sono difficili da separare, se non inseparabili.",
Ibidem, p.44.
[4]
Ibidem, p.24.
[5]
Ibidem, p.31.
[6]
J.Derrida, L'écriture e la différence,
Le Seuil, Paris 1967, trad. It. di G.Pozzi, La scrittura
e la differenza, Einaudi, Torino, p.344.
[7]
J.Derrida, Come non essere postmoderni, cit., pp.
38,39.
[8]
"Occorre pensare ora che la scrittura è a un
sol tempo più esterna alla parola non essendo la
sua < immagine> o il suo <simbolo>, e più
interna alla parola che è già in se stessa
una scrittura. Ancor prima di essere legato all'incisione,
all'impressione, al disegno o alla lettera, ad un significante
che rinvia in generale ad un significante da esso significato,
il concetto di grafia implica come possibilità comune
a tutti i sistemi di significazione, l'istanza della traccia
istituita.", J.Derrida, De la grammatologie,
Les éditions de Minuit, Paris 1969, trad. It. di
R.Balzarotti, F.Bonicalzi, G.Contri, G.Dalmasso, A.C.Loaldi,
Della grammatologia, Jaca Book, Milano, 2ed. 1998,
p.72.
[9]
J.Derrida, La voix e le phénomène,
Paris 1967, trad. It. di G. Dalmasso, La voce e il fenomeno.
Il problema del segno nella filosofia di Husserl, introduzione
di C. Sini, Jaca Book, Milano, ed. 1997, pp. 144,145.
[10]
Ibidem, p.127.
[11]
J.Derrida, De la grammatologie, cit., p.92.
[12]
"La traccia, non essendo una presenza, bensì
il simulacro di una presenza che si disloca, si sposta,
si rinvia,non ha propriamente luogo
", J. Derida,
Marges - de la philosophie, Minuit, Paris 1972, trad.
It. di M.Iofrida, Margini della filosofia, Einaudi,
Torino 1997, p.53.
[13]
J.Derrida, Ciò che resta del fuoco, trad,
It. di Agosti S., Sansoni, Firenze 1984, p.11.
[14]
Ibidem, p.15.
[15]
Da un' intervista rilasciata a Christopher Norris (1988)
e pubblicata poi in Architectural Design n. 1-2 1989, p.9.
[16]
M. Ferraris, In cammino verso l'architettura, in
AA.VV., Decostruzione in architettura e in filosofia,
a cura di B.Bottero, Città Studi, Milano 1991, p.23.
[17]
Passo tratto da un'intervista rilasciata a Christopher Norris
(1988) e pubblicata poi in Architectural Design n. 1-2 1989,
p.10.
[18]
Ibidem, p.10.
|