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ALESSANDRA PIGLIARU, "IL TEATRO DELL'ASSURDO"

 

A. Pigliaru, Il Teatro dell'Assurdo. Il Tatro come Evento. Antonin Artaud, in "XÁOS. Giornale di confine", n.3 2002-2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_3/art_19.htm

 

Fino a questo punto del "percorso" si è tentato di trovare una "lente" attraverso la quale leggere ciò che Sartre, in Huis Clos, e Camus, in Caligula, hanno cercato di rappresentare (A.Pigliaru, "Il Teatro dell'Assurdo. Huis Clos di J. P. Sartre ", XÁOS. Giornale di confine, n.1 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_precedente/art_8.htm; Id., "Il Teatro dell'Assurdo: Caligula di Albert Camus", XÁOS. Giornale di confine, n.2 luglio-ottobre 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_2/art_12.htm).

E' stato difficile ma per certi versi forse scontato: ci si è serviti delle loro speculazioni filosofiche per chiarire e "decifrare" nel loro codice teatrale ciò che risultava. Tuttavia si è notato come il concetto di Assurdo si sia in qualche modo "trasformato" nel suo contrario. Ora è il momento, anzi l'istante in cui l'Assurdo rientri in se stesso, senza forzature filosofiche di sorta. E l'Assurdo ritorna in sè accresciuto dal suo "passaggio" per esplodere manifestando la sua essenza: la Crudeltà. Non ci si servirà più di filtri attraverso i quali evincere l'Assurdo nella rappresentazione teatrale, perchè l'Assurdo in Artaud non è più rappresentabile..."semplicemente" coincide con la vita stessa. Inevitabilmente, parlando di Crudeltà, si tratterà della "destinazione" del teatro stesso, destinazione che il teatro porta nella stessa etimologia della parola. il teatro per Artaud ha a che fare con l'Origine ed è questo il motivo per il quale si sottrae alla struttura della rappresentazione stessa. L'errore, o meglio, la colpa del teatro Occidentale sta nell'aver "nascosto" ciò che non-si-dà ad essere nascosto: la pura manifestazione dell'Origine, l’êidolon che “accade e non può essere ripetuto. E’ per questo che ciò che Artaud auspica non potrà darsi nella forma teatrale occidentale ma bensì solo in quella forma rituale tipica del teatro come evento festivo, del teatro Balinese. La litania delle copie risponde al modello occidentale fondato da Platone, per il quale «la rappresentazione è interminabile e indefinita ripetizione di un originale - ossia di un’origine, l’evento accaduto del testo ». [1] Ecco perché il teatro per Artaud non ha ancora cominciato ad esistere, perché ha fagocitato in sé la sua propria essenza: l’irrappresentabile. Ciò che rimprovera Artaud al teatro occidentale è di essere un “teatro della ripetizione”, quell’infinito susseguirsi delle copie che evocano, attraverso la parola, la malinconica nostalgia dell’origine. [2] Il teatro come rappresentazione è il teatro come théatron, ciò che porta in sé la separazione dalla vita. [3] E se è vero che la rappresentazione in occidente è parte integrante di una civiltà che spoglia la vita del suo senso, si capisce Artaud quando parla di un teatro puro, cioè purificato, in cui sulla scena accade qualcosa di unico e irripetibile, come «qualsiasi atto della vita». [4]  

 Tra il 1925 e il 1927 ne Il Pesa-nervi Artaud scrive che «il vero dolore consiste nel sentire il proprio pensiero spostarsi dentro di sè»; [5] ora, l’argomento del pensare che coincide col soffrire è di notevole importanza per il nostro discorso: dà l’idea dell’ineluttabile frantumazione del pensiero nella parola articolata, quella «impossibilità di pensare che è il pensiero»; [6]   è Maurice Blanchot, uno dei più lucidi conoscitori di Artaud, che scrive a riguardo «egli ha come toccato […] il punto in cui pensare è sempre e già un poter ancora pensare: non potere (impouvoir) secondo la sua parola, che è come essenziale al pensiero ma ne fa una carenza dolorosa, un venir meno che si irradia nello stesso istante partendo da quel centro e, consumando la sostanza fisica di quel che egli pensa, si divide a tutti i livelli di impossibilità particolari». [7] A questo proposito illuminante è il testo di finzione (1924-25) pubblicato da Artaud dal titolo Les dix-huit secondes dal quale si evince la morte del pensiero nella parola, l’interruzione e lo spezzarsi di un pensiero che viene meno nell’istante della sua estrinsecazione. [8] «Artaud ha voluto impedire che la sua parola, lontano dal suo corpo, gli fosse soffiata, soufflée»; [9] Jacques Derrida che parla di parola soufflée fa riferimento ad una parola per un verso sottratta e per un altro ispirata da un'altra voce: si tratta comunque di espropriazione, di furto che si confonde con la possibilità stessa del furto. La struttura della sottrazione deve essere spazzata via da una scena dove non possa trovare rifugio: la Crudeltà; se si accetta che "le parole sono il cadavere della parola psichica", si intenderà bene il significato della "Parola che è prima delle parole" come un ritorno all'origine: occorre ritrovare un linguaggio dove la parola e la scrittura diventino gesti. "Non si può continuare a prostituire l'idea di teatro, perchè il suo valore risisede esclusivamente in un rapporto magico e atroce con la realtà e il pericolo". [10] In questo modo Artaud intende il suo teatro della Crudeltà:"[...]ossia come una "Crudeltà"- da cruor che in latino è "il sangue che cola dalle ferite"[...]- che comincia dalla sua propria rappresentazione, che non la esorcizza in altro, credendo di allontanarla in immagine, ma la fa esistere per la prima e unica volta". [11]
Il gesto è dunque crudus, e il teatro della Crudeltà è drâma che precede la separazione fra chi guarda e chi viene visto. [12] La Crudeltà è da intendersi come necessità purificatrice vera e sacra. [13] Il luogo dove il linguaggio teatrale sfugge alla parola ma soprattutto alla "rete" della Pantomima Europea (che Artaud definisce pervertita) è il teatro di Bali. Nel teatro in cui vige la regola dell'imitazione, come in quello occidentale, le parole rappresentano la frattura tra la vita e il teatro, tra lo spirito e l'uomo. Nel teatro Balinese si assiste invece ad una poesia dello spazio, in cui agiscono "geroglifici-attori" i quali, evocando gli oggetti, fanno si che ogni gesto rappresenti un atteggiamento dello spirito, antecedente la separazione guardante-guardato. La materia manipolata dal regista-sacerdote non è un suo prodotto, è qualcosa che appartiene all'Inumano di cui la natura è pervasa. Questo tipo di teatro poggia dunque sulla "Parola prima delle parole” e l’originalità sta nell’impossibilità della sua imitazione. L’attore è come un “geroglifico a tre dimensioni” [14] di cui il gesto incarna una sacralità anteriore al linguaggio. L’essenza del teatro Balinese si svela nell’accadere. La rappresentazione teatrale coincide con la festa. [15] Ne La festa e la macchina mitologica, Furio jesi parla di differenza tra istanti festivi e istanti non festivi coincidente con la differenza tra visibile e invisibile; l’istante festivo, secondo Jesi, deve essere inteso come “l’istante di visibilità” per cui la festa è “abissalmente non quotidiana” [16] ; la festa è “quell’occasione di vedere, non di essere veduti”. Quel “visibile” dell’istante festivo è il centro della festa, “l’esibizione o il disvelarsi di un eídolon [17] . L’Oggi, prosegue Jesi, è il tempo della festa che Artaud si proponeva di attuare con il teatro della Crudeltà. Il teatro come drâma dunque si ritrova solo in un ambito festivo in cui il visibile (eídolon) esiste come qualcosa di irripetibile, come quel teatro Balinese a cui Artaud stesso aveva assistito: lo spazio tra uomini e dei in cui la ripetizione non sarà mai e in cui l’Assurdo non avrà più rifugio.



[1] A. Tagliapietra, Il Velo di Alcesti. La filosofia e il teatro della morte, Feltrinelli, Milano 1997; p. 37

[2] Cfr. Ibidem, cit. p. 38, 39.

[3] Il teatro «si scopre appartenere intimamente a questa destinazione, che l’etimologia stessa della parola teatro- il sostantivo greco théatron, derivato dal verbo théaomai, che significa “guardo, osservo, contemplo, sono spettatore”, e quindi dal sostantivo théa, ossia “vista”, cioè il guardare, ma anche “spettacolo”, ovvero “ciò che è guardato”- appalesa »; Ivi.

[4] A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1964; p. 8.

[5] A. Artaud, Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 1989; p. 41.

[6] M. Blanchot, Il libro a venire, Einaudi, Torino 1969; p. 45.

[7] Ibidem; cit. p. 46.

[8] Cfr. F. Ruffini, I teatri di Artaud. Crudeltà corpo-mente, Il Mulino, Bologna 1996; pp.18-20.

[9] J. Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, p. 226.

[10] A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, cit. p. 204.

[11] A. Tagliapietra, op. cit. p. 40.

[12] «Dal greco drâma deriva, come è noto, una consistente famiglia di parole che afferiscono alla pratica teatrale, quali “dramma”, “drammatico”, “drammaturgico”, “drammaturgia” ecc. ma qual è il contesto preteatrale della parola drâma? Drâma, per il greco, significa innanzitutto “azione”, “fatto” e quindi, traslatamente “affare” e “faccenda”, vuoi anche lavoro, nel senso in cui tuttavia lo concepiva un uomo nell’antichità. [Drâma] costituisce una condizione esistenziale (…) dove il fine dell’azione è l’azione stessa, non il prodotto»; Cfr. Ibidem, cit. p. 41.

[13] Cfr. A. Artaud, Storia vissuta di Artaud-Momo, Edizioni L’Obliquo, Brescia 1995, p. 7.

[14] A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, cit. p. 177. Sul teatro Balinese e Artaud si veda tra gli altri: AA.VV. Il Dramma, 5, Maggio 1979. Il teatro della crudeltà e il confronto con Bali, a cura di C. Nissirio.

[15] Sul tema della festa rimandiamo a qualche importante saggio: K. Kerényi, La religione antica nelle sue linee fondamentali, Astrolabio, Roma 1952; M. Untersteiner, Le origini della tragedia e del tragico, Bocca, Torino; M. Castri, Per un teatro politico. Piscator, Brecht, Artaud, Einaudi, Torino 1973.

[16] F. Jesi, La festa e la macchina mitologica, in La festa, Rosenberg&Sellier, Torino 1977; p. 180

[17] Ibidem; p. 183.


Bibliografia essenziale

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- J. P. Sartre, L'essere e il nulla, Il saggiatore, Milano, 1991
- J.P.Sartre, Un Thèâtre de situations, Paris, Gallimard, 1993
- W. Krysinski, Sartre e la metamorfosi del 'cerchio pirandelliano' ne Il paradigma inquieto, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1998
- J.P.Sartre, Le mosche. Porta chiusa, Bompiani, Milano, 1995
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