XAOS 
GIORNALE DI CONFINE 

PERIODICO ON LINE
DI CAOTICA VARIETÀ

DELLE TESTIMONIANZE UMANE

INDEX
WWW.GIORNALEDICONFINE.NET
 

 

HOME > ARCHIVIO > L'ALMANACCO DELLA CRUDELTÀ



MARTINO CAMBULA

Tractactus Logico-Philosophicus di Wittgenstein
annotazioni rapsodiche


Come la sua vicenda biografica, l’opera filosofica di Wittgenstein è punteggiata e, forse, intessuta di paradossi. I suoi lettori e i suoi interpreti lo sanno bene, sfidati come sono a dissodare il terreno accidentato, aspro e duro dei suoi testi. Eppure il suo stile, dal punto di vista della forma letteraria, è chiaro e limpido; e non privo di una certa bellezza, esibita e al tempo stesso sfuggente. Come i significati delle proposizioni, delle descrizioni, degli aforismi, degli esempi, in cui egli ha “tentato” di esprimere il suo pensiero “plurale”, frammentario, frammentato, incompiuto e “irrequieto”. La prova di questa qualità ambivalente della scrittura e del pensiero filosofico di Wittgenstein, che da ogni soluzione trovata sembra fare riemergere un nuovo problema, è fornita già dalla prima- che è anche la più breve- delle sette proposizioni fondanti che compongono il Tractatus logico-philosophicus: «Il mondo è tutto ciò che accade» [1]. Qual’ è la natura conoscitiva di questa “proposizione”? La dobbiamo leggere come un assioma cosmologico? La possiamo interpretare come un postulato metafisico? Oppure, in compagnia dei neo-positivisti del circolo di Vienna e di Bertrand Russell, ne restringiamo il significato ad una descrizione esemplare dell’esperienza possibile? Cioè: il linguaggio umano è vuoto o privo di significato se non è riferibile (o riducibile) a cose o oggetti del mondo percepibili con i sensi: la vista, l’udito, il tatto. Su questa proposizione è stata costruita, in gran parte, la fortuna del neoempirismo contemporaneo, a partire da Schilck, da Carnap e da F. Waisman [2]. Ma a proiettare l’ombra dell’incertezza e del dubbio sulla scelta dell’una o dell’altra delle interpretazioni enumerate, rese possibili dal testo e tutte adottate da qualcuno degli studiosi, è lo stesso Wittgenstein. Egli lo fa in due modi. Il primo: con le proposizioni immediatamente successive: «Il mondo è la totalità dei fatti non delle cose» (prop. 1.1); «Il mondo è determinato dai fatti e dall’essere essi tutti i fatti» (prop. 1. 11); «Che la totalità dei fatti determina ciò che accade, ed anche tutto ciò che non accade» (prop. 1.12). Fino a questo punto, il pensiero e il discorso di Wittgenstein sembrano svolgersi sul piano genericamente ontologico, con una forte connotazione realistica o di realismo critico, affine a quello che Schlick aveva sostenuto nell’Allgemeine Erkenntnislehre, pubblicata nello steso anno (1918) in cui Wittgenstein aveva finito di scrivere il Tractatus (che troverà un editore soltanto tre anni dopo). Nessun rapporto diretto tra queste due opere; ma non si può dimenticare, da parte della storico delle idee filosofiche, che il clima culturale tra i filosofi di lingua tedesca che provenivano da studi scientifici era connotato anche da una tonalità - da una (Neben-) Stimmung, per così dire – di realismo ontologico che si componeva e s’integrava con un più diffuso clima di “ritorno a Kant” [3]. Ma con la proposizione 1.13, Wittgenstein sembra enunciare l’assioma logico più importante di tutto il Tractatus configurandolo come un’opera anche di logica: «I fatti nello spazio logico sono il mondo». Credo che Wittgenstein voglia dire che il mondo (l’essere) si dà solo ed esclusivamente dentro lo “spazio logico”, cioè dentro l’ordine grammaticale del linguaggio (pensiero). Anzi, lo sviluppo successivo del Tractatus, come opera di logica (oltre che di [una] metafisica e di [una] cosmologia inespresse o in nuce), autorizza la veduta secondo la quale il mondo è reale come tessuto di fatti, cioè esiste per noi, solo nel linguaggio e mediante il linguaggio. Schlick, sotto l’influenza del Tractatus, dice che «il contenuto si dà nella forma» e che la «conoscenza è solo forma» logico-linguistica [4]. Per Schlick il Tractatus è un libro sulla “forma logica”; dunque: né opera di metafisica, né opera di cosmologia, anche se entrambe inespresse – o di “dimensione tacita”, per dirla con M. Polanij – ma opera (di) logica [5], o meglio: sulla struttura logica del linguaggio in quanto esso è il luogo della possibilità del vero e del falso. La logica, infatti, studia il linguaggio (la proposizione), non al fine di accertarne la verità effettuale, cioè non per decidere se una proposizione è, di fatto, vera o falsa; questo è il compito delle singole scienze (fisica, chimica, biologia, astronomia, sociologia, ecc.). Il compito specifico, proprio della logica è, invece, quello di fare un passo indietro verso le condizioni di possibilità che una proposizione sia vera o falsa. Ecco un nuovo indirizzo dell’atmosfera kantiana del Tractatus. In un periodo in cui il primo nucleo del Tractatus si stava ancora affacciando alla mente di Wittgenstein, il 29 ottobre 1914, egli sottolinea: «Per essere vera una proposizione deve anzitutto poter essere vera, e solo ciò concerne la logica. La proposizione [ per essere vera ] deve mostrare ciò che vuol dire» [6], cioè deve avere significato o senso. Ora, “avere senso” vuol dire, per una proposizione, che essa è comprensibile, anche se di fatto è falsa o non sappiamo se è vera o falsa. Ad esempio: “Tutti gli uomini sono sinceri” è una proposizione falsa, ma piena di significato comprensibile da tutti. «Ciò che conosciamo quando comprendiamo una proposizione è questo: noi conosciamo che [cosa] accade se essa è vera, e che [cosa] accade se essa è falsa. Ma non conosciamo se essa poi è [di fatto] vera o falsa» [7]. Da questa breve, ma essenziale annotazione, scritta nel settembre del 1913, emerge il presupposto che regge tutta la sobria ed elegante architettura del Tractatus: la relazione reciproca tra linguaggio e realtà; o, più propriamente, tra la proposizione e un fatto possibile nella realtà del mondo. Per delucidare la natura di questa relazione reciproca, Wittgenstein sostiene che è necessario partire dall’analisi della proposizione. Due anni dopo la precedente annotazione, troviamo nei Quaderni, data il 22 gennaio 1916, la registrazione di una sorta di protocollo statutario sulla natura e finalità della sua ricerca filosofica: «Tutto il mio compito consiste nello spiegare l’essenza della proposizione. Vale a dire, nel dar l’essenza di tutti i fatti la cui immagine è la proposizione, Nel dar l’essenza d’ogni essere. (E qui essere non significa esistere – sarebbe insensato)» [8]. Infatti, in questo caso, “essere” significa la totalità dei fatti possibili che potranno accadere nel mondo. La condizione di sensatezza del linguaggio e della proposizione non consiste nella corrispondenza biunivoca con i fatti reali, ma nella possibilità che i fatti descritti accadano. Il senso, va ribadito, non è la verità, ma la possibilità che una proposizione sia resa vera o falsa dall’accadere o dal non accadere dei fatti che essa raffigura. Questa interpretazione è confermata dalla prop. 5.4711 del Tractatus: «Dare l’essenza della proposizione vuol dire dar l’essenza di ogni descrizione, dunque l’essenza del mondo». Com’è nel gusto e nello stile di pensiero filosofico di Wittgenstein, quando egli individua un problema, lo analizza nei minimi dettagli e da tutte le prospettive possibili. Ma tutte queste microanalisi vengono compiute sempre a partire dall’essenza o dal nucleo centrale del problema. Il problema o la domanda essenziale del Tractatus è: qual’ è l’essenza del linguaggio o della proposizione? Questa domanda ha cominciato ad occupare la mente di Wittgenstein dal periodo degli studi di perfezionamento in ingegneria aeronautica all’Università di Manchester (1911-1912). Da Frege – “il massimo logico vissuto dopo il tempo di Aristotele”, come dice Ayer [9] - incontrato a Jena nel 1911, del quale aveva già letto Sinn und Bedeutung (1892), ricevette il consiglio di dedicarsi agli studi di logica e dei fondamenti della matematica con B. Russell a Cambridge. Abbandonò l’ingegneria e nel biennio 1912-1913 seguì per cinque semestri i corsi di Russell. Lesse con entusiasmo i suoi Principles of Mathematics (1903) . Dal 1914 al 1916 viene annotando diligentemente, giorno dopo giorno, pensieri rapsodici, intuizioni ancora circondate di “caligine”, piccole scoperte sulla natura della logica, nuclei problematici sulla forma logica, cioè sulla struttura di corrispondenza o di comunanza che rende possibile il rapporto semantico del linguaggio col mondo e, infine, una perplessità etica inquietante sul suicidio, datata 10 gennaio 1917: «Se è permesso il suicidio, tutto è permesso. Se qualcosa non è permesso, il suicidio no è permesso. Questo getta luce sull’essenza dell’etica. Infatti il suicidio, è per così dire, il peccato elementare. E se lo si indaga, è come quando si indaga il vapore di mercurio per comprendere l’essenza dei vapori. O anche il suicidio è, in sé, né buono né cattivo?» [10]. Ho voluto riportare per intero questa annotazione, l’ultima dei Notebooks (1914-1916), per sottolineare come il Tractatus, che egli finì di scrivere nell’estate del 1918, si era formato tutto, fino alla sua ultima proposizione etica, mediante a fatica del pensiero e della scrittura, nel biennio dei Notebooks. Qui troviamo il Tractatus in nuce o in miniatura : 1) teoria del linguaggio come “immagine” o come raffigurazione o, più propriamente come raffigurazione (Abbild) di ciò che può dirsi con le proposizioni delle scienze; 2) assioma del silenzio sull’etica, conato vano del pensiero e ombra scura del linguaggio sull’indicibile, sul male, sul bene, sulla virtù, sul dovere, sul senso della vita. «Del valore quale portatore dell’etico non può parlarsi» [11]. Su questo dualismo e su questo paradosso, cioè sulla grande divisione tra il mondo [ e tutto ciò che in esso accade ], descrivibile dalla scienza, e la tragica condizione dell’uomo che abita nel mondo come nel luogo del non-senso, sono concentrate tutte le analisi e le argomentazioni del Tractatus. Il Tractatus, per (quasi) unanime riconoscimento degli studiosi, è un’opera geniale. Ma quanto essa è geniale, altrettanto è difficile da comprendere. Uno studioso come Bryan Magee ha il coraggio della verità. «Per me, il primo dei due testi principali di Wittgenstein, il Tractatus, è un tormento da leggere» [12]. E A. J. Ayer, che conosceva bene Wittgenstein, aggiunge: «(…) benché il suo nome sia divenuto notissimo, specialmente in anni recenti, pare che ben pochi ne abbiano capito l’opera al di fuori della cerchia di filosofi di professione. All’interno di questa stessa cerchia non c’è, inoltre, un accordo molto generale sull’importanza delle sue opinioni e neppure sulla loro corretta interpretazione» [13]. Nella Prefazione al Tractatus, modello di stile filosofico asciutto, elegante e preciso, Wittgenstein ne fornisce la chiave interpretativa: «Il libro tratta di problemi filosofici, e mostra – credo – che l’impostazione di questi problemi si basa sul misconoscimento della logica del linguaggio. Si potrebbe riassumere tutto il senso del libro in queste parole: tutto ciò che si può dire, lo si può dire chiaramente; di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. Il libro vuole dunque tracciare un limite al pensiero, o piuttosto non al pensiero, ma all’espressione dei pensieri (…). Il limite potrà dunque essere tracciato soltanto nel linguaggio, e tutto ciò che è oltre questo limite sarà semplicemente un non-senso (…). La verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile e definitiva. Sono dunque dell’avviso di aver definitivamente risolto nell’essenziale i problemi» [14]. Pur non articolato in capitoli, il Tractatus presenta una struttura interna di connessioni reciproche fra le parti che lo costituiscono. Sotto la forma letteraria del testo e la sua distribuzione in una sequenza di proposizioni numerate secondo un criterio di progressione logica, è rilevabile una struttura modulare, divisibile in tre unità tematiche: 1) temi concernenti la natura della logica, 2) problemi inerenti la natura della proposizione e della sua “forma logica”; 3) la critica della filosofia (tradizionale) e la proposta argomentata di una nuova forma di filosofia: analisi logica e critica del linguaggio. Questi tre blocchi centrali di proposizioni e di problemi sono, per così dire “appoggiati” e sostenuti da una sorta di prologo o di saggio minimo di ontologia. Esso è identificabile, a mio avviso, nelle proposizioni da 1 («Il mondo è tutto ciò che accade ») a 2.02 («L’oggetto è semplice »), una decina di proposizioni in due paginette, che forse sono le più dense e le più difficili di tutto il Tractatus. Dunque: 1) sulla base di una nuova teoria sul linguaggio, Wittgenstein intende tracciare una linea invalicabile di demarcazione tra proposizioni dotate di senso e proposizioni vuote o prive di senso; 2) tale nuova teoria del linguaggio è fondata sul principio di rappresentazione: poiché esiste l’attività linguistica, ossia poiché l’uomo è – per dirla con Cassirer – un animale simbolico, l’uso dei simboli linguistici deve avere una funzione precisa. Tale funzione non può essere altra che quella di rappresentare la realtà; 3) per conseguenza: se le proposizioni in cui si articola il linguaggio umano non rappresentano uno stato di cose, esse sono incomprensibili e prive di senso; 4) poiché solo le proposizioni delle scienze naturali sono idonee a rappresentare stati di cose o fatti possibili, tutte le altre proposizioni della filosofia tradizionale, della metafisica, dell’etica, dell’estetica, della religione, della logica, della matematica sono vuote o prive di senso; e tuttavia esse sono importantissime perché documentano la “tendenza naturale” dell’uomo a superare le barriere del linguaggio per scrutare le realtà che più contano per la sua esistenza. Le parole che vi ricorrono con più frequenza sono: mondo, accadere, fatti, totalità, possibilità, oggetto, “oggetto semplice”. Di che cosa sia un oggetto semplice, in tutta l’opera di Wittgenstein non è dato trovare né un esempio, né una definizione. Gli studiosi appaiono impegnati in una specie di torneo di ipotesi. Alcuni, empiristicamente, minimizzano l’importanza del problema: l’oggetto semplice è qualsiasi cosa a cui si può dare un nome; per altri, esso è identificabile nei “dati sensoriali” immediati di Russell, nella “esperienza elementare” di Carnap; o in un frammento di realtà possibile o potenziale; oppure in quel “quid” indecifrabile o qualità ontologica che fa di ognuno di noi (di ogni ente) un individuo (“principium individuationis” di Schopenhauer) o un “singolo” nel senso di Kierkegaard [15]. Vorrei concludere questa breve digressione sul problema di che cosa sia un oggetto semplice con un’annotazione critica di Ayer e con una nuova ipotesi azzardabile. Si domanda Ayer: «Perché debbono esserci delle proposizioni elementari?». «La risposta è che sono necessarie per raffigurare gli stati di cose [Sachverhalt] primitivi formati dalle combinazioni di cose di oggetti semplici. Ma perché devono esserci oggetti semplici?» [16]. Ecco al risposta di Wittgenstein: «L’oggetto è semplice» (prop.2); «Ogni enunciato sopra complessi può scomporsi in un enunciato sopra le loro parti costitutive e nelle preposizioni che descrivono completamente i complessi» (prop. 2.0201); «Gli oggetti formano la sostanza del mondo. Perciò non possono essere composti» (prop. 2.021); «Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe allora dall’essere un’altra proposizione» (prop. 2.0211); «Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine del mondo (vera o falsa)» (prop. 2.0212). Non è facile trovare il nesso di queste proposizioni. Wittgenstein non ha mai dato risposta alle domande di chiarezza. Ayer però rinvia ad uno spiraglio di luce in un passo delle Osservazioni filosofiche, scritto nel 1930. Spiega Wittgenstein: «Ciò che a suo tempo [nel Tractatus] denominai “oggetti”, ciò che è semplice, è semplicemente quel che posso designare senza essere costretto a temere che forse non esista: vale a dire, ciò per cui non si dà né esistenza né inesistenza, ovvero ciò di cui si può discorrere comunque stiano le cose » [17]. Commenta Ayer: «La nozione che ci siano cose [ oggetti semplici] “per cui non si dà né esistenza né inesistenza” è sconcertante, ma io penso che non sia nulla più che un modo un po’ goffo di formulare la condizione precedente, secondo cui gli oggetti dovrebbero essere tali da consentirci una sicurezza di riferimento: ciò significa o che sono proprietà per le quali si richiede solo che i predicati che stanno per essi siano intelligibili o, se sono individui, che possono essere denominati e non semplicemente descritti. Se potessero essere solo descritti, ogni tentativo di riferirsi ad essi correrebbe il rischio di un insuccesso» [18]. Dunque: secondo l’interpretazione di Ayer gli oggetti semplici sono quelli indicabili o designabili con un nome, cioè gli oggetti nominabili. Ma a questa soluzione semplicistica di Ayer si può obbiettare che tutti gli oggetti sono nominabili. Ma la nominabilità non basta a identificare un oggetto semplice che – secondo Wittgenstein – ha la funzione di costituire la sostanza del mondo. Gli oggetti nominabili di Ayer sono gli oggetti empirici, le unità materiali, le cose assunte nella loro individualità numerica. Sono esse la sostanza del mondo rispecchiata o contenuta nelle proposizioni elementari? Wittgenstein dice di no. Secondo lui, per quanto strana sia la formula che egli usa, gli oggetti semplici hanno una configurazione non realistica o cosale: non sono cose singole. Sono, invece, «ciò per cui non si dà né esistenza né inesistenza, ovvero ciò di cui si può discorrere comunque stiano le cose». A mio avviso la contraddizione di Wittgenstein è superabile solo interpretando “l’oggetto semplice” come l’oggetto possibile. Esso infatti non è compiutamente esistente, ma non è neppure del tutto esistente. Ora, l’oggetto possibile corrisponde al concetto di essenza della filosofia classica. Questa parola nel Tractatus è usata molte volte, accompagnata da una specificazione: essenza del mondo, essenza del linguaggio, essenza della proposizione, essenza della logica, essenza del mondo, e così via. Molte volte Wittgenstein usa il vocabolo nel senso di “proprietà interne” o “tratti caratteristici” di un fatto atomico o molecolare; ma in altri casi, e forse in tutti, la posizione del vocabolo nel discorso (nella proposizione) non designa l’esistenza di una cosa, la quale kantianamente non è un attributo inerente a priori alla cosa stessa. Dunque: “l’oggetto semplice”, suscettibile solo di essere nominato, denomina appunto l’essenza ossia il complesso delle note costitutive di un oggetto, a prescindere dalla sua esistenza attuale, e connotato solo nella sua esistenza possibile: la parola “fiore” isolata dalla proposizione in cui ricorre nomina o descrive l’essenza ossia l’oggetto allo stato della su possibilità reale (non della sua possibilità puramente logica, che si ridurrebbe ad assenza di contraddizione concettuale). In ogni “oggetto semplice”, in quanto elemento ultimo della realtà a cui la proposizione elementare rinvia, pena il rischio di svuotarsi di senso, si ripropone il problema del rapporto del linguaggio con la realtà come totalità («tutto il mondo»). Esiste un’essenza (metafisica) del mondo, del tutto dell’intero? Wittgenstein, l’antimetafisico e l’anticartesiano per eccellenza, è costretto dalla sua teoria del linguaggio a concludere che non è dicibile una metafisica trascendente, o, come amava dire J. Wahl, «transascendente». Essa è rigorosamente resa impossibile dai limiti empiricamente intrinseci del linguaggio. Secondo la metafora dell’isola e dell’oceano, il linguaggio ha giurisdizione (capacità espressiva) sul territorio dell’isola, il cui confine lo delimita e lo costituisce come essere parlante; il confine è tracciato dall’interno del confine dell’isola; ma l’altro lato del confine segna l’inizio dove comincia il territorio sconosciuto dell’oceano. L’isola, conosciuta e conoscibile dal sistema delle proposizioni delle scienze attuali e possibile (col progresso), ha un’essenza nominabile, indicabile, in quanto mostra (zeigt), cioè esibisce di per se stessa il suo limite. L’isola non è tutto. E’ isola, proprio a condizione di non essere tutto, di essere “isolata” dall’oceano, che però nel disegnarne naturalmente i confini le conferisce un’essenza ontologica implicita. E’ noto il giudizio di Popper su Wittgenstein: sprezzante nei confronti del modulo logico-linguistico del Tractatus (la parte centrale), ma aperto a riscattare “l’interessante dimensione cosmologica” (il blocco o modulo iniziale di proposizioni sul mondo). Tutti gli studiosi di questo testo, come gli scalatori di montagna, trovano paesaggi nascosti da far emergere. Col Tractatus, molte volte, ci si sente – con un po’ di autoironia – speleologi di un sottosuolo filosofico di difficile accesso.

-------------------------------------------------------------------

[1] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, trad. it. di A. G. Conte, Einaudi, Torino 1974.

[2] Cfr. M. Schlick, Vorrede all’opera di F. Waismann, Logik, Sprache, Philosophie, Reclam, Stuttgart 1976, pp. 11-24. La storia della formazione e dell’edizione di quest’opera di Waismann è raccontata da G. P. Baker e Nc Guinnes nel Nachwort (1975). Essa fu progettata dall’autore, d’intesa con Schlick, come il volume inaugurale della serie «Schriften zur wissenschaftliche Weltauffassung» del Circolo di Vienna, presso l’editore J. Springer. Il testo era pronto per la pubblicazione alla fine di febbraio del 1929. Ne dà notizia Schlick nelle Fragen der Ethik (1930) (trad. it. a cura di A. P. Piussi, Problemi di etica e Aforismi, Patron, Bologna 1970, p. 3), presentando questa sua opera come il primo volume della raccolta suddetta, in sostituzione della già programmata opera di Waismann, la quale fu pubblicata in edizione inglese solo nel 1965. Poiché la storia dei testi e delle loro vicende editoriali rappresenta la scansione e il ritmo della storia delle idee filosofiche, va rilevato che il sottotitolo originale dell’opera di Waismann (proposto da Schlick e poi cancellato) era Kritik der Philosophie durch di Logik. Dunque: il programma del Circolo di Vienna, Schlick lo aveva “visto” già disegnato per linee essenziali nel Tractatus di Wittgenstein, la cui “lettura in sviluppo” era stata affidata appunto al giovane Waismann.

[3] Cfr. D. Antiseri, La Vienna di Popper, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2000, pp. 33-34; M. Cambula (a cura di), Moritz Schlick, L’essenza della verità secondo la logica moderna, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2001, pp.11-19.

[4] Cfr. Form and Content, in Introduction to Philosophical Thin Ring. Three Lectures delivered in the University of London in November 1932, (pubblicato) in M. Schlick,Gesammelte Aufsätze 1926-1936, Gerold & Co., Wien 1938.

[5] Ecco la valutazione un po’ enfatica di Schlick: «Die unschätzbare Bedeutung des Werkes von Wittgenstein [Tractatus] liegt nun eben darin, dass in ihm dieses Wesen des Logischen vollkommen aufgehellt und für alle Zukunft festgelegt ist. Das geschieht dadurch, dass zum erstenmal ein völlig klarer und strenger Begriff der “Form” geschaffen wird, der mit einem Schlage die schweren Probleme der Logik zum verschwinden bringt, die den ernsten Forschern neuerdings so viel Sorge bereiteten». (Vorrede, in F. Waismann, op. cit. , p.21).

[6] Quaderni 1914-1916, ed. cit., pp. 107-108.

[7] L. Wittgenstein, Note sulla logica ,in ID, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, ed. cit., p. 201-203.

[8] Quaderni, ed. cit., p.131.

[9] A. J. Ayer, Wittgenstein, trad. it. Laterza, Bari 1986, p.5.

[10] Quaderni 1914-1916, ed. cit., p.195.

[11] Tractatus, ed. cit., prop. 6.423.

[12] B. Magee, I grandi filosofi. Una introduzione alla filosofia occidentale, trad. it., Armando, Roma 1994, p. 333.

[13] A. J. Ayer, Wittgenstein, trad. it., Laterza, Bari 1985, p.3.

[14] Tractatus logico-philosophicus, trad. it. cit., Prefazione.

[15] G. M. B. Hintikka e J. Hintikka, Indagine su Wittgenstein, trad. it., Il Mulino, Bologna 1990, pp. 57-77; D. Marconi, L’eredità di Wittgenstein, Laterza, Bari 1987, pp. 19-44; M. Cambula, Forme del vivere e forme del sapere. Figure della ragione tra filosofia e scienza, Edes, Sassari 1996, pp. 58-62.

[16] A. J. Ayer, Wittgenstein, op. cit., p. 32.

[17] Osservazioni filosofiche, trad. it., Torino 1976, ed. Reprints 1981, p.26.

[18] A. J. Ayer, Wittgenstein, trad. it. cit., p.35.


 

M. Cambula, Prospettive di lettura del Tractactus Logico-Philosophicus di Wittgenstein: annotazioni rapsodiche, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno I, n.3 2002-2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_3/art_2.htm

 
   
 
     

Xaos Giornale di confine
Rivista on line di filosofia arte e letteratura


Reg. Tribunale di Sassari n. 381/2001 - 08/05/2001 - ISSN 1594-669X | info@giornalediconfine.net