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SEBASTIANO GHISU, "LA SCIENZA COME EVENTO FORTUITO"

 

S. Ghisu, La scienza come evento fortuito, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno I, n.3 2002-2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_3/art_3.htm

 

1. Un'avventura intellettuale
Secondo il filosofo francese Antoine Augustin Cournot, possiamo definire fortuito l'evento prodotto da catene causali sussistenti l'una indipendentemente dall'altra e necessario quello reso possibile - al di là delle incidenze remote e indirette - da una sola catena causale. Seguendo questo schema ed equiparando la logica della ricerca scientifica - comunque intesa - ad una catena causale, si può intendere l'evento scientifico (non solo il comparire, ma anche il consolidarsi e il diffondersi di una trasformazione nell'ambito della scienza) in due modi differenti:
- È necessario nel senso che emerge dalla sola logica cognitiva. Ciò implica l'autonomia della produzione scientifica da fattori esterni (politici, sociali, culturali etc.): la scienza è per l'appunto quella pratica teorica che risponde esclusivamente ad una logica cognitiva.
- È fortuito nel senso che è dato dall'incontro di più catene causali differenti tra loro (cognitive ed extracognitive). Senza tale incontro l'evento scientifico non si sarebbe realizzato.

Paul K. Feyerabend predilige indubbiamente quest'ultima soluzione e rimprovera invece a Kuhn di scegliere la prima. Questi, infatti, scrive Feyerabend, "come altri filosofi prima di lui (penso qui soprattutto a Hegel), ritiene che un cambiamento storico drammatico debba esibire una sua propria logica e che il cambiamento di un'idea dev'essere ragionevole nel senso che vi è una connessione tra il fatto del cambiamento e il contenuto dell'idea che cambia..." (Feyerabend 1981, 147). Al contrario, secondo Feyerabend, gli elementi che la maggioranza della comunità scientifica accetta incondizionatamente - le teorie, i modelli, i linguaggi - "possono cambiare perché la generazione più giovane non ha nessuna intenzione di seguire i più anziani; oppure perché alcuni personaggi pubblici hanno cambiato opinione; o perché alcuni membri influenti dello establishment sono morti e hanno mancato (forse a causa del loro carattere sospettoso) di lasciare dietro di sé una scuola forte e influente, o perché una potente istituzione non scientifica spinge in una determinata direzione..." (ibid.).
Parlando ad esempio dell'abbandono della cosmologia aristotelica da parte della comunità scientifica del secolo XVII, egli scrive che ciò accadde "per differenti ragioni, solo alcune delle quali 'razionali'" (ibid., 14). Innanzitutto sorse, al di fuori dell'astronomia, "la moda di parlar male di Aristotele". Una moda che sorse a sua volta per una serie di ragioni, tra cui "il legame tra Aristotele e le forze sociali apparentemente retrograde; la crescita di nuovi partiti filosofici come i cartesiani; il fatto che molti aristotelici erano dei mediocri razionalisti da manuale (...); la mancanza di familiarità [da parte di questi ultimi] con i principi base della filosofia aristotelica in modo tale che gli slogans presero il posto degli argomenti..." (ibid.). Si è sostituito un punto di vista con un altro per ragioni estranee al potenziale esplicativo di entrambi (in altre circostanze, dunque, si sarebbero potuti imporre altri punti di vista, magari più fecondi di quello in cui oggi ci veniamo a trovare).

L'evento scientifico - e la scienza moderna come evento - vengono insomma ricondotti da Feyerabend ad una pluralità eterogenea di fattori scatenanti: le idee, comprese quelle scientifiche, sono "il risultato di eventi storici fortuiti, di forze sociali, dell'intelligenza di alcuni individui e dell'idiozia di altri" (Feyerabend 1996, 75).
Ciò significa tra l'altro che la scienza non costituisce una dimensione separata dal complesso delle dinamiche sociali, ma interagisce costantemente con esse. Essa fa parte del "flusso della storia": gli stessi criteri di oggettività o di verità, le "leggi", le teorie scientifiche, le varie procedure cognitive emergono da particolari circostanze storiche (su cui del resto incidono attivamente) e scompaiono col venir meno di queste.
È semmai la filosofia della scienza - o una certa lettura che della scienza forniscono molti filosofi ed alcuni scienziati - a cercare di trasformare l'impresa scientifica in un'attività astratta, avulsa dal procedere della storia e distante dalla società. Le impone delle regole, un metodo e la riconduce comunque - semplificandone notevolmente la complessità - ad un solo fattore determinante (o se si vuole ad una sola catena di causalità).
È contro questa tendenza che intende muoversi Feyerabend. "La pratica di inventare, applicare e migliorare le teorie è un'arte e quindi un processo storico. La scienza come impresa (contrapposta alla scienza come 'corpo di conoscenze') è parte della storia. Le formule che adornano i nostri libri di testo sono parte della storia. Devono essere disciolte e rimmesse nel flusso per essere comprese e produrre risultati..." (Feyerabend 1990, 18).
È proprio questo forte ancoraggio alla società a rendere la scienza un'attività libera e imprevedibile, come imprevedibili e mutevoli sono le circostanze da cui emerge. Essa è imprevedibile negli esiti e nei procedimenti ("nuove teorie e nuovi metodi possono sorprenderci in qualsiasi momento"; Feyerabend 1984, 149) e può in tal senso venir definita "un'avventura intellettuale che non conosce limiti e che non riconosce regole, nemmeno le regole della logica" (Feyerabend 1980, 149). La scienza, insomma, oltrepassa spesso "i confini che certi scienziati e filosofi cercano di tracciare sulla sua via e diventa un'indagine libera, senza restrizioni" (Feyerabend 1990, 37). Non è dunque lei "ad essere chiusa, ma un'ideologia che ne isola alcune parti e le irrigidisce col pregiudizio e l'ignoranza" (ibid.).
Tanto più la pratica scientifica è innovativa, tanto più infrange quelle regole e quelle procedure che la differenziano, secondo molti epistemologi, dalla metafisica: "la scienza al suo livello più avanzato e generale restituisce all'individuo una libertà che egli sembra perdere quando accede alle sue parti più banali" (Feyerabend 1980, 237).

Ora, se è il legame con i processi storici e sociali a rendere la scienza un'attività libera e innovativa, essa è allora interessante nel momento in cui coinvolge la vita di tutti. Ma se coinvolge la vita di tutti - ecco la proposta principale di Feyerabend - dovrebbero essere tutti a decidere. Si tratta dunque di democratizzare la scienza, cioè promuovere la comunicazione - non solo, com'è chiaro e come già avviene, all'interno della comunità scientifica - ma tra la comunità scientifica e la popolazione e non nel vecchio senso della divulgazione, quanto nel senso di promuovere la loro reciproca interazione: "I cittadini, e non gruppi speciali, devono avere l'ultima parola nel decidere ciò che è vero e ciò che è falso, utile o inutile per la loro società" (Feyerabend 1990, 56). Del resto "la critica democratica della scienza non solo non è un'assurdità, ma appartiene alla natura stessa della conoscenza" (Feyerabend 1996, 51): la democratizzazione delle scienze "corrisponde alla 'dinamica interna' delle grandi scoperte scientifiche" (Feyerabend 1984, 13).

2. La situazione ideale
La ricostruzione che Feyerabend fornisce delle scienze implica la loro arbitrarietà rispetto alla realtà cui esse si riferiscono. Il loro carattere accidentale è dato dal fatto che esse costituiscono l'esito di più catene causali eterogenee (cognitive ed extracognitive). Feyerabend, in altri termini, esclude che la scienza come oggi la conosciamo sia tale in quanto corrispondente al reale di riferimento (se così fosse, sarebbe necessaria: non può che essere com'è, dato che così è la realtà che essa ricostruisce). Insomma, non solo si raggiunge il vero accidentalmente, ma il vero è accidentale come gli eventi della storia umana.
È una teoria affascinante, ma paradossale - come paradossale è del resto la tesi specularmente opposta (quella del cosidetto realismo metafisico): la dimostrazione dell'una implica l'affermazione dell'altra.
Non possiamo infatti escludere che le scienze corrispondono al reale, né lo possiamo affermare. Per poterlo fare dovremmo confrontarle con la realtà cui si riferiscono, vale a dire con la conoscenza che abbiamo di essa. Ma nel caso della tesi dell'arbitrarietà ciò viene escluso a priori, perché non vi è conoscenza della realtà che non sia arbitraria. Mentre nel caso della tesi realista, si dovrebbe ipotizzare una conoscenza della realtà più autentica di quella che forniscono le scienze di cui si afferma invece la corrispondenza al reale: si dovrebbe allora o negare la validità di queste (proponendo un'alternativa, la cui corrispondenza al reale non potrà tuttavia mai venir dimostrata se non attraverso se stessa); oppure affermare l'esistenza di più teorie vere della stessa realtà (sostenere quindi la tesi opposta).

Della scienza non possiamo dunque affermare né l'arbitrarietà, né la necessità. Ciò significa che non possiamo stabilirne l'origine o la genesi: non siamo in grado di spiegarla - ovvero di inserirla in una qualche catena causale - ma solo di descriverla. Può darsi che nel XVII secolo si siano veramente aperti gli occhi e si sia potuto cominciare ad osservare la realtà così com'è. Ma può anche darsi che - come suggerisce Feyerabend - un punto di vista si sia semplicemente sostituito ad un altro per ragioni contingenti (e non perché l'uno fosse cognitivamente migliore dell'altro). Può darsi che, in altre determinate circostanze storiche, sarebbe emerso un altro sistema teorico - differente tanto da quello aristotelico che da quello galileo-newtoniano - ma più fecondo di quest'ultimo. Può darsi che in futuro si stabilisca un'altra scienza incompatibile con quella a noi oggi familiare: le rivoluzioni scientifiche non appartengono necessariamente al passato.
Resta il fatto che la scienza è imprevedibile. Pur ammesso infatti che essa - una volta sorta e stabilizzatasi - si sia finora comportata in maniera prevedibile - secondo una propria logica, sia essa teorica sia essa legata alle dinamiche sociali interne alla comunità scientifica - non è detto che sarà così anche in futuro (e soprattutto la descrizione del passato non deve servire da consolazione per il presente). Ne risulta che non sappiamo se la scienza è un evento fortuito, ma che va trattata come se lo fosse. Va trattata come se fosse legata non ad una, ma a molteplici catena causali e come se anzi non vi fossero catene causali, ma esclusivamente una rete di eventi. Io non voglio dire che le scienze attuali sono false o, come ebbe a dire Nietzsche riferendosi alla conoscenza in quanto tale, un'invenzione (cfr. Nietzsche 1973, 355). Dico soltanto che non possiamo avere certezza della loro verità (o falsità); vale a dire non possiamo escludere che vi siano o siano costruibili altre scienze o paradigmi più potenti del nostro, tanto più che neppure di questi paradigmi potremmo mai esser certi, dato che, come sempre, gli strumenti con cui verificare la loro verità sono gli stessi di cui dovremmo verificare la validità. Insomma, non vi è un paradigma definitivamente certo.

La conseguenza pratica è che non si dovrebbero predeterminare i percorsi della scienza, ma lasciare aperti tutti gli sviluppi possibili. Ciò conduce a immaginare - o meglio ad auspicare - una situazione ideale. Si tratta in fondo di trarre rigorosamente le conseguenze dall'immagine della scienza proposta da Feyerabend e forse più in generale dalla constatazione piuttosto diffusa nel pensiero contemporaneo che non si può avere la certezza che quanto ritenuto vero sia tale veramente. Possiamo sintetizzare la situazione ideale elencandone i principi fondamentali:

- Promuovere costantemente la proliferazione di teorie cognitive; favorire la loro diversità e dunque la pluralità dei punti di vista.
- Non valutare le proposte di ricerca in base ai criteri dedotti dai meccanismi teorico-sperimentali finora accettati universalmente: nessuna proposta dovrebbe venire rifiutata, per quanto assurda possa apparire. Come il brutto anatroccolo si trasformò in un bellissimo cigno, così un'astrusa proposta potrebbe trasformarsi in una potente teoria cognitiva.
- Non favorire lo sviluppo di una sola teoria e gettare nel silenzio quelle alternative, ma dare a tutte le stesse possibilità di diffondersi e affermarsi (non fino al punto, tuttavia, di sopraffare le altre). Evitare, in altri termini, che la demarcazione tra il vero e il falso di una di esse diventi il criterio universale di validità per tutte le altre. Se è infatti vero che ogni singolo enunciato cognitivo o un complesso di enunciati distingue inevitabilmente (intrinsecamente) tra verità e falsità (in quanto esclude ciò che nega), l'imporre la verità che esso afferma a tutti gli altri enunciati possibili (come accade regolarmente) è un atto sociale che può e deve essere evitato.
- Favorire il dialogo (o il conflitto) - in breve: la comunicazione (se questa è possibile) - tra le varie teorie in campo.

Il raggiungimento di una tale situazione implica innanzitutto il superamento dei confini (che sono in una certa misura sanzionati giuridicamente) tra la comunità degli specialisti ed il resto della popolazione e dunque il disconoscimento del diritto esclusivo di alcuni a proporre o valutare le proposte di ricerca di tutti gli altri.

Una tale situazione esclude che vi siano dei centri esclusivi di controllo e di diffusione dei saperi. In tal senso essa è ben rappresentata dal funzionamento del World Wide Web. Questo costituisce infatti una rete di eventi priva di un centro diffusore o, come scrive Lévy, un "tessuto di sensi costantemente rintrecciato da milioni di persone" (Lévy 1997, 106).
Si può dire che la struttura reticolare di internet rappresenta una metafora e per certi versi un'anticipazione della situazione ideale: favorisce la comunicazione informale e rende possibile la diffusione di punti di vista alternativi al di là dei controlli istituzionali (siano essi pubblici o privati). Ogni nodo della rete ha poi le stesse possibilità di ricevere o trasmettere le informazioni.
Inoltre, il World Wide Web rappresenta bene anche il carattere fortuito che si tratta di attribuire alla scienza (ma che non è detto che essa possegga). Il caso svolge infatti un ruolo importante nella navigazione in rete. Non vi è sempre una rotta da seguire, si è incitati a dei continui dirottamenti e può sempre accadere di imbattersi in un evento inaspettato, imprevisto, ma estremamente interessante. Niente è poi definitivo, dato che ogni risultato rimanda ad un altro. Si raffigura in tal senso quella libertà che Feyerabend riscontrava nella produzione scientifica.
Infine, la forma di "comunicazione tutti-tutti" che il World Wide Web rende possibile (v. Lévy 1997, 104s.), può impedire che - una volta realizzatasi concretamente la piena libertà di ricerca - alla verità imposta dagli scienziati ufficiali si sostituisca un'altra imposta da chi detiene il controllo sui grandi mezzi di informazione.

Per raggiungere (asintoticamente) la situazione ideale non è invece auspicabile una "democratizzazione" dell'impresa scientifica nel senso inteso da Feyerabend. In Wissenschaft als Kunst egli sostiene ad esempio che deve essere la popolazione a decidere democraticamente su questioni scientifiche (non solo sulle applicazioni delle teorie scientifiche, ma anche sulla loro formulazione) attraverso una "votazione". In ogni caso "la scelta dei programmi di ricerca è in una democrazia un compito al quale devono partecipare in egual misura tutti i cittadini (si tratta qui semplicemente dell'estensione di un metodo già da lungo tempo in uso nei dibattiti tra i giurati di un tribunale)" (Feyerabend 1984, 164).
Formulando questa proposta, Feyerabend - forse per un eccesso di realismo politico - continua a muoversi in una logica secondo cui si tratta, nella lavoro scientifico, di assumere decisioni che siano vincolanti per tutti. Così facendo, non fa altro che sostituire un metodo di esclusione (sono gli specialisti che decidono quali teorie ritenere valide e quali no, quali progetti accettare e quali respingere) con un altro (far decidere la maggioranza della popolazione).
Inoltre, parlando della società o dei "cittadini", Feyerabend immagina un tutto armonico privo di conflitti. La società - e la scienza come impresa costituisce comunque un'istanza sociale - è al contrario un campo di battaglia ed è dominata da rapporti di forza. Nessuna teoria potrà trovare il consenso di tutti ed una parte della popolazione sarà di fatto costretta a tacere. Si tratterà allora di garantire il rispetto delle decisioni assunte - un compito cui può far fronte solo lo stato. Delegare alla società le decisioni scientifiche - il che vuol dire delegare ad essa la decisione di dire ciò che è vero e ciò che è falso - significa dunque delegarle alla sua organizzazione politica: si finirebbe con l'imporre attraverso di essa una dittatura della maggioranza (e la dittatura è del resto sempre dittatura della maggioranza). Lo Stato, al contrario, dovrebbe limitarsi a garantire la massima tolleranza e a renderla possibile, dando a tutti, secondo i principi esposti sopra, le stesse possibilità di riuscita. Infatti, "niente è più inconsistente di un regime politico che è indifferente alla verità; ma niente è più pericoloso di un sistema politico che pretende di prescrivere la verità" (Foucault 1994, 678).
La democratizzazione di cui parla Feyerabend, invece, legittima questa pretesa - una pretesa che è oggi effettivamente esercitata, in esclusiva, dagli apparati pubblici e privati della comunità scientifica. Si tratta al contrario di non concedere questa pretesa a nessuno, ovvero di concedere a tutti - di fatto - il diritto a ricercare, dire e diffondere il vero.

Tutta la società civile sarebbe chiamata a realizzare questa situazione e a farsene carico. Le istituzioni pubbliche come quelle private, le riviste, le case editrici, i centri di ricerca, i singoli cittadini. Tuttavia, la necessità di minimizzare i rischi che caratterizza le dinamiche della spesa e degli investimenti nel nostro sistema economico costringe ad andar sul sicuro e a non sostenere programmi di ricerca sconfitti (chi si sentirebbe di finanziare una ricerca in cui si tratta, poniamo, di rappresentare con delle figure geometriche la variazione d'intensità delle qualità - un problema che si pose Nicola di Oresme interno al 1360? Quale università investirebbe del denaro per istituire una cattedra dove s'insegna la fisica aristotelica non come qualcosa di falso, ma come qualcosa di vero?) o che non sembrano promettere alcunché e che sono incompatibili con gli standard di razionalità considerati oggi evidenti e sicuri. Perché andare alla ricerca di scienze nuove se quella che oggi possediamo è, nonostante certe anomalie, funzionante sia cognitivamente che sul piano delle applicazioni?
Possiamo solo rispondere constatando che ciò che è ideale per la conoscenza è incompatibile con il nostro sistema economico; che agli sviluppi possibili dei processi cognitivi vengono posti dei limiti che sono solo in seconda istanza teorici, mentre sono in effetti legati al funzionamento della nostra società. In questo senso la raffigurazione della situazione ideale mette se non altro in evidenza il ruolo che nella produzione della scienza moderna svolgono fattori extracognitivi.

Ma può anche darsi che - al di là delle incompatibilità economiche - si abbia paura di avere di fronte troppe verità: è auspicabile una società in cui non si distingua più tra opinione e verità? In cui vi siano più fisiche, più biologie, più matematiche (diciamo: più di quante ce ne sono oggi) e più medicine?
Non c'è dubbio, la situazione ideale si scontra con la "logofobia" che - come scriveva Foucault in L'ordine del discorso - ha sempre caratterizzato la nostra cultura: la paura di dir troppo, di dire il falso, la necessità di controllare quanto si enuncia, il relegare ciò su cui non vi è consenso tra le opinioni e ciò su cui vi è accordo tra le verità.
Siamo insomma ancora legati alla tradizione che separa con nettezza tra varietà dell'opinione e unicità del vero. Non vi è certo motivo di rifiutare questa demarcazione, ma non vi è neppure motivo di giustificarla. Non ci resta allora che metterla da parte e concedere concretamente anche alla verità quella varietà che si è finora riconosciuta (almeno formalmente) soltanto all'opinione. Se alla ricerca scientifica dovranno essere posti dei limiti, questi potranno essere di natura etica (innanzitutto salvaguardare l'integrità della persona umana e dell'ambiente naturale). Ma porle limiti teorici o metodologici avrà la sua ragion d'essere nel funzionamento della società (della nostra o di qualsiasi altra è un problema a cui oso qui appena accennare). Giustificare tuttavia quelle limitazioni o, specularmente, denunciare il carattere comunque arbitrario della conoscenza (quasi per dire: la scienza è fatta così, non c'è niente da fare), significa insistere sulla convinzione paradossale che si possa affermare con certezza l'accidentalità o la necessità del vero; credere, in altri termini, che se ne possa verificare la verità.



RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

- Feyerabend, P.K.
1980:
Contro il metodo. Feltrinelli, Milano
1981:
Problems of empiricism. Philosophical papers. Vol. 2. Cambridge University Press. Cambridge etc.
1984:
Wissenschaft als Kunst. Suhrkamp, Frankfurt/M
1990:
Addio alla ragione. Armando, Roma
1996
Ambiguità e armonia. Laterza, Roma-Bari

- Foucault, M. 1994
Dits et Écrits. vol. IV. Gallimard, Paris
- Lévy, P. 1997
Il virtuale. Cortina, Milano
- Nietzsche, F. 1973
Opere di F.N., Vol. III, T. II., Adelphi, Milano