1. Un'avventura intellettuale
Secondo il filosofo francese Antoine Augustin Cournot, possiamo
definire fortuito l'evento prodotto da catene causali sussistenti
l'una indipendentemente dall'altra e necessario quello reso
possibile - al di là delle incidenze remote e indirette
- da una sola catena causale. Seguendo questo schema ed
equiparando la logica della ricerca scientifica - comunque
intesa - ad una catena causale, si può intendere
l'evento scientifico (non solo il comparire, ma anche il
consolidarsi e il diffondersi di una trasformazione nell'ambito
della scienza) in due modi differenti:
- È necessario nel senso che emerge dalla sola logica
cognitiva. Ciò implica l'autonomia della produzione
scientifica da fattori esterni (politici, sociali, culturali
etc.): la scienza è per l'appunto quella pratica
teorica che risponde esclusivamente ad una logica cognitiva.
- È fortuito nel senso che è dato dall'incontro
di più catene causali differenti tra loro (cognitive
ed extracognitive). Senza tale incontro l'evento scientifico
non si sarebbe realizzato.
Paul K. Feyerabend predilige
indubbiamente quest'ultima soluzione e rimprovera invece
a Kuhn di scegliere la prima. Questi, infatti, scrive Feyerabend,
"come altri filosofi prima di lui (penso qui soprattutto
a Hegel), ritiene che un cambiamento storico drammatico
debba esibire una sua propria logica e che il cambiamento
di un'idea dev'essere ragionevole nel senso che vi è
una connessione tra il fatto del cambiamento e il contenuto
dell'idea che cambia..." (Feyerabend 1981, 147). Al
contrario, secondo Feyerabend, gli elementi che la maggioranza
della comunità scientifica accetta incondizionatamente
- le teorie, i modelli, i linguaggi - "possono cambiare
perché la generazione più giovane non ha nessuna
intenzione di seguire i più anziani; oppure perché
alcuni personaggi pubblici hanno cambiato opinione; o perché
alcuni membri influenti dello establishment sono morti e
hanno mancato (forse a causa del loro carattere sospettoso)
di lasciare dietro di sé una scuola forte e influente,
o perché una potente istituzione non scientifica
spinge in una determinata direzione..." (ibid.).
Parlando ad esempio dell'abbandono della cosmologia aristotelica
da parte della comunità scientifica del secolo XVII,
egli scrive che ciò accadde "per differenti
ragioni, solo alcune delle quali 'razionali'" (ibid.,
14). Innanzitutto sorse, al di fuori dell'astronomia, "la
moda di parlar male di Aristotele". Una moda che sorse
a sua volta per una serie di ragioni, tra cui "il legame
tra Aristotele e le forze sociali apparentemente retrograde;
la crescita di nuovi partiti filosofici come i cartesiani;
il fatto che molti aristotelici erano dei mediocri razionalisti
da manuale (...); la mancanza di familiarità [da
parte di questi ultimi] con i principi base della filosofia
aristotelica in modo tale che gli slogans presero il posto
degli argomenti..." (ibid.). Si è sostituito
un punto di vista con un altro per ragioni estranee al potenziale
esplicativo di entrambi (in altre circostanze, dunque, si
sarebbero potuti imporre altri punti di vista, magari più
fecondi di quello in cui oggi ci veniamo a trovare).
L'evento scientifico - e la
scienza moderna come evento - vengono insomma ricondotti
da Feyerabend ad una pluralità eterogenea di fattori
scatenanti: le idee, comprese quelle scientifiche, sono
"il risultato di eventi storici fortuiti, di forze
sociali, dell'intelligenza di alcuni individui e dell'idiozia
di altri" (Feyerabend 1996, 75).
Ciò significa tra l'altro che la scienza non costituisce
una dimensione separata dal complesso delle dinamiche sociali,
ma interagisce costantemente con esse. Essa fa parte del
"flusso della storia": gli stessi criteri di oggettività
o di verità, le "leggi", le teorie scientifiche,
le varie procedure cognitive emergono da particolari circostanze
storiche (su cui del resto incidono attivamente) e scompaiono
col venir meno di queste.
È semmai la filosofia della scienza - o una certa
lettura che della scienza forniscono molti filosofi ed alcuni
scienziati - a cercare di trasformare l'impresa scientifica
in un'attività astratta, avulsa dal procedere della
storia e distante dalla società. Le impone delle
regole, un metodo e la riconduce comunque - semplificandone
notevolmente la complessità - ad un solo fattore
determinante (o se si vuole ad una sola catena di causalità).
È contro questa tendenza che intende muoversi Feyerabend.
"La pratica di inventare, applicare e migliorare le
teorie è un'arte e quindi un processo storico. La
scienza come impresa (contrapposta alla scienza come 'corpo
di conoscenze') è parte della storia. Le formule
che adornano i nostri libri di testo sono parte della storia.
Devono essere disciolte e rimmesse nel flusso per essere
comprese e produrre risultati..." (Feyerabend 1990,
18).
È proprio questo forte ancoraggio alla società
a rendere la scienza un'attività libera e imprevedibile,
come imprevedibili e mutevoli sono le circostanze da cui
emerge. Essa è imprevedibile negli esiti e nei procedimenti
("nuove teorie e nuovi metodi possono sorprenderci
in qualsiasi momento"; Feyerabend 1984, 149) e può
in tal senso venir definita "un'avventura intellettuale
che non conosce limiti e che non riconosce regole, nemmeno
le regole della logica" (Feyerabend 1980, 149). La
scienza, insomma, oltrepassa spesso "i confini che
certi scienziati e filosofi cercano di tracciare sulla sua
via e diventa un'indagine libera, senza restrizioni"
(Feyerabend 1990, 37). Non è dunque lei "ad
essere chiusa, ma un'ideologia che ne isola alcune parti
e le irrigidisce col pregiudizio e l'ignoranza" (ibid.).
Tanto più la pratica scientifica è innovativa,
tanto più infrange quelle regole e quelle procedure
che la differenziano, secondo molti epistemologi, dalla
metafisica: "la scienza al suo livello più avanzato
e generale restituisce all'individuo una libertà
che egli sembra perdere quando accede alle sue parti più
banali" (Feyerabend 1980, 237).
Ora, se è il legame con
i processi storici e sociali a rendere la scienza un'attività
libera e innovativa, essa è allora interessante nel
momento in cui coinvolge la vita di tutti. Ma se coinvolge
la vita di tutti - ecco la proposta principale di Feyerabend
- dovrebbero essere tutti a decidere. Si tratta dunque di
democratizzare la scienza, cioè promuovere la comunicazione
- non solo, com'è chiaro e come già avviene,
all'interno della comunità scientifica - ma tra la
comunità scientifica e la popolazione e non nel vecchio
senso della divulgazione, quanto nel senso di promuovere
la loro reciproca interazione: "I cittadini, e non
gruppi speciali, devono avere l'ultima parola nel decidere
ciò che è vero e ciò che è falso,
utile o inutile per la loro società" (Feyerabend
1990, 56). Del resto "la critica democratica della
scienza non solo non è un'assurdità, ma appartiene
alla natura stessa della conoscenza" (Feyerabend 1996,
51): la democratizzazione delle scienze "corrisponde
alla 'dinamica interna' delle grandi scoperte scientifiche"
(Feyerabend 1984, 13).
2. La situazione ideale
La ricostruzione che Feyerabend fornisce delle scienze implica
la loro arbitrarietà rispetto alla realtà
cui esse si riferiscono. Il loro carattere accidentale è
dato dal fatto che esse costituiscono l'esito di più
catene causali eterogenee (cognitive ed extracognitive).
Feyerabend, in altri termini, esclude che la scienza come
oggi la conosciamo sia tale in quanto corrispondente al
reale di riferimento (se così fosse, sarebbe necessaria:
non può che essere com'è, dato che così
è la realtà che essa ricostruisce). Insomma,
non solo si raggiunge il vero accidentalmente, ma il vero
è accidentale come gli eventi della storia umana.
È una teoria affascinante, ma paradossale - come
paradossale è del resto la tesi specularmente opposta
(quella del cosidetto realismo metafisico): la dimostrazione
dell'una implica l'affermazione dell'altra.
Non possiamo infatti escludere che le scienze corrispondono
al reale, né lo possiamo affermare. Per poterlo fare
dovremmo confrontarle con la realtà cui si riferiscono,
vale a dire con la conoscenza che abbiamo di essa. Ma nel
caso della tesi dell'arbitrarietà ciò viene
escluso a priori, perché non vi è conoscenza
della realtà che non sia arbitraria. Mentre nel caso
della tesi realista, si dovrebbe ipotizzare una conoscenza
della realtà più autentica di quella che forniscono
le scienze di cui si afferma invece la corrispondenza al
reale: si dovrebbe allora o negare la validità di
queste (proponendo un'alternativa, la cui corrispondenza
al reale non potrà tuttavia mai venir dimostrata
se non attraverso se stessa); oppure affermare l'esistenza
di più teorie vere della stessa realtà (sostenere
quindi la tesi opposta).
Della scienza non possiamo dunque affermare né l'arbitrarietà,
né la necessità. Ciò significa che
non possiamo stabilirne l'origine o la genesi: non siamo
in grado di spiegarla - ovvero di inserirla in una qualche
catena causale - ma solo di descriverla. Può darsi
che nel XVII secolo si siano veramente aperti gli occhi
e si sia potuto cominciare ad osservare la realtà
così com'è. Ma può anche darsi che
- come suggerisce Feyerabend - un punto di vista si sia
semplicemente sostituito ad un altro per ragioni contingenti
(e non perché l'uno fosse cognitivamente migliore
dell'altro). Può darsi che, in altre determinate
circostanze storiche, sarebbe emerso un altro sistema teorico
- differente tanto da quello aristotelico che da quello
galileo-newtoniano - ma più fecondo di quest'ultimo.
Può darsi che in futuro si stabilisca un'altra scienza
incompatibile con quella a noi oggi familiare: le rivoluzioni
scientifiche non appartengono necessariamente al passato.
Resta il fatto che la scienza è imprevedibile. Pur
ammesso infatti che essa - una volta sorta e stabilizzatasi
- si sia finora comportata in maniera prevedibile - secondo
una propria logica, sia essa teorica sia essa legata alle
dinamiche sociali interne alla comunità scientifica
- non è detto che sarà così anche in
futuro (e soprattutto la descrizione del passato non deve
servire da consolazione per il presente). Ne risulta che
non sappiamo se la scienza è un evento fortuito,
ma che va trattata come se lo fosse. Va trattata come se
fosse legata non ad una, ma a molteplici catena causali
e come se anzi non vi fossero catene causali, ma esclusivamente
una rete di eventi. Io non voglio dire che le scienze attuali
sono false o, come ebbe a dire Nietzsche riferendosi alla
conoscenza in quanto tale, un'invenzione (cfr. Nietzsche
1973, 355). Dico soltanto che non possiamo avere certezza
della loro verità (o falsità); vale a dire
non possiamo escludere che vi siano o siano costruibili
altre scienze o paradigmi più potenti del nostro,
tanto più che neppure di questi paradigmi potremmo
mai esser certi, dato che, come sempre, gli strumenti con
cui verificare la loro verità sono gli stessi di
cui dovremmo verificare la validità. Insomma, non
vi è un paradigma definitivamente certo.
La conseguenza pratica è
che non si dovrebbero predeterminare i percorsi della scienza,
ma lasciare aperti tutti gli sviluppi possibili. Ciò
conduce a immaginare - o meglio ad auspicare - una situazione
ideale. Si tratta in fondo di trarre rigorosamente le conseguenze
dall'immagine della scienza proposta da Feyerabend e forse
più in generale dalla constatazione piuttosto diffusa
nel pensiero contemporaneo che non si può avere la
certezza che quanto ritenuto vero sia tale veramente. Possiamo
sintetizzare la situazione ideale elencandone i principi
fondamentali:
- Promuovere costantemente la
proliferazione di teorie cognitive; favorire la loro diversità
e dunque la pluralità dei punti di vista.
- Non valutare le proposte di ricerca in base ai criteri
dedotti dai meccanismi teorico-sperimentali finora accettati
universalmente: nessuna proposta dovrebbe venire rifiutata,
per quanto assurda possa apparire. Come il brutto anatroccolo
si trasformò in un bellissimo cigno, così
un'astrusa proposta potrebbe trasformarsi in una potente
teoria cognitiva.
- Non favorire lo sviluppo di una sola teoria e gettare
nel silenzio quelle alternative, ma dare a tutte le stesse
possibilità di diffondersi e affermarsi (non fino
al punto, tuttavia, di sopraffare le altre). Evitare, in
altri termini, che la demarcazione tra il vero e il falso
di una di esse diventi il criterio universale di validità
per tutte le altre. Se è infatti vero che ogni singolo
enunciato cognitivo o un complesso di enunciati distingue
inevitabilmente (intrinsecamente) tra verità e falsità
(in quanto esclude ciò che nega), l'imporre la verità
che esso afferma a tutti gli altri enunciati possibili (come
accade regolarmente) è un atto sociale che può
e deve essere evitato.
- Favorire il dialogo (o il conflitto) - in breve: la comunicazione
(se questa è possibile) - tra le varie teorie in
campo.
Il raggiungimento di una tale
situazione implica innanzitutto il superamento dei confini
(che sono in una certa misura sanzionati giuridicamente)
tra la comunità degli specialisti ed il resto della
popolazione e dunque il disconoscimento del diritto esclusivo
di alcuni a proporre o valutare le proposte di ricerca di
tutti gli altri.
Una tale situazione esclude
che vi siano dei centri esclusivi di controllo e di diffusione
dei saperi. In tal senso essa è ben rappresentata
dal funzionamento del World Wide Web. Questo costituisce
infatti una rete di eventi priva di un centro diffusore
o, come scrive Lévy, un "tessuto di sensi costantemente
rintrecciato da milioni di persone" (Lévy 1997,
106).
Si può dire che la struttura reticolare di internet
rappresenta una metafora e per certi versi un'anticipazione
della situazione ideale: favorisce la comunicazione informale
e rende possibile la diffusione di punti di vista alternativi
al di là dei controlli istituzionali (siano essi
pubblici o privati). Ogni nodo della rete ha poi le stesse
possibilità di ricevere o trasmettere le informazioni.
Inoltre, il World Wide Web rappresenta bene anche il carattere
fortuito che si tratta di attribuire alla scienza (ma che
non è detto che essa possegga). Il caso svolge infatti
un ruolo importante nella navigazione in rete. Non vi è
sempre una rotta da seguire, si è incitati a dei
continui dirottamenti e può sempre accadere di imbattersi
in un evento inaspettato, imprevisto, ma estremamente interessante.
Niente è poi definitivo, dato che ogni risultato
rimanda ad un altro. Si raffigura in tal senso quella libertà
che Feyerabend riscontrava nella produzione scientifica.
Infine, la forma di "comunicazione tutti-tutti"
che il World Wide Web rende possibile (v. Lévy 1997,
104s.), può impedire che - una volta realizzatasi
concretamente la piena libertà di ricerca - alla
verità imposta dagli scienziati ufficiali si sostituisca
un'altra imposta da chi detiene il controllo sui grandi
mezzi di informazione.
Per raggiungere (asintoticamente)
la situazione ideale non è invece auspicabile una
"democratizzazione" dell'impresa scientifica nel
senso inteso da Feyerabend. In Wissenschaft als Kunst egli
sostiene ad esempio che deve essere la popolazione a decidere
democraticamente su questioni scientifiche (non solo sulle
applicazioni delle teorie scientifiche, ma anche sulla loro
formulazione) attraverso una "votazione". In ogni
caso "la scelta dei programmi di ricerca è in
una democrazia un compito al quale devono partecipare in
egual misura tutti i cittadini (si tratta qui semplicemente
dell'estensione di un metodo già da lungo tempo in
uso nei dibattiti tra i giurati di un tribunale)" (Feyerabend
1984, 164).
Formulando questa proposta, Feyerabend - forse per un eccesso
di realismo politico - continua a muoversi in una logica
secondo cui si tratta, nella lavoro scientifico, di assumere
decisioni che siano vincolanti per tutti. Così facendo,
non fa altro che sostituire un metodo di esclusione (sono
gli specialisti che decidono quali teorie ritenere valide
e quali no, quali progetti accettare e quali respingere)
con un altro (far decidere la maggioranza della popolazione).
Inoltre, parlando della società o dei "cittadini",
Feyerabend immagina un tutto armonico privo di conflitti.
La società - e la scienza come impresa costituisce
comunque un'istanza sociale - è al contrario un campo
di battaglia ed è dominata da rapporti di forza.
Nessuna teoria potrà trovare il consenso di tutti
ed una parte della popolazione sarà di fatto costretta
a tacere. Si tratterà allora di garantire il rispetto
delle decisioni assunte - un compito cui può far
fronte solo lo stato. Delegare alla società le decisioni
scientifiche - il che vuol dire delegare ad essa la decisione
di dire ciò che è vero e ciò che è
falso - significa dunque delegarle alla sua organizzazione
politica: si finirebbe con l'imporre attraverso di essa
una dittatura della maggioranza (e la dittatura è
del resto sempre dittatura della maggioranza). Lo Stato,
al contrario, dovrebbe limitarsi a garantire la massima
tolleranza e a renderla possibile, dando a tutti, secondo
i principi esposti sopra, le stesse possibilità di
riuscita. Infatti, "niente è più inconsistente
di un regime politico che è indifferente alla verità;
ma niente è più pericoloso di un sistema politico
che pretende di prescrivere la verità" (Foucault
1994, 678).
La democratizzazione di cui parla Feyerabend, invece, legittima
questa pretesa - una pretesa che è oggi effettivamente
esercitata, in esclusiva, dagli apparati pubblici e privati
della comunità scientifica. Si tratta al contrario
di non concedere questa pretesa a nessuno, ovvero di concedere
a tutti - di fatto - il diritto a ricercare, dire e diffondere
il vero.
Tutta la società civile
sarebbe chiamata a realizzare questa situazione e a farsene
carico. Le istituzioni pubbliche come quelle private, le
riviste, le case editrici, i centri di ricerca, i singoli
cittadini. Tuttavia, la necessità di minimizzare
i rischi che caratterizza le dinamiche della spesa e degli
investimenti nel nostro sistema economico costringe ad andar
sul sicuro e a non sostenere programmi di ricerca sconfitti
(chi si sentirebbe di finanziare una ricerca in cui si tratta,
poniamo, di rappresentare con delle figure geometriche la
variazione d'intensità delle qualità - un
problema che si pose Nicola di Oresme interno al 1360? Quale
università investirebbe del denaro per istituire
una cattedra dove s'insegna la fisica aristotelica non come
qualcosa di falso, ma come qualcosa di vero?) o che non
sembrano promettere alcunché e che sono incompatibili
con gli standard di razionalità considerati oggi
evidenti e sicuri. Perché andare alla ricerca di
scienze nuove se quella che oggi possediamo è, nonostante
certe anomalie, funzionante sia cognitivamente che sul piano
delle applicazioni?
Possiamo solo rispondere constatando che ciò che
è ideale per la conoscenza è incompatibile
con il nostro sistema economico; che agli sviluppi possibili
dei processi cognitivi vengono posti dei limiti che sono
solo in seconda istanza teorici, mentre sono in effetti
legati al funzionamento della nostra società. In
questo senso la raffigurazione della situazione ideale mette
se non altro in evidenza il ruolo che nella produzione della
scienza moderna svolgono fattori extracognitivi.
Ma può anche darsi che
- al di là delle incompatibilità economiche
- si abbia paura di avere di fronte troppe verità:
è auspicabile una società in cui non si distingua
più tra opinione e verità? In cui vi siano
più fisiche, più biologie, più matematiche
(diciamo: più di quante ce ne sono oggi) e più
medicine?
Non c'è dubbio, la situazione ideale si scontra con
la "logofobia" che - come scriveva Foucault in
L'ordine del discorso - ha sempre caratterizzato la nostra
cultura: la paura di dir troppo, di dire il falso, la necessità
di controllare quanto si enuncia, il relegare ciò
su cui non vi è consenso tra le opinioni e ciò
su cui vi è accordo tra le verità.
Siamo insomma ancora legati alla tradizione che separa con
nettezza tra varietà dell'opinione e unicità
del vero. Non vi è certo motivo di rifiutare questa
demarcazione, ma non vi è neppure motivo di giustificarla.
Non ci resta allora che metterla da parte e concedere concretamente
anche alla verità quella varietà che si è
finora riconosciuta (almeno formalmente) soltanto all'opinione.
Se alla ricerca scientifica dovranno essere posti dei limiti,
questi potranno essere di natura etica (innanzitutto salvaguardare
l'integrità della persona umana e dell'ambiente naturale).
Ma porle limiti teorici o metodologici avrà la sua
ragion d'essere nel funzionamento della società (della
nostra o di qualsiasi altra è un problema a cui oso
qui appena accennare). Giustificare tuttavia quelle limitazioni
o, specularmente, denunciare il carattere comunque arbitrario
della conoscenza (quasi per dire: la scienza è fatta
così, non c'è niente da fare), significa insistere
sulla convinzione paradossale che si possa affermare con
certezza l'accidentalità o la necessità del
vero; credere, in altri termini, che se ne possa verificare
la verità.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
- Feyerabend, P.K.
1980:
Contro il metodo. Feltrinelli, Milano
1981:
Problems of empiricism. Philosophical papers. Vol.
2. Cambridge University Press. Cambridge etc.
1984:
Wissenschaft als Kunst. Suhrkamp, Frankfurt/M
1990:
Addio alla ragione. Armando, Roma
1996
Ambiguità e armonia. Laterza, Roma-Bari
- Foucault, M. 1994
Dits et Écrits. vol. IV. Gallimard, Paris
- Lévy, P. 1997
Il virtuale. Cortina, Milano
- Nietzsche, F. 1973
Opere di F.N., Vol. III, T. II., Adelphi, Milano
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