giornalediconfine.net

 

 

 

ANDREA OPPO, "LA PIU' GRANDE STORIA MAI SCRITTA"

 

A. Oppo, La più grande storia mai scritta, in "XÁOS. Giornale di confine", Anno I, n.3 2002-2003, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_3/art_7.htm

 

Il 12 dicembre del 1942 sulla rubrica Profili del "New Yorker Magazine", solitamente dedicata a personaggi famosi e figure importanti della società, apparve un lungo e curioso articolo diverso da tutti gli altri fin lì pubblicati: una storia a cui non si sapeva bene se credere o meno, ma che di certo suscitò enorme curiosità. L'articolo era intitolato "Il professor Gabbiano", a firma Joseph Mitchell [1].
Il "professore" in questione portava il nome di Joe Gould: un eccentrico letterato che viveva nel Greenwich Village. Discendente da una delle più antiche famiglie del New England e laureato a Harvard nel 1911, Gould amava definire se stesso "l'ultimo dei bohémiens" ("Gli altri si sono persi per strada - diceva - qualcuno è nella tomba, qualcuno in manicomio, e qualcuno nel mondo della pubblicità" [2]) e conduceva una vita da barbone. L'interesse riguardo alla sua figura nasceva, oltre che per l'eccentricità del personaggio, intorno a un'opera che pare avesse già scritto, o stesse lì lì per concludere: un'opera intitolata "La storia orale", "l'inedito più lungo di tutti i tempi" - teneva a dire scherzosamente l'autore -, costituito da centinaia di volumi.
Nella Storia orale - scriveva Mitchell nel suo articolo - Gould metteva solo cose che aveva visto o sentito. Una buona parte dell'opera era costituita da conversazioni riportate, talvolta, parola per parola (da qui il sottotitolo "orale"). Non dunque documenti, eventi, resoconti della gente e dei fatti che contano, ma un gran guazzabuglio di chiacchiere, pettegolezzi, sbruffonate, frottole e, secondo i calcoli di Gould, più di ventimila conversazioni di persone qualunque.
Gould era ossessionato - racconta Mitchell nel suo articolo - dalla paura di morire prima d'aver portato a termine la sua opera. "È già lunga come undici Bibbie", raccontava allora l'autore, e aveva stimato che il manoscritto comprendesse circa nove milioni di parole. Per scrivere adoperava quaderni da cinque centesimi, di quelli che i bambini usavano a scuola, che, scritti con grafia indecifrabile, riempite entrambe le facciate, tutti sgualciti e macchiati di caffè, ammontavano già a più di 270.
Nessun editore, riferiva sempre Mitchell, era mai stato interessato a pubblicare quell'opera, e non tanto perché fosse troppo lunga, quanto perché oscena e scandalosa in numerosi tratti. Ma Gould non demordeva e continuava a considerarla il capolavoro che l'umanità ancora attendeva:
"Un paio di generazioni dopo che sarò molto e sepolto - gli piaceva dire - i dottoroni cominceranno a spulciare la mia opera. Immagino già la loro meraviglia. "Ehi, che mi venga un colpo," diranno "questo tale era il più grande storico del secolo". E riconosceranno i miei meriti. Non pretendo che tutta la Storia orale sia di prim'ordine, ma certe parti vivranno almeno quanto la lingua inglese" [3]. [J. Mitchell, Il professor Gabbiano, 1942]
La Storia orale, a detta delle poche persone, amiche fidate, alle quali l'autore aveva concesso il privilegio di leggere alcuni capitoli, era un lungo sproloquio difficilissimo da seguire, nel quale il discorso saltava sempre di palo in frasca. Vi si trovavano le biografie senza capo né coda di centinaia di barboni, amici di Joe, o i racconti fantastici dei marinai incontrati nei bar di South Street; testimonianze dei convertiti nei raduni dell'Esercito della Salvezza, discorsi di medici, infermiere, autisti d'ambulanza, studenti della scuola d'imbalsamazione e dipendenti dell'obitorio.
Un capitolo era intitolato "Esempi della così detta barzelletta sporca del nostro tempo" (al quale faceva aggiunte quotidiane); un altro era dedicato alle filastrocche o alle scritte trovate nei gabinetti pubblici della metropolitana. Gould era convinto che tutti gli scarabocchi, i disegni, i racconti degli ubriachi, la cucina delle tavole calde, gli ultimi modelli di dentiera o "la cerniera lampo come segno del declino della civiltà", le cose spaventose che un nottambulo come lui vedeva per le strade buie di New York, facessero il paio benissimo con argomenti come lo scientismo, il vegetarianesimo, il pensiero di Swedenborg, la psicoanalisi o il sistema giuridico del suo Paese. "Ciò che la gente dice è storia - ripeteva -, quello che un tempo pensavamo fosse storia, re e regine, trattati, invenzioni, grandi battaglie, decapitazioni, Cesare, Napoleone, Ponzio Pilato, Colombo, William Jennings Bryan..., è solo storia ufficiale, in gran parte falsa" [4].
L'unica possibilità di scrivere una storia che avesse l'ambizione di dire qualcosa di vero era quella di cercare il punto di vista assoluto, l'occhio che come un prisma vede e riflette tutto in infinite sfaccettature. Tutti gli angoli in uno. Questo voleva fosse la Storia orale, Joe Gould.
Durante tutti gli anni '20 frequentava la redazione del "Dial", una delle riviste intellettuali più famose di quegli anni, dove aveva sicuramente qualche amico pronto ad offrirgli un bicchierino. Nell'aprile del 1929 il "Dial" gli pubblicò uno dei capitoli della Storia orale: "Civiltà". Si trattava di un breve saggio in cui Gould scherniva la compravendita di azioni come "un gioco da vecchie zitelle" e diceva la sua "sull'inutilità dell'auto". Una copia di quel numero della rivista capitò nelle mani di William Saroyan, ancora giovane e non affermato. Ne rimase profondamente colpito e dodici anni dopo, scoprendo nello studio di un suo amico alcuni ritratti di Gould, riconobbe in lui una delle sue fonti d'ispirazione, lo scrittore che da anni cercava senza successo. Di lui disse: "Tutti gli altri scrittori americani cercano di infilarsi nell'una o nell'altra forma, e nessuno, tranne Joe Gould, ha sufficiente immaginazione per capire che quando le cose si mettono male non c'è bisogno di forma alcuna. Non c'è bisogno di mettere quello che hai da dire in una poesia, un saggio, un racconto, un romanzo. Devi dirlo e basta". Volle incontrarlo a tutti i costi. Dopo avergli spiegato gli antefatti, chiesero a Joe se conoscesse Saroyan: "Che diamine, no" disse "ma non importa. È un mio discepolo". Alla fine dell'incontro, quando gli chiesero com'era andata Gould disse: "Saroyan continuava a ripetere che voleva sapere tutto della Storia orale. Ma non ho avuto modo di raccontargli niente. Parlava sempre lui. Non riuscivo ad aprire bocca".
Molti erano, a sua detta, i saggi autobiografici nella Storia orale. In uno intitolato "Perché sono incapace di adattarmi alla civiltà così com'è, ovvero fa', non fare, fa', non fare, una nota infernale", Gould affermava di essere "un miscuglio conflittuale di detenuto e banditore della Sixth Avenue. Un piede dice va', l'altro dice non andare. Un piede dice chiudi il becco, l'altro dice mugghia come un toro".
Quando si presentava agli sconosciuti, quasi sempre perché gli pagassero da bere, diceva più o meno così: "Mi permetta di presentarmi. Mi chiamo Joseph Ferdinand Gould, laureato a Harvard magna cum difficultate, classe 1911, presidente del consiglio d'amministrazione della Buona e Cattiva Sorte S.p.A. In cambio di un bicchiere reciterò una poesia, terrò una conferenza, sosterrò una tesi, oppure mi toglierò le scarpe e farò l'imitazione del gabbiano. Preferisco il gin, ma va bene anche la birra" [5].
Ai suoi occhi non elemosinava mai niente: il divertimento che era capace di offrire valeva esattamente quello che chiedeva. In genere saliva su un tavolo o su una sedia e davanti a tutti teneva la sua lezione, recitava una poesia o - cosa che preferiva - faceva versi e imitazioni. La sua preferita era l'imitazione del gabbiano. Da bambino aveva come animali da compagnia quasi esclusivamente gabbiani: aveva passato delle ore a osservarli sul molo dei pescatori; aveva imparato a conoscerli perfettamente e a tradurre perfino i loro stridi in poesie.
Così si toglieva scarpe e calze e iniziava a saltellare in modo goffo per la sala, con la testa in avanti, agitando le braccia e lanciando stridi ad alta voce. "Ho tradotto alcune poesie di Henry Wadsworth Longfellow nella lingua dei gabbiani", diceva.
A causa del suo carattere imprevedibile non era mai stato ammesso a far parte dei numerosi circoli di scrittori, poeti, pittori e artisti in genere che pullulavano a New York. Da dieci anni cercava di entrare nel Raven Poetry Circle, che ogni estate allestiva serate poetiche in Washington Square, ma ogni volta veniva respinto. Poi capitò che il presidente lo invitò a partecipare, pur non consentendogli di esserne membro a tutti gli effetti: "Gould non prende sul serio la poesia. Alle nostre riunioni serviamo del vino, e questa è l'unica ragione per cui partecipa".
Alla serata dedicata alla poesia religiosa chiese di partecipare con un suo componimento intitolato La mia religione. Che suonava così: D'inverno son buddista/ E d'estate son nudista
Alla serata dedicata alla natura recitò infine il suo pezzo forte. La poesia intitolata Il gabbiano. Balzò sulla sedia e cominciò a sbattere le braccia e a saltellare tutt'intorno strillando: "Scri-ik! Scri-ik!".

***

Joe Gould morì nel 1957, quindici anni dopo l'articolo "Il professor Gabbiano", a lui dedicato dal giornalista Joseph Mitchell. La sua fama era cresciuta enormemente, come si può pensare, e molte persone si chiedevano che fine avesse fatto la Storia orale: le centinaia di quaderni manoscritti che, fatta eccezione per quei pochi capitoli che egli stesso aveva divulgato, mai erano venuti alla luce. Lo stesso Mitchell un giorno decise di mettersi alla ricerca di quei quaderni. Non fu facile, dovette intervistare tutti quelli che lo conoscevano, seguire piste spesso contraddittorie: tutti sapevano che Gould aveva il terrore che gli venissero rubati o che potessero essere danneggiati. Li aveva nascosti perciò in un posto sicuro, a prova di bomba. Il problema era capire dove.
Passarono degli anni. Nel 1964 sempre sul "New Yorker" apparve in due parti (il 19 e il 26 settembre) un nuovo articolo, intitolato "Il segreto di Joe Gould", in cui Mitchell avrebbe finalmente svelato i risultati delle proprie ricerche, e nel quale avrebbe pure raccontato alcuni retroscena e il seguito di quanto avvenuto vent'anni prima [6].
All'indomani dell'uscita del "Professor Gabbiano" piombarono decine di lettere in redazione al "New Yorker": editori interessati alla Storia orale, accademici, barboni o sedicenti bohémiens, benefattori per la causa Joe Gould.
Ne arrivò sul tavolo di Joseph Mitchell una di Joe Gould stesso: voleva conoscerlo. Sarebbe nata una lunga amicizia tra i due, destinata a durare negli anni: si sarebbero incontrati spesso alla "Minetta Tavern". Stavolta Joe era diventato un personaggio: non faticava più a farsi fare credito, addirittura avrebbe trovato una misteriosa benefattrice, Madame X, che gli avrebbe pagato per anni vitto e alloggio in una pensione. Tutti lo cercavano e lo volevano.
Non si riconosceva più in quel ruolo e anche il rapporto con Mitchell viveva di alti e bassi. Tutta la nuova situazione aveva reso Joe più imprevedibile del solito: la compiacenza altrui non gli andava, soprattutto se si sentiva usato. E non tollerava che la gente gli chiedesse della Storia orale o lo riempisse di complimenti. "Parlate così, ma tanto non la capireste!", diceva. "La volete leggere a pezzi, tutti me ne chiedono dei pezzi... Sono stufo. O la si legge tutta o niente". Ma alle domande su dove si trovasse, glissava sempre con una scusa o con l'altra. E, con gli anni, con le interviste, con tutte le ripetizioni fatte a destra e a manca dei suoi capitoli, un occhio attento (come era quello di Mitchell) si sarebbe accorto che, in fondo in fondo, si trattava sempre degli stessi: rivisitati in vari modi, girati da una parte o dall'altra.
Nessuno ebbe mai la prova di dove fosse la Storia orale, e nessuno mai la trovò. Mitchell, da parte sua, fino alla pubblicazione del suo secondo articolo nel 1964, si tenne dentro un dubbio che gli era balenato in mente qualche anno prima che Gould morisse. Era stato un pensiero improvviso e lucido come non mai. Non ne parlò mai con Joe e, anzi, dal primo giorno che quel pensiero gli venne forse non ebbe più il coraggio di guardarlo dritto negli occhi, per paura che lui capisse.
Aveva intuito con chiarezza che, per quanto un capolavoro potesse essere, era pur sempre un libro. Sarebbe finito a riempire gli scaffali di qualche biblioteca o nei negozi di libri usati. Che il ruolo di zimbello e giocattolo di tutti (il barbone colto, l'ultimo dei bohémiens, l'anti-letterato per eccellenza) a Joe non piaceva neanche un po', ma fino a che aveva l'esca della Storia orale poteva essere ancora lui a tenere le redini del gioco. Se l'avesse fatta pubblicare sarebbe tutto finito.
Ma pensò molto di più, Mitchell.
Ricordò quella volta che, da giovane, sull'onda emotiva dell'"Ulisse" di Joyce, voleva scrivere anche lui il suo romanzo, l'opera della vita, quella che nessuno aveva mai scritto. Ma, dopo alcuni capitoli, iniziati e interrotti, dopo alcuni spunti brillanti, aveva immaginato, aveva visto nella sua testa la copertina, la rilegatura perfetta: si rese conto anche lui che... di un libro si trattava. Nel migliore dei casi avrebbe potuto scrivere un altro "Ulisse", o molto di meglio; avrebbe potuto comporre la più grande opera dell'umanità. Ma era ancora poco rispetto a quello che aveva immaginato all'inizio. Pensando ora a Joe... non poteva essere che così. Adesso ce lo aveva chiaro: la Storia orale non era mai stata scritta. Era il suo segreto, era tutta nella sua testa e con lui se ne sarebbe andata all'altro mondo; sopravvivendo per sempre, senza essere mai imprigionata, e annientata, nelle pagine di un libro.
L'avrebbe recitata mille e mille volte ancora nelle osterie, in cambio di un bicchiere di vino; l'avrebbe tradotta nelle lingue più strane, magari da lui stesso inventate; le avrebbe fatto prender vita in tutte le forme che era capace di creare. Era questo il suo linguaggio, la forma della sua opera. La più grande opera mai scritta.
Aveva evitato nella sua vita, da Harvard in avanti, tutte le prigioni di questo mondo: come Cyrano de Bergerac, aveva scelto il "suo pennacchio" sopra ogni altra cosa. E quando, all'ultimo, editori e intellettuali del Paese si smobilitavano per glorificare "quello", per dirgli "Sì, hai ragione tu: lui metteremo nel trono e tu potrai diventare ciò che desideri", Joe, col suo ultimo sberleffo avrebbe mostrato di non possederlo neanche più. Di non averlo mai avuto, come lo intendevano loro.
Tornava nudo. Ad agitare le braccia come ali e a fare i versi del gabbiano ("Scri-ik! Scri-ik!"), i suoi preferiti.
E allora non interessava più a nessuno.


[1] J. Mitchell, "Professor Sea Gull" in New Yorker Magazine, 12 -12 - 1942. L'articolo è stato successivamente inserito dall'autore nel libro "Joe Gould's secret", tradotto in italiano "Il segreto di Joe Gould", Milano, Adelphi, 1994.
[2] J. Mitchell, "Il segreto di Joe Gould", cit., p. 15.
[3] Ivi, p. 22.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 29.
[6] I due articoli insieme avrebbero fatto parte un anno dopo di un libro, dello stesso Mitchell, intitolato "Joe Gould's secret" per l'editore Viking Press di New York. Joseph Mitchell (1908-1996), originario nel North Carolina, iniziò la sua carriera giornalistica al "Morning World" per passare poi al "Herald Tribune" e al "World Telegram". Nel 1938 approdò al "New Yorker Magazine" dove lavorò ininterrottamente per 58 anni. Vinse numerosi premi letterari nella sua carriera e si distinse per quel genere giornalistico noto in America come "popular reportages", di cui i due articoli e il libro di cui trattiamo sono considerati a tutt'oggi uno dei più importanti esempi negli Stati Uniti insieme con l'opera di Truman Capote "In cold blood" che lanciò quel genere. Sono numerose le raccolte in volume dei suoi reportages, tra queste ricordiamo: "Up in the Old Hotel and Other Stories", New York: Pantheon Books, 1992, e "Old Mr. Flood", New York: Duell, Sloan and Pearce, 1943. Segnaliamo anche alcuni studi su Mitchell come quello di Stanley Hyman, "The Art of Joseph Mitchell", in The Critic's Credentials: Essays and Reviews, a cura di Phoebe Pettingel, pp. 79-85, New York: Atheneum, 1978; e quelli per la rivista Pembroke di Norman Sims, "J. Mitchell as 'literary journalist', Pembroke 26 (1994), pp. 32-34, e di Raymond Rundus, "'Imprisoned by the past': Joseph Mitchell, Poet Laureate of Enthropy", Pembroke 26 (1994), pp. 37-47. Tratto dal libro "Joe Gould's secret" e con lo stesso titolo nel 2000 è uscito negli USA anche un film per la regia di Stanley Tucci. Il film non è ancora stato distribuito in Italia.