Il 12 dicembre del 1942 sulla
rubrica Profili del "New Yorker Magazine",
solitamente dedicata a personaggi famosi e figure importanti
della società, apparve un lungo e curioso articolo
diverso da tutti gli altri fin lì pubblicati: una
storia a cui non si sapeva bene se credere o meno, ma che
di certo suscitò enorme curiosità. L'articolo
era intitolato "Il professor Gabbiano", a firma
Joseph Mitchell [1].
Il "professore" in questione portava il nome di
Joe Gould: un eccentrico letterato che viveva nel Greenwich
Village. Discendente da una delle più antiche famiglie
del New England e laureato a Harvard nel 1911, Gould amava
definire se stesso "l'ultimo dei bohémiens"
("Gli altri si sono persi per strada - diceva - qualcuno
è nella tomba, qualcuno in manicomio, e qualcuno
nel mondo della pubblicità" [2])
e conduceva una vita da barbone. L'interesse riguardo alla
sua figura nasceva, oltre che per l'eccentricità
del personaggio, intorno a un'opera che pare avesse già
scritto, o stesse lì lì per concludere: un'opera
intitolata "La storia orale", "l'inedito
più lungo di tutti i tempi" - teneva a dire
scherzosamente l'autore -, costituito da centinaia di volumi.
Nella Storia orale - scriveva Mitchell nel suo articolo
- Gould metteva solo cose che aveva visto o sentito. Una
buona parte dell'opera era costituita da conversazioni riportate,
talvolta, parola per parola (da qui il sottotitolo "orale").
Non dunque documenti, eventi, resoconti della gente e dei
fatti che contano, ma un gran guazzabuglio di chiacchiere,
pettegolezzi, sbruffonate, frottole e, secondo i calcoli
di Gould, più di ventimila conversazioni di persone
qualunque.
Gould era ossessionato - racconta Mitchell nel suo articolo
- dalla paura di morire prima d'aver portato a termine la
sua opera. "È già lunga come undici Bibbie",
raccontava allora l'autore, e aveva stimato che il manoscritto
comprendesse circa nove milioni di parole. Per scrivere
adoperava quaderni da cinque centesimi, di quelli che i
bambini usavano a scuola, che, scritti con grafia indecifrabile,
riempite entrambe le facciate, tutti sgualciti e macchiati
di caffè, ammontavano già a più di
270.
Nessun editore, riferiva sempre Mitchell, era mai stato
interessato a pubblicare quell'opera, e non tanto perché
fosse troppo lunga, quanto perché oscena e scandalosa
in numerosi tratti. Ma Gould non demordeva e continuava
a considerarla il capolavoro che l'umanità ancora
attendeva:
"Un paio di generazioni dopo che sarò molto
e sepolto - gli piaceva dire - i dottoroni cominceranno
a spulciare la mia opera. Immagino già la loro meraviglia.
"Ehi, che mi venga un colpo," diranno "questo
tale era il più grande storico del secolo".
E riconosceranno i miei meriti. Non pretendo che tutta la
Storia orale sia di prim'ordine, ma certe parti vivranno
almeno quanto la lingua inglese" [3].
[J. Mitchell, Il professor Gabbiano, 1942]
La Storia orale, a detta delle poche persone, amiche fidate,
alle quali l'autore aveva concesso il privilegio di leggere
alcuni capitoli, era un lungo sproloquio difficilissimo
da seguire, nel quale il discorso saltava sempre di palo
in frasca. Vi si trovavano le biografie senza capo né
coda di centinaia di barboni, amici di Joe, o i racconti
fantastici dei marinai incontrati nei bar di South Street;
testimonianze dei convertiti nei raduni dell'Esercito della
Salvezza, discorsi di medici, infermiere, autisti d'ambulanza,
studenti della scuola d'imbalsamazione e dipendenti dell'obitorio.
Un capitolo era intitolato "Esempi della così
detta barzelletta sporca del nostro tempo" (al quale
faceva aggiunte quotidiane); un altro era dedicato alle
filastrocche o alle scritte trovate nei gabinetti pubblici
della metropolitana. Gould era convinto che tutti gli scarabocchi,
i disegni, i racconti degli ubriachi, la cucina delle tavole
calde, gli ultimi modelli di dentiera o "la cerniera
lampo come segno del declino della civiltà",
le cose spaventose che un nottambulo come lui vedeva per
le strade buie di New York, facessero il paio benissimo
con argomenti come lo scientismo, il vegetarianesimo, il
pensiero di Swedenborg, la psicoanalisi o il sistema giuridico
del suo Paese. "Ciò che la gente dice è
storia - ripeteva -, quello che un tempo pensavamo fosse
storia, re e regine, trattati, invenzioni, grandi battaglie,
decapitazioni, Cesare, Napoleone, Ponzio Pilato, Colombo,
William Jennings Bryan..., è solo storia ufficiale,
in gran parte falsa" [4].
L'unica possibilità di scrivere una storia che avesse
l'ambizione di dire qualcosa di vero era quella di cercare
il punto di vista assoluto, l'occhio che come un prisma
vede e riflette tutto in infinite sfaccettature. Tutti gli
angoli in uno. Questo voleva fosse la Storia orale, Joe
Gould.
Durante tutti gli anni '20 frequentava la redazione del
"Dial", una delle riviste intellettuali più
famose di quegli anni, dove aveva sicuramente qualche amico
pronto ad offrirgli un bicchierino. Nell'aprile del 1929
il "Dial" gli pubblicò uno dei capitoli
della Storia orale: "Civiltà". Si trattava
di un breve saggio in cui Gould scherniva la compravendita
di azioni come "un gioco da vecchie zitelle" e
diceva la sua "sull'inutilità dell'auto".
Una copia di quel numero della rivista capitò nelle
mani di William Saroyan, ancora giovane e non affermato.
Ne rimase profondamente colpito e dodici anni dopo, scoprendo
nello studio di un suo amico alcuni ritratti di Gould, riconobbe
in lui una delle sue fonti d'ispirazione, lo scrittore che
da anni cercava senza successo. Di lui disse: "Tutti
gli altri scrittori americani cercano di infilarsi nell'una
o nell'altra forma, e nessuno, tranne Joe Gould, ha sufficiente
immaginazione per capire che quando le cose si mettono male
non c'è bisogno di forma alcuna. Non c'è bisogno
di mettere quello che hai da dire in una poesia, un saggio,
un racconto, un romanzo. Devi dirlo e basta". Volle
incontrarlo a tutti i costi. Dopo avergli spiegato gli antefatti,
chiesero a Joe se conoscesse Saroyan: "Che diamine,
no" disse "ma non importa. È un mio discepolo".
Alla fine dell'incontro, quando gli chiesero com'era andata
Gould disse: "Saroyan continuava a ripetere che voleva
sapere tutto della Storia orale. Ma non ho avuto modo di
raccontargli niente. Parlava sempre lui. Non riuscivo ad
aprire bocca".
Molti erano, a sua detta, i saggi autobiografici nella Storia
orale. In uno intitolato "Perché sono incapace
di adattarmi alla civiltà così com'è,
ovvero fa', non fare, fa', non fare, una nota infernale",
Gould affermava di essere "un miscuglio conflittuale
di detenuto e banditore della Sixth Avenue. Un piede dice
va', l'altro dice non andare. Un piede dice chiudi il becco,
l'altro dice mugghia come un toro".
Quando si presentava agli sconosciuti, quasi sempre perché
gli pagassero da bere, diceva più o meno così:
"Mi permetta di presentarmi. Mi chiamo Joseph Ferdinand
Gould, laureato a Harvard magna cum difficultate, classe
1911, presidente del consiglio d'amministrazione della Buona
e Cattiva Sorte S.p.A. In cambio di un bicchiere reciterò
una poesia, terrò una conferenza, sosterrò
una tesi, oppure mi toglierò le scarpe e farò
l'imitazione del gabbiano. Preferisco il gin, ma va bene
anche la birra" [5].
Ai suoi occhi non elemosinava mai niente: il divertimento
che era capace di offrire valeva esattamente quello che
chiedeva. In genere saliva su un tavolo o su una sedia e
davanti a tutti teneva la sua lezione, recitava una poesia
o - cosa che preferiva - faceva versi e imitazioni. La sua
preferita era l'imitazione del gabbiano. Da bambino aveva
come animali da compagnia quasi esclusivamente gabbiani:
aveva passato delle ore a osservarli sul molo dei pescatori;
aveva imparato a conoscerli perfettamente e a tradurre perfino
i loro stridi in poesie.
Così si toglieva scarpe e calze e iniziava a saltellare
in modo goffo per la sala, con la testa in avanti, agitando
le braccia e lanciando stridi ad alta voce. "Ho tradotto
alcune poesie di Henry Wadsworth Longfellow nella lingua
dei gabbiani", diceva.
A causa del suo carattere imprevedibile non era mai stato
ammesso a far parte dei numerosi circoli di scrittori, poeti,
pittori e artisti in genere che pullulavano a New York.
Da dieci anni cercava di entrare nel Raven Poetry Circle,
che ogni estate allestiva serate poetiche in Washington
Square, ma ogni volta veniva respinto. Poi capitò
che il presidente lo invitò a partecipare, pur non
consentendogli di esserne membro a tutti gli effetti: "Gould
non prende sul serio la poesia. Alle nostre riunioni serviamo
del vino, e questa è l'unica ragione per cui partecipa".
Alla serata dedicata alla poesia religiosa chiese di partecipare
con un suo componimento intitolato La mia religione. Che
suonava così: D'inverno son buddista/ E d'estate
son nudista
Alla serata dedicata alla natura recitò infine il
suo pezzo forte. La poesia intitolata Il gabbiano. Balzò
sulla sedia e cominciò a sbattere le braccia e a
saltellare tutt'intorno strillando: "Scri-ik! Scri-ik!".
***
Joe Gould morì nel 1957,
quindici anni dopo l'articolo "Il professor Gabbiano",
a lui dedicato dal giornalista Joseph Mitchell. La sua fama
era cresciuta enormemente, come si può pensare, e
molte persone si chiedevano che fine avesse fatto la Storia
orale: le centinaia di quaderni manoscritti che, fatta eccezione
per quei pochi capitoli che egli stesso aveva divulgato,
mai erano venuti alla luce. Lo stesso Mitchell un giorno
decise di mettersi alla ricerca di quei quaderni. Non fu
facile, dovette intervistare tutti quelli che lo conoscevano,
seguire piste spesso contraddittorie: tutti sapevano che
Gould aveva il terrore che gli venissero rubati o che potessero
essere danneggiati. Li aveva nascosti perciò in un
posto sicuro, a prova di bomba. Il problema era capire dove.
Passarono degli anni. Nel 1964 sempre sul "New Yorker"
apparve in due parti (il 19 e il 26 settembre) un nuovo
articolo, intitolato "Il segreto di Joe Gould",
in cui Mitchell avrebbe finalmente svelato i risultati delle
proprie ricerche, e nel quale avrebbe pure raccontato alcuni
retroscena e il seguito di quanto avvenuto vent'anni prima
[6].
All'indomani dell'uscita del "Professor Gabbiano"
piombarono decine di lettere in redazione al "New Yorker":
editori interessati alla Storia orale, accademici, barboni
o sedicenti bohémiens, benefattori per la causa Joe
Gould.
Ne arrivò sul tavolo di Joseph Mitchell una di Joe
Gould stesso: voleva conoscerlo. Sarebbe nata una lunga
amicizia tra i due, destinata a durare negli anni: si sarebbero
incontrati spesso alla "Minetta Tavern". Stavolta
Joe era diventato un personaggio: non faticava più
a farsi fare credito, addirittura avrebbe trovato una misteriosa
benefattrice, Madame X, che gli avrebbe pagato per anni
vitto e alloggio in una pensione. Tutti lo cercavano e lo
volevano.
Non si riconosceva più in quel ruolo e anche il rapporto
con Mitchell viveva di alti e bassi. Tutta la nuova situazione
aveva reso Joe più imprevedibile del solito: la compiacenza
altrui non gli andava, soprattutto se si sentiva usato.
E non tollerava che la gente gli chiedesse della Storia
orale o lo riempisse di complimenti. "Parlate così,
ma tanto non la capireste!", diceva. "La volete
leggere a pezzi, tutti me ne chiedono dei pezzi... Sono
stufo. O la si legge tutta o niente". Ma alle domande
su dove si trovasse, glissava sempre con una scusa o con
l'altra. E, con gli anni, con le interviste, con tutte le
ripetizioni fatte a destra e a manca dei suoi capitoli,
un occhio attento (come era quello di Mitchell) si sarebbe
accorto che, in fondo in fondo, si trattava sempre degli
stessi: rivisitati in vari modi, girati da una parte o dall'altra.
Nessuno ebbe mai la prova di dove fosse la Storia orale,
e nessuno mai la trovò. Mitchell, da parte sua, fino
alla pubblicazione del suo secondo articolo nel 1964, si
tenne dentro un dubbio che gli era balenato in mente qualche
anno prima che Gould morisse. Era stato un pensiero improvviso
e lucido come non mai. Non ne parlò mai con Joe e,
anzi, dal primo giorno che quel pensiero gli venne forse
non ebbe più il coraggio di guardarlo dritto negli
occhi, per paura che lui capisse.
Aveva intuito con chiarezza che, per quanto un capolavoro
potesse essere, era pur sempre un libro. Sarebbe finito
a riempire gli scaffali di qualche biblioteca o nei negozi
di libri usati. Che il ruolo di zimbello e giocattolo di
tutti (il barbone colto, l'ultimo dei bohémiens,
l'anti-letterato per eccellenza) a Joe non piaceva neanche
un po', ma fino a che aveva l'esca della Storia orale poteva
essere ancora lui a tenere le redini del gioco. Se l'avesse
fatta pubblicare sarebbe tutto finito.
Ma pensò molto di più, Mitchell.
Ricordò quella volta che, da giovane, sull'onda emotiva
dell'"Ulisse" di Joyce, voleva scrivere anche
lui il suo romanzo, l'opera della vita, quella che nessuno
aveva mai scritto. Ma, dopo alcuni capitoli, iniziati e
interrotti, dopo alcuni spunti brillanti, aveva immaginato,
aveva visto nella sua testa la copertina, la rilegatura
perfetta: si rese conto anche lui che... di un libro si
trattava. Nel migliore dei casi avrebbe potuto scrivere
un altro "Ulisse", o molto di meglio; avrebbe
potuto comporre la più grande opera dell'umanità.
Ma era ancora poco rispetto a quello che aveva immaginato
all'inizio. Pensando ora a Joe... non poteva essere che
così. Adesso ce lo aveva chiaro: la Storia orale
non era mai stata scritta. Era il suo segreto, era tutta
nella sua testa e con lui se ne sarebbe andata all'altro
mondo; sopravvivendo per sempre, senza essere mai imprigionata,
e annientata, nelle pagine di un libro.
L'avrebbe recitata mille e mille volte ancora nelle osterie,
in cambio di un bicchiere di vino; l'avrebbe tradotta nelle
lingue più strane, magari da lui stesso inventate;
le avrebbe fatto prender vita in tutte le forme che era
capace di creare. Era questo il suo linguaggio, la forma
della sua opera. La più grande opera mai scritta.
Aveva evitato nella sua vita, da Harvard in avanti, tutte
le prigioni di questo mondo: come Cyrano de Bergerac, aveva
scelto il "suo pennacchio" sopra ogni altra cosa.
E quando, all'ultimo, editori e intellettuali del Paese
si smobilitavano per glorificare "quello", per
dirgli "Sì, hai ragione tu: lui metteremo nel
trono e tu potrai diventare ciò che desideri",
Joe, col suo ultimo sberleffo avrebbe mostrato di non possederlo
neanche più. Di non averlo mai avuto, come lo intendevano
loro.
Tornava nudo. Ad agitare le braccia come ali e a fare i
versi del gabbiano ("Scri-ik! Scri-ik!"), i suoi
preferiti.
E allora non interessava più a nessuno.
[1]
J. Mitchell, "Professor Sea Gull" in New Yorker
Magazine, 12 -12 - 1942. L'articolo è stato successivamente
inserito dall'autore nel libro "Joe Gould's secret",
tradotto in italiano "Il segreto di Joe Gould",
Milano, Adelphi, 1994.
[2]
J. Mitchell, "Il segreto di Joe Gould", cit.,
p. 15.
[3]
Ivi, p. 22.
[4]
Ibidem.
[5]
Ivi, p. 29.
[6]
I due articoli insieme avrebbero fatto parte un anno dopo
di un libro, dello stesso Mitchell, intitolato "Joe
Gould's secret" per l'editore Viking Press di New York.
Joseph Mitchell (1908-1996), originario nel North Carolina,
iniziò la sua carriera giornalistica al "Morning
World" per passare poi al "Herald Tribune"
e al "World Telegram". Nel 1938 approdò
al "New Yorker Magazine" dove lavorò ininterrottamente
per 58 anni. Vinse numerosi premi letterari nella sua carriera
e si distinse per quel genere giornalistico noto in America
come "popular reportages", di cui i due articoli
e il libro di cui trattiamo sono considerati a tutt'oggi
uno dei più importanti esempi negli Stati Uniti insieme
con l'opera di Truman Capote "In cold blood" che
lanciò quel genere. Sono numerose le raccolte in
volume dei suoi reportages, tra queste ricordiamo: "Up
in the Old Hotel and Other Stories", New York: Pantheon
Books, 1992, e "Old Mr. Flood", New York: Duell,
Sloan and Pearce, 1943. Segnaliamo anche alcuni studi su
Mitchell come quello di Stanley Hyman, "The Art of
Joseph Mitchell", in The Critic's Credentials: Essays
and Reviews, a cura di Phoebe Pettingel, pp. 79-85, New
York: Atheneum, 1978; e quelli per la rivista Pembroke di
Norman Sims, "J. Mitchell as 'literary journalist',
Pembroke 26 (1994), pp. 32-34, e di Raymond Rundus, "'Imprisoned
by the past': Joseph Mitchell, Poet Laureate of Enthropy",
Pembroke 26 (1994), pp. 37-47. Tratto dal libro "Joe
Gould's secret" e con lo stesso titolo nel 2000 è
uscito negli USA anche un film per la regia di Stanley Tucci.
Il film non è ancora stato distribuito in Italia.
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