Introduzione:
dal simbolo all'attività simbolica Dei
concetti di s i m b o l o e di a t t i v i t à s i m b o l i c a tutto
può essere detto fuorché si tratti di nozioni chiare e distinte:
questa oscurità concettuale, come spesso accade, ha comportato (e comporta
tutt'ora) notevoli difficoltà teoretiche nel momento in cui si è
tentato di delinearne, per esigenze d'ordine comunicativo e teorico, i tratti
essenziali di definizione. Possederne una semplice forma intuitiva, banalmente,
non basta a chi ne vuole discutere in modo sistematico ed ordinato. Quando
pensiamo ad un simbolo tende spontaneamente a delinearsi un'immagine particolare,
difficilmente riconducibile ad una definizione categoriale precisa: rammentiamo
forse Madame Bovary seduta al tavolo che, mentre aspetta di essere servita, ci
parla della noia di provincia tracciando invisibili linee con una forchetta d'argento
sulla tovaglia bianca; oppure pensiamo al giovane Proust, alla sua infanzia a
Combray richiamata dal familiare sapore dei biscotti intinti nel tè. In
qualche misura tutto questo soddisfa noi, lettori disinteressati: scorriamo e
finzionalmente viviamo gesti, immagini, sapori, sensazioni che romanzi e dipinti
ci inducono. E' tutto qui? Ci si è spesso chiesti cosa permette davvero
di distinguere un simbolo da ciò che simbolo non è; soprattutto
ci si è domandati cosa per esso si debba intendere: un' immagine artistica?
Un' immagine letteraria? Un' immagine scientifica? Perché poi legare il
simbolo ad un' i m m a g i n e (gestuale, pittorica, ecc) e non ad un s e g n
o (matematico, logico, geometrico, linguistico)?
Scrive
Italo Calvino "Dunque la
situazione era questa: il segno serviva a segnare un punto, ma nello stesso tempo
segnava che lì c'era un segno, cosa ancora più importante perché
di punti ce n'erano tanti mentre di segni c'era solo quello, e nello stesso tempo
era il mio segno, il segno di me, perché era l'unico segno che io avessi
mai fatto ed io ero l'unico che avessi mai fatto segni. Era come un nome, il nome
di quel punto, e anche il mio nome che io avevo segnato su quel punto, insomma
era l'unico nome disponibile per tutto ciò che richiedeva un nome"[1]
E' Cassirer ad illuminarci a proposito: nel terzo volume
della Filosofia delle Forme Simboliche mostra innanzitutto come la nozione di
simbolo debba molto alla proposta leibniziana e come essa abbia fornito un essenziale
contributo alla formazione della moderna logica simbolica che ha poi influenzato
di riflesso l'elaborazione formale dei principi della matematica. Il simbolo è
qui dunque inteso come n o t a r e i , come segno attraverso cui è possibile
tradurre il reale in ideale, semplificandone la struttura senza per altro perderne
il valore oggettivo. Ma afferma Cassirer "Se
esso (il simbolo) apre realmente per la prima volta il campo del sapere teoretico
ed esatto, sembra anche costretto a rimaner rinchiuso in questo campo senza poterne
uscire e senza poter anche soltanto volger lo sguardo fuori di esso" [2]
Pare dunque
necessario integrare, più che correggere, la proposta di Leibniz. Alla
base di ogni conoscenza concettuale vi è necessariamente una conoscenza
intuitiva, e alla base di ogni conoscenza intuitiva vi è una conoscenza
percettiva; ed anche se questi gradi preparatori sembrano nascondere certezze
immediate più che saperi mediati e discorsivi, è possibile ricercare
anche in essi una sorta di funzione espressiva che si articola e si arricchisce
in modo diverso man mano che prendono forma gli strati di senso caratteristici
del nostro rapporto costitutivo con il mondo, man mano dunque che prende forma
la nostra tradizione culturale. Quindi i vari c a m p i , dal mondo immaginativo
dell'arte, alle formazioni fonetiche del linguaggio, ai simboli di cui la scienza
esatta si serve, determinano singolarmente una propria dimensione d'espressione
ognuna delle quali legittimamente chiamata simbolica; tutte queste dimensioni
solo se prese nel loro complesso costituiscono la totalità della visione
prospettica di ciò che Cassirer chiama (in modo discutibile) s p i r i
t o ."E' la semantica",osserva acutamente Giulio Preti,"che ci
conduce a rilevare la funzione sistematica esercitata entro determinati universi
di discorso da determinati simboli (concetti, nozioni)"[3]. Il mio percorso
oscillerà dunque tra la nozione di simbolo e quella di attività
simbolica, senza che questo movimento implichi una sostanziale frammentarietà
del percorso escludendo, di volta in volta, un orizzonte piuttosto che l'altro.
Perché questa precisazione? Non è difficile sentir qui l'eco di
un' accusa che molto spesso è stata (ed è) rivolta a K a n t , che
proprio su questi argomenti si è reso autore di importanti contributi.
Kant dunque riproporrebbe nella sua terza critica la stessa incompleta prospettiva
già presente nella Critica della Ragion Pura, dimenticando la specificità
dell'oggetto ( o del simbolo, nel nostro caso) per volgersi interamente ad una
discussione d'ordine generale, fortemente intellettualistica. Non credo che le
cose stiano così, credo invece sia possibile sentire l'eco del c o
s a sotto al c o m e in un progetto d'indagine in cui la coerenza dell'autore
non viene mai a mancare: ciò che Kant delinea è principalmente un
metodo volto alla ricerca delle condizioni di possibilità che rendano,
appunto, possibile la conoscenza del mondo, la morale e così via ; un mondo
che ci si dà c o s ì e co s ì e che, proprio per questo,
si vuole tentar di spiegare e non artificiosamente creare. Quando però
si intende parlare di uno specifico oggetto di esperienza pare essere necessario
un passo in più che, a mio parere, Kant non indugia a far proprio: si giunge
a mostrare, in ultima analisi, che pur non essendo l'oggetto d'esperienza fatto
dal pensiero, esso si c o s t i t u i s c e come tale solo a condizione di obbedire
alle forme del pensiero; intorno a questo paradosso l'intera deduzione si organizza.
Un discorso simile vale per il simbolo, di cui Kant direttamente non tratta ma
che il lettore attento saprà ritrovare accanto alla liceità che
lo stesso metodo garantisce. Non sono dunque dell'idea che in Kant si possa parlare
, usando le parole di Cassirer, di una reale sublimazione dell'esperienza (simbolica
e non) in senso stretto; la critica, come ho cercato sommariamente di mostrare,
si è resa accessibile ad uno suo studio, sistematico ed approfondito. La
rigorosità e la coerenza di questo progetto, le cui linee guida sono formulate
nella Critica della Ragion Pura, perdono di solidità nel successivo dipanarsi
del percorso, ovvero nel momento in cui Kant abbandona il terreno strettamente
costitutivo per tentare di riportare la sfera pratica, felicemente isolata nel
proprio universo soprasensibile, entro l'ambito dell'esperienza umana; in questo
senso la Critica della Facoltà di Giudizio viene ad essere, in ultima analisi,
più un' e s i g e n z a che un r i s u l t a t o. Qui stanno, a mio parere,
i limiti della proposta kantiana. Tratteremo dunque più direttamente
dell'attività simbolica soprattutto nella sua accezione 'artistica', discuteremo
limiti e ricchezze della posizione kantiana, mostrando come sia possibile svilupparne
le importanti premesse e colmarne le mancanze attraverso gli attuali contributi
di alcuni pensatori, in particolare quelli di cui Denis Diderot è autore.
E' bene sottolineare come le alternative che illustrerò non siano state
formulate per rispondere in modo diretto a quello che io giudico essere un limite
della proposta kantiana: intendo piuttosto mostrare come la fecondità di
alcune posizioni sia tale da suggerire ragionevoli percorsi di senso utili ad
integrare una teoria già di per sé molto ricca . Immanuel
Kant : l'incomunicabilità del pensato E'
noto come il tentativo di definizione kantiano di simbolo si schieri apertamente
contro la prospettiva leibniziana e wolfiana secondo cui il pensiero simbolico
sarebbe semplicemente s u p p o s i t i v o: dunque un pensiero c i e c o incapace
di rendere conto contemporaneamente di tutti i caratteri c o m p o s i t i v i,
in contrapposizione con un secondo tipo di pensiero, il pensiero i n t u i t i
v o, capace di afferrare immediatamente la totalità delle parti. Il simbolico
è quindi il segno di un l i m i t e c o n o s c i t i v o intrinseco all'analisi
umana delle nozioni e, tuttavia, è uno strumento essenziale per comprendere
e renderne c o m u n i c a b i l i le componenti. Kant si rende autore nella
Critica della Facoltà di Giudizio, in particolare nel paragrafo 59, di
un importante spostamento di senso: dopo avere affermato che per mostrare la realtà
dei nostri concetti abbiamo sempre bisogno di intuizioni, definisce l' i p o t
i p o s i affiancando a quella più propriamente s c h e m a t i c a (descritta
nella Critica della Ragion Pura ), l' i p o t i p o s i s i m b o l i c a in quanto
modalità di presentazione delle i d e e e s t e t i c h e che si verifica
quando ad un concetto non può essere adeguata alcuna intuizione. "
L 'ipotiposi (esibizione, s u b j e c t i o s u b a s p e c t u m), in quanto
presentazione sensibile, è duplice: o è schematica, se a un concetto,
che l'intelletto concepisce, viene data a priori la corrispondente intuizione,
o è simbolica, se per un concetto, che solo la ragione può pensare
e a cui non può essere adeguata alcuna intuizione sensibile, ne viene fornita
una rispetto alla quale il procedimento della facoltà di giudizio è
solo analogo a quello che essa segue nello schematizzare"[4] Il
simbolo si configura come l' a n a l o g o n dello schema, non è dunque
un' immagine ma una mediazione: in questo senso viene a tutti gli effetti inserito
in un problema gnoseologico generale, prospettiva che però, come cercherò
di mostrare, Kant non sostiene fino in fondo. I leibniziani quindi, opponendo
rappresentazione simbolica e rappresentazione intuitiva, non hanno compreso che
il modo simbolico non è che un tipo di quello intuitivo, dal momento che
l'intuizione può esibire il concetto in due modi, schematico e,appunto,
simbolico. A questo punto può essere sensato distinguere due momenti,
quello della p r o d u z i o ne e quello della f r u i z i o n e artistica per
mostrare come proprio in questa seconda fase si annidino difficoltà non
irrilevanti. Dove sta il problema? Principalmente nel fatto che la riflessione
estetica kantiana trova il suo fondamento nel discorso morale,pur non convertendosi
in una morale; ma tanto basta. Vediamo meglio: le idee estetiche, risultato dell'immaginazione
produttiva del genio, non sono altro che l'espressione sensibile del soprasensibile
( che sfugge alla ragione pura speculativa e teoretica), ovvero di quei concetti
razionali (le i d e e della r a g i o n e - Libertà, Immortalità
dell'Anima, Dio -) a cui non si adegua alcuna intuizione. E' proprio questo rapporto
fondazionale che garantisce al giudizio di gusto della riflessione una validità
universale, poiché l'insieme delle massime morali chiamate in causa si
qualifica da sé come legislazione universale. La finalità , per
meglio dire, opera nella produzione del genio in cui, grazie alla natura del soggetto
( il s o s t r a t o s o v r a s e n s i b i l e ), libertà e natura si
incontrano attraverso l'accordo armonico delle tre facoltà: immaginazione,
intelletto e ragione. Dalla sintesi dei due ambiti, d o v e r e ed e s s e r e
- l i b e r t à e n a t u r a, deriva la connotazione morale della sua
opera che si ripropone allo spettatore nel momento della fruizione (nel giudizio
di gusto) e che viene legittimata dal s e n s o i n t e r n o , intendendo con
questa espressione non una sorta di generale sensazione ma piuttosto un principio
a priori intuitivo in grado di assicurare l'accordo collettivo. Ci troviamo dunque
innanzi a rappresentazioni in cui la mediazione dell'immaginazione, fallendo il
rapporto con il categoriale, cerca un'intenzionalizzazione estetica della ragione,
offrendole un contenuto intuitivo passibile di essere p e n s a t o ma non c o
n o s c i u t o . La rappresentazione
simbolica può essere dunque al limite compresa, ma mai conosciuta poiché
l'attività simbolizzante non è un' attività strettamente
gnoseologica: ora, se le cose stanno in questo modo, una simile attività
di pensiero non formalizzabile come può essere comunicata e condivisa?
Kant non dà una risposta esauriente a questa domanda; fa appello, abbiamo
visto, al concetto di senso interno, di sentimento, dunque a termini ambigui che
stonano con la rigorosità mostrata fino a questo punto; chiama in causa
una garanzia conseguente ad una legalità universale presupposta e non dimostrata
che, fuori dall'ambito prettamente pratico, pare un poco fuorviante ed incerta.
Forse molto dipende davvero da ciò che si vuole intendere per c o n
o s c e n z a e dal legame che si istituisce tra c o n o s c e n z a e c o m u
n i c a z i o n e: di sicuro Kant rimane coerente con il proprio progetto critico
che però, a questo punto, mostra qualche cedimento. Sviluppi
e risoluzioni Tra le tante, spicca
la proposta di Cassirer che ha tentato di risolvere il problema rimanendo nel
contempo fedele al proprio maestro; ''Il
compito della critica della conoscenza consiste nel ritornare dall'unità
del concetto generale di oggetto alla molteplicità delle necessarie e sufficienti
relazioni che lo costituiscono. In questo senso ciò che la conoscenza considera
suo 'oggetto' si dissolve in una trama di relazioni, che sono tenute insieme in
se stesse attraverso regole superiori e principi"[5] Se
nelle teorie della conoscenza del primo decennio del Novecento il problema sembra
essere il problema della verità e dell'oggettività, nelle teorie
del secondo decennio si pone come unificante il problema del s i g n i f i c a
t o: "Quel campo di significato
teoretico, che indichiamo con il nome di 'conoscenza' e 'verità', rappresenta
soltanto uno strato di senso, come sempre significativo e fondamentale. Per comprenderlo,
per penetrarlo nella sua struttura, dobbiamo a questo stato paragonare e confrontare
altre dimensioni di senso; dobbiamo, in altre parole, comprendere il problema
della conoscenza e il problema della verità come casi particolari del problema
generale del significato"[6] E'
sorprendente che Cassirer, nel momento in cui pone il problema del significato,
ponga il problema metodico della differenza di c o n o s c e r e e c o m p r e
n d e r e riconducendo, in modo diverso rispetto a Kant, i due termini all'interno
di una medesima prospettiva sottolineando in tal modo l'unitarietà complessiva
dell' attività umana che pur non proponendosi rigorosa e dimostrabile in
tutte le sue parti, non cessa per questo di descrivere e di discutere in modo
o g g e t t i v o il mondo "Oggi
spesso viene in luce che il vero problema fondamentale delle scienze dello spirito
[
] non può essere risolto se prima non si sia chiarita m e t o d
o l o g i c a m e n t e la differenza di 'conoscere' e 'comprendere' ,se non si
è colti entrambi come momenti diversi del problema in sé unitario
del significato e dell'espressione"[7] Tra
la rappresentazione ed il suo contenuto simbolico Cassirer, ispirando in tal modo
Johannes von Kries, non pone né un rapporto di corrispondenza, né
un rapporto di incomunicabile eccedenza, quanto piuttosto un rapporto di s p i
e g a z i o n e, di riferimento degli elementi sensibili ad un ordine interpretativo,
avvicinandosi in tal modo a quella che vedremo essere la posizione di Denis Diderot.
"Non possiamo, né
dobbiamo tradurre il linguaggio della percezione, per così dire, parola
per parola [
] ma trasponiamo ciò che nella percezione è dato
come somiglianza sensibile o differenza, come coesistenza o successione, in determinate
s t r u t t u r e d i s e n s o t e o r e t i c h e ." [8] L'intera
interpretazione culmina nel fatto che noi presentiamo le suddette strutture(che
potremmo chiamare simboliche ) con i n o s t r i fenomeni di coscienza e quindi
anche con i fatti definitivamente sicuri e definitivamente comprensibili dell'esperienza,
attraverso i quali la totalità del nostro sapere riceve il suo senso e
la sua fondazione. Questa connessione pare avere tutto il sapore di quel senso
di possibilità musiliano definito come "la capacità di pensare
tutto quello che potrebbe egualmente essere"[9] se solo mutasse l' approccio
interpretativo del soggetto che di essa si rende protagonista, di quell' a p e
r t u r a al p o s s i b i l e radicata, come detto, pur sempre nell'oggettività
dell'esperienza. Soggetto che, per non lasciarsi avvolgere dalla superficie della
banalità, deve vestire i panni dell' u o m o s e n z a q u a l i t à
, un uomo cioè capace di adottare istantaneamente determinazioni ipotetiche
e qualità provvisorie, e capace pure di lasciarle andare per prenderne
ancora altre. "Così
tutto quello che possiamo asserire della realtà, ha soltanto il significato
di s i m b o l o; esso indica una X non direttamente conosciuta, che trova il
suo proprio e definitivo significato in ciò che vuole dire riguardo al
vissuto effettivamente da noi o al vivente" [10] Cassirer,
connotando simbolicamente tutte le attività umane, di conseguenza anche
quella conoscitiva, ribalta i termini del discorso; non è più l'attività
simbolica a dover provare d'essere conoscitiva, ma è l'attività
conoscitiva che appartenendo al complesso delle attività umane si rivela
essere conseguentemente simbolica.[11] Ci soffermeremo ora in modo un po' più
diffuso su un'ultima alternativa, quella di cui Denis Diderot è importante
autore Il coraggio di Denis
Diderot, analisi di una proposta Tra
il 1758 e il 1759 si assistette ad una vera e propria crisi del progetto enciclopedico,la
seconda per la precisione (la prima si era infatti avuta tra il 1752 e il 1753),
crisi che scoppiò in seguito alla voce Ginevra scritta da D'Alambert a
cui Rousseau, ginevrino d'adozione, rispose con la famosa Lettera sugli Spettacoli
:l'obbiettivo polemico di Rousseau era in realtà Voltaire, con il suo teatro
di corte, corrotto ed artificioso, a cui doveva sostituirsi la naturalità
e la spontaneità delle feste. Per l'Encyclopédie iniziava un periodo
tutt'altro che facile in cui si avvicendavano dall'esterno accuse di deismo e
di ateismo, dall'interno le dispute tra le sue autorevoli ed orgogliose componenti.
Quando la situazione divenne davvero pericolosa, non stupì il ritiro di
Volataire, che pure tentò di convincere Diderot a sospendere le pubblicazioni,
e nemmeno quello di D'Alambert. Diderot, invece, ormai isolato, tra il dispotismo
illuminato di Voltaire e quello barbaro e primitivo di Rousseau, non solo rifiutò
di scegliere, ma prese atto che forse l'Enciclopedia non era mai stata quello
che nei sogni dei suoi collaboratori avrebbe dovuto essere, ovvero la mediazione
tra diverse posizioni; la polemica sugli spettacoli ne aveva svelato l'impossibilità.
Dunque Diderot rifiutò la sintesi e proseguì la sua opera, un' opera
che raccogliesse anche gli errori nel momento in cui essi si fossero rivelati
costitutivi del nostro rapporto interpretativo con le cose, un'opera insomma in
cui trovassero posto sia Voltaire, sia Rousseau, sia D'Alambert, poichè
"Il lavoro enciclopedico
diviene il luogo simbolico in cui può venire accolto anche un pensiero
che non gli appartiene"[12]. Diderot,
ormai solo alla guida dell'Encyclopédie, riconobbe il gioco rappresentazionale
che ognuno dei contendenti stava mettendo in atto e restituì l'opera a
se stessa. Restituì, per meglio dire, l'impegno filosofico a se stesso,
lontano dunque da intenti profetici e spettacolarizzanti, lontano dal così
detto buon gusto, lontano da una riduzione del pensiero ad una sua immagine ,
cosa che ne avrebbe depotenziato il valore conoscitivo. Il filosofo guarda, interroga,
interpreta: proprio come l'attore del suo famoso paradosso il cui metodo risiedeva
nella visione impersonale in grado di sospendere le passioni soggettive per aprire
una relazione diretta tra lo sguardo e il mondo, lontano da vizi e pregiudizi.
"E' sulla base di questo
rapporto indiretto, impersonale e puro che si possono costruire rappresentazioni,
cioè diversi, stratificati e dinamici modi costitutivi tali da permettere
una descrizione del mondo in tutta la sua c a t e n a o n t o l o g i c a , uscendo
da uno sterile solipsismo per portare la conoscenza, attraverso le rappresentazioni,
su un piano pubblico, sociale, intersoggettivo"[13] E'
questo piano pubblico, sociale, intersoggettivo, a cui la rappresentazione in
ultima analisi conduce, che l'impostazione del discorso kantiano in qualche misura
negava e che, invece, Diderot sottolinea con forza anche quando si trova, solo,
a condurre la grandiosa impresa dell'Encyclopedie. Nel
Paradosso sull'attore del 1773, scrive "Riflettete
un momento su ciò che significa e s s e r e v e r i a teatro. Vuol dire
mostrare le cose come sono in natura? Niente affatto. Il vero, in questo senso,
non sarebbe altro che il consueto. Che cos'è dunque, il vero sulla scena?
E' la conformità delle azioni, dei discorsi, dell'aspetto, della voce,
del movimento, dei gesti ad un modello ideale immaginato dal poeta e spesso esagerato
dall'attore. Ecco la meraviglia. Il modello non influisce soltanto sul tono, ma
modifica persino l'incedere, il contegno"[14] L'attore
- filosofo , dunque non colui che è lo spettacolo ma colui che lo r e n
d e p o s s i b i l e , ha il principale compito di osservare ciò che gli
si p r e s e n t a innanzi, cogliendo in tutte le f o r m e i n f o r m a z i
o n e quel modello ideale, quel contenuto esemplare, che in un secondo momento
si troverà a r a p p r e s e n t a r e proprio di fronte a ciò che
è servito inizialmente da modello: l'uomo sensibile. Per far questo l'attore
dovrà (contrariamente a quanto aveva sostenuto nelle sue prime opere teatrali)
mettere tra parentesi il suo atteggiamento naturale, la sua sensibilità,
dovrà essere, dice Diderot, come una marionetta di legno dai mille fili
capace di adeguarsi ad ogni fenomeno per poterne poi scoprire le c o n d i z i
o n i d i p o s s i b i l i "L'uomo
sensibile obbedisce agli impulsi della natura e sa rendere con precisione soltanto
il grido del suo cuore[
] Il grande attore osserva i fenomeni; l'uomo sensibile
gli serve da modello: egli lo studia, e quindi scopre ciò che deve togliere
o deve aggiungere per ottenere il meglio"[15] Vi
è qui un affermata connotazione gnoseologica della finzione, questa intesa
non come menzogna o falsità, bensì come capacità di mutare
atteggiamento di fronte alla varietà del mondo per meglio coglierne la
qualità, per meglio rispettarne la stratificazione: l'attore - filosofo,
fingendo, trasmette verità impersonali, ecco il paradosso. L'Enciclopedia,
riunificazione simbolica di parola ed immagine, è proprio questo: la ricerca
delle leggi, delle ragioni, delle condizioni di possibilità della nostra
conoscenza derivate da una continua interpretazione dei legami tra uomo e il suo
mondo, che vuole indurre il proprio pubblico a guardare di nuovo, e sempre di
nuovo il mondo in cui vive. La riforma del teatro auspicata da Diderot è
parallela alla sua riforma filosofica in quanto, in entrambi i casi, le rappresentazioni,
si qualsiasi natura siano, non sono né pregiudizi, né forme vuote
prive di concetti (come voleva Kant) bensì, come per lo Spirito delle Leggi
di Montesquieu, " i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose".
Stupisce il coraggio filosofico di Diderot, pur sempre uomo del Settecento,
stupisce la limpidità delle sue parole anche in tempi tanto difficili e
precari che hanno rischiato di veder far fallire il progetto di una vita; ma Diderot
non è nuovo a difficoltà anguste, già nel 1749 fu messo alla
prova dal drammatico arresto e dalla breve prigionia anche a causa di quanto fece
dire, nella Lettera sui Ciechi per quelli che ci Vedono, da Saunderson, professore
di matematica all'Università di Cambridge, cieco sin dalla nascita, al
pastore che gli adduceva la bellezza della natura come prova dell'esistenza di
Dio "Eh signore, gli diceva
il filosofo cieco, lasciate perdere codesto bello spettacolo che non è
mai stato fatto per me! Sono stato condannato a passare la vita nelle tenebre,
e voi mi citate prodigi che non comprendo, e che sono prove solo per voi e per
chi ci vede, come voi. Se volete che io creda in Dio , bisogna che me lo facciate
toccare"[16] Ma tanto vale.
La ricchezza della proposta diderottiana contribuisce a completare precedenti
mancanze verso il riconoscimento di un più completo e globale valore gnoseologico
della rappresentazione e dei percorsi simbolici che da essa si snodano. Conclusione:
Perché insistere? Scrive
Cassirer "Nel corso della nostra ricerca apparirà con chiarezza sempre
maggiore come la funzione simbolica della r a p p r e s e n t a z i o n e e della
s i g n i f i c a z i o n e procuri per la prima volta la via d'accesso che conduce
a quella realtà o g g e t t i v a in cui a buon diritto si può parlare
di relazioni fra cose e di relazioni causali" Questo
è stato, in ultima analisi, il mio intento; ma perché considerare
ambito gnoseologico e simbolico come ambiti compenetranti, pur nella loro specifica
autonomia, piuttosto che qualificarli come totogeneri diversi ed insistere sulla
loro estraneità? Si è notato come il concetto di simbolo racchiuda
in se una fondamentale indeterminatezza di significato, per cui al suo uso è
spesso sotteso uno scomodo senso di vaghezza; ma forse è proprio in questa
incertezza di definizione che risiede la forza di tutto ciò che si propone
come s i m b o l i c o. Vorrei qui riprendere la già menzionata spiegazione
che Musil avanza della nozione di simbolo, caratterizzandola come un' apertura
al possibile, come possibilità nel limite radicata pur sempre nell'oggettività
dell'esperienza; qui, a mio parere, risiede un'interessante chiave di lettura
funzionale al percorso sin ora proposto. Va da sé, ogni attività
simbolica, in quanto simbolica, si porta appresso una sorta di r e l a t i v a
c e r t e z z a , di apertura al possibile appunto, che le impone di rifiutare
statuti veritativi assoluti facendo proprie piuttosto (consapevoli) particolari
prospettive di spiegazione e di interpretazione. L'importanza del far confluire
in un medesimo percorso di senso, simbolico e gnoseologico risiede proprio in
questo: non importa, in questo luogo, stabilire se è la conoscenza ad essere
un'attività simbolica, come voleva Cassirer, oppure se è l'attività
simbolica ad essere conoscitiva, come invece sosteneva Diderot contro Kant ;le
due prospettive, per così dire, da questo punto di vista si equivalgono.
In primo luogo arte, scienza, ecc. contribuiscono tutte, in egual misura, a creare
una precisa immagine del mondo, la nostra, nella sua parzialità, elaborando
un particolare punto di vista che non pretende di imporsi come i l punto d'osservazione
privilegiato: la possibilità di essere discusse, integrate, confrontate,
coordinate entro una più ampia prospettiva conoscitiva, risiede poi proprio
nel loro e s s e r e s i m b o l i c h e, dunque p r o s p e t t i c a m e n t
e d e f i n i t e ; in secondo luogo, definendo gnoseologica l'attività
simbolica, si tende a porre su un piano intersoggettivo e comunicativo anche quelle
attività che non si presentano immediatamente come rigorose e regolate
dal punto di vista teoretico, consegnando loro in tal modo un importante valore
conoscitivo. Intrecciando i due ambiti, dunque, si vuole per così dire
dar spazio a " ciò che potrebbe essere"accanto a ciò che
effettivamente è, ad un particolare punto di vista che cerca, per una sorta
di tensione verso un'ideale completezza regolativa (mai costitutiva, mai raggiungibile),
un altro punto di vista ed un altro ancora, suggerendo così tacitamente
che, forse, le cose verrebbero descritte in modo diverso se solo si mutasse la
prospettiva d'osservazione. Conoscenza, funzione simbolica e comunicazione
paiono dunque essere intimamente connesse: è la comunicazione che garantisce
alla funzione simbolica di non esaurire le proprie possibilità in un movimento
autoreferenziale, consentendole piuttosto, attraverso il veicolo del linguaggio,
di proiettarsi all'esterno ed arricchirsi proprio perché esistono i presupposti
per una concreta condivisione di contenuti. Come nel racconto La Spirale di
Italo Calvino: è nel momento in cui il mollusco protagonista si accorge
dell'esistenza di a l t r i che inizia a secernere la propria conchiglia "[
]
intanto che la facevo non mi veniva mica di farla perché mi serviva, ma
al contrario come a uno gli viene di fare un'espressione che p o t r e b b e benissimo
non fare eppure la fa, come uno che dice 'bah', oppure 'mah', così io facevo
la conchiglia, cioè solo per e s p r i m e r m i "[17] Non è
impossibile cogliere qui l'eco musiliana della nozione di simbolo.
Note
[1] I. Calvino, Un segno nello spazio in Le Cosmicomiche,
Oscar Mondatori, Milano 1993, p. 35 [2] E. Cassirer, Filosofia delle Forme
Simboliche 3/1, La Nuova Italia, Milano 2002, p.61 [3] G. Preti, L'Ontologia
della "Regione" Natura nella Fisica Newtoniana, In Saggi Filosofici,
a cura di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze 1976, Vol. I, P.415 [4] I.
Kant, Critica della Facoltà di Giudizio, Einaudi, Torino 1999, p. 186
[5] E. Cassirer, Conoscenza, Concetto, Cultura, A cura di Giulio Raio, La Nuova
Italia, Firenze 1998, p.15 [6] E. Cassirer, op. cit. , p.70 [7] E. Cassirer,
op. cit. , p. 72 [8] E. Cassirer, op. cit., p.105 [9] R. Musil, L'uomo
senza qualità, Einaudi, Torino 1996, p.13 [10] E. Cassirer, op. cit.
, p.105 [11] Vi è, tra le tante, un 'altra importante, seppur diversa,
proposta che tengo a ricordare, quella di Johann F. Herbart: ciò che viene
rappresentato nel giudizio di gusto, egli sostiene, deve poter essere rappresentato
anche indipendentemente da questo giudizio, semplicemente come oggetto della conoscenza.
E' poi proprio a questo tipo di oggetto che successivamente si indirizza il giudizio,
per mezzo di un'integrazione di significato. La posizione herbartiana consente
in tal modo di conciliare oggetto e giudizio di gusto come modalità differenti
di un u n i c o atto costitutivo dell'esperienza che ha nella rappresentazione
e nel sentire il suo elemento portante. Anche Herbart, come Cassirer, insiste
dunque sull'unicità della prospettiva qui più esplicitamente costitutiva,
vedendo nell'oggetto e nel giudizio che ad esso va ad aggiungersi due momenti
riconducibili ad un comune orizzonte, quello conoscitivo. Come già Lotze
aveva ben visto, l'ontologia generale di Herbart, alla base di ogni ontologia
locale, ha indubbiamente il carattere di una teoria fisica: ne consegue che, in
tal modo, le concrete specificità dei piani ontologici perdono in buona
parte le loro specificità regionali a vantaggio di un' uniformità
teoretica in senso stretto. Si cade qui dunque in una difficoltà opposta
rispetto quella che mi è parso appartenere alla proposta kantiana: tutto
diviene ora logicamente scomponibile ed analizzabile, ignorando così l'articolazione
e la stratificazione di senso intrinseca ad ogni attività simbolica. [12]
E. Franzini, Il Teatro, la Festa e la Rivoluzione. Su Rousseau e gli Enciclopedisti,
Aesthetica Preprint, Palermo 2002, p. 88 [13] E. Franzini, op. cit., p. 92
[14] D. Diderot, Paradosso sull'attore, Abscondita, Milano 2002, p.25 [15]
D. Diderot, op. cit. , p.40 [16] D. Diderot, Lettera
sui Ciechi per quelli che ci Vedono, La Nuova Italia, Firenze 1999, p.51 [17]
I.Calvino, La Spirale in Le Cosmicomiche, Mondadori, Milano 1993, p.151/152 |