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ALESSANDRA PIGLIARU, "IL TEATRO DELL'ASSURDO - Huis Clos di J. Paul Sartre"

 

 

 

Il percorso che inizierà con il presente intervento vorrebbe chiarire cosa si intenda con l’espressione 'teatro dell’assurdo'; non sarà un excursus storico poiché non si vuol trattare della storia del teatro. Il teatro è un luogo dove ancora può apparire qualcosa di straordinario: l’unione tra l’uomo e la sua vita, seppur nella sua tormentata conciliazione, cosa che non può avvenire nella quotidianità. Sarà invece un percorso dialettico il nostro, scandito in tre momenti significativi della Filosofia del Novecento: Jean-Paul Sartre (Affermazione) Albert Camus (Negazione), Antonin Artaud (Negazione della Negazione) e come l’assurdo si sia 'manifestato' nella loro produzione teatrale. Il termine "assurdo", in questa sede, viene utilizzato dal punto di vista 'esistenziale'. Riferendoci a Jean Paul Sartre, diremo che l'assurdo alberga dentro ognuno di noi: "vive" in quel luogo non del tutto definito che distanzia noi da noi stessi, e noi stessi dagli Altri; questa lettura, certo parziale, poggia sulle categorie sartriane de L'Essere e il nulla, attraverso le quali abbiamo tentato di vedere un particolare della sua produzione teatrale. Nel saggio Che cos’è la letteratura? del 1947, Jean-Paul Sartre definisce la sua idea di ‘teatro di situazioni’: "Niente più caratteri: gli eroi sono altrettante libertà prese in trappola, come tutti noi. Quali sono le vie d’uscita? Ogni personaggio non sarà che la scelta di una via d’uscita e varrà la via d’uscita scelta (...) In un certo senso ogni situazione è una trappola da sorci; muri da ogni parte" [1]. E’ in questo modo che Sartre intende il suo teatro come reazione e contrapposizione al teatro psicologico borghese tradizionale [2] che costruisce personaggi ben definiti. Secondo Sartre invece questo nuovo teatro rappresenta "un uomo che è libero nei limiti della sua propria situazione, e che sceglie, lo voglia o no, per tutti gli altri, quando sceglie per sé" [3] . La gratuità della libertà umana è la condanna originaria dell’uomo sartriano che nel suo farsi, inventa se stesso. Per Sartre infatti la gratuità della libertà è il corrispettivo dell’angoscia umana, o meglio, porta alla angoscia umana;  egli dunque dà alla 'situazione' una valenza negativa considerandola come una ‘trappola’; ed è dalla trappola dell'esistenza che i personaggi sartriani tenteranno di evadere. Sartre si serve dunque del teatro per rendere concretamente il suo pensiero, quasi per ‘tridimensionalizzarlo’ e osservarlo da spettatore. Infatti il personaggio che costruisce Sartre in Huis clos è un personaggio che non chiede niente allo spettatore se non di essere guardato come una esistenza libera e disancorata dal tempo. Lo strumento teatrale tuttavia non consente a Sartre di cogliere la totalità della complicanza esistenziale dei personaggi che, evanescenti figure nate dal buio, riescono ad esprimere solo la parzialità di quello a cui sono preposte; non è da omettere il fatto che Sartre fa una precisa scelta: fa parlare ‘esistenze morte’, esistenze che vive, forse, non si sarebbero mai svelate completamente, non si sarebbero mai "confessate a se stesse" [4]; non diremo nulla di nuovo, tuttavia sarà bene ricordarlo: Huis clos meglio di altre pièce sartriane rispecchia l'idea sartriana di esistenza e tutto ciò che con l'esistenza ha a che fare: gli Altri. Si noterà come i personaggi della piecè rispecchiano quei particolari (e discutibili) atteggiamenti verso gli Altri di cui Sartre tratta nella terza parte de L'Essere e il nulla. Certo per Sartre l'atteggiamento nei confronti dell'assurdo è strettamente legato al suo concetto di esistenza, o meglio, di "condizione umana": l'uomo, questa passione inutile, teso ad inventar se stesso, deve fare i conti con il "dato opaco" e impenetrabile che è il mondo; la condanna è esattamente la seguente: noi siamo liberi e gettati nel mondo, dobbiamo inventarci e nel momento in cui si cerca di scappare da ciò si è destinati comunque allo scacco. Nel 1943 Sartre scrive di getto una fra le sue pièces teatrali di maggior successo, Huis clos che in traduzione italiana porta il titolo Porta chiusa [5]. Il dramma si concreta in un atto unico, scena  fissa, tre personaggi: Garcin, Ines, Estella. Sono condannati a vivere in uno stato di perenne veglia e a convivere nella stessa stanza, per l’eternità; dalla pièce si capisce che sono morti, o meglio "coscienze morte, morti viventi… incrostati dalle abitudini". [6] Nella prima scena Garcin viene condotto nella stanza (in cui si svolgerà l’intero dramma) da un cameriere del quale nota immediatamente gli occhi vitrei ed immobili; le palpebre del cameriere infatti non si muovono e Garcin turbato commenta:

- GARCIN:  (...) Noi le battiamo, le palpebre (...) L’occhio si fa umido, il mondo non c’è più (...) Dovrò vivere senza palpebre? (...) E come potrò sopportare me stesso? [7]

Il turbamento di Garcin deriva dal fatto che sarà costretto a vivere ad occhi aperti, sopportando il mondo nella sua opacità e soprattutto la sua esistenza con la pesantezza del passato: non può chiudere gli occhi, non può dimenticare se stesso nella dimensione onirica; la sua esistenza è continua presenza di sé a se stesso, è accorgersi di essere-nel-mondo come libertà che crea se stessa, è, infine, vivere l'assurdo e volerne fuggire. Nella terza scena entrano Ines e Estella e la porta della stanza sembra chiudersi definitivamente. L’inferno ha inizio:

- ESTELLA (a Garcin): No! Non alzare la testa (...) Ho... ho creduto che fosse qualcuno che voleva prendermi in giro [8].

La vergogna, scrive Sartre ne L’essere e il nulla, "nella sua struttura prima è vergogna di fronte a qualcuno" [9]: comincia quindi a delinearsi l’atteggiamento principale che assume l’uomo di fronte agli altri, quell’atteggiamento che mi fa avere vergogna di me stesso quale appaio agli altri. La vergogna dunque si annida in me al momento in cui mi accorgo che Altri mi guarda; questo perché lo sguardo altrui mi costituisce "su un tipo di essere nuovo che deve sopportare delle nuove qualificazioni" [10].

- INES:  Guardate che cosa semplice: insipida come una rapa. Non c’è tortura fisica, va bene? (...) In conclusione chi ci manca? Manca il boia; e poi prosegue e dice: Il boia, è ciascuno di noi per gli altri due [11].

Ciò significa che colui che guarda è il carnefice di chi è guardato nel senso che "con lo sguardo d’altri (...) io non sono più padrone della situazione" [12], sebbene io necessiti dell’Altro, in quanto il per-sé rimanda al per-altri, vivo incastrato in questo rimando, intrappolato tra gli oggetti del  mondo.Bisogna specificare che per Sartre lo sguardo altrui è il carattere fondamentale del modo di presenza d’altri a me.. La relazione tra quell’uomo che mi guarda e gli oggetti, mi appare come un blocco compatto che mi sfugge in quanto relazione oggettiva di cui io spettatore non sono il centro: è qualcosa a cui assisto distante, un'orientazione che mi fugge [13].

- GARCIN: Tutti questi sguardi che mi divorano ... (d’improvviso si volta) Oh siete soltanto due? Vi credevo molti di più. (Ride) E’ questo dunque l’inferno? Non lo avrei mai creduto. Vi ricordate il solfo, il rogo, la graticola ... buffonate! Nessun bisogno di graticole; l’inferno sono gli Altri [14].

Altri appare a me 'guardato' non solo come colui che mi rende schiavo [15] ma come colui che "detiene il segreto del mio essere, sa ciò che io sono; così il senso profondo del mio essere è fuori di me, imprigionato in un’assenza; altrui è in vantaggio su di me" [16]. L’inferno sono gli Altri perché possiedono il fondo di me, quel fondo che a me non apparterrà mai. "Come coscienza, l’altro è per me insieme ciò che mi ha rubato il mio essere e ciò che fa in modo che « vi sia » un essere che è il mio essere".Io dipendo dall’Altro, ma questo in Sartre ha un’accezione negativa: è l’Altro che mi fa essere, altrimenti io cosa sarei o meglio come esisterei? Sicuramente, dal punto di vista sartriano, non mi appartengo e non posso in nessun caso pensarlo; "il me lo scorgo al limite dello sguardo altrui come qualcosa che sono senza conoscere" [17]. In questo senso io, comunque sia, sono legato all’Altro, sono un rinvio al per-Altri. Se però "il mio essere-oggetto è un’insopportabile contingenza e puro «possesso» di me da parte di un altro" io sono "il progetto di ripresa del mio essere" [18]. Il fondo del mio essere dunque è in-altro-da-me; e "lontano dal fondo di sé" è anche Roquentin nelle sue riflessioni: "Mai prima di questi ultimi giorni, avevo presentito ciò che vuol dire esistere. Ero come gli altri, come quelli che passeggiano in riva al mare nei loro abiti primaverili (...) Di solito l’esistenza si nasconde. E’ lì, attorno a noi, è noi, non si può dire due parole senza parlare di essa e, infine, non la si tocca. Quando credevo di pensare ad essa, evidentemente non pensavo nulla (...) la diversità delle cose e la loro individualità non erano che apparenza, una vernice" [19]. Posso essere il 'progetto di  ripresa del mio essere' in quanto sono stato scoperto come oggetto da Altri; cioè il soggetto si configura come ricerca di una relazione con l’Altro; questa esigenza viene a concretarsi in modi diversi di porsi nei confronti dell’Altro. Questi diversi modi li spiegheremo tramite i personaggi femminili della pièce presa in esame e la maniera in cui, attraverso la sconfitta delle loro pretese, si rivolgono ad un altro tipo di relazione.

- INES: (...) per vivere io  mi occorre che gli altri soffrano. Essere una torcia. Una torcia dentro i cuori degli altri. Quando sono sola mi spengo ... [20].

E’ Ines che incarna l’atteggiamento sadico: tenta di impadronirsi della libertà dell’Altro che, per lui, risiede nella carne, nel corpo come strumento; Ines non vuole l’annullamento della libertà dell’Altro, ma il suo asservimento in quanto libertà [21]. Così il sadico, cioè Ines, vorrà delle prove riguardo all’asservimento della libertà dell’Altro, cercando il dominio anche attraverso la tortura; la tortura che Ines sottopone ad Estella (il suo Altro) avviene attraverso la rievocazione della vita drammatica di Estella:

- INES: (...) Siamo all’inferno, cara (...) Dannati, mia cara santarella (...) Dunque quel tale s’è ucciso per colpa tua (...) Un colpo di fucile per colpa tua.

- ESTELLA: Lasciatemi in pace. Mi fate paura. Voglio andarmene, andarmene! (Si precipita contro la porta e la scuote) [22].

Ines scoprirà il proprio errore quando Estella la guarderà:

- INES: (...) M’avete rubato perfino il mio vuoto; voi lo conoscete e io no ... io voglio scegliermelo da me il mio inferno, voglio guardarvi ad occhi spalancati e lottare a viso scoperto [23].

Anche il sadismo, così come le relazioni concrete con gli Altri, è destinato alla sconfitta. Mentre Ines cerca la 'salvezza' di Estella, quest’ultima a sua volta cerca di negare la sua soggettività nel rapporto masochistico con l’Altro: Garcin;

- ESTELLA: (...) Raccattami, prendimi nel tuo cuore (...) Non sono più che una pelle (...) Mi metterò sul tuo divano e aspetterò che tu ti occupi di me [24].

Estella si impegna nel suo essere-oggetto, considerandosi niente di più che un oggetto; si adagia e si rifugia nell’Altro, con l’illusione di poter essere salvata. Questo sentimento del masochismo pare assomigliare all’amore ma, mentre nell’amore il soggetto vive per l’altro come oggetto limite della sua trascendenza [25] , ora Estella si lascia trattare esclusivamente nella sua utensilità come oggetto tra gli oggetti: Estella dunque nega la sua trascendenza perché si sente colpevole di essere oggetto. Dunque non cercherà di limitare la libertà Altrui ma anzi vorrà che la libertà d’altri sia radicalmente libera. Ma anche questo tipo di relazione è irrimediabilmente destinata al fallimento: la vertigine "davanti all’abisso della soggettività dell’altro" [26].

- GARCIN: (...) Meglio cento morsi, meglio la frusta, il vetriolo, che questa tortura di cervello ... (Afferra la maniglia della porta e la scuote) Vi decidete ad aprire? (La porta s’apre bruscamente e per poco non si scardina) Oh! .. (Una lunga pausa) [27].

Nessuno dei tre personaggi esce dalla stanza: la vera prigione è ciò che ognuno di loro rappresenta per l'Altro; tuttavia hanno necessità di stare insieme in quanto "ogni sguardo ci prova concretamente che esistiamo per tutti gli uomini viventi, cioè che ci sono (delle) coscienze per le quali esisto" [28].

E' interessante notare cpme lo specchio rivesta un ruolo importante in Huis clos;il bisogno di guardarsi allo specchio è invocato principalmente da Estella; di quest’ultima abbiamo precedentemente tracciato un breve profilo riguardante il duo modo di relazionarsi agli altri personaggi; ora invece noteremo un altro aspetto di Estella che ci permetterà di proseguire il discorso sullo 'sguardo altrui' lasciato intrerrotto.

- ESTELLA: Signore, ha per caso uno specchio? (Garcin non risponde) Uno specchio, un vetro, qualche cosa? ... (Garcin non risponde) ... almeno mi procuri uno specchio (...) Negli specchi la mia era un’immagine addomesticata. La conoscevo tanto bene ... (si rivolge ad Ines)  Ora sorriderò, il mio sorriso arriverà in fondo alle sue pupille, e Dio sa che cosa diventerà [29].

Lo sguardo altrui è guardare Medusa, è sentire con terrore la pietrificazione di se stessi; "ciò che appare con evidenza nella declinazione del mito [di Medusa], è proprio questo tentativo di sottrarsi alla frontalità dello sguardo, alla pienezza di una presenza che altrimenti risulterebbe insostenibile" [30]. E la frontalità dello sguardo altrui, se da un lato 'mi fa essere ciò che sono', dall’altro lato, mi fa essere solo 'per-l’altro'; questo perché, è bene ribadirlo, il mio fondamento è fuori di me nella libertà dell’altro e lo sguardo medusizzante mi pone di fronte alla mia condanna: manco a me stesso. Estella manca a se stessa; ciò che non capisce inizialmente è che guardarsi dallo specchio e vedere la propria immagine 'addomesticata'è un illusione, la stessa illusione di poter instaurare relazioni concrete con gli altri.

- ESTELLA: (...) quando non mi vedo ho un bel tastarmi, mi domando se ci sono ancora (...) Quando conversavo, mi mettevo in modo da potermi vedere in una delle sei specchiere che avevo in camera mia. Mi vedevo come gli altri mi vedevano, questo mi teneva sveglia [31].

Così Estella ha l’illusione (o nutre la speranza) di riconoscersi; di riappropriarsi di quel 'secreto' che le viene rubato ogni qual volta l’Altro la guarda. Ma ciò non è possibile: Estella crede di potersi vedere come Altri la vedono, ma lo sguardo altrui non è un 'vedere'; l’Altro non è spettatore di ciò che sono 'solo fisicamente'. Lo sguardo non ha occhi. Se davvero dunque, Estella, potesse specchiarsi non potrebbe vedere se stessa, non potrebbe cogliere niente di sé, dal momento che 'sentirsi dal di dentro' (come invece accade ad Ines) significherebbe vedere il proprio viso come si sente il proprio corpo, "con una sensazione sorda e organica" [32].

 


[1] J.P.Sartre, Che cos’è la letteratura, Feltrinelli, Milano, 1960; p.250. Riguardo al concetto di situazione Sartre dice: "La mia posizione in mezzo al mondo, definita dal rapporto di utensilità o di avversità delle realtà che mi circondano con la mia fattità, cioè la scoperta dei pericoli che corro nel mondo... alla luce di un annullamento radicale di me stesso e di una negazione radicale ed interna dell’in-sé, operati da un punto di vista liberamente posto, ecco quello che chiamiamo situazione", L’essere e il nulla, Il saggiatore, Milano, 1991, p.659.

[2] Cfr. O. Brockett, Storia del teatro; cit, pp. 340, 410.   

[3] J.P.Sartre, Un Thèâtre de situations, Paris, Gallimard, 1993; "Un Homme qui est libre dans les limites de son propre ètat, et qui choisit, soit qu’il le veuilleou non, pour tous les autres, quand il choisit pour soi"; p. 58.

[4] Cfr. W. Krysinski, Sartre e la metamorfosi del 'cerchio pirandelliano' ne Il paradigma inquieto, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1998; pp. 307-327

[5] Per la traduzione italiana di Huis clos si veda: J.P.Sartre, Le mosche. Porta chiusa, Bompiani, Milano, 1995; la prefazione è a cura di P.A. Rovatti.

[6] Così Sartre stesso definisce i protagonisti di Porta chiusa, in una prefazione parlata nel 1965. Di ciò ci informa Michel Ribalka in Les écrits de Sartre; la citazione è contenuta anche in J.P. Sartre in P.A. Rovatti, Prefazione a Huis clos; cit. VII.

[7] J.P.Sartre, Le mosche. Porta chiusa, cit. p. 116. Dormire è perdere coscienza di sé.

[8] Ibidem; cit. p.122.

[9] J.P. Sartre, L’essere e il nulla; cit. p. 285.

[10] Ibidem; cit. p. 286.

[11] J.P.Sartre, Le mosche. Porta chiusa; cit. p.131. Per il concetto di sguardo in Sartre si veda A. Ceroni, Alterità in Sartre, Marzorati, Milano; pp. 70-82.  G. Farina, L’alterità: lo sguardo nel pensiero di Sartre, Bulzoni, Roma, 1998.

[12] J.P.Sartre, L’essere e il nulla; cit. p.336.

[13] Ibidem; cit. pp.338, 323.

[14] J.P.Sartre, Le mosche. Porta chiusa; cit. p.165.

[15] Io sono schiavo in quanto appaio agli altri e "in quanto sono intimamente dipendente nel mio essere. In quanto sono oggetto di valori che giungono a qualificarmi senza che possa agire su questa qualificazione, e neanche conoscerla, io sono uno schiavo"; J.P.Sartre, L’essere e il nulla; cit. p.338. "Sotto lo sguardo dell'Altro mi sento diventare schiavo , oggetto di valori che io non ho elaborato" . S Moravia, Introduzione a Sartre, Laterza, Roma-Bari, 1979. p. 37.

[16] Ibidem; cit. p.446.

[17] Ibidem; cit. pp.447, 331.

[18] Ibidem; cit. p.448.

[19] J.P.Sartre, La nausea, Einaudi, Torino, 1948; pp. 201-202.

[20] J.P.Sartre, Le mosche. Porta chiusa; cit. p. 142.

[21] "L’ideale del sadico sarà (...) di cogliere il momento in cui l’altro sarà già carne senza cessare di essere uno strumento, carne da far carne"; J.P.Sartre, L’essere e il nulla; cit. p. 491.

[22] J.P.Sartre, Le mosche. Porta chiusa; cit. pp.130, 143.

[23] Ibidem; cit. pp. 137,138. "Basta che l’altro mi guardi perché io sia ciò che sono ... e che non saprò mai di essere; L’altro mi guarda come io non mi posso guardare. 'Altri 'non mi costituisce come oggetto per me, ma per lui"; J.P.Sartre, L’essere e il nulla; cit. pp.332, 347.

[24] Ibidem; cit. pp. 151, 152.

[25] "La fattità che deve essere limite di fatto per l’altro, nella mia esigenza d’essere amato e che deve finire con l’essere la sua fattità, è la mia fattità. Solo in quanto sono l’oggetto che l’atro fa essere, devo essere il limite inerente alla sua trascendenza; di modo che l’altro, sorgendo all’essere, mi fa essere come l’insuperabile e l’assoluto, e non in quanto per-sé annullatore, ma in quanto essere-per-altri-nel-mondo"; J.P.Sartre, Ibidem; cit. p. 452.

[26] Ibidem; cit. p. 463.

[27] J.P. Sartre, Le mosche. Porta chiusa, cit. p. 161.

[28] J.P. Sartre, L'Essere e il nulla, cit. p. 354. E' stato inoltre consultato L. Verona, Théâtre de Jean Paul Sartre, Cisalpino, 1994.

[29] J.P. Sartre, Le mosche. Porta chiusa, cit. pp. 133, 135.

[30] A. Tagliapietra, La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica, Feltrinelli, Milano, 1991; p. 35.

[31] J.P. Sartre, Le mosche. Porta chiusa, cit. p. 133.

[32] J.P. Sartre, La nausea, cit. p. 35. di prezioso aiuto è stato il testo di F. Fergnani, La cosa umana. Esistenza e dialettica nella filosofia di Sartre, Feltrinelli, Milano, 1978.

  A. Pigliaru, Il Teatro dell'Assurdo - Huis Clos di J. Paul Sartre in XÁOS. Giornale di confine,
Anno I, n.1 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_precedente/art_8.htm
   


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