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ANDREA PIRAS, "Musica e Filosofia"

 

A. Piras, "Musica e Filosofia. Il suono incrinato di E. Lisciani-Petrini", in "XÁOS. Giornale di confine", Anno I, n.2 luglio-ottobre 2002, URL: http://www.giornalediconfine.net/n_2/art_13.htm

 

Il saggio di Enrica Lisciani-Petrini, "Il suono incrinato. Musica e filosofia nel primo Novecento" edito da Einaudi e pubblicato nel 2001, è un percorso storico-filosofico-musicale che ha per oggetto i rapporti tra filosofia e musica (ma non solo) tra '800 e '900, un cammino i cui estremi, musicalmente parlando, sono Richard Wagner da una parte e Anton Webern all'estremo opposto. Il sottotitolo riporta la dicitura "musica e filosofia nel primo Novecento": in realtà il periodo in esame è più ampio di quello indicato, anche se la "rivoluzione" a cui tutta l'opera fa riferimento si attua in effetti nei primi venti-trent'anni del '900.
Anche il binomio "musica e filosofia" risulta essere riduttivo: la prospettiva dell'autrice è invero più ampia, e abbraccia il rapporto tra musica da un lato e arti figurative, architettura, poesia e letteratura, filosofia dall'altro. Insomma, la Lisciani-Petrini non intende solo interpretare l'opera dei musicisti in questione tentando esclusivamente di svelare la "poetica", ossia il senso estetico ed etico, e quindi filosofico, delle loro composizioni e del loro fare musica, di indicarci i reciproci collegamenti tra le due "forme dello spirito umano". Vuole darci una interpretazione complessiva della cultura del secolo appena trascorso (o di buona parte di esso), in alcune sue sfaccettature, relative alle forme d'arte e alle opere che si sono manifestate con più forza e potenza innovativa, e che come tali rappresentano degli snodi essenziali, dei punti nevralgici per capire un'intera epoca. In questo senso, il libro, oltre a costituire una vigorosa occasione di approfondimento e di stimolo, è un utilissimo vademecum per chi voglia "orientarsi" in periodo spesso caotico e frammentario dell'arte e della cultura europea.
Il punto di forza dell'opera in questione, più che nell'interpretazione delle varie correnti musicali e del loro rapporto con la cultura contemporanea, interpretazione tutto sommato "classica", se vista, come credo, nell'ambito della prospettiva fenomenologico-esistenzialistica in cui l'autrice pare muoversi, sta nella descrizione e nell'analisi di alcune opere musicali e nella lucidità con cui tali analisi vengono inserite in un discorso estetico-filosofico più ampio. Ciò può permettere, ed è questo il merito più alto del libro, anche al lettore più profano, di tentare un avvicinamento a brani musicali di ardua comprensione anche per gli addetti ai lavori. In effetti le singole sezioni dedicate ai musicisti sono costituite da una parte introduttiva sulla "poetica" e sulla concezione musicologia dell'autore, a cui si succede una sempre precisa indagine delle opere più rappresentative.
La struttura del libro è la seguente: dopo un'introduzione sull'idea della musica colta occidentale fino a metà ottocento, troviamo la prima parte intitolata "Il lutto e la maschera - Debussy, Stravinskij, Ravel", succeduta dalla seconda parte ("Figure del silenzio - Schönberg, Berg, Webern"); il tutto si chiude con un "Concludendo…". Quasi come appendice abbiamo un quadro cronologico che riporta eventi storici, culturali e artistici e una bibliografia piuttosto dettagliata.
Prima di addentrarci nelle singole sezioni del libro e di tentare un'interpretazione complessiva, qualche parola sugli aspetti "formali" e lessicali dello scritto. Pur non rinunciando, dove è necessario, alla giusta "tensione linguistica", che viene sempre poi risolta in proposizioni e concetti meno densi e più accessibili, la lettura è piacevole e adatta a un pubblico ampio, anche se non dotato di specifici prerequisiti filosofici o musicali. Anche laddove la descrizione delle opere musicali scende nel dettaglio e si addentra criticamente nell'analisi strutturale di esse, rimaniamo pur sempre a un livello di "accettabile" chiarezza anche per chi è digiuno di teoria musicale o di filosofia. Siamo in ogni caso "al di sotto" del livello di complessità e di "labirinticità" a cui i lettori di Adorno o di Schönberg sono abituati.
Le note sono numerose ed esaurienti. Spesso sono approfondimenti di teoria musicale ed esempi di speculazione filosofica, ma non appesantiscono eccessivamente il testo; contengono a volte, anzi, aneddoti e "annotazioni caratteriali" sugli artisti, il che tende paradossalmente ad "alleggerire" la lettura. Unico appunto che mi sembra di poter fare è relativo ai frammenti di partitura qua e là inseriti, che sembrano un po' isolati e scollegati dalla parola scritta, e finiscono per diventare quasi un elemento decorativo, una "pausa per l'occhio", soprattutto per chi non sa leggere uno spartito. Più pregnanti appaiono invece le tavole di alcuni prodotti dell'arte figurativa, che si inseriscono in modo congruente nel discorso.
L'introduzione, come abbiamo già accennato all'inizio, prende in esame l'evoluzione della musica occidentale dalle origine greche fino al "grande commiato"[1]di Richard Wagner e di Gustav Mahler. Qual è, secondo l'autrice, il filo rosso che attraversa quasi 2500 anni di storia della musica? E' il tentativo di rappresentare attraverso i suoni e la loro armonia l'ordine del mondo, la perfezione insita nella natura e nella divinità. La musica diviene, grazie alle regole matematico - geometriche che la sottendono, uno dei modi per alludere al "senso pieno" della realtà, al suo significato supremamente intelligibile, cioè razionale. L'autrice, in pagine bellissime, ricorda nella Repubblica platonica la "messa al bando" dell'arte basata su "molteplici variazioni" che non sottenda ad "un'unica armonia e un ritmo uniforme"[2] ; insiste sul significato re-ligioso (nel senso di "re-ligare" a Dio[3], di "stringere" l'uomo a Dio) che la musica ha per Agostino e per la tradizione medievale del canto monodico, caratterizzato da una sola linea melodica; evidenzia come, tutto sommato, anche la "rivoluzione polifonica" del '400 e del '500 tiene fede a questa visione del mondo: le varie voci, pur differenziandosi e contrapponendosi, tendono a una soluzione armonicamente "pacificata", immagine appunto dell' "Harmonia mundi"[4].
E', quella della Lisciani-Petrini, l'interpretazione di un'intera epoca millenaria. Come tale non può, per motivi "economici" (di spazio), tener conto delle eccezioni che pur si manifestarono. Per fare un solo esempio, Carlo Gesualdo, musicista campano vissuto tra il 1560 e il 1613, "ultimo dei madrigalisti rinascimentali", testimonia nelle elaborate e drammatiche vicende melodiche e armoniche delle sue opere (madrigali, ma anche bellissimi motteti e responsori), tendenti a un pesante cromatismo, un atteggiamento cupo e pessimista nei confronti della vita e dell'uomo, una visione tragica anche nei confronti del messaggio cristiano, agli antipodi, per certi versi, della visione apollinea della realtà, paradigma della musica colta occidentale fino all'800. La progressione degli accordi è spesso audace, le variazioni di ritmo e di melodia repentine, ed è insistente una notevole frammentarietà compositiva che parrebbe preludere addirittura all' "incrinamento del suono" di cui parla l'autrice, a proposito della dissoluzione del linguaggio musicale a fine '800.
D'altronde il modello imperante era all'epoca quello della musica come armonia priva di dissonanze, anche se la condanna del tritono in sede scolastica (l'intervallo musicale di tre toni interi, che corrisponde a quello di quinta diminuita, p.e. fa-si), definito diabolus in musica perché "di difficile intonazione e considerato dissonante", testimonia una tendenza sotterranea "eversiva", seppur marginale, che alcuni tra gli artisti più sensibili sentivano come propria.
Un'altra grande rivoluzione è quella dovuta al passaggio al sistema tonale, alla fine del 1600, sancito dall'opera di Bach[5]. Il grande compositore tedesco si inserisce nella tradizione apollinea, in quanto ritiene la musica un grande evento "scientifico", capace di svelare l'essere delle cose e di poterlo rappresentare attraverso i suoni.
L'ultima parte dell'introduzione è dedicata al "grande commiato" operato da Wagner e Mahler[6]. Due autori che, da due prospettive radicalmente diverse, insistono sull'incapacità sopraggiunta di "dare forma" compiuta a un materiale non più in essa comprimibile. E' come se si volesse costringere un contenuto infinito, in quanto indeterminato e non più totalmente intelligibile, quale è maturato soprattutto dopo l'esperienza romantica, in una forma chiusa e ordinata, che è finita, in quanto, appunto, determinata. D'ora in poi la musica avrà questo problema: l'impossibilità di dire o rappresentare l'essere. Ed è in base a questa impossibilità che si può interpretare lo sviluppo successivo della musica colta in Occidente. In termini filosofici potremmo dire che accade la frattura tra linguaggio (sia esso quello delle parole, dei suoni, delle forme sensibili) e l'essere, o meglio, il pensiero dell'essere. Nel tentativo di superare tale frattura, ma più spesso per dissimulare ogni credenza in una sua consistenza, gli artisti hanno tentato vari percorsi, che l'autrice individua lucidamente.
E' singolare che Hegel, un filosofo fondamentale per capire le radici della rottura tra pensiero-linguaggio ed essere (o forma e contenuto, se si vuole) che si verifica (in musica, ma non solo) nella seconda metà dell'800 e che raggiunge la sua più matura espressione nel '900, non venga mai esplicitamente citato ne Il suono incrinato (se non in conclusione, come rappresentante del razionalismo occidentale). Certo, se si intende Hegel esclusivamente come filosofo del sistema e della compiutezza, della perfetta identità del reale e del razionale, apice quindi della tradizione apollinea e razionalistica, fautore dell'ipotesi che la realtà sia perfettamente e totalmente intelligibile, appare effettivamente difficile trovare i collegamenti tra i due paradigmi, quello (neo)scettico e quello razionalistico. Ma se si prescinde dal tentativo hegeliano (smentito più volte da lui stesso) di far "incastrare" tutto in un sistema predeterminato, si vede come, in un'opera "aperta" quale l'Estetica, i concetti di "insufficienza della forma rispetto al contenuto"[7], di "dissoluzione" e di "fine della forma d'arte romantica"[8] (la cosiddetta "morte dell'arte"), di "sintesi non compiuta", siano in realtà centrali nella sua riflessione estetica. Hegel infatti riteneva che lo sviluppo dell'arte abbia attraversato storicamente tre momenti: quello simbolico (tipico delle civiltà non europee e preclassiche), in cui il contenuto (il pensiero dell'essere) è ancora ingenuo e indeterminato (non razionale) affinché un'opera d'arte lo possa rappresentare fedelmente; quello classico, in cui viene raggiunta la piena identità tra aspetti formali e il contenuto a cui l'opera allude (si pensi alla scultura nella Grecia classica); quello romantico, corrispondente all'epoca cristiana e comprendente la contemporaneità, in cui il contenuto (il concetto cristiano di Dio), diventando infinito e privo di determinazioni non può più essere rappresentato compiutamente in una materia sensibile. Per Hegel tutta l'arte occidentale ha origine da questa incompiutezza (tra rappresentazione sensibile e contenuto ideale) tipica della terza fase, da un'insufficienza di fondo tra linguaggio e pensiero; il che significa che egli aveva intuito i pericoli di dissoluzione a cui l'arte sarebbe potuta andare incontro: la "morte dell'arte", intesa in senso classico, apollineo, la perdita progressiva della sua funzione rappresentativa. Perciò il paradigma fondamentale che caratterizzerebbe tutto il Novecento sarebbe, in realtà, di matrice hegeliana. Fatto di cui è ben consapevole il citatissimo Adorno e che la Lisciani-Petrini omette. Lo stesso Adorno quando intende sottolineare che l'arte autentica (p.e. quella di Schönberg), deve essere connessa alla verità, rinnova un concetto tipicamente hegeliano (e poi heideggeriano), secondo il quale l'arte svela l'essere, cioè la verità dell'ente, fosse anche l' "assenza del fondamento". L'arte non è decorazione, pura forma, ma verità.
Le principali opere di Debussy, Stravinskij, Ravel vengono lucidamente lette e analizzate dall'autrice in questa prospettiva: l'arte ha perso la sua funzione rappresentativa e risente della perdita del senso dell'essere, della scomparsa del fondamento metafisico dei fenomeni. Diventa così frammento, invenzione pirotecnica, puro artificio, a seconda degli specifici modi di sentire degli artisti.
In Debussy la forma si dissolve, il tempo non ha più uno svolgimento continuo e coerente, ma predomina l'istante, inteso come punto a se stante e non necessariamente collocabile in uno svolgimento unitario[9]; pare non esserci più un principio che unifica la composizione[10] (p.e. la tonica, cioè la nota principale a cui si riferisce un brano); non esiste più uno sviluppo tematico[11], ma solo giustapposizioni sonore.
In Stravinskij è l' "artificio", ossia l'abilità dell'artista nel "fare musica", a prendere il sopravvento e a determinare una modalità fortemente costruttiva e manipolante del comporre. La crisi del linguaggio musicale, la sua incapacità di dire l'essere, determina in Stravinskij un approccio estetico polisprospettico e dinamicamente ironico. La musica è un "gioco combinatorio"; "esperienze del tutto diverse l'una dall'altra, che Stravinskij attraversa svuotandole completamente del loro significato originario […] vengono riplasmate e trasformate [in] tasselli funzionali al proprio metodo compositivo. Precisa conferma che il perfetto disincanto poteva realizzarsi solo in un variegato gioco di maschere"[12].
L'interpretazione di tale dissoluzione si attua pienamente con Ravel. Scrive lucidamente la Lisciani-Petrini: "Con Ravel la creazione artistica non è più neppure - com'era con Stravinskij - un gioco combinatorio, ancorché sospeso esclusivamente a se stesso (senza un Fondamento che lo giustifichi a priori o nella realtà data), altamente "speculativo" e insieme "operativo", nel quale si manifesta la capacità organizzativa di una "mente che ordina, vivifica e crea", e al quale è affidato perciò il senso, ancora perdurante, della partecipazione dell'uomo "faber" al mondo, ma diventa mero artificio, combinazione meccanica, gioco di superficie dove si mescolano sobrietà e severità formale, arguzia e perizia costruttive, eleganza e pudore estremo"[13].
La seconda parte dell'opera è dedicata alla Scuola di Vienna, fondata da Arnold Schönberg, Alban Berg e Anton Webern.
Il tentativo di Schönberg consistette non nel dissimulare un atteggiamento di sfiducia nei confronti della dissoluzione del linguaggio della musica colta occidentale attraverso maschere, figure, gesti pirotecnici, ma nel rifondare, coerentemente con le mutate condizioni del tempo, un linguaggio radicalmente nuovo. "Infatti, se il vecchio linguaggio tonale si articolava attorno alla tonica, come simbolo, o metafora, del Centro univoco intorno a cui si credeva ruotasse l'intero linguaggio umano, ora l'eliminazione della tonica e l'ingresso del contrappunto stanno a significare [l'adozione di] […] una Legge invisibile che tiene in perfetto equilibrio reciproco i suoni e fa essere l'organismo musicale"[14]. Il procedimento dodecafonico ideato da Schönberg (che, come si sa, prescrive l'assoluta equivalenza delle 12 note, tale per cui una di esse non possa essere ripetuta prima di eseguire le altre, all'interno di una serie predeterminata e variabile con processi rigidamente definiti) rappresentava il tentativo di "non precipitare nel silenzio"[15] dopo la dissoluzione della tonalità.
Schönberg era vividamente consapevole dei problemi che l'arte e la musica contemporanea dovevano affrontare in un contesto, come quello novecentesco, tragicamente caratterizzato dalla perdita del senso ultimo, del fondamento metafisico della realtà. Per mostrare la sua estrema lucidità filosofica nell'affrontare questo problema vorrei tentare una piccola digressione, riferendomi alla grandiosa opera incompiuta dell'autore viennese: Moses und Aron. In questa opera (descritta magistralmente dalla Lisciani-Petrini, a cui rimando per i particolari), i due protagonisti, Mosè e Aronne, rappresentano le due principali modalità conoscitive che confliggono nel '900. Aronne rappresenta, direi ingenuamente, con il suo canto, l'ottimismo nei confronti dell'uomo, l'illusione di poter parlare di Dio, di poter spiegare il senso ultimo del mondo; egli rischia però di cadere in un paradigma idolatrico, pagano, quindi inattuale. Mosè, invece, può solo tragicamente parlare (e non canta a differenza di Aronne), e rappresenta la consapevolezza che l'ottimismo del fratello è ormai definitivamente ingiustificato.
Nell'Einleitung (introduzione) della sublime scena prima ("La vocazione di Mosè"), esempio altissimo di come la ferrea legge della serie dodecafonica non sembra ostacolare per nulla la capacità espressiva dell'artista, ma anzi è capace di potenziarla, Mosè si rivolge a Dio con la seguente frase: "Einziger, ewiger, allgegenwärtiger, unsichbarer und unvorstellbarer Gott!"[16]. Dio è unico, eterno, onnipresente, ma soprattutto invisibile e irraffigurabile. Il Dio, o se si vuole, il senso del mondo, la verità, l'essere (in senso heideggeriano come significato velato dell'ente), è invisibile e irraffigurabile, cioè inaccessibile alla comprensione e al linguaggio umano. Questo è il tragico destino di Mosè: adorare un Dio che non è "presente", che "non si vede" in quanto totalmente trascendente, infinitamente Altro. E' lo stesso tragico destino dell'arte e della filosofia contemporanea: alludere a un significato che non si dà più, e che appare ormai definitivamente nascosto. Poco più avanti, inoltre, Mosè compie un'affermazione capitale nell'economia della nostra analisi: "Meine Zunge ist ungelenk: ich kann denken, aber nicht reden"[17] (La mia lingua è impacciata: posso pensare, ma non posso parlare). Il senso di tale attestazione è ormai chiaro: il pensiero non è più esprimibile tramite il linguaggio, né quello parlato, né quello dell'arte. Quest'ultima è destinata a vivere di un'insanabile frattura tra i due poli: metafora e simbolo delle più importanti vicende artistiche del secolo appena trascorso. Mosè è forse un emblema del '900 filosofico, artistico e musicale, esattamente come Adrian Leverkühn (il protagonista del Doctor Faustus), nelle intenzioni di Thomas Mann, doveva alludere al disfacimento di un'intera civiltà.
L'opera di Alban Berg è tesa alla piena "assunzione del possente, capillare costruttivismo schönberghiano. Ma […] piegato e attraversato da un'intonazione lirica, da un pathos sottilmente dolente, che è la "stupefacente qualità" dell'arte berghiana e […] conferisce al suono di questo compositore un "tono" inconfondibile. Un'intonazione che segna così il ritorno di una rinnovata espressività"[18]. La ricercata tecnica compositiva, la regole strutturali a cui devono obbedire i suoni, non sono quindi in antitesi rispetto alla "libera" espressione dell'artista, come abbiamo del resto già visto nel Moses und Aron di Schönberg.
Arriviamo così a Webern, epilogo della dissoluzione e del "grande commiato" iniziato da Wagner e Mahler, ma anche iniziatore di un "nuovo costruttivismo, di cui […] è il geniale anticipatore. Ciò che lo renderà, non a caso, a partire dagli anni Cinquanta il punto di riferimento quasi carismatico delle nuove generazioni musicali di questo secolo"[19]. Webern era convinto che la rivoluzione dodecafonica fosse un accadimento necessario, non frutto di un arbitrio soggettivo o di un banale sforzo di innovazione, e quindi sosteneva la necessità di abbandonarvisi completamente. E' una rivoluzione che tuttavia riprende motivi del passato, in primis la polifonia fiamminga e la musica dell'ultimo Bach (in particolare L'Arte della fuga), sostiene lo stesso Webern. E' un'impressione condivisa da un altro grande artista contemporaneo, il pianista Glenn Gould, il quale sostiene, a proposito di Bach, che non si può parlare di un modo di comporre tonale, per cui il compositore si ferma in un brano per un certo lasso di tempo sulla tonalità x, per poi passare alla y, alla z e così via, secondo uno schema prestabilito. Bach aveva una dote che gli altri non possedevano: le sue variazioni armoniche venivano dirette da una "percezione di tonalità"[20], da un sentire le singole "qualità" di ogni accordo e passarvi attraverso, e non da una progressione armonica convenzionalmente pensata.
Per parafrasare il tentativo di Webern, in conclusione, occorre ripartire da quella assoluta mancanza di fondamento a cui il '900 ci ha consegnato e costruire impalcature tanto maggiormente inflessibili e rigorose quanto più instabili e infondate[21]: "ideare un organismo sonoro massimamente in sé fondato proprio perché, in effetti, assolutamente infondato"[22].


[1] E. Lisciani-Petrini, Il suono incrinato. Musica e filosofia nel primo Novecento, Einaudi, Torino 2001, pg.22-34
[2] Ibid., pg. 7
[3] Ibid., pg. 13
[4] Ibid., pg. 16-17
[5] Ibid., pg. 17-22
[6] Ibid., pg. 22-34
[7] Hegel, Estetica, Einaudi, Torino 1997, pg. 589 e seguenti
[8] Ibid., pg. 664 e seguenti
[9] E. Lisciani-Petrini, cit., pg. 48
[10] Ibid., pg. 48
[11] Ibid., pg. 60
[12] Ibid., pg. 84
[13] Ibid., pg. 91
[14] Ibid., pg. 116
[15] Ibid., pg. 126
[16] Le citazione dall'opera sono tratte dal libretto che accompagna l'edizione del Moses und Aron diretta da Pierre Boulez per la Deutsche Grammophon. La frase è a pagina 6.
[17] Ibidem, pg. 8
[18] E. Lisciani-Petrini, cit., pg. 138
[19] Ibidem, pg. 161
[20]Traggo la citazione da un serie di contributi televisivi dedicati al pianista, ideati e presentati da P. Rattalino per Raitre.
[21] E. Lisciani-Petrini, cit., pg. 191
[22] Ibidem, pg. 191