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Andrea Tagliapietra

Da Nicea a Seahaven.
La verità dell'immagine

"La verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli e immagini", recitavano le parole di un antico vangelo gnostico.


Borges amava dire che la storia, la vera storia, è così pudica da tenere le sue date essenziali per lungo tempo segrete. Una di queste date, oggi confinata nelle note a margine dei testi di storia bizantina o nei ponderosi manuali di teologia ecclesiastica, corrisponde al 787 d. C., anno in cui il settimo concilio ecumenico della Chiesa Cristiana, che si riuniva per la seconda volta nella città di Nicea, in Anatolia, si occupò della questione delle immagini. Atei o credenti, se siamo scampati all'interdizione dell'immagine che vige sia nella cultura ebraica che presso l'Islam, noi lo dobbiamo a quei padri bizantini, di cui si è detto, forse con troppa leggerezza o persino con una punta di scherno, che passavano le loro giornate a discettare sul sesso degli angeli. Infatti, è solo grazie alla loro sottigliezza che la fiamma dell'ascetismo iconoclasta non ha divorato anche l'Occidente. Così, solo dopo Nicea diviene effettivamente concepibile quell'immensa galleria di immagini, segni e figure che risponde al nome di arte occidentale: da Michelangelo a Renoir, da Giotto a Bacon, da Piero della Francesca a Mondrian. Ma non solo, con Nicea si compie il passo decisivo, che porterà al trionfo contemporaneo della cosiddetta civiltà dell'immagine, a Hollywood, a Internet, al mondo virtuale del cyberspazio. "La verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli e immagini", recitavano le parole di un antico vangelo gnostico. Tuttavia, con Nicea, l'immagine non è solo un vestito della verità, ma diviene, nonostante Platone e nonostante l'interdetto anti-idolatrico del libro biblico dell'"Esodo", l'epifania stessa della verità. Dopo Nicea la verità è, cioè, una questione che si consuma all'interno dell'orizzonte del visibile, giocando non più con la negazione, bensì con l'iperbole del vedere. Di fronte al divieto degli iconoclasti, i padri di Nicea stabiliscono la legittimità dell'immagine anche nella rappresentazione dell'assoluto, cioè dell'irrappresentabile per antonomasia - non ha forse scritto l'apostolo Paolo, nella "Lettera ai Colossesi", che Cristo stesso "è immagine del Dio invisibile"? - inaugurando l'orizzonte panottico e panvisionario di una civiltà in cui tutto, infine, può e deve essere visto. "Se si sopprime l'immagine", sosteneva il capo degli iconofili bizantini, il Patriarca Niceforo, "non è il Cristo, ma l'universo stesso che scompare". Gli fa eco un iconofilo moderno, Roland Barthes che, ne "La camera chiara", affermava che "la fotografia ha qualcosa a che vedere con la resurrezione" e che "forse si può dire di lei quello che dicevano i bizantini dell'immagine di Cristo". Anche l'immagine più profana e seriale ha, dunque, nella sua genealogia, l'iscrizione del sacro, vale a dire il marchio di quella violenza dell'originario che "scardina" l'uniformità delle cose, conferendo alla verità l'emergenza di un "modo di vedere". Così, in ogni immagine è dato di scorgere quello "scarto", quella "rotazione dello sguardo" che consente la contestazione delle presunte verità del mondo. E' come se, nonostante la legittimazione del concilio di Nicea, le immagini avessero conservato dentro di sé anche la dimensione distruttiva dell'iconoclastìa, ossia la traccia di un vuoto assoluto e di un rigore puro che la fantasmagoria delle figure, per quanto opulenta, per quanto sovrabbondante, non è riuscita a cancellare, ma solo a custodire. Truman Burbank, nel magnifico "The Truman Show" di Peter Weir, quando si sente travolto dall'angoscia che tutto ciò che lo circonda sia inautentico e fittizio, si rifugia in un cantuccio della sua cantina. La cantina e la soffitta sono i due luoghi simbolici dell'intimità. Vi si conservano i ricordi, le cose che non servono più, ma di cui non vogliamo disfarci, a cui attribuiamo, cioè, quel valore durevole che, per sussistere, non ha bisogno della recita quotidiana del mondo. "A dieci anni", scriveva Saint-Exupéry, "ci rifugiavamo in soffitta. Uccelli morti, vecchie valige sventrate, abiti incredibili: un po' le quinte della vita". Ranicchiato nell'angolo della sua cantina, Truman cerca di guadagnare un punto di vista esterno, ossia si sforza di guardare alla vita da dietro le quinte. "Truman", "nomen omen", è l'"uomo ("man") vero ("true")" per antonomasia, ma anche il "puro folle", il Parsifal-Forrest Gump a cui è affidata la ricerca più elevata. Ma Truman per trovare la verità che ha nel nome non può utilizzare, come Cartesio, il dualismo di mente e corpo, o, come Platone, quello di "idee" e "copie", riparando nella certezza pensosa di quell'interiorità che gli antichi chiamavano "anima" e i moderni dicono "io". Il mondo di Truman, infatti, è composto di sole superfici, di piani lucidi e riflettenti alla stregua delle splendide cromature convesse degli oggetti dei favolosi anni '50. Non c'è profondità nella ridente cittadina di Seahaven. Non c'è un passato (tutto procede secondo ripetizione, come i saluti di Truman ai vicini di casa), ma non c'è neppure un interno, una concavità, l'indizio di una qualche rientranza. Seahaven è quel mondo postmoderno realizzato in cui le cose si esauriscono nella loro immagine, in cui l'apparire si confonde con l'apparenza. Ecco allora che Truman, nel suo scomodo cantuccio cartesiano, può produrre un "altrove", una "realtà" dietro l'apparenza, solo facendo uso di altre immagini, ossia ritagliando e incollando fotografie, combinando fra loro superfici di simulacri alla stregua di quei marinai che, secondo la famosa metafora neurathiana della conoscenza, si costruiscono una zattera con i resti del naufragio. All'epoca della sua uscita, c'è stata, nell'interpretazione di "The Truman Show", un'ingenua deriva della critica cinematografica verso la denuncia del "potere dei media" e dell'invadenza del "villaggio globale". Lo spettatore ideale del film di Weir, ha scritto qualcuno, dovrebbe essere Marshall McLuhan. Ma in "The Truman Show" non c'è quella dialettica di verità e menzogna che si costruisce intorno ad una realtà e ad una finzione oggettivamente stabilite. La verità, per Truman, non è una cosa, finanche un'irraggiungibile "cosa in sé" kantianamente intuita, bensì un "modo di vedere", una forma di rapporto che si consegue con l'esperienza. In una poesia di Montale raccolta in "Ossi di seppia", il poeta immagina, mentre cammina per la via, di girarsi all'improvviso, scoprendo che il panorama circostante non è, in realtà, che un fondale di scena. La visione, però, dura solo un istante: "poi, come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto/ alberi case colli per l'inganno consueto./ Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto/ tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto". Truman, invece, è "un uomo che si volta". Il suo voltarsi, tuttavia, non riguarda il mero fatto "politico" del controllo delle immagini, quanto la condizione "esistenziale" di chi si riappropria di se stesso e della propria autenticità. Qui la grande cupola, il microcosmo di Seahaven, non può non evocare quel racconto fondatore della civiltà dell'immagine, vale a dire il mito della caverna della "Repubblica" di Platone, in cui gli uomini, incatenati a dei ceppi, vengono descritti como coloro che scambiano per realtà fantasmi ed ombre. Finché uno di loro non si ribella, girando la testa verso la fonte di ciò che vede e poi si arrampica lungo la volta, ripida e scoscesa, di quel vasto antro, per giungere infine all'aperto. Questa "rotazione dello sguardo" è la figura emblematica dell'esperienza filosofica quale ricerca e svelamento della verità del reale. Nella sequenza più intensa del film di Weir, la barca di Truman arriva alla parete della cupola e scopre che l'orizzonte del cielo è solo un fondale dipinto. A questo punto, tuttavia, non dobbiamo farci ingannare dai personaggi di contorno, dal "genio maligno" di Christof, il regista-demiurgo del "Truman Show", che distoglie l'attenzione dello spettatore verso una sorta di "happy ending" hollywoodiano di sapore teologico. Non c'è un padre dell'immagine, così come non c'è una verità fuori scena. La porta che si spalanca dietro il "trompe-l'oeil" delle nuvole dipinte non dà accesso alla realtà più di quanto non ci riporti all'interno dell'illusione. Ciò che Truman ora sa, per usare le parole di Nietzsche, è che siamo giunti alla "fine dell'errore più lungo", poiché col mondo vero finisce per essere eliminata anche la maschera di quello apparente.

 


Andrea Tagliapietra, "Da Nicea a Seahaven. La verità dell'immagine ", in "XÁOS. Giornale di confine", speciale spazidelcontemporaneo 2005,
URL: http://www.giornalediconfine.net/spazidelcontemporaneo/
andrea_tagliapietra_comunicazione_immagine_verita.htm

 
   
 

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